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Anton Giulio Barrili
Uomini e bestie: racconti d'estate

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  • MALANOTTE.
    • I.
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MALANOTTE.

I.

 

Avevamo dormito alla meglio, o alla peggio, ma di buon sonno, in un tugurio di contadini, a Rigoso, sopra le sorgenti dell'Enza. Ci eravamo levati a bruzzico, per salire sull'Alpe del Mal Passo. Di , penetrati in val di Tacca, malinconica per le sue boscaglie di faggi scoloriti, avevamo guadagnata la vetta dell'Orsaro, maravigliosa specola naturale, donde si vede tutta la gran valle di Lunigiana e un lembo di mare nel fondo, coi tetti luccicanti di Spezia e i camini fumanti di Pertùsola. Presso a certe capanne di sassi, che ricordavano gli abituri degli antichi volghi pelasgici, avevamo ragionato con alcuni pastori, che passavano lassù i mesi della primavera e dell'estate, pascendo una diecina di vacche e un centinaio di capre. Lassù, il mio amico Cesare Pascarella, in mancanza de' suoi prediletti somari, aveva fatto con quattro pennellate il ritratto ad una degna e meditabonda famiglia di cornipodi biforcuti, sdraiata in un campo di romice intatta. E dico intatta la romice, perchè questa pianta, che cresce così facilmente ne' luoghi incolti, è detestata dagli armenti, e si vede inutilmente rigogliosa per lunghi tratti di prateria, mentre tutto intorno gli avidi ruminanti menano il dente e non la perdonano a un fil d'erba, a un virgulto, a uno stelo. Dato ai pastori un po' del nostro tabacco, assaggiato in ricambio un pezzetto del loro cacio e della loro pattona, eravamo discesi ad ammirare il solitario Lago Santo, vero bagno di Naiade, chiuso tra i faggi e gli abeti, in una mora di ghiacciaio antico. Avevamo bevuto allo zampillo della fredda fontana che nutre quel lago; tirato giù con quattro segni un ricordo di quella scena stupenda; e quindi, ripuliti i pennelli e chiuse le cassette, ci eravamo ruzzolati fino al verde piano acquitrinoso dei Lagadelli, donde, girato il fianco della montagna che costeggia la sponda sinistra della Farinetta, si scendeva al bosco di Corniglio. Laggiù in un quieto casolare nascosto tra i castagni, volevo stringer la mano al Bandini, giovine pastore e taglialegna, amico mio, che qualche anno prima mi era servito da guida in altre escursioni per quelle vette e convalli dell'Appennino, dove si dimenticano così volentieri le noie rumorose della vita italica, i silenzi pensati delle dotte sinagoghe, e le scomuniche maggiori delle diverse chiese letterarie, che tutte si arrogano di possedere il verbo, anche quando non accozzano l'aggettivo col sostantivo.

Il Bandini, accorto e saggio come tutti i montanari, vedendo le cassette che portavamo ad armacollo, ci aveva detto:

- Se lor signori vogliono dipingere, li consiglio di andare di da Graiana. C'è il castello della Malanotte, che è una maraviglia.-

Un castello, e della Malanotte per giunta! La cosa e il nome ci colpirono del pari.

- A che distanza dal Bosco? - domandai.

- Tre miglia da Corniglio, se scendono laggiù, come dicono di voler fare. Ma badino, dovranno passare il fiume e risalire il monte di Miano.

- E non scendendo a Corniglio?

- È lunga ugualmente, ma vanno quasi sempre in discesa; - replicò il montanaro. - Di qui, in un'ora, andando di buon passo, giungono a Rocca Ferrara, e di in un'altra oretta a Graiana, dove si fanno insegnare la strada. Chi lingua ha, a Roma va, come dice il proverbio.

- Capisco; e noi che ne veniamo, troveremo con la lingua il sentiero della Malanotte. Ma per passarla meglio, la notte, - soggiunsi volgendomi a Cesare Pascarella, - non si potrebbe fare il sacrifizio di dormire a Corniglio?-

L'amico Cesare non aveva fatto che salire, da due giorni che avevamo lasciato Castelnuovo nei Monti e l'insegna ospitale del Cannon d'oro. Alla mia proposta, egli si tolse l'eterna pipa di gesso dalla chiostra de' denti, per farmi un corto atto con la bocca, che mi parve di orrore senz'altro.

- Tu non conosci Corniglio; - gli dissi con accento di rimprovero. - Non è da uomo savio spregiare quello che non si conosce, neanche per fama. Corniglio è nobilissima terra, con un forte castello, ed anche con un uffizio telegrafico. Ripete il suo nome da quel Tito Cornelio Balbo, che venne a Reggio con Lentulo; ma non è cosa da tenersi per certa. Che per altro sia antichissima, entrerebbero a farne fede non poche monete romane e bisantine trovate nel suo territorio e parecchie di rame, tra l'altre, con la iscrizione dell'imperatore Costantino Copronimo, che, come sai, regnò intorno al 775 dell'êra volgare.

- Gli Dei immortali confondano la tua erudizione! - mi rispose l'amico. - Questo egregio montanaro, più pratico e più misericordioso di te, avverte che da Corniglio bisognerà poi risalire il monte di Miano. Io, vedi, questo monte lo vorrei scendere.

- Cioè?...

- Cioè, dico che andrei quest'oggi pari pari a Rocca Ferrara, a Graiana, alla Malanotte, riserbando per domani a sera la visita a Corniglio, dove io vedrò con piacere questo tuo imperatore Copronimo.

- E sia come tu vuoi! Andiamo dunque per Rocca Ferrara.-

Il Bandini ci accompagnò per un tratto di strada; poi, alla svolta di un poggio, si accommiatò, dopo averci indicato un colmo di case, che biancheggiava in lontananza.

- Seguano il sentiero; non possono sbagliare.- Ringraziammo il Bandini e seguimmo il sentiero, com'egli ci consigliava. La via fu più lunga che il giovane e svelto montanaro non ci avesse pronosticato; ma infine, alle cinque del pomeriggio, eravamo a Graiana, e di , avendo ancora un'ora di giorno (dimenticavo di dirvi che si era ai primi d'aprile), proseguimmo per il nostro castello.

La valle, che gli abitanti di Graiana ci avevano cortesemente indicata, era cupa, ma bella, e noi andammo franchi e spediti, come avrebbero fatto, non che due bipedi implumi, due bravi quadrupedi in vicinanza della greppia. Dopo una mezz'ora di cammino, felici noi, vedemmo sorgere dal folto di una macchia le negre mura e le torri di Malanotte.

- Vedi? - mi disse l'amico Cesare, ammiccando trionfalmente dietro le lenti azzurrognole. - Ci siamo. Una suonata di corno, e ci calano il ponte. Troveremo da mangiare, dormiremo come ghiri, e domattina saremo freschi, per metterci a lavoro, "per padroneggiar la natura".-

Egli aveva ragione, ed io m'inchinai umilmente senza risponder parola.

Il castello della Malanotte, a cui giungemmo sotto, nell'ultim'ora di luce, era per verità un nobile edifico; ma, dal punto in cui lo vedevamo, non riusciva così pittoresco come ce lo aveva annunciato il nostro amico Bandini. Incominciamo dal dire che era fabbricato sul colmo d'un poggio, il quale da un lato solo si collegava alla montagna, e che certamente da quella parte derivava l'acqua corrente, da cui in caso di pericolo doveva esser riempito il suo fosso. Perché, infatti, un fosso largo e profondo correva tutto intorno alle sue mura massicce. Quattro torri sporgevano sugli angoli, a difesa delle negre cortine, oramai in gran parte rivestite d'edera; e una torretta, con l'orologio e la campana, ne custodiva l'ingresso. La merlatura delle cortine non era scoperta a mo' di terrazzo; ma un tetto a due acque correva per lungo sui ballatoi, che prendevano luce a giuste distanze da strette e lunghe finestre. Nel basso delle cortine si aprivano robuste feritoie, incorniciate di pietra; ma alcune di esse, negli ultimi tempi, e non servendo più il castello ad usi di guerra, erano state allargate in forma di finestroni, per dar luce ad un pianterreno e renderlo abitabile. Per altro, le intelaiature cadenti, e i vetri rotti, dicevano chiaramente che il pianterreno era disabitato da un pezzo.

- Comunque sia, - conchiusi io, dopo aver fatte tutte quelle osservazioni, - ci sarà luogo da dormire. E questo è l'essenziale, dopo la cena; che prevedo non sarà luculliana.-

Infilammo il ponte levatoio, dopo aver salutato lo stemma dei signori del luogo, che si vedeva dipinto sull'ingresso. Al campo rosso col leone d'argento, avevo riconosciuto l'arme dei Rossi, conti di San Secondo e di Berceto. Ma non erano certamente di quella nobilissima stirpe i tre marmocchi sudici e scalzi, che ci accolsero sotto l'androne; e non abitavano più discendenti di Pier Maria, famoso capitano di Francesco Sforza, in quella corte piena di legna accatastate, di fieno, di paglia e d'arnesi rustici, buttati alla rinfusa.

 

 

 




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