III.
- Non ci mancherebbe altro che aver paura
degli spettri, a questi lumi di civiltà! - esclamai, allungandomi sul
seggiolone di cuoio, nella beatitudine del chilo. - Tutti questi spaventi si
risolvono in nulla, come i fantasmi dei romanzi di Anna Radcliffe. E quando si pensa
che la scuola romantica è vissuta tanti anni di simili scioccherie!...
- Se vuoi, - osservò giudiziosamente l'amico,
- anche la scuola classica ci ebbe le sue. Greci e Romani se ne presero una
satolla. Rammenta le favole milesie, la matrona d'Efeso, la fidanzata di
Corinto, lo spettro di Bruto, ed anche i noctium phantasmata di un Inno
della Chiesa.
- Hai ragione; - risposi, arrendendomi
all'evidenza. - Tutte le letterature del mondo hanno questo elemento del
maraviglioso, e sarebbe ingiustizia rovesciarne la colpa sulla scuola
romantica. Piuttosto è da dire che tutte queste immaginazioni morbose, di
larve, di lèmuri, di lamie, di lupi mannari, di spiriti delle caverne, di
folletti, si riducono facilmente ad un tipo: lo sgomento delle tenebre, che si
dilegua al ricomparire della luce.-
Si riposò un istante su questa profonda
conclusione. Poco dopo, l'amico Cesare scosse le ceneri della pipa, e, mentre
si apprestava a ricaricarla, esclamò:
- Se ti dicessi che abbiamo molta luce qua
dentro, mentirei come un negro.
- In verità, siamo quasi al buio; - risposi.
- "E vidi un lumicino che parea spento" come lasciò scritto il poeta.
A illuminare questa gran sala ci vorrebbe un lampadario, con trenta torchietti
almeno; invece non abbiamo che due lucerne romane a tre becchi, ma con un solo
lucignolo per ciascheduna. Il raggio luminoso non va più in là dalla tavola.
Vedi? Là in fondo, si smarriscono i contorni delle sedie. La torre
dell'orologio, e la tua stessa ombra, assumono forme fantastiche lungo la
parete, andando a raggiungere i ragnateli penduli della vôlta. A proposito,
diresti più volentieri pènduli ragnateli, o ragnateli pènduli?
- Eh, sai, secondo il metro. Del resto, i
moderni preferiscono l'epiteto dopo il sostantivo. Casca meglio, e dipinge di
più. Anche i latini, sebbene spesso tiranneggiati dalla prosodia, quando
vogliono scolpire l'immagine, mettono l'epiteto dopo, e magari lo rimandano al
principio del verso seguente.
- E senti come scricchiola! - interruppi,
accennando a un suono secco, che veniva dal fondo della sala.
- Già, è l'orologio della morte,
graziosissimo insetto che mangia il legno con una voluttà ineffabile. A lui non
dà noia di lavorare al buio!
- A proposito di lavorare, se preparassimo la
tavolozza per domattina!
- Certo sarebbe tanto di guadagnato.
- Andiamo, dunque; - ripigliai.
- Ecco, - mi rispose l'amico, - io vorrei
finire il mio chilo. Anche questo è un lavoro.
- Come ti pare; ed io, per aiutarti, ne bevo
un altro bicchiere.-
Un rumore improvviso mi fece restare col
fiasco a mezz'aria. Pareva che qualche uscio, o qualche imposta di finestra, si
schiantasse dai cardini. Guardai in viso il compagno; ed egli guardò me. Un
soffio d'aria fresca, che penetrò nella stanza, e fece tremolare la fiammella
del lucignolo, venne in buon punto a spiegarci l'arcano.
- Il vento! - disse l'amico, scoppiando in
una risata, e facendo ridere anche me.
- Che animale curioso è l'uomo! - esclamai. -
La luce se ne va, e il negro Tifone s'impadronisce di noi. Ahi, povera creta!-
E fatta questa filosofica riflessione, mi
alzai, per andare a chiudere la finestra, che il vento aveva spalancata.
- Visitiamole tutte; - soggiunsi; - che non
abbiano a farci un altro tiro come questo. Intanto, se ti par ora conveniente,
ce n'andremo a dormire.-
Avevamo, come vi ho detto, due lucerne di
ottone a tre becchi, con un solo lucignolo per lucerna. Ma, per quello che ci
restava da fare, un lucignolo bastava. Pochi minuti dopo, avremmo spento anche
quello.
Visitando ad una ad una le finestre dell'appartamento,
ci eravamo anche affacciati a guardare di fuori. Il cielo era coperto di
nuvole, ma un raggio di luna si faceva strada e veniva a illuminare una parte
del fosso.
- Che pace! - diss'io. - Come sarebbe bello
passar la vita in questa solitudine, impiastricciando tela, almanaccando e
fumando!
- Sicuro, per annoiarci mortalmente, in capo
a due settimane.
- Tu. lo credi, io no. E poi, non vorremmo
già chiuderci in questo luogo, come due condannati. Di tanto in tanto,
scenderemmo a vivere in una città, per sentirci scorticare le orecchie da una
mezza dozzina di cani, a teatro, per leggere sui giornali i particolari del
duello di A. con B., per sentir raccontar la fuga di C. o l'arresto di E.
- O il suicidio di F.
- Insomma, ci godremmo, una dopo l'altra,
tutte le lettere dell'alfabeto. Quanto a me, ti giuro che prima della X me ne
ritornerei seccato al mio romitorio.
- Buona notte! - mi disse Cesare, mettendo il
piede sulla soglia della seconda camera.
- Buona notte! - risposi, deponendo la mia
lucerna sul cassettone della prima.
- E sogna la castellana, che dovrebbe
renderti sopportabile questa bicocca infame! - ripigliò l'amico, ridendo.
- Ah, non mi parlare di castellane! - gridai.
- Se tu sapessi che immagine hai evocata! Se tu sapessi che cosa mi è capitato,
a proposito di castellane, in una mia visita al castello di Montobbio!...
- Sentiamo quest'altra; - disse Cesare
Pascarella, ritornando nella mia camera. - Tanto io ricarico la pipa. Volevo
ben dire se si doveva andare a letto così presto!
- Eh, la storia non è poi così lunga, e si
può raccontarla, spogliandosi. Montobbio, se non lo sai, è un castello dei
Fieschi, un po' lunge di qua, verso ponente; ma sempre sugli Appennini. Gian
Luigi, il famoso Gian Luigi, quello della congiura messa in dramma da Federico
Schiller, l'aveva fortificato poco tempo prima di mettersi all'impresa che
doveva costargli la vita. E, lui morto, la ròcca di Montobbio, in cui si erano
rifugiati i suoi partigiani, tenne sei mesi contro le armi del Doria, e più
avrebbe tenuto, se non s'ingannavano i difensori con larghi patti di resa. Ma
questo non ha da entrare nel mio racconto. Il castello di Montobbio, che oramai
è un ammasso di ruderi, fu il soggiorno prediletto di Eleonora Cibo, la moglie
del Fieschi. Figùrati che ai piedi della ròcca, in riva alla Scrivia, ti
mostrano ancora la "casa del Giacomino" dove la signora scendeva a
spogliarsi, per entrare nel bagno. Un borro, che sembra scavato a bella posta
nel masso, per ottenere una profondità maggiore alle acque del fiume, si chiama
tuttavia "il lago della Signora". Lì presso, tra la casa del
Giacomino e la riva, è una falda di terreno, coperta di pianticelle da
giardino, ma insalvatichite oramai. E quello è il giardino di Donna Eleonora.
- Che ha da fare tutto ciò col racconto?
- Aspetta, ora siamo nel cuore
dell'argomento. Ero andato a vedere le rovine del castello, e avevo accettata
la ospitalità presso un'egregia famiglia, in una casa che era appartenuta ai
Fieschi. Dopo il pranzo, che fu a tarda ora, come oggi il nostro misero pasto,
i miei ospiti mi fecero salire al piano superiore, e per un lungo corridoio mi
condussero in un gran salotto, parato di damasco rosso, in fondo al quale era
l'uscio della camera destinata al tuo umilissimo servo. Ero senza libri, là
dentro, e tu sai quanto un libro sia necessario, per prender sonno, quando non
si ha un giornale. I miei ospiti mi portarono un libercolo manoscritto, che
ebbero anche la cortesia di regalarmi, la Congiura del Fiesco, di
Agostino Mascardi. Come vedi, non si esciva dal tema della giornata.
Ringraziai, fui lasciato solo, e me ne andai a letto, desideroso di dare
un'occhiata al manoscritto del signor Agostino degnissimo. Ma il ricordo di
Donna Eleonora Cibo mi passava per la fantasia. Ero in casa della signora. In
quelle stanze probabilmente ella aveva messo il piede; fors'anche contro quello
stipo intagliato, che vedevo là, appoggiato al muro, si era strofinata la sua
veste di broccato; sui bracciuoli del seggiolone di quercia, che stava a' piedi
del mio letto, accogliendo i miei modesti indumenti, si era posata la mano
bianca e sottile di lei. Ed ecco, mentre fantasticavo in quel modo, la cortina
di damasco rosso, che pendeva dinanzi all'uscio, si sollevò. Alzai gli occhi, e
vidi....
- Che cosa?
- Non lo vorrai credere, ma è proprio così
come io ti racconto, in parola d'onore. Vidi una donna, alta della persona,
bianca nel viso e di capegli biondi, vestita di broccato a fogliami d'oro, che
mi guardava co' suoi grandi occhi fosforescenti, mentre col braccio disteso
teneva rialzata la pesante cortina di damasco. Io stetti un bel pezzo immobile,
con gli occhi spalancati, contemplando quella stupenda figura, e non sapendo
che cosa pensare della strana apparizione.
- Ah, pover'uomo! E senza offrirle neanche
una sedia?
- Che vuoi? Sulle prime credetti ad una
celia. Nella casa dov'io ero ospitato, c'erano parecchie signore, tutte belle e
gentili. La veste di broccato faceva contro alla supposizione; ma infine, le
antiche famiglie ne hanno, di questi avanzi dei secoli scorsi, gelosamente
conservati, e un travestimento improvvisato lì per lì non aveva niente di
strano. Piuttosto era da dire che la signora si fidava un po' troppo, venendo
travestita, a quell'ora, nella camera solitaria di un ospite. Ma poteva
benissimo non essere venuta sola; forse là, dietro a lei, c'era tutta una
comitiva, pronta a dare in una sonora risata. Comunque fosse, e senza fermarmi
troppo in quelle considerazioni, deposi il libro, e col cenno più grazioso che
mi venne fatto la invitai ad entrare. Ma ella non si mosse di là, e, posto un
dito sul labbro, m'accennò di tacere. Ah, diavolo! dissi tra me. Che cos'è
venuta a fare costei? Levatomi sul fianco, allungai un piede fuor della coltre,
fino a toccare il tappeto, e scesi tacitamente da letto, senza perder d'occhio
la mia bella e muta visitatrice. Ella si mosse, allora, ma per tirarsi
indietro. Veder l'atto, afferrare il candeliere e correre verso l'uscio, fu un
punto solo per me. La dama era sparita dietro la cortina. Alzai la cortina e le
tenni dietro, udendo ancora il fruscìo della veste, che strascicava sul
pavimento. Ma nel salotto non mi fu dato vederla più oltre, nè lungo il
corridoio, nè in capo alle scale, per quanto fossi stato svelto a seguirla.
Allora, non te lo nascondo, mi prese un po' di paura, e diedi volta, per
andarmi a rifugiare nella mia camera. Ma un senso di vergogna mi trattenne, mi
fece andar lento, e restare qualche istante ancora, sebbene turbato, in mezzo a
quel fosco salotto. Dovrò io aver timore d'uno spettro, che prendeva le forme di
una donna così bella? Colei che abitò qui, nei lieti giorni della sua
giovinezza, ama il luogo a lei caro per tanti dolci ricordi; puro spirito,
oramai, legge nell'animo di chi viene in questa dimora, e non ha fatto che
pensare a lei, tra le rovine del suo castello, lungo il sentiero per cui ella
scendeva al suo giardino, e sulla sponda del borro in cui ella faceva il suo
bagno mattutino; quale meraviglia, adunque, se Donna Eleonora è venuta a
trovarmi? Sono un amico, per lei, ed ella mi ha usato cortesia, mi ha fatto
grazia profumata, mostrandosi a me nello splendore della sua fiorente bellezza.
Perchè mi turberei? Non è piuttosto il caso di ringraziarla? E accostai la mano
alle labbra, e mandai attorno l'accenno di un bacio, che doveva esprimere al gentile
fantasma tutto l'ardore della mia riconoscenza. Ma tu puoi immaginarti, mio
caro Cesare, che se mi feci coraggio, quanto potevo in quella strana
congiuntura, non ripresi per altro tutta la mia sicurezza, e per quella notte
non chiusi più occhio.-
L'amico era stato ad ascoltarmi con molta
attenzione, suggendo lentamente il cannello della sua pipa di gesso. Com'ebbi
finito, levò la faccia in aria, e mi disse:
- Era buono, il vin di Montobbio?
- Sai che a me non fa male; - risposi,
intendendo subito "il velen dell'argomento". - Del resto, non no
avevo bevuto più degli altri giorni, e niente più di quello che ho bevuto
stasera. Ti assicuro che ero nella pienezza delle mie facoltà intellettuali.
Come s'abbia a spiegare il fatto, non so. I medici credono di aver spiegato
ogni cosa, quando hanno detta la parola: allucinazione! Ma tu, che non sei
medico....
- Io che non son medico, direi di andare a
letto, perchè la soverchia tensione dei nervi potrebbe recare qualche
scompiglio nei nostri sensi, e, scambio di un allucinato, ce ne sarebbero due.
- Ah, - esclamai, - per questa sera non c'è
pericolo. Il castello della Malanotte non ha ricordi che io possa evocare.
Sapessi almeno donde gli è venuto questo brutto nome.
- Vediamo di farlo bugiardo, per una volta
tanto! - disse Cesare Pascarella.
E riprese la lucerna, per ritornare nella sua
camera.
- Buona notte! - gli cantai, sull'aria della Forza
del Destino.
- Buona notte! - mi rispose egli, sul
medesimo tono.
Rimasto solo, mi spogliai alla svelta, e mi
ficcai subito tra le lenzuola. Il mio compagno di viaggio, stanco al pari di
me, aveva fatto lo stesso.
Il letto era duro, e la paglia del saccone mi
cantava sotto. Ma questa era una piccola noia, a cui avrebbero rimediato due o
tre giratine sui fianchi. L'amico Cesare lavorò anch'egli un pochino di gomiti;
poi soffiò sul lume, e con un colpo secco, che pareva quello d'un manichino
da pittori, posò la testa sull'origliere. Anch'io mi risolsi di spegnere il
lume, dopo aver dato un'occhiata al punto in cui avevo deposta la scatoletta
dei fiammiferi.
Le tenebre amiche, precorritrici del sonno,
regnarono nell'appartamento. Anche la luna, o fosse nascosta tra le nubi, o
avesse girato da un'altra parte del castello, ci aveva abbandonato. L'orologio
della sala, per grazia di Dio e della ruggine, si era fermato. Ma non così
l'orologio della morte, che seguitava a rodere il legno, tenendo bordone ai
grilli che cantavano nei prati, e ai rospi che fischiavano il loro verso amoroso
nel fosso.
Ero stanco, ma non potevo prender sonno. Il
riverbero solare di quella giornata mi aveva offuscata la vista, e la
irritazione delle pupille mi faceva passare davanti agli occhi certe nuvolette
biancastre, seguite da cirri caliginosi, che salivano, salivano lenti, e
svanivano in alto, per riapparire incontanente dal basso.
Cionondimeno, ero già sul punto di assopirmi,
quando mi venne udita la voce dell'amico.
- Finiscila! - gridava egli con accento di
uomo seccato.
|