V.
Il contadino era escito a far gente. Due
minuti dopo, ritornava accompagnato dalla moglie, da un adolescente lungo e
smilzo, che era il suo primogenito, e da un altro moccolone, che doveva essere
un giornaliero del fondo, o, come si dice in quelle regioni, un "famiglio
della spesa". Quest'ultimo, come il suo principale, veniva armato di un
grosso randello.
- Che cosa volete farne del bastone? -
chiedemmo.
- Eh, capiranno! Se le martore escono, gli
s'appioppa una legnata tra capo e collo.
- S'avventano, qualche volta, le martore?
- Certo, e saltano agli occhi, come i gatti.
Se le vedessero, quando inarcano la schiena!
- Oh! come la inarchino, l'ho sentito io! -
esclamò Cesare Pascarella. - Vedi un po' che bella compagnia ci avevamo nel
letto!
- E non sarebbe meglio lasciarle andare per i
fatti loro? - entrai a dir io, grande amico, non fo per vantarmi, di tutti i
quadrupedi.
- Signor mio, i fatti loro non sono altro che
cacce continue ai pollai; - rispose il contadino. - È meglio accopparle.
- Accoppate dunque senza misericordia. Quanto
a noi, per non essere graffiati, ci difenderemo coi nostri bastoni.-
E diemmo di piglio ai nostri bastoni da
viaggio, lunghi e diritti rami di fràssino, che avevamo deposti la sera avanti
in un angolo.
Frattanto il nostro ospite, seguito dai tre
aiutanti, entrava nella mia camera, dove sua moglie si affrettò a togliere dal
letto il guanciale e le lenzuola. Si vide allora il saccone ignudo, con le due
aperture nel mezzo, donde appariva un fitto tritume di paglia.
- Eccolo qua, il covo delle martore! - disse
il nostro ospite. - Or ora le aggiustiamo noi.
- Che odore! - esclamai, tirandomi indietro,
mentre i contadini mettevano mano ai quattro angoli del saccone. - Pare essenza
di muschio.
- Le martore ne sanno; - rispose il nostro
ospite; - specie nel tempo della figliatura. Perdiana, come pesa questo
maledetto saccone! Ci ha da essere la covata numerosa; se pure non saranno
due!-
Il saccone, tenuto ai quattro angoli, fu
trasportato in sala e deposto sul pavimento, accanto alla tavola.
- Se lo portassimo a dirittura nel cortile! -
disse il famiglio.
- Che ti pare, Pellegrino! E se, Dio guardi,
ci scappano le bestie, chi le agguanta più?
- Allora aspettate a me! - disse Pellegrino.
- Vo' dargli un assaggio.-
Così dicendo, levò il randello e fece piovere
sul saccone, sapientemente distribuita in varii punti, una grandine di legnate.
Ma nessun grido si udì, nessun movimento si vide.
Noi due ci guardammo in viso, senza aprir
bocca. E non ce n'era bisogno, in verità, per manifestarci la nostra
meraviglia, poichè questa ci scappava dagli occhi.
- Diavolo! Diavolo! - borbottò il nostro
ospite, che ne capiva quanto noi. - Accettiamo il parere di Pellegrino, e
portiamo questo saccone del malanno all'aperto.-
Egli stesso si attaccò ai due capi della
testata; la moglie e il figlio sollevarono il saccone dai piedi; Pellegrino
accompagnò il morto col randello levato, pensando che da un momento all'altro
potessero sbucar fuori le martore. Infatti, non potevano essere rifugiate sotto
l'ultimo strato della paglia, e aver causata in tal modo la violenza dei colpi?
Al giungere della strana processione sotto il
porticato del cortile, erano usciti fuori i marmocchi e ci si stringevano a'
panni, con la ressa curiosa che è propria dei ragazzi.
- Andate in casa! - gridò il padre, stendendo
il braccio e levando l'indice minaccioso. - E guai a chi si muove di là!-
I fanciulli non aspettarono altre parole, nè
i fatti che potevano seguirle, e andarono lesti a rimpiattarsi in casa.
- Di che diavolo ha paura oggi costui? - mi
chiese sotto voce l'amico.
- Caro mio, l'abbiamo pure avuta noi, questa
notte! - risposi. - E senza saper niente di più!
- Mi pare di assistere ad una scena
d'esorcismi; - riprese allora l'amico.
Ma io non replicai altro, intento com'ero a
ciò che faceva il nostro ospite. Figuratevi che aveva allora allora cavato di
tasca il coltello, lo accostava al saccone e tagliava i primi punti nella
costura di mezzo; poscia seguitando, via via con la lama, faceva saltare per
tutta la sua lunghezza il soppunto. Un eguale lavoro fu fatto poscia nella
costura della testata e in quella da' piedi; dopo di che, arrovesciate le tele,
rimase tutta scoperta la paglia, serbando ancora la forma dell'invoglio in cui
era rimasta pigiata.
E neanche allora si vide muover nulla, in
quella massa di paglia. Il contadino si era rivolto a guardar noi, e in quella
guardata pareva che volesse dirci: - Signori belli, avevano alzato un po'
troppo il gomito, iersera!
- Basta; - soggiunse egli, stringendosi nelle
spalle; - andiamo a prendere l'altro. Tu resta a fare la guardia, Pellegrino.-
E restammo anche noi, con le ciglia inarcate
e le labbra sporgenti, come due poveri di spirito, sul punto di pigliar la
patente di perfetta ignoranza.
L'altro saccone arrivò, fu abbacchiato come
il primo, e senza frutto del pari; quindi scucito ed aperto. Le due vittime dei
nostri sospetti erano là, sventrate, sotto i nostri occhi, abbattuti dalla
vergogna, assai più che non fossero ammammolati dal sonno.
Io non sapevo che dire, non sapevo che
pensare. Eppure l'avevamo sentita e per due volte, la spinta misteriosa, che
minacciava di ribaltarci dal letto! Macchinalmente allungai il mio bastone di
frassino, e ne accostai la punta a quella massa di paglia, frugandovi dentro
come Aristodemo col pugnale nel grembo della figliuola, quando voleva cercare
"nelle fumanti viscere la colpa". Ma non dovevo prorompere, come lui,
nel grido tragico e sciocco: "Ahi che innocente ell'era!" Infatti, la
punta del mio bastone aveva incontrato alcun che di più sodo, che non fosse la
paglia.
- È qui! - gridai, seguitando a frugare.
- Che cosa? - domandò l'amico Pascarella.
- Questo poi non lo so; - risposi. -
Allarghiamo la paglia.-
E vidi allora, quando ebbi aperta la buca
sugli orli, vidi allora una massa nera, che mi fece dare indietro atterrito.
I contadini, meno delicati di fibra, fecero
largo in quel tritume, e posero in luce una cosa orribile. Andarono all'altro
saccone, ripeterono il lavoro, e scopersero un nuovo argomento di orrore.
- Acci.... d'Empoli! - esclamò press'a poco
l'amico Cesare, e con più schietta romanità d'espressione, che io non abbia
ardito trascrivere.
Immaginate lo stato dell'animo nostro. Se
avessimo veduto saltar fuori dalla paglia una legione di diavoli, con le corna,
la coda e il piè forcuto della leggenda, son certo che non ci avrebbero fatto
una impressione più forte. Il diavolo fa paura, dicono coloro che hanno avuto
l'onore di vederlo; ma almeno, bontà sua, non fa ribrezzo. Quantunque, una
volta, secondo che narrano le Sacre Carte, egli stesso abbia scelto per suo
travestimento.... Ma a que' tempi, gli animali, ancora freschi di fabbrica,
erano tutti ugualmente nelle grazie dell'uomo, come questi era nelle grazie di
Dio.
Una volta (lasciate che vi racconti anch'io
la mia storia) a certi amici miei era saltato in mente di fabbricare un
bastimento per la pesca, munito di tutti gli attrezzi, e di una larga stiva
graticolata, per lasciarvi entrar dentro l'acqua del mare. Ero stato io il
padrino del legno, e gli avevo imposto il nome di Proteo, che era, come sapete,
il Dio dei pesci. Il Proteo navigò pescando fino alle coste d'Africa,
donde tornò con un carico di murene. Quando andai a visitarlo, i marinai mi
apersero il boccaporto immane, vi ficcarono dentro una enorme cerchiaia, il cui
manico, lungo come l'asta dei paladini, doveva essere manovrato da due uomini;
e trassero fuori in una cucchiaiata quindici o venti di quei negri animali, che
guizzavano, si contorcevano, scappavano fuori, si libravano lenti nel vuoto e
ricadevano nella stiva. Io rimasi un tratto a guardare, ma il ribrezzo mi vinse,
e diedi una giravolta sui tacchi. Quel giorno, vi so dir io, n'ebbi abbastanza
di murene e d'ogni altro pesce che somigliasse ai serpenti.
E là dovevo godermeli, quei graziosi animali,
che somigliavano alle murene! Là, nel castello della Malanotte, eravamo
capitati in un vero serpaio, e ci avevamo distesi addosso le membra! Ancora
mezzo intorpiditi, aggrovigliati, raggomitolati, confusi, mi fecero ricordare
la composizione del celebre ovo serpentino di Plinio. Come sapete, l'autore
della Historia Naturalis lo vide egli stesso, quell'ovo, grosso quanto
una mela tonda, formato con la bava di molte serpi conglomerate, ed ottimo per
far vincer le liti in tribunale e per avere facile udienza dai grandi, a
chiunque avesse la sorte di possederlo. Peccato che quell'ovo miracoloso
bisognasse prenderlo a certi punti di luna, quando le serpi, zufolando, lo
gittavano in aria, e raccoglierlo anche nel lembo del sago, senza che toccasse
terra; dopo la quale impresa da giocolieri, occorreva saltare in arcione e dar
di sproni, sempre inseguiti dalle serpi derubate, pregando Iddio che facesse
trovare un fiume da passare a guado col cavallo, tanto da lasciar le serpi
sull'altra riva a fischiare!
Io, si capisce, non vidi nascer l'uovo da
quei due gomitoli enormi di rettili. Il primo raggio del sole, investendo quei
viluppi di carne, scioglieva il torpore in cui erano rimasti come rappresi per
tutta la stagiono invernale, e li faceva muovere, inarcare, contorcer le spire,
come già aveva fatto nella notte il calore delle nostre persone. E si
divincolavano lenti, que' mostri, rigirando a staffe, ad anse, ad anelli, i
dorsi neri e le pance giallognole; e le teste piccole, strette, acute,
rivestite di scaglie nere dai riflessi metallici, aprivano bocche smisurate,
donde uscivano le lingue sottili e bifide, mentre gli occhietti vitrei
guardavano intorno sospettosi e maligni. Noi, raccapricciando, ma attratti a
nostro malgrado dal nuovo spettacolo, contemplavamo que' due ammassi di carne,
ognuno de' quali conteneva da cinquanta a sessanta serpi, se non forse di più.
Pareva, a vederle così in moto, con le teste in alto e i colli ritti, pareva,
dico, che andassero cercando i loro corpi, districandoli lentamente da quel
garbuglio di spire e di code, in quella guisa che i morti figli di Adamo
dovrebbero cercare i loro nella valle di Giosafat. A mano a mano che il caldo
si faceva sentire in quel carnaio, le teste e i colli si muovevano più svelti,
gli occhi luccicavano più vivi, le lingue dardeggiavano più ardite. Parecchi
còlubri, tirandosi fuori del branco, incominciavano a provare le anella del
ventre sul nudo terreno; e in questo modo si era fatto più largo il serpaio. I
due corpi tendevano a congiungersi, a formare un solo esercito, che pareva
volersi disporre contro di noi in ordine di battaglia.
- Se fossero vipere! - esclamò Cesare
Pascarella, guardando con occhio sospettoso alcune serpi che s'erano spiccate
dal grosso dell'esercito e venivano guizzando dalla parte nostra.
- Ma!... Che debbo dirti? A giudicarne
dall'audacia che mostrano, potrebbe anche darsi. Del resto, se ricordo bene la
storia naturale che ho imparato al Liceo, le vipere si distinguono dai còlubri
per alcuni caratteri notevoli: testa depressa, quasi ovale, che s'allarga un
pochino dietro gli occhi, donde il suo aspetto quasi triangolare; la cervice
coperta di laminette squamose, disposte con una certa simmetria; il collo
stretto, ma via via crescente il corpo fino a metà della lunghezza
dell'animale, e una coda che si rimpiccolisce ad un tratto e si foggia quasi a
punta di lancia; il color della pelle in alcune varietà olivigno, in altre
brunissimo, in altre d'un giallo sudicio. Ma provati a riscontare questi
caratteri speciali in quest'orrida torma di rettili! Io ci rinunzio.
- E anch'io, perbacco, e me ne vado.-
I contadini, dimenticando volentieri ciò che
dicono i naturalisti intorno alla virtù delle bisce (che sono animali
innocenti, che favoriscono anzi che danneggiar le campagne, distruggendo molti
animali nocivi) si erano dati a menar botte da orbi sul lubrico sciame, innanzi
che il caldo gli avesse sgranchite le membra del tutto. Ed io seguii l'amico
Pascarella, non volendo assistere a quella fiera ecatombe.
Dieci minuti dopo, si poteva dire delle serpi
quello che disse Cicerone, in Senato, dei sozi di Catilina: fuere! I
corpi sanguinolenti si vedevano tutti sparpagliati sull'aia.
- Avevano ragione, lor signori, a lagnarsi! -
ci disse il nostro ospite, ritornando a noi, dopo la strage.
- Sì, eh? Che ve ne pare? - risposi io. - E
tenevate di quelle bestie a dozzina?
- Che vuole? La colpa è dell'edera.
- Come mai? Che ci ha da veder l'edera con
quei duo gomitoli di serpi?
- Signor mio, non ha veduta tutta quell'edera
che copre i bastioni? Le bisce, quando nei bastioni non c'erano che strette
feritoie, avevano l'uso di arrampicarsi per quell'edera nei fondi del castello,
e passarci l'inverno. Ma dopo che il padrone ha fatto aprire quelle larghe
finestre, coi terrazzini sporgenti, esse hanno trovato un alloggio anche più
comodo, ficcandosi a dirittura nei letti. Qual covo più adatto e più caldo di
quei sacconi di paglia?
- La grazia del covo! - esclamai. - Ed anche
di quei letti, che ci avete apparecchiati iersera! Oramai non vi domanderemo
più perchè questo castello porti il nome della Malanotte. Son sicuro che Pier
Maria de' Rossi, il fiero conte di Berceto e di San Secondo, ci ha passato lui
una notte niente più tranquilla della nostra.... e non c'è più ritornato.-
E proprio così, come il conte di Berceto e di
San Secondo, ci proponemmo di far noi. Dovevamo abbozzare il castello alla
macchia, per conservarne il ricordo; ma non ci passò neanche per la testa di
mandare il disegno ad effetto. Il nostro ospite, vedendoci risoluti di partire
quella mattina, ci pregò di restare almeno per mangiare un boccone; ma
ricusammo, che in verità non ci reggeva lo stomaco. E andammo via senza far
colazione, e il castello della Malanotte rimase senza bozzetto.
Traversata la montagna, ce ne scendemmo a
Berceto, vecchia borgata nascosta in una graziosa valletta fra la Baganza e il
Taro. Avevamo una fame da lupi, e nondimeno ci fu impossibile di mangiar carne.
La stessa frittata, che sostituimmo ad uno stufatino di vitello, rimandato in
cucina, non voleva a nessun patto andar giù. A me (guardate che fissazione!) a
me pareva di mangiar uova straordinarie, uova incantate, uova da vincer le liti
in tribunale e da aver facile udienza presso i grandi.
Quel giorno, prima di montare in carrozza e
farci trasportare a Pontremoli per la via della Cisa, mandammo una cartolina
postale coi nostri ringraziamenti all'amico Bandini, che ci aveva procurato
quella notte deliziosa nel più ospitale castello degli Appennini.
Ma infine, come dice il proverbio, tutto il
male non vien per nuocere. Quell'anno, nei fossi della Malanotte ci avranno
prosperato allegramente le rane, le chiocciole, i lombrichi ed altre bestiuole
simiglianti, vittime consuete delle serpi acquaiuole, pratensi ed arboree. Io,
frattanto, non ho potuto aggiungere nulla ad una mia opera sul mondo
invisibile, e segnatamente al capitolo delle apparizioni notturne. Contro le
quali, per citare anche una volta l'autorità di Plinio Secondo, è utilissimo
ungersi le palpebre con occhio di drago, tenuto in serbo e pestato col miele.
Vi dò la ricetta per quel che vale. Del resto, è facile provarla. Si piglia un
drago, gli si cavano gli occhi, se ne fa un intriso col miele, e si pesta nel
mortaio. Non mettete acqua, per carità; che sarebbe un pestar l'acqua nel
mortaio, e non verreste a capo di nulla.
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