IL GABBIANO
I.
Egli amava raccontare ed io lo stavo a
sentire molto volentieri; poi mettevo fuori il taccuino e segnavo. Eravamo
spesso insieme nel giorno; e sempre, poi nella notte, che a quei tempi non era
ancor fatta per dormire. Con lui e con Angelo Mariani, che ore! Lui soleva
chiamarle, con frase poetica e vera, le "ore all'amicizia sacre." Ma
era poi capace di dedicarmi tutte le ventiquattro del giorno astronomico,
dimenticando le assicurazioni marittime e i noleggi, che esercitavano la sua
pazienza quotidiana, negli anni della vecchiaia. Perchè oramai era vecchio e i
suoi sessanta facevano un curioso contrasto coi miei trentadue; ma da ciò
derivava un carattere nuovo e più intimo alla sua amicizia, tutta improntata di
una tenerezza gelosa, provvida, quasi paterna. Con nessuno, neanche in più
giovane età, neanche adolescente, ebbi a sentirmi così bambino, come mi sentivo
con lui; e ahimè! non potrò più sentirmi tale, essendo egli partito per quelle
regioni, dove si sta così bene, che non viene più voglia di ritornare.
Era un bel tipo, con la sua barba bianca,
fina e fluente in mosaiche anella sul petto, co' suoi begli occhi cilestri, la
sua carnagione bianchissima, le labbra vermiglie e il naso breve e diritto,
dalle nari delicatamente modellate e rosee, come se fosse il naso di una
leggiadra donnina. Fu bello fino a sessant'anni; ma da venti, o da venticinque,
non curava più la bellezza esteriore. Portava giacca e calzoni d'un colore, ma
niente sottoveste, nè di estate nè d'inverno. Col pastrano lo vidi una volta
sola, perchè il termometro era sceso a parecchi gradi sotto lo zero, e lui non
aveva mai indossato un corpetto di flanella. Per contro, non si levava mai dal
capo il suo cappelletto a cencio, nero, finissimo, e piantato un pochino alla
sgherra. Si diceva, ridendo, che con quel cappello in testa solesse anche
dormire, tanto si era avvezzi a vederlo in ogni occasione con la fronte
coperta. Si credeva ancora che volesse nascondere una precoce calvizie; ma in
questa opinione non c'era niente di vero. Egli non aveva più la fitta selva di
capegli d'oro della sua gioventù; ma ne possedeva sempre abbastanza, come io
ebbi occasione di vedere, l'unica volta che si levò, e spontaneamente e con
giubilo, il suo cencio nero dal capo.
Animo gentile e cuore aperto, pensava e
sentiva nobilmente, con certe originalità tutte sue. Impetuoso d'indole, andava
qualche volta in collera; ma si pentiva subito, e aveva tenerezze di donna
innamorata per colui che gli paresse di avere strapazzato a torto. Vi ho detto
de' suoi racconti, ed aggiungo che era ricco di storie e di aneddoti, perchè
aveva molto viaggiato. Già parecchi de' suoi ricordi hanno guidata la fantasia
del vostro umilissimo servo. Qualche volta egli mi si faceva cooperatore
senz'altro; specie per le faccende marinaresche, le costruzioni navali, i
viaggi, l'attrezzatura e la manovra dei vecchi bastimenti che io dovevo far
muovere. C'è nel Merlo bianco un certo sciabecco barbaresco, che a me è
costato mezza giornata di scarabocchi, a lui una settimana di pensieri, per
richiamarsi alla memoria la invelatura di quel legno, e un'altra settimana di
conversazioni coi vecchi lupi di mare, per cogliere al volo qualche indicazione
che potesse servirmi. Era lui il mio capitan Dodèro, e a lui erano regolarmente
dedicate le storie in cui aveva parte il faceto narratore. Lui morto, amo dire
il suo vero nome: Tommaso Marchesani.
Per necessità di stato civile, capitan Dodèro
era nato a levante di Genova, nelle vicinanze di Quinto al mare. I Dodèri
vengono tutti da un paesello nascosto fra due scogli, dietro le tre colline
d'Albaro. Il curvo lido sembrò ai nostri padri antichi una bocca spalancata; ma
perchè la bocca di un certo animale terrestre e ragliante, anzi che di uno
acquatico e muto? Ignoro le ragioni, ed accenno brevemente che i moderni hanno
italianizzato il nome del paesello, in Boccadasse. Comunque gli piaccia di
esser chiamato, è un piccolo e grazioso ceppo di case al sole, e tutte così
vicine alla spiaggia, che una volta, avendo un bastimento inglese sbagliata la
rotta e scambiato il porticciuolo di Boccadasse per l'entrata dei moli di
Genova, si piantò col bompresso nella sala da pranzo di un altro capitan
Dodèro, sfondandogli la parete di contro, e, insieme con la parete, la lastra
di uno specchio di Venezia. Tommaso Marchesani, invece, era nato a ponente di
Genova, nella piccola ma nobilissima città di Loano. Colà era vissuto molti
anni, negli intermezzi delle sue peregrinazioni marinaresche e delle fermate a
Genova, dove da ragazzo aveva appresi gli elementi della nautica, assistito ai
primi rivolgimenti liberali italiani e partecipato anche, senza capirci molto,
all'assalto del palazzo in cui era alloggiato il governatore Des Geneys, il
fiero ammiraglio, che aveva nominato medico di corvetta il proprio barbiere.
Del mio Tommaso Marchesani vi racconterò oggi
una storia, come io l'ho avuta dalle sue labbra "nelle ore all'amicizia
sacre", cioè a dire dalla mezzanotte alle cinque del mattino; una delle
più brevi, ma altresì delle più intime; attori principali: lui, si capisce, una
donna e un gabbiano. Come c'entri il gabbiano lo intenderete facilmente, quando
io ve lo avrò riferito; per intanto avrete già indovinato che si tratta di un
amore di gioventù. La donna che glielo aveva ispirato è viva ancora, nonna da
trent'anni e bisnonna da dieci. Prego i miei amici di Loano, a cui potessero
capitare sott'occhio queste pagine, di non andargliele a leggere. La signora
Caterina Rocca nei Carli potrebbe aversi a male delle mie chiacchiere, e non
ricordarmi più nelle sue orazioni.
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