OSSIAN E MALVINA.
I.
Eravamo, se ben mi rammento, nella primavera
del 1863. Scrivevo in un giornale, a Genova; lavoravo molto fino a tarda notte
e mi alzavo da letto a più tardo mattino, come a dire verso le dodici. E dopo
le dodici, anzi a dirittura sul tocco, una domenica di quell'anno e di quella
primavera, io me ne uscivo di casa per recarmi all'ufficio, passando per piazza
Nuova e per la via de' Sellai. Ricordo che c'era molta gente a passeggio e che
le belle devote escivano a centinaia dalla vicina chiesa di Sant'Ambrogio,
accompagnate, seguite e sbirciate da centinaia di devoti. Tra tante, non so
come, attirò i miei sguardi una bionda gentile, dagli occhi azzurri, dalla
pelle diafana e dalla persona vaporosa, che faceva pensare alla Malvina di
Ossian. Ho detto "non so come" perchè il lavoro mi aspettava e non
avevo tempo da perdere in simili contemplazioni. Ma già comandare a quella
fibra recondita! Il bello vaporoso, in verità, non era mai stato il mio ideale,
l'imperativo categorico del mio cuore; ma quando si nasce ecclettici, si
ammettono volentieri tutti i generi, salvo il brutto in arte, e in letteratura
il noioso. Fatto sta che io guardai Malvina più del convenevole, a rischio di
buscarmi un torcicollo, destando l'attenzione di lei, ed anche quella di
Ossian, o, per dire più veramente, del personaggio ignoto che camminava al suo
fianco.
Costui ora un uomo piuttosto alto, d'età fra
i cinquanta e i sessanta, con occhi neri e scintillanti sotto le folte
sopracciglia, un gran paio di baffi grigi arroncigliati, un gran pizzo del
medesimo colore e leggermente piegato ad uncino, come quello d'un uomo egizio
antico, o di un irrequieto mortale dei tempi nostri, che sia sempre lì con le
dita nervose a tormentarsi l'onore del mento. Un gran cappello alla calabrese
nascondeva la fronte del personaggio; un gran pastrano di color lionato chiaro,
tagliato senza garbo e portato egualmente, copriva le membra asciutte, che
parevano d'uomo più usato a vestire la tunica soldatesca che non gli abiti
cascanti del pacifico borghese. Non era dunque un Ossian molto romantico, il
compagno della bionda Malvina; sembrava piuttosto un colonnello in ritiro, o in
disponibilità, come crederete meglio di dire.
Egli mi aveva dato un'occhiata, di quelle che
vi squadrano, in un minuto secondo, dalla testa ai piedi, e vi prendono i
connotati, come farebbe un ufficiale ai passaporti. Curiosa, non m'avrebbe
scosso; ma mi parve anche severa, come di un geloso feroce: e gli resi la
pariglia, voltandomi mezzo sulla persona, a guardarlo dal basso all'alto, con aria,
di dirgli: "per caso, l'avreste con me?" L'onda dei viandanti, a cui
mancavano le mie ragioni per trattenersi, ci separò. Quando, mutato il passo,
mi voltai a guardare il mio uomo, egli aveva la faccia al vento e non guardava
più me. La mia dignità era in salvo; fui felice di non aver quistioni con
Ossian per avergli guardato Malvina, e tirai di lungo verso l'ufficio.
Lavoravo da forse un'ora, passando in
rassegna e sciorinando i segreti a tutti i gabinetti d'Europa, quando sentii un
batter di nocche all'uscio della camera.
- Avanti! - risposi, senza volger la testa.
- Monsieur le directeur du.... - E qui
il nuovo venuto soggiungeva il nome del giornale.
- C'est moi; - ripresi, e questa volta
piegandomi sul fianco, per guardare chi fosse.
Dei immortali! Era lui, il mio colonnello in
ritiro, il mio Ossian; ma ahimè, senza Malvina.
Parecchi pensieri mi si affollarono nella
mente. Si fa, col cervello, molto cammino in breve ora, quando non c'è bisogno
di vestire con parole l'idea. Certo, pensai, egli ha incontrato nella folla
qualche persona di sua conoscenza, a cui mi ha indicato, chiedendogli il mio
nome. Gliel'hanno detto; ha condotta la moglie a casa, ed eccolo qua, Otello
redivivo, a farmi una scenata. L'aria con cui mi guarda, infatti, lascia
argomentare che egli non sia troppo contento dei fatti miei.
- Comment! - diceva frattanto il mio
francese. - C'est vous?
E rizzava il collo, così parlando, ed
inarcava le ciglia.
- Je vous l'ai dit, monsieur, -
replicai, alzandomi da sedere e inarcando le ciglia più di lui; - c'est moi.
- Pardon, monsieur, - rispose egli
inchinandosi, - mais, en vous voyant si jeune....
Mi parve, lì per lì, che il geloso cercasse
un pretesto per attaccarla, e non trovasse di meglio che quello scherno
all'età. Capricciosa natura umana! Quando siamo giovani, vorremmo apparir
maturi; e quando siamo maturi, niente ci sarebbe più grato di una osservazione
come quella, che a me pareva allora uno scherno.
Non volli dar fuori per una piccolezza, e gli
chiesi, con fredda cortesia, in che potessi servirlo. Egli allora diede una
guardata in giro, vide un mio compagno di lavoro che stava nel vano d'una
finestra, con le spalle curvate su d'un monte di giornali, e rispose:
- Pardon! C'est que je désirerais vous
parler en particulier.
Ci siamo, dissi tra me. Ed accennato allo
straniero un uscio nel fondo, mi mossi a quella volta.
- Per farvi strada; - soggiunsi, passando per
il primo.
Lo sconosciuto mi seguì nell'andito, che
metteva ad una cameretta, al mio Sancta sanctorum. Avevo colà tutti i
miei libri, amici miei e non della ventura, disposti sugli scaffali, in quel
caro disordine che l'uso assiduo giustifica. Levai da una sedia l'inevitabile
fascio di carte, e gli accennai di sedere.
- A chi ho l'onore di parlare? - domandai.
- Je sius Auguste Barbier; - mi
rispose.
- Le poète?
- Le poète; - replicò egli,
accompagnando la parola con un benevolo cenno del capo.
Indi, cavato di tasca il portafoglio, ne
trasse un biglietto di visita e me lo porse. In quel biglietto, che sbirciai
per atto di obbedienza, c'erano tre parole soltanto, disposte per "due e
uno" come si direbbe in araldica: Auguste Barbier, poète. Trinità
sublime! Io ci vidi anche tutt'intorno un'aureola di splendori.
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