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Anton Giulio Barrili
Uomini e bestie: racconti d'estate

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  • DUMAS IL VECCHIO
    • I.
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I.

 

A me, scrittore mediocre, ma costante nel culto dell'arte patria, ha sempre fatto un gran senso, fino dai primi anni di giovinezza, Alessandro Dumas, il vecchio romanziere, insigne campione della moderna letteratura francese. E questo non già per amor di contrasto, ma perchè le sue maravigliose facoltà inventive, rispondendo ad un bisogno dell'anima mia, vi lasciarono profondamente impressa una immagine, a cui misteriosamente si associa un senso di luce, di colore e di allegrezza, proprio come ci accade allorquando ricordiamo una bella gita in campagna, o una gran scena della natura, che ci abbia gradevolmente commossi. Anche dove tutto ciò che io ricordo di lui non mi è più egualmente sacro, mi è rimasto singolarmente caro, e, dove l'ammirazione è in qualche modo scemata, dura in me, viva, schietta e perenne, la gratitudine.

Questa, o lettori, non l'avrete già per una piccola ipocrisia, quasi che io volessi prepararmi bel bello a demolire sotto i vostri occhi l'idolo che vi ho presentato. Non temete, io rispetto gl'idoli, anche per gl'istinti religiosi che essi mi hanno educati nel cuore; e questo idolo, inoltre, io posso oggi ancora adorarlo con sicura coscienza. Questo Alessandro, il Magno della letteratura francese, come un altro Alessandro è il Magno della letteratura italiana, ebbe un gran pregio, a mio credere il primo dell'artista, e in modo non più eguagliato da altri della sua nazione: voglio dire la facoltà di comprendere in una sola percezione le cose più disparate, di cogliervi aspetti nuovi e lontani, di foggiarne nuovi mondi ideali, di sceverare nel passato e nel presente le manifestazioni più singolari della vita, che nessuno aveva vedute prima di lui, sopra tutto così vivamente come lui. Montecristo e la trilogia romanzesca che incomincia coi Tre Moschettieri, diventati quattro per via, vi dicono già essi soli tutto ciò ch'egli vide in materia di caratteri umani, nel secolo decimonono e nel decimosettimo, il valore e la forza, la bontà e l'astuzia, la magnanimità e il delitto, espressi in altrettante figure, rimaste tipiche, monumentali, mercè una leggera esagerazione di rilievi e di sottosquadri. Ma Ascanio, Giorgio, Olimpia di Clèves, Silvandira, il Capitano Paolo, i cavalieri di Harmental e di Maison rouge (molti altri potrei citarne e d'ugual merito), quante figure luminose, quanti caratteri soavi, nobili, cavallereschi! La natura umana non si è mai vista così bella, anche ne' suoi errori, come in questo specchio magico del Dumas. Sopra tutto cavalleresca, poichè questa propensione alla grandezza degli atti, alla magnificenza delle forme, è la caratteristica del celebre romanziere, e vorrebbe essere studiata più minutamente, più intimamente, che io non posso far qui. Forse prevedendo il guaio di non avere tra i posteri chi si fermasse con intelletto d'amore a studiarlo, egli si è dipinto da in quelle sue sfavillanti Memorie, dimostrando, tra l'altre cose, che la Pailletérie non l'aveva soltanto nel cognome aristocratico, ereditato dal nonno. Pure, anche dopo di lui, sarebbe da tentare l'impresa. Il colosso si è visto di prospetto; altri dovrebbe considerarlo di profilo, e fare intorno a lui un volume, come se ne son fatti tanti intorno al Balzac, suo fratello di fatica ed emulo di gloria; mostrando fin dove fu lui, e per quanta parte entrò, mirabile trasformatore, nel lavoro degli altri; da ultimo segnando i gradi del benefico influsso che esercitò sugli scrittori del tempo suo, e insieme sulla Francia moderna. Perchè questa, almeno negli anni fra il 1830 e il 1870, così nello spirito avventuroso, come nella grazia espansiva, come nella esuberanza rumorosa, ma buona e simpatica, gli è debitrice di molto. Ella è oggi un po' meno forte, un po' meno felice, ma non per colpa della educazione intellettuale che ebbe da lui. A buon conto, se egli la esaltò fuor di misura, non le diè nessun vizio, non la compiacque nei gusti morbosi, nelle pericolose follie, che turbano oggi ed affliggono, non che lei, tanta parte di mondo.

Paladini, nei tempi nostri borghesi e livellatori, non si può essere, certamente, senza un tantino di posa. Noi tutti, quanti scriviamo, mettendo in scena Greci e Romani, vestendo trovatori e castellane, descrivendo corti e taverne, non esageriamo forse un pochino? Componiamo il nostro quadro anche noi, e la concentrazione degli effetti, cànone primo dell'arte, ci guida naturalmente la mano. Perciò rifiutiamo nell'opera nostra certi segni comuni, certo note volgari, per mettere in luce, in rilievo, quelle che paiono a noi, per corta loro singolarità, le tipiche e fondamentali di un'epoca. Così il vecchio Dumas; e non solamente per i secoli passati, dove la scelta è più facile, e direi quasi fatale, ma anche per il tempo in cui visse, rimanendo per ciò come un essere straordinario, un cavaliere solitario, nella letteratura moderna d'Europa. Fu un po' egli il suo d'Artagnan e il suo Montecristo. Alfonso di Lamartine, in un giorno di nervi (e n'ebbe parecchi, di quei giorni, il grand'uomo), lo chiamò l'empereur de la blague. A chi gli riferiva il motto, rispose il Dumas, crollando superbamente le spalle: Dites à Larmartine, que, si je suis l'empereur de la blague, il en est, lui, le poète. Questa blague del gaio imperatore non era punto altezzosa, come a certe ore quelle del bardo malinconico. E di questa blague possiamo parlare anche noi Italiani, che abbiamo veduto il Dumas, amico inframmettente, ma caldo e sincero, della nostra rivoluzione, pronto ad esaltare la parte sua, non meno pronto a magnificare quella degli altri. Io lo conobbi in quel tempo, e al ritratto dell'uomo, del gaio imperatore, aggiungo anch'io la mia nota, che ha la fortuna di non essere ripescata, con moderna erudizione, in un libro o in un giornale francese.

 

 

 




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