I.
A me, scrittore mediocre, ma costante nel culto
dell'arte patria, ha sempre fatto un gran senso, fino dai primi anni di
giovinezza, Alessandro Dumas, il vecchio romanziere, insigne campione della
moderna letteratura francese. E questo non già per amor di contrasto, ma perchè
le sue maravigliose facoltà inventive, rispondendo ad un bisogno dell'anima
mia, vi lasciarono profondamente impressa una immagine, a cui misteriosamente
si associa un senso di luce, di colore e di allegrezza, proprio come ci accade
allorquando ricordiamo una bella gita in campagna, o una gran scena della
natura, che ci abbia gradevolmente commossi. Anche dove tutto ciò che io
ricordo di lui non mi è più egualmente sacro, mi è rimasto singolarmente caro,
e, dove l'ammirazione è in qualche modo scemata, dura in me, viva, schietta e
perenne, la gratitudine.
Questa, o lettori, non l'avrete già per una
piccola ipocrisia, quasi che io volessi prepararmi bel bello a demolire sotto i
vostri occhi l'idolo che vi ho presentato. Non temete, io rispetto gl'idoli,
anche per gl'istinti religiosi che essi mi hanno educati nel cuore; e questo
idolo, inoltre, io posso oggi ancora adorarlo con sicura coscienza. Questo
Alessandro, il Magno della letteratura francese, come un altro Alessandro è il
Magno della letteratura italiana, ebbe un gran pregio, a mio credere il primo
dell'artista, e in modo non più eguagliato da altri della sua nazione: voglio
dire la facoltà di comprendere in una sola percezione le cose più disparate, di
cogliervi aspetti nuovi e lontani, di foggiarne nuovi mondi ideali, di sceverare
nel passato e nel presente le manifestazioni più singolari della vita, che
nessuno aveva vedute prima di lui, nè sopra tutto così vivamente come lui. Montecristo
e la trilogia romanzesca che incomincia coi Tre Moschettieri, diventati
quattro per via, vi dicono già essi soli tutto ciò ch'egli vide in materia di
caratteri umani, nel secolo decimonono e nel decimosettimo, il valore e la
forza, la bontà e l'astuzia, la magnanimità e il delitto, espressi in
altrettante figure, rimaste tipiche, monumentali, mercè una leggera
esagerazione di rilievi e di sottosquadri. Ma Ascanio, Giorgio, Olimpia di
Clèves, Silvandira, il Capitano Paolo, i cavalieri di Harmental
e di Maison rouge (molti altri potrei citarne e d'ugual merito), quante
figure luminose, quanti caratteri soavi, nobili, cavallereschi! La natura umana
non si è mai vista così bella, anche ne' suoi errori, come in questo specchio
magico del Dumas. Sopra tutto cavalleresca, poichè questa propensione alla
grandezza degli atti, alla magnificenza delle forme, è la caratteristica del
celebre romanziere, e vorrebbe essere studiata più minutamente, più
intimamente, che io non posso far qui. Forse prevedendo il guaio di non avere
tra i posteri chi si fermasse con intelletto d'amore a studiarlo, egli si è dipinto
da sè in quelle sue sfavillanti Memorie, dimostrando, tra l'altre cose,
che la Pailletérie non l'aveva soltanto nel cognome aristocratico,
ereditato dal nonno. Pure, anche dopo di lui, sarebbe da tentare l'impresa. Il
colosso si è visto di prospetto; altri dovrebbe considerarlo di profilo, e fare
intorno a lui un volume, come se ne son fatti tanti intorno al Balzac, suo
fratello di fatica ed emulo di gloria; mostrando fin dove fu lui, e per quanta
parte entrò, mirabile trasformatore, nel lavoro degli altri; da ultimo segnando
i gradi del benefico influsso che esercitò sugli scrittori del tempo suo, e
insieme sulla Francia moderna. Perchè questa, almeno negli anni fra il 1830 e
il 1870, così nello spirito avventuroso, come nella grazia espansiva, come nella
esuberanza rumorosa, ma buona e simpatica, gli è debitrice di molto. Ella è
oggi un po' meno forte, un po' meno felice, ma non per colpa della educazione
intellettuale che ebbe da lui. A buon conto, se egli la esaltò fuor di misura,
non le diè nessun vizio, non la compiacque nei gusti morbosi, nelle pericolose
follie, che turbano oggi ed affliggono, non che lei, tanta parte di mondo.
Paladini, nei tempi nostri borghesi e
livellatori, non si può essere, certamente, senza un tantino di posa. Noi
tutti, quanti scriviamo, mettendo in scena Greci e Romani, vestendo trovatori e
castellane, descrivendo corti e taverne, non esageriamo forse un pochino?
Componiamo il nostro quadro anche noi, e la concentrazione degli effetti,
cànone primo dell'arte, ci guida naturalmente la mano. Perciò rifiutiamo
nell'opera nostra certi segni comuni, certo note volgari, per mettere in luce,
in rilievo, quelle che paiono a noi, per corta loro singolarità, le tipiche e
fondamentali di un'epoca. Così il vecchio Dumas; e non solamente per i secoli
passati, dove la scelta è più facile, e direi quasi fatale, ma anche per il
tempo in cui visse, rimanendo per ciò come un essere straordinario, un
cavaliere solitario, nella letteratura moderna d'Europa. Fu un po' egli il suo
d'Artagnan e il suo Montecristo. Alfonso di Lamartine, in un giorno di nervi (e
n'ebbe parecchi, di quei giorni, il grand'uomo), lo chiamò l'empereur de la
blague. A chi gli riferiva il motto, rispose il Dumas, crollando
superbamente le spalle: Dites à Larmartine, que, si je suis l'empereur de la
blague, il en est, lui, le poète. Questa blague del gaio imperatore
non era punto altezzosa, come a certe ore quelle del bardo malinconico. E di
questa blague possiamo parlare anche noi Italiani, che abbiamo veduto il
Dumas, amico inframmettente, ma caldo e sincero, della nostra rivoluzione,
pronto ad esaltare la parte sua, non meno pronto a magnificare quella degli
altri. Io lo conobbi in quel tempo, e al ritratto dell'uomo, del gaio
imperatore, aggiungo anch'io la mia nota, che ha la fortuna di non essere
ripescata, con moderna erudizione, in un libro o in un giornale francese.
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