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Anton Giulio Barrili
Uomini e bestie: racconti d'estate

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  • DUMAS IL VECCHIO
    • II.
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II.

 

Avevo amato il romanziere (già ve l'ho detto in principio); ragazzo, avevo leggiucchiato; adolescente, avevo divorato tutte le cose sue. Nel 1860 vidi l'uomo, potente di forme, ed anche atticciato, come rende qualche volta il tavolino, assai più che non faccia la tavola; capelli brizzolati, radi alle tempie, ma ancora folti sul cranio e levati a scompiglio di foresta vergine; ampio ed aperto sul petto il famoso tutto vestito nero, con la sottoveste un po' corta donde alle volte appariva il bianco della camicia, per qualche movimento impetuoso delle braccia corte e robuste; le mani bianche e grassocce, le dita affusolate, le unghie rosee, infantili, com'era infantile il sorriso delle labbra tumide e sporgenti; bianco l'occhio, rotondo e sgusciato, pieno di luce e di bontà; nel complesso un'aria di adolescente a cinquantacinque anni, un felice impasto di gentiluomo francese e di crèolo, come portava l'origine; un parlatore franco, volonteroso ed allegro, consapevole della sua gloria, e insieme desideroso di farvela dimenticare.

A farlo a posta, la prima volta che lo vidi fu a tavola. Appena avvicinato l'uomo, e ancora tutto compreso di maraviglia rispettosa, conobbi il cuoco, di cui parlavano le cronache parigine, e assaggiai la famosa omelette soufflée cucinata da lui col prosciutto. Non era una omelette più gustosa di tante altre, e non doveva accrescere di un punto la mia ammirazione per lui; ma era stata condita da una erudizione culinaria così piacevole, che io dimenticai facilmente la vivanda per l'intingolo, e pensai senza volerlo a quei capi scarichi di letterati italiani del decimosesto e decimosettimo secolo, che traducevano divinamente l'Eneide, e commentavano con burlesca serietà un capitolo del Molza; che attendevano con gravità accademica a dettare il codice della patria favella, e pazzamente cicalavano a cena, mettendo in salsa piccante qualche sonetto più ricco di spropositi che giusto di sillabe.

Non so come, di palo in frasca, si venne a parlare di lingua latina. E ci attaccammo subito, egli a sostenere che la pronunzia del latino alla francese fosse la vera ed autentica, io, naturalmente, a difendere la consueta ed ereditaria pronunzia degli Italiani. In qualche punto escivo di riga ancor io: in qualche altro erano stringenti le sue obiezioni, specie per alcuni casi in cui il giuoco di parole latino non si sarebbe potuto intendere senza la pronunzia particolare, sostenuta da lui: esempio il Tibi quoque placebo, con cui Cicerone promette di render servigio ad un cuoco. Se avessi avuto fin d'allora qualche dimestichezza coi poveri e segregati abitatori dei borghi sabini e volsci, avrei potuto dimostrargli con molti esempi, che non occorreva davvero andar a cercare un suono particolare in una lingua forastiera, per renderci ragione di certe originalità della pronunzia antica romana. Ma un forte argomento, nella tesi generale, mi era venuto per dalla prosodìa e dalla lettura del verso latino.

- "Conticueré omnés, entantiqué orà tenebànt, - gli dissi ad un tratto, - è forse un verso esametro, per voi, o non piuttosto, come a me pare, una infilzata di parole, tutte con l'accento sull'ultima sillaba? Noi deriviamo dai latini, rispetto al suono, tre classi di parole, le tronche, le piane, e le sdrucciole; donde la varietà dei suoni, corrispondente in gran parte alla notazione delle lunghe e delle brevi, e la conseguente facilità di pronunziare il verso latino in guisa da non offendere la prosodìa antica, anzi da farla sentire. Mettete questa ragione accanto all'altra dell'esser noi figli di casa, per Roma, e poi giudicate."-

Non era ostinato d'indole; era cortese di modi, e, dopo essere stato a sentirmi con benevola attenzione, rispose:

- "Ma foi, vous pourriez bien avoir raison". - Ond'io mi sentii tutto vergognoso di averla a così buon mercato, e mi feci rosso, come potete pensare.

Volevo parlargli de' suoi cento volumi; ma qui il valent'uomo era poco discorritore, e doveva anche essere stanco di gloria spicciola. D'altra parte, come poteva raccapezzarsi egli stesso tra quei cento volumi, de' quali almeno cinquanta erano ben suoi, e gli altri tutti compenetrati dalla sua fantasia, vivificati dal suo spirito, impressi, a dir breve, del suo marchio di fabbrica?

Parlava assai più volentieri di politica; ne era, anzi, tanto invasato, da lasciar credere ad osservatori superficiali ch'egli fosse prima di tutto, e quasi esclusivamente, un uomo politico. Ma il romanziere, l'artista, scattava fuori ad ogni istante, poichè nella politica vedeva quasi sempre l'aneddoto. Anzi, su questa prevalenza dell'aneddoto negli svolgimenti della storia contemporanea, egli aveva fondato una vera e propria teorica. L'aneddoto non era per lui, come si dice, la moneta spicciola della storia; ne era il fiore, senza altro. Linneo, il grande naturalista, il gran padre dei sistemi botanici, non aveva preso dai caratteri del fiore a classificare la pianta? Per Alessandro Dumas, la rivoluzione francese del 1848, di cui parlò molto quel giorno, era tutta effigiata e definita nella proclamazione del governo provvisorio. Ho ancora il suo racconto impresso nella memoria, e con le stesse parole.

Dupont de l'Euro aveva vociato tutta la giornata; doveva leggere al popolo, dal balcone dell'Hôtel de Ville, la lista del nuovo governo; ma il pover uomo non ne poteva più.

- Je suis enroué, - diss'egli, porgendo la carta al vicino, - lisez-la vous, Lamartine!

Il Lamartine prende il foglio, da una scorsa all'elenco, poi lo restituisce al Dupont, rispondendo breve, col suo garbo aristocratico:

- Je ne puis pas, mon nom y est.

- Eh bien, lisez-la vous, Crémieux.

Il Crémieux prende, guarda, stringe le labbra, e rende, anzi gitta stizzito il foglio sulla tavola, dicendo:

- Je ne puis pas, mon nom n'y est pas.

È vero l'aneddoto che raccontava il Dumas? Certo, meriterebbe di esserlo, tanto è sugoso ed espressivo nella sua sobrietà!

 

 

 




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