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Anton Giulio Barrili
Uomini e bestie: racconti d'estate

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  • DUMAS IL VECCHIO
    • III.
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III.

 

A que' tempi, e in Italia, Alessandro Dumas viveva in piazza come un Greco. In una bottega da caffè, in un giardino pubblico, per via, in carrozza, non si vedeva, non si sentiva che lui, le grand Dumas, le bon Dumas. A Palermo, a Messina, a Napoli, a Livorno, a Genova, aveva in porto la sua flotta (una goletta, decorata del nome di Emma) e conduceva sempre con il piccolo ammiraglio, bianco latteo di carnagione, dagli occhi neri e dalle ciglia lunghe, vestito, sui calzoni grigi e stretti alla gamba, d'una giacca turchina, dai filetti d'oro alle braccia e al colletto, e coperto il capo di una berretta con l'àncora d'oro. Grazioso petit amirail; che andò in veste d'aspirante di marina a Napoli e ne ritornò tre anni dopo vestito da signora, con un bambino in collo. Perchè, a dirvi la cosa tale e quale, si viaggiava senza balia; e non c'è caso, poi, di trovare una di queste preziose creature nell'equipaggio di una nave da guerra. Ma quella giovine madre faceva da balia e da bambinaia ad un tempo; ed io la vidi a Genova, con una gran veste di seta, di color gridellino, allattare il suo bambolo nel giardino del caffè d'Italia, sotto un lauro, nell'ora più calda d'un bel giorno di primavera.

Si potrebbe accertare anche il giorno, rovistando nelle gazzette del 1863. Era il giorno che i fogli italiani pubblicavano due telegrammi particolari di giornali inglesi, con l'annunzio di una sconfitta che i Francesi avevano toccata al Messico, sotto le mura di Puebla. Vedendo laggiù, sotto la fosca macchia del lauro, quella scena di Sacra Famiglia al caffè, mi ero tenuto rispettosamente in disparte. Mi vide il Dumas, mi riconobbe ancora, bontà sua, e mi tuonò una chiamata affettuosa ed allegra. Feci l'atto dell'uomo che tardi s'avvede, e andai difilato verso di lui. Era gala, per me, poter discorrere con Alessandro Dumas. Egli ritornava da Napoli, e andava a Parigi col proposito di rimanervi. A Napoli non aveva più nulla da fare; tutto era finito in Italia; il periodo eroico si chiudeva; incominciava la prosa dell'ordinamento amministrativo, di cui egli non sapeva che farsi. E mi ragionò a lungo di queste cose con un misto di passione e d'arguzia; e finì col chiedermi le notizie del giorno.

- C'è poco; - risposi; - appena due dispacci inglesi, che accennano ad una fazione disgraziata sotto le mura di Puebla.

- Ah! - fece egli inarcando le ciglia.

- Sì, ma non c'è da credere ad occhi chiusi; - mi affrettai a soggiungere. - Sono due dispacci inglesi.

- Qu'est-ce que ça fait? Anglais ou autres, c'est une défaite.

- È vero; ma voi sapete pure! dopo la ritirata di Spagna e Inghilterra dall'impresa del Messico, c'è chi ha interesse a mettere in mala vista la spedizione francese. Ora, questi dispacci del Times....

- Ah, ah, mi fate ridere; - interruppe egli. - E credereste forse le nostre armi invincibili?

- Eh, quasi. Ad ogni modo, se la notizia fosse vera, ne avrei un dispiacere grandissimo.

- Che ci volete fare? - ripigliò lui, dandomi ragione a mezzo. - È l'Impero, che ci ha condotti a questo punto; e, senza giungere fino a domandare gli Châtiments di Vittor Hugo, una lezione vuol essere.

- Non dico di no.... - risposi io. - Cioè, scusate, dico risolutamente di no. In questo particolare, non vado neppur d'accordo con qualche amico politico; ed anche dopo la fermata di Villafranca, e lasciando a voi Francesi di pensare ciò che volete dell'Impero, non posso dimenticare che esso e la Francia sono stati una cosa sola per noi. Se pure vogliamo distinguerli oggi, dobbiamo sempre ricordare che tre anni fa ci hanno dato un vigoroso colpo di mano. Se essi non fossero stati, saremmo noi dove siamo? Chi sa? Forse in altro modo ci saremmo giunti, o ci giungeremmo più tardi, ma con sacrifizi inauditi, di cui avremmo a portare il peso per un secolo.-

Egli stette ad udirmi pazientemente; poi ribattè, non persuaso:

- Sì, tutto bene, quello che dite! Ma bisogna sapersi sollevare da questi livelli, dell'interesse da una parte, e dello chauvinisme dall'altra. La storia è un giudizio, e tutte le colpe vogliono il loro castigo. Una lezione, vi ripeto, una lezione vuol essere, anche per rialzar noi da questa abiezione di servitù. Comunque sia, - conchiuse, - vera o no la notizia inglese, i giorni dell'Impero sono contati; sarà la sua rovina, il Messico, c'est moi qui vous le dis.-

In fondo, qualche cosa di ciò ch'egli diceva lo pensavo ancor io, e qualche volta mi era avvenuto di dirlo e di scriverlo; ma per allora non volli confessarlo. Forse mi aveva corretto Augusto Barbier? Non lo rammento bene; soltanto ricordo che ripicchiai sulla alleanza del 1859; e tanto più volontieri, perchè in certe cose è sempre bene andar largo. Se la gratitudine è una virtù, perchè non insisterci, anche a rischio di esagerare? - Melius est - lo dice il vecchio proverbio monastico - melius est abundare quam deficere.-

Ci lasciammo, dopo pochi altri discorsi con lui, complimenti alla signora e carezze al bambino. Egli partiva quella sera. - Venite a Parigi! - mi disse. Promisi, ma non dovevo attendere, lui vivo.

Pochi giorni dopo, leggevo in un giornale una lettera sua, scritta da Genova. A ventitrè anni di distanza (ventitrè anni, ahimè!) non rammento più se quel giornale fosse l'Indipendente di Napoli, già diretto da lui, o la Indépendance di Brusselle, in cui non di rado scriveva. Indipendente e Indépendance mi si sono confusi un po' nella mente. Questo lo ricordo benissimo: Alessandro Dumas raccontava del suo arrivo a Genova, e toccava dei famosi dispacci, notando anch'egli che gli parevano da mettere in quarantina, perchè, dopo la ritirata di Spagna e Inghilterra, alla stampa di quei due paesi metteva conto di sfatare la spedizione francese. "Strano, - soggiungeva egli, - che un giovane giornalista, buon ragazzo, del resto, mi desse la notizia con mal celata compiacenza!"

Cascai dalle nuvole, ma continuai la lettura, "Ah, questi Italiani! - proseguiva egli.- Anche culti, e in condizioni da esser giusti odiano la Francia: non sanno neanche, o non vogliono, distinguere tra essa o il suo governo. Ma che distinguere, poi? È l'Impero che ha fatto la guerra per essi nel 1859; è la Francia che vi ha sparso il suo sangue. Se ciò non fosse avvenuto, sarebbero essi, oggi, i cittadini di una grande nazione?" Qui, dopo esser cascato dalle nuvole, restai di sasso, senz'altro; poi mi venne un impeto di rabbia. Volevo correre a Parigi, niente di meno! Ero calidus juventa, allora, quantunque non fossimo più sub console Planco. Cercai i soliti amici delle imprese feroci, ed esposi il fatto e il desiderio. Uno di essi, allora colonnello garibaldino, poi generale, deputato, senatore e prefetto, mi disse brevemente: - Sei matto?-

- Matto! perchè?

- Ma sì, matto da legare. E vorresti dar peso a queste inezie? Uomo di lettere, faresti colpa al Dumas di ciò che è la sua grande qualità? Scriveva una pagina di storia; gli passarono per la fantasia le tue ragioni, e gli piacquero: si è messo al tuo posto, e ti ha dato il suo, che non è poi tanto cattivo. Di che ti lagni? Ti ha chiamato per giunta un bravo ragazzo. Non ti basta?-

E mi bastò, perchè credevo al buon giudizio dell'amico. Ma dissi, a mo' di commento: - Prima che io comunichi un dispaccio inglese ad un gran romanziere.... di qualsivoglia nazione, ha da cascarmi la lingua!-

Ebbi occasione, forse due anni dopo a Torino, di vedere un'altra volta il Dumas, e di ricordargli, non senza i dovuti riguardi, la sua lettera famosa.

- Ma foi, je ne sais plus, - mi rispose dopo avermi ascoltato attentamente, co' suoi grandi occhi bianchi fissi nei miei - mais puisque vous le dites, ce doit être vrai. Voyons, est-ce que vous m'en gardez rancune?

- No, perdinci! - esclamai. - Sono contento che voi abbiate detto così bene ciò che io avevo detto così male. Una cosa ricordate; e quosta, se vi par degna d'essere scritta con la vostra penna d'oro, vi prego, attribuitela a me. Un giorno, perchè i popoli non sono condannati a veder tutto ad un modo, come gl'individui, un giorno potremo anche essere ingrati, o parere; ma non saremo mai ingiusti, dimentichi.-

Ho raccontato queste cose, non già per manco di rispetto ad una nobile figura del secolo, ma perchè in esse mi pare di avere dipinto l'artista, senza nuocere alla simpatia che l'uomo facilmente ispirava. Mi tornò sempre, quante volte pensai al Dumas, mi tornò sempre alla memoria la frase dell'amico colonnello. Perchè far colpa al gran romanziere di ciò che era il suo pregio singolare? Questo, difatti, era mirabile in lui: la potenza assimilatrice di una feracissima fantasia, che s'investiva in ogni cosa del pro e del contro, e tendeva naturalmente ad esprimerli in forma drammatica. Aggiungete che son tutti grandi e forti i suoi personaggi; quando non sono buoni, sono ancora forti, o nobili, o arguti; tutti, per qualche lato dell'esser loro, come il Faust del Goethe, si salvano.

Che resterà dell'opera sua? Faccio questa domanda anch'io, cedendo alla moda. Ora è invalso il costume di chiedere, con strana curiosità, che cosa rimarrà, di uno scrittore contemporaneo, alle generazioni venture. Nessuno domanda mai: che cosa rimarrà di quello che scrivo io? Tutti s'impuntano a domandare di un altro, tutti s'impancano a decidere, e , con otto o dieci considerandi a un tanto la linea, gli fanno la sentenza anticipata dell'oblìo. Per me, voglio sperare che il Dumas resterà tutto quanto. È proprio dei maestri, di far passare, insieme con l'opera massima, anche le cose minori. Tutto si ristampa ancora del Goethe, e tutto non fu mica eccellente; tutto del Byron, tutto dello Scott, e c'è pure del mediocre. Solo della signorina di Scudéry non sopravvive più nulla; tranne, e per saggio di elegante puerilità, la strana carta geografica del Tenero.

Ve ne ricordate? Ci si vede il fiume dell'Inclinazione, che ha sulla riva destra i villaggi di Bei versi e di Epistole galanti, sulla sinistra quelli di Compiacenze, di Attenzioncelle e di Assiduità; più oltre sono i casali di Leggerezza e d'Oblìo, col lago d'Indifferenza. Una strada mena al distretto d'Abbandono e di Perfidia; ma, seguendo il corso naturale del fiume, si giunge alla città del Tenero sulla stima, e all'altra del Tenero sull'inclinazione. Come a dire Francoforte sul Meno!

Piaceva questa roba, a' suoi tempi? Sì o no. Nel secolo in cui scrisse il Corneille, il gusto del pubblico non doveva essere corrotto a tal segno. Accanto alle commozioni dell'arte grande, c'era la voga del generino; ecco tutto. Abbiamo dunque un po' di fede; chi ha dipinto forti ed alti caratteri, facendoli muovere ed operare in vigorose azioni drammatiche, e parlare con una lingua nobile e schietta, non peribit in aeternum.

Per ritornare all'uomo e a' miei ricordi personali, io non mi meravigliai più se quella impetuosa natura faceva suo con tanta facilità il pensiero degli altri. Je prends mon bien je le trouve, aveva detto il Molière, e ripeteva spesso il Dumas. A buon conto, ciò che io modestamente ma sinceramente avevo espresso restava: ed era il concetto di una Francia magnanima e cavalleresca, cho, raro esempio nel mondo, combatteva qualche volta per un'idea. Egli aveva afferrata l'immagino e tosto formata in un piccolo dramma. Daccanto a quella luce era necessario un po' d'ombra; di rincontro alla Francia generosa l'Italiano ingrato; in mezzo ai due, lui, gran giustiziere bonario, che mi rimandava a casa, mi perdonava, dopo avermi esposto una mezz'ora alle turbe, dicendo: ecce homo! E dico gran giustiziere bonario, perchè in fondo non aveva voluto nuocermi, non mi aveva indicato per nome e cognome.

 

 

 




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