I.
Perchè si è ficcato tra uomini e bestie il
profilo del vecchio Dumas? perchè un cenno critico tra i racconti d'estate?
Perchè.... perchè.... Sarebbero molti, i perchè; ma voi, amici lettori,
contentatevi di questi due: perchè c'era anche del racconto, in quelle pagine,
e perchè infine il vecchio Dumas fu un uomo.
Ma qui sento già uno di voi altri che mi
dice:
- Sì, lo ammettiamo, fu un uomo. E la bestia,
da mettergli accanto? Poc'anzi, nella storia d'Ossian e Malvina, abbiamo veduto
che la bestia c'era, e si dipingeva da sè. Ma qui la bestia non si è ancora
veduta.-
Ebbene, o lettori, se non si è veduta, si
vedrà. Non senza un'alta ragione il vecchio romanziere francese è venuto dianzi
in iscena. C'è ancora, o vi racconterà egli stesso una storia, di quelle che
raccontava così bene, come la principessa delle Mille e una notte.
Ricordo che una delle tante volte che il gran
narratore fu a Genova, gli fu improvvisata una cena al Tunnel. Era il Tunnel
una società di buontemponi, tutta gente per bene, negozianti, artisti,
ingegneri, avvocati, parecchi scribi, e, la Dio grazia, nessun fariseo; i quali
si riposavano la notte, in allegra compagnia, delle fatiche e dei grattacapi
del giorno. Ci capitava, quando era di passaggio a Genova, anche sir James
Hudson, ministro d'Inghilterra presso la corte di Torino, gran diplomatico,
gran conoscitore di cose artistiche, e gran cuoco per il risotto alla milanese.
È utile che la posterità conosca questo particolare. Sir James non era un
Lucullo, nè un Apicio; amava assai più la compagnia, che non amasse la cena; ma
è un fatto che sapeva cuocere appuntino il risotto, ed io ve ne posso parlare
con cognizione di causa, io che lo vidi metter mano alle cazzeruole, come altri
accudire alla pentola diplomatica. In fondo, era tutta cucina; un buon risotto
ha i suoi pregi, e la diplomazia non esclude i pasticci.
Povero sir James, che mi diceva un giorno,
sotto la tenda del Caffè d'Italia: - "Fate un articolo prendendo per tema
il primo verso del Don Giovanni di lord Byron: I want a hero, an
uncommon want, ma levate l'eroe e mettete: government. Così direte:
ho bisogno di un governo, uno straordinario bisogno!" Se voi, lettori,
credete che sir James non dovesse metter bocca nelle nostre faccende, io ardirò
rispondere che n'aveva acquistato il diritto, adoperandosi come fece, in
momenti gravissimi, a vantaggio della unità italiana. Amava la patria nostra,
quell'inglese, che pareva un bell'italiano del Cinquecento; l'aiutò
gagliardamente nei consigli; ci rimase, rinunziando l'ufficio, quando
disegnarono di mandarlo altrove; non potè morirci, per un capriccio del caso;
ma volle esserci sepolto. Nobile animo, gran cuore, cavaliere perfetto, tutto
sincerità nella vita, e culto intelligente della bellezza, nella natura e
nell'arte! Calmo nella espressione del suo pensiero, si riscaldava un pochino
quando gli parlavano del governo italiano, che non sapeva fare una politica da
condurre a Venezia, nè a Roma. Era sua opinione che dopo la morte del conte di
Cavour l'Italia non avesse più avuto un governo, e che perciò ella potesse
dire, anche guastando un verso del Byron: "I want a government, an
uncommon want." - L'opinione non è di un inglese soltanto, ma anche di
sei o sette italiani. Peccato che non siano nove! Si potrebbe comporre un
gabinetto. Ma non entriamo in politica, o, se ci siamo entrati, esciamone
subito. L'argomento è tutt'altro che estivo.
Ritorniamo al Dumas. Anch'egli era al Tunnel,
forte anch'egli nel risotto, ma più forte, anzi unico, nella frittata col
prosciutto. Il potente romanziere fu quella notte di un umore eccellente. Non
c'erano letterati a sentirlo, ed egli si lasciava perfino interrogare su
argomenti di letteratura. Per esempio, un negoziante di grani voleva sapere da
lui che cosa ci fosse di vero nel Conte di Montecristo. - Tutto è vero,
in quel libro; - rispondeva amabilmente il Dumas. - Io non ho fatto altro che
trascrivere.
- E i Tre moschettieri? - gli
domandavano, - Come avete fatto a
scriverli?
- Così e cosà; - replicava egli bonariamente,
- prendendo una risina di carta, una bottiglia d'inchiostro e un mazzo di
penne.
- E nient'altro?
- Ah, sì, dell'altro. Infatti, non mi bastò
la risma di carta; non mi bastò la bottiglia d'inchiostro; non mi bastò il
mazzo di penne; perciò dovetti rinnovare la provvista un paio di volte.-
A voi parrà che non dicesse troppo, intorno
al suo metodo; eppure diceva tutto. Alessandro Dumas non era un letterato, non
era uno scrittore, secondo i cànoni antichi e moderni; era una forza della
natura, che si metteva in moto con carta, penna e calamaio; e così, senz'altro
aiuto, faceva prodigi, come l'elettricità, come il vapore, come l'aria
compressa.
Dalla letteratura, il nostro ospite passò a
discorrer di caccia. A Genova, chi nol sa? ci son più cacciatori che uccelli.
Ma i Genovesi non si spaventano per questa mancanza di selvaggina, e per trovar
la pernice o la beccaccia che la statistica della natura ha assegnata ad ogni
cacciator genovese, andrebbero in capo al mondo. Forse è per questa ragione che
s'incontra un genovese in ogni angolo del globo terracqueo. Cristoforo Colombo,
essendogli domandato alla corte di Spagna che cosa lo avesse maravigliato di
più nelle terre da lui scoperte di là dall'Atlantico, ingenuamente rispose: -
"di non averci trovato un genovese." - Ma un cortigiano fu pronto a
dirgli, e molto giudiziosamente: - "Vedeteci un atto di pura gentilezza,
ammiraglio. Il genovese non voleva far torto ad un suo così illustre
concittadino, che andava lui a scoprirle."-
La caccia era per Alessandro Dumas un
argomento prediletto, un tema su cui la memoria dell'uomo e la fantasia del
romanziere ricamavano a gara tutte le variazioni possibili e immaginabili. In
mezzo a cento racconti d'avventure cinegetiche, gli avvenne naturalmente di
parlare della necessità di un buon fucile, ma assai più della necessità di un
buon cane. Alessandro Dumas amava il cane, e ne tessè un panegirico.
- Vedete? - diss'egli a un certo punto della
sua perorazione. - Io ho perdonato perfino il suo orgoglio ad Alfonso di
Lamartine, poichè egli si è lasciato imprestare questa massima profonda,
veramente degna di un Larochefoucauld: Plus je connais les hommes, et plus
j'aime les chiens. Il mio amico Teofilo Gautier disse anche meglio di così:
Le chien est tout ce qu'il y a de mieux dans l'homme.-
Con queste idee sul cane, figuratevi com'egli
fosse contrario allo strumento medievale della museruola.
- Libertà! - diceva egli. - Sia libertà per
tutti, sulla terra; anche per i cani. Ma questa, bisogna andarla a cercare fra
i Turchi. Se vedeste a Costantinopoli! Laggiù i cani son liberi, senza
museruola, senza collare, senza padrone. Non molestati, non molestano nessuno;
rispettano tutte le leggi, e non manifestano per i monumenti patrii un
disprezzo maggiore di quello che si manifesti per tutti gli altri, di Parigi,
di Londra, o di Vienna, dai cani di queste civili metropoli. Quanto al mordere,
non è neanche il caso di parlarne, e nessun giornale della sera sente il
bisogno di atterrire il popolino col racconto d'una scena d'idrofobia. A questa
gentilezza i cani di Costantinopoli rispondono degnamente, non attaccando
l'idrofobia a nessun critico da un soldo. Già, lasciatevelo dire, l'idrofobia è
un mito, come il colera. Ci si crede, a forza di sentirne parlare; e così nasce
nel volgo la paura di ciò che non è.-
Ritornando alle imprese cinegetiche, uno
degli astanti escì fuori col ricordo inevitabile di Nembrot, potente cacciatore
nel cospetto di Dio.
- E perchè questa riputazione? - chiese il
Dumas.
- La Bibbia, - rispose quell'altro, - ce ne
ha tramandato il ricordo.
- Lo so bene; ma perchè ha creduto la Bibbia
di tramandarcelo? In altri termini, perchè meritò, questo signor Nembrot, di
esser citato da lei come il più valente dei cacciatori? Voi non lo sapete,
amici miei? Ebbene, ve lo dirò io. È una storia che ho raccolta in Persia.
- In Persia! - esclamarono parecchi. - E
quando ci siete stato?
- Ma foi, je ne sais plus. Ho fatto due volte il viaggio di Teheran. Non
so nemmeno se la storia di cui parlo mi è stata raccontata nel primo o nel
secondo viaggio. Ricordo che ero ospite del mio buon amico e lettore costante
Nassir-Eddin, figlio di Moammed Kan, e nipote di quel virtuosissimo principe
Abbas-Mirza, che Allà ed Oromaze festeggino a gara nei rispettivi soggiorni
celesti, poichè egli, come Islamita moderno e come discendente degli antichi
Persiani, ha diritto a questi due trattamenti. Abbas-Mirza aveva letto i miei
primi drammi; sapeva Antony a memoria, e questo fatto, così onorevole
por me, era una tradizione di famiglia alla corte di Teheran, quando io visitai
la capitale della Persia. Nassir-Eddin, il suo degno nipote, avrebbe desiderato
che io rimanessi al suo fianco, storiografo del suo regno e ministro della sua
luce. Mi vedete voi, come io mi sono intravveduto per un momento, istoriografo
di Persia, come Firdusi, ministro di Stato, visir, insignito del gran cordone
del Sole e del Leone, con un serraglio, e dei diamanti nel mio berretto da
notte? Ma queste son chiacchiere. Nassir-Eddin amava la caccia e mi conduceva
sempre con sè. Ma era una caccia coi falchi, e a me piaceva poco; anzi diciamo
che non mi piaceva affatto. "Tu sei come Nembrot" - mi disse
Nassir-Eddin. - "È permesso di chiedere a Vostra Altezza, - risposi, - in
che cosa io mi rassomigli a quel prototipo dei cacciatori?" -
"Nembrot non credeva che al suo cane; - mi replicò benevolmente lo Scià. -
Conosci tu la leggenda?" - "No, sire; ma se c'è una leggenda, io vi
supplico di non defraudarmene. Ho fatto a bella posta il viaggio della
Svizzera, per raccogliere dagli albergatori tutte le leggende del
vicinato." - "Bene; - mi rispose Nassir-Eddin; - te la racconterò dopo
il consiglio dei ministri; al quale non ti consiglio di assistere, perchè è
roba da far dormire in piedi". - "Figuriamoci seduti, Maestà!" -
replicai. Ed ora, figuratevi anche voi che impazienza fosse la mia, poichè
Nassir-Eddin mi ebbe fatta quella promessa. Una leggenda persiana, anzi
babilonese! e raccontata da un collega coronato! Io non istavo alle mosse.
Presi quel giorno i ministri ad un per uno, e dissi loro: - "Fatemi il
piacere, Eccellenze, non rompete oggi la testa al monarca con le vostre tiritere
settimanali; Sua Maestà deve raccontarmi una leggenda di caccia." -
Ferruk-kan, il gran visir, mi era riconoscente, per aver io ricusato il suo
posto. Sorrise con benevolenza e mi promise di spicciar le cose in mezz'ora.
Sir James Hudson capirà che quello dovette essere un bello sforzo.
- No, sapete? - disse placidamente sir James.
- Per provvedere agli affari di Persia, mezz'ora è anche troppo, e Sua
Eccellenza Ferrukkan non vi ha neanche favorito. Per quelli di uno Stato
europeo, piuttosto!... Il lavoro è tutt'uno; ma si usa forse chiacchierare una
mezz'ora di più.
- Quando si dice non conoscer gli usi! -
esclamò Alessandro Dumas. - Le vostre informazioni mi serviranno per un'altra
volta, milord. Eccovi intanto la leggenda, come Nassir-Eddin ha avuto la bontà
di raccontarmela.
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