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Anton Giulio Barrili
Uomini e bestie: racconti d'estate

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  • NEMBROT E IL SUO CANE
    • I.
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I.

 

Perchè si è ficcato tra uomini e bestie il profilo del vecchio Dumas? perchè un cenno critico tra i racconti d'estate? Perchè.... perchè.... Sarebbero molti, i perchè; ma voi, amici lettori, contentatevi di questi due: perchè c'era anche del racconto, in quelle pagine, e perchè infine il vecchio Dumas fu un uomo.

Ma qui sento già uno di voi altri che mi dice:

- Sì, lo ammettiamo, fu un uomo. E la bestia, da mettergli accanto? Poc'anzi, nella storia d'Ossian e Malvina, abbiamo veduto che la bestia c'era, e si dipingeva da . Ma qui la bestia non si è ancora veduta.-

Ebbene, o lettori, se non si è veduta, si vedrà. Non senza un'alta ragione il vecchio romanziere francese è venuto dianzi in iscena. C'è ancora, o vi racconterà egli stesso una storia, di quelle che raccontava così bene, come la principessa delle Mille e una notte.

Ricordo che una delle tante volte che il gran narratore fu a Genova, gli fu improvvisata una cena al Tunnel. Era il Tunnel una società di buontemponi, tutta gente per bene, negozianti, artisti, ingegneri, avvocati, parecchi scribi, e, la Dio grazia, nessun fariseo; i quali si riposavano la notte, in allegra compagnia, delle fatiche e dei grattacapi del giorno. Ci capitava, quando era di passaggio a Genova, anche sir James Hudson, ministro d'Inghilterra presso la corte di Torino, gran diplomatico, gran conoscitore di cose artistiche, e gran cuoco per il risotto alla milanese. È utile che la posterità conosca questo particolare. Sir James non era un Lucullo, un Apicio; amava assai più la compagnia, che non amasse la cena; ma è un fatto che sapeva cuocere appuntino il risotto, ed io ve ne posso parlare con cognizione di causa, io che lo vidi metter mano alle cazzeruole, come altri accudire alla pentola diplomatica. In fondo, era tutta cucina; un buon risotto ha i suoi pregi, e la diplomazia non esclude i pasticci.

Povero sir James, che mi diceva un giorno, sotto la tenda del Caffè d'Italia: - "Fate un articolo prendendo per tema il primo verso del Don Giovanni di lord Byron: I want a hero, an uncommon want, ma levate l'eroe e mettete: government. Così direte: ho bisogno di un governo, uno straordinario bisogno!" Se voi, lettori, credete che sir James non dovesse metter bocca nelle nostre faccende, io ardirò rispondere che n'aveva acquistato il diritto, adoperandosi come fece, in momenti gravissimi, a vantaggio della unità italiana. Amava la patria nostra, quell'inglese, che pareva un bell'italiano del Cinquecento; l'aiutò gagliardamente nei consigli; ci rimase, rinunziando l'ufficio, quando disegnarono di mandarlo altrove; non potè morirci, per un capriccio del caso; ma volle esserci sepolto. Nobile animo, gran cuore, cavaliere perfetto, tutto sincerità nella vita, e culto intelligente della bellezza, nella natura e nell'arte! Calmo nella espressione del suo pensiero, si riscaldava un pochino quando gli parlavano del governo italiano, che non sapeva fare una politica da condurre a Venezia, a Roma. Era sua opinione che dopo la morte del conte di Cavour l'Italia non avesse più avuto un governo, e che perciò ella potesse dire, anche guastando un verso del Byron: "I want a government, an uncommon want." - L'opinione non è di un inglese soltanto, ma anche di sei o sette italiani. Peccato che non siano nove! Si potrebbe comporre un gabinetto. Ma non entriamo in politica, o, se ci siamo entrati, esciamone subito. L'argomento è tutt'altro che estivo.

Ritorniamo al Dumas. Anch'egli era al Tunnel, forte anch'egli nel risotto, ma più forte, anzi unico, nella frittata col prosciutto. Il potente romanziere fu quella notte di un umore eccellente. Non c'erano letterati a sentirlo, ed egli si lasciava perfino interrogare su argomenti di letteratura. Per esempio, un negoziante di grani voleva sapere da lui che cosa ci fosse di vero nel Conte di Montecristo. - Tutto è vero, in quel libro; - rispondeva amabilmente il Dumas. - Io non ho fatto altro che trascrivere.

- E i Tre moschettieri? - gli domandavano,  - Come avete fatto a scriverli?

- Così e cosà; - replicava egli bonariamente, - prendendo una risina di carta, una bottiglia d'inchiostro e un mazzo di penne.

- E nient'altro?

- Ah, sì, dell'altro. Infatti, non mi bastò la risma di carta; non mi bastò la bottiglia d'inchiostro; non mi bastò il mazzo di penne; perciò dovetti rinnovare la provvista un paio di volte.-

A voi parrà che non dicesse troppo, intorno al suo metodo; eppure diceva tutto. Alessandro Dumas non era un letterato, non era uno scrittore, secondo i cànoni antichi e moderni; era una forza della natura, che si metteva in moto con carta, penna e calamaio; e così, senz'altro aiuto, faceva prodigi, come l'elettricità, come il vapore, come l'aria compressa.

Dalla letteratura, il nostro ospite passò a discorrer di caccia. A Genova, chi nol sa? ci son più cacciatori che uccelli. Ma i Genovesi non si spaventano per questa mancanza di selvaggina, e per trovar la pernice o la beccaccia che la statistica della natura ha assegnata ad ogni cacciator genovese, andrebbero in capo al mondo. Forse è per questa ragione che s'incontra un genovese in ogni angolo del globo terracqueo. Cristoforo Colombo, essendogli domandato alla corte di Spagna che cosa lo avesse maravigliato di più nelle terre da lui scoperte di dall'Atlantico, ingenuamente rispose: - "di non averci trovato un genovese." - Ma un cortigiano fu pronto a dirgli, e molto giudiziosamente: - "Vedeteci un atto di pura gentilezza, ammiraglio. Il genovese non voleva far torto ad un suo così illustre concittadino, che andava lui a scoprirle."-

La caccia era per Alessandro Dumas un argomento prediletto, un tema su cui la memoria dell'uomo e la fantasia del romanziere ricamavano a gara tutte le variazioni possibili e immaginabili. In mezzo a cento racconti d'avventure cinegetiche, gli avvenne naturalmente di parlare della necessità di un buon fucile, ma assai più della necessità di un buon cane. Alessandro Dumas amava il cane, e ne tessè un panegirico.

- Vedete? - diss'egli a un certo punto della sua perorazione. - Io ho perdonato perfino il suo orgoglio ad Alfonso di Lamartine, poichè egli si è lasciato imprestare questa massima profonda, veramente degna di un Larochefoucauld: Plus je connais les hommes, et plus j'aime les chiens. Il mio amico Teofilo Gautier disse anche meglio di così: Le chien est tout ce qu'il y a de mieux dans l'homme.-

Con queste idee sul cane, figuratevi com'egli fosse contrario allo strumento medievale della museruola.

- Libertà! - diceva egli. - Sia libertà per tutti, sulla terra; anche per i cani. Ma questa, bisogna andarla a cercare fra i Turchi. Se vedeste a Costantinopoli! Laggiù i cani son liberi, senza museruola, senza collare, senza padrone. Non molestati, non molestano nessuno; rispettano tutte le leggi, e non manifestano per i monumenti patrii un disprezzo maggiore di quello che si manifesti per tutti gli altri, di Parigi, di Londra, o di Vienna, dai cani di queste civili metropoli. Quanto al mordere, non è neanche il caso di parlarne, e nessun giornale della sera sente il bisogno di atterrire il popolino col racconto d'una scena d'idrofobia. A questa gentilezza i cani di Costantinopoli rispondono degnamente, non attaccando l'idrofobia a nessun critico da un soldo. Già, lasciatevelo dire, l'idrofobia è un mito, come il colera. Ci si crede, a forza di sentirne parlare; e così nasce nel volgo la paura di ciò che non è.-

Ritornando alle imprese cinegetiche, uno degli astanti escì fuori col ricordo inevitabile di Nembrot, potente cacciatore nel cospetto di Dio.

- E perchè questa riputazione? - chiese il Dumas.

- La Bibbia, - rispose quell'altro, - ce ne ha tramandato il ricordo.

- Lo so bene; ma perchè ha creduto la Bibbia di tramandarcelo? In altri termini, perchè meritò, questo signor Nembrot, di esser citato da lei come il più valente dei cacciatori? Voi non lo sapete, amici miei? Ebbene, ve lo dirò io. È una storia che ho raccolta in Persia.

- In Persia! - esclamarono parecchi. - E quando ci siete stato?

- Ma foi, je ne sais plus. Ho fatto due volte il viaggio di Teheran. Non so nemmeno se la storia di cui parlo mi è stata raccontata nel primo o nel secondo viaggio. Ricordo che ero ospite del mio buon amico e lettore costante Nassir-Eddin, figlio di Moammed Kan, e nipote di quel virtuosissimo principe Abbas-Mirza, che Allà ed Oromaze festeggino a gara nei rispettivi soggiorni celesti, poichè egli, come Islamita moderno e come discendente degli antichi Persiani, ha diritto a questi due trattamenti. Abbas-Mirza aveva letto i miei primi drammi; sapeva Antony a memoria, e questo fatto, così onorevole por me, era una tradizione di famiglia alla corte di Teheran, quando io visitai la capitale della Persia. Nassir-Eddin, il suo degno nipote, avrebbe desiderato che io rimanessi al suo fianco, storiografo del suo regno e ministro della sua luce. Mi vedete voi, come io mi sono intravveduto per un momento, istoriografo di Persia, come Firdusi, ministro di Stato, visir, insignito del gran cordone del Sole e del Leone, con un serraglio, e dei diamanti nel mio berretto da notte? Ma queste son chiacchiere. Nassir-Eddin amava la caccia e mi conduceva sempre con . Ma era una caccia coi falchi, e a me piaceva poco; anzi diciamo che non mi piaceva affatto. "Tu sei come Nembrot" - mi disse Nassir-Eddin. - "È permesso di chiedere a Vostra Altezza, - risposi, - in che cosa io mi rassomigli a quel prototipo dei cacciatori?" - "Nembrot non credeva che al suo cane; - mi replicò benevolmente lo Scià. - Conosci tu la leggenda?" - "No, sire; ma se c'è una leggenda, io vi supplico di non defraudarmene. Ho fatto a bella posta il viaggio della Svizzera, per raccogliere dagli albergatori tutte le leggende del vicinato." - "Bene; - mi rispose Nassir-Eddin; - te la racconterò dopo il consiglio dei ministri; al quale non ti consiglio di assistere, perchè è roba da far dormire in piedi". - "Figuriamoci seduti, Maestà!" - replicai. Ed ora, figuratevi anche voi che impazienza fosse la mia, poichè Nassir-Eddin mi ebbe fatta quella promessa. Una leggenda persiana, anzi babilonese! e raccontata da un collega coronato! Io non istavo alle mosse. Presi quel giorno i ministri ad un per uno, e dissi loro: - "Fatemi il piacere, Eccellenze, non rompete oggi la testa al monarca con le vostre tiritere settimanali; Sua Maestà deve raccontarmi una leggenda di caccia." - Ferruk-kan, il gran visir, mi era riconoscente, per aver io ricusato il suo posto. Sorrise con benevolenza e mi promise di spicciar le cose in mezz'ora. Sir James Hudson capirà che quello dovette essere un bello sforzo.

- No, sapete? - disse placidamente sir James. - Per provvedere agli affari di Persia, mezz'ora è anche troppo, e Sua Eccellenza Ferrukkan non vi ha neanche favorito. Per quelli di uno Stato europeo, piuttosto!... Il lavoro è tutt'uno; ma si usa forse chiacchierare una mezz'ora di più.

- Quando si dice non conoscer gli usi! - esclamò Alessandro Dumas. - Le vostre informazioni mi serviranno per un'altra volta, milord. Eccovi intanto la leggenda, come Nassir-Eddin ha avuto la bontà di raccontarmela.

 

 

 




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