II.
Nembrot era figlio di Cus; il quale era
figlio di Cam; e questi era figlio di Noè, il più venerabile dei patriarchi, e
a tempo avanzato anche il più gaio; che scampò dalla prima acqua, per bere il
primo vino. E Nembrot regnò in Babilonia, fondata allora allora, in Erec, in
Accad e in Calne, città più antiche, ma anche più sudicie, alle quali venne in
buon punto a dare una ripulita il diluvio.
Nembrot fu un re come tant'altri, e le
cronache non ci dicono nulla che lo mostri da più o da meno dei colleghi. Come
cacciatore, fu una vera potenza. Perciò si dice ancora in proverbio: "come
Nembrot, potente cacciatore nel cospetto del Signore." - Imperocchè egli,
fin dagli anni suoi giovanili, andava a caccia ogni dì, e come ebbe toccati i
cento vent'anni (l'età della ragione in quei tempi) non c'era un re, nè un
suddito, in tutta la gran valle del Sennaar, che lo superasse di destrezza e di
fortuna nelle imprese cinegetiche. E si diceva tra le genti: O come può esser
egli un così grande cacciatore, essendo re. Il Signore che gli ha data la
sapienza, occhio dell'anima, per reggere il suo popolo, gli ha dunque dato
anche l'occhio, sapienza della fronte, per vedere la selvaggina da per tutto?
Ed era proprio così; in ogni macchia del suo
reame, Nembrot faceva strage di quadrupedi e di volatili di tutte le
generazioni che nei tempi addietro erano escite dall'arca. Ogni giorno il gran
re ritornava alla sua reggia di Babilonia, o alla sua villa di Calne, con la carniera
piena di starne, beccacce, pernici, quaglie, ed altri uccelli di passo. E lo
seguivano carri zeppi di antilopi, che sono ottime arrostite nel forno, di
leoni e d'ippopotami, dei quali sono eccellenti le zampe, cotte nella brace, e
poi condite con l'olio o col pepe. Vedendo giungere tutta quella grazia di Dio,
il capo cuoco delle cucine reali si stropicciava le mani e diceva:
- Anche oggi, come ieri, il re provvede. Ecco
una lista civile che non corre pericolo di disavanzo, per il capitolo della
tavola.-
Voi ora amerete sapere il segreto di tanta
destrezza e fortuna venatoria del re. Iddio non gli aveva dato solamente un
occhio infallibile. Iddio aveva fatto meglio; gli aveva dato un buon cane.
Ora il cane di Nembrot si chiamava
Assurbanipal. Un po' lungo, quel nome; ma era anche lungo il cane. E poi,
Nembrot lo chiamava or col principio, or con la fine del nome; così non aveva
da stancarsi a pronunziarlo intiero; e il cane accorreva lo stesso. Era un cane
dotato di una intelligenza straordinaria. Per tutto il Sennaar si diceva: -
"È un cane a cui non manca che la parola".-
Ma il cane, intelligente com'era, non si
doleva punto di quel lieve difetto. Egli sapeva benissimo che Iddio aveva fatto
ciò per suo bene. Se avesse posseduto il dono della parola, lo avrebbero fatto
sicuramente deputato. Perchè allora si usava ancora eleggere dei deputati che
parlassero. Assurbanipal aveva poi la sua brava superbia giustificata anche dal
nome. Se non lo sapete, Assurbanipal, nel vecchio idioma, anteriore alla
confusione delie lingue, significa: "Fatti in là che mi tingi". Quel
portento di cane non voleva nessuno al suo fianco; non aveva superiori; non
conosceva rivali.
Nembrot amava quel cane. Quasi sarebbe
inutile il dire che Assurbanipal fiutava la lepre cento miglia discosto. Quando
aveva levata la selvaggina, si tirava prudentemente da un lato, perchè il re
suo padrone potesse scoccare la freccia.
Questo era anche un atto di prudenza
lodevole, perchè Nembrot era un potente cacciatore, ma anche a lui la mano, o
il vento, poteva far deviare il colpo. E le saette, come narrano i testi
biblici, erano acute, in mano al potente.
Tori selvatici, leoni, tigri, gazzelle,
antilopi, lepri, tutto uccideva il re, nella grande famiglia dei quadrupedi;
quaglie, pernici, colombi, anitre, beccacce, nella grande famiglia dei
volatili. Non uccellava a pispole, il cacciatore superbo. Al più al più,
nell'autunno, faceva un'eccezione per i beccafichi, e questo in grazia della
bontà della carne. Ma qualche volta venivano le cattive giornate anche per lui,
le giornatacce in cui soffia il vento della disgrazia, e non si vede un'aquila
in cielo, nè una lucertola in terra. Allora il re rinunziava al suo passatempo;
sputava sul nome del maligno, e se ne ritornava alla reggia. Ma non si
disanimava Assurbanipal. L'ottimo dei cani seguitava la caccia per conto suo.
Per altro, in quelle occasioni non si tirava più da un lato, quando aveva
scoperta la lepre; le saltava addosso e la mangiava lui, senza scorticarla
neanche.
Non divorava tutto, badate. Non vorrei che lo
credeste un ghiottone. Gli piaceva la lepre anche senza intingoli, mangiata sul
posto; forse perchè non era sicuro di mangiarla autentica dagli osti di
Babilonia. Ma risparmiava la carne degli elefanti, come troppo dura, e quella
dei leoni, come troppo tigliosa. Un giudizio, aveva quel cane, un giudizio da
far strabiliare. Quando si vanta tanto l'intelligenza di certi cani che
giuocano a dòmino, bisogna dire che non si conosce affatto la prodezza di Assurbanipal.
Già, incominciamo ad osservare che egli non si perdeva in certi vani trastulli,
giuochi di memoria e di destrezza minuta, indegni del grado ch'egli occupava
nella scala degli esseri. Era nato per la caccia, non per un tavolino da
giuoco, o per uno sgabello da saltimbanchi. E intendeva tutti i desideri del
suo padrone, purchè questi si degnasse di esprimerli con parole formate. Li
indovinava, anche; ma di rado, e solamente per caso.
Egli, per esempio, non indovinò la cagione
per cui un bel giorno Nembrot si alzò da letto con una cera da funerale. Non
indovinò perchè quel giorno il suo padrone lasciasse l'arco in un angolo e il
turcasso appeso alla parete. Non indovinò, a farvela breve, che il suo padrone
era innamorato. Avete un bel dire che ci voleva poco a capirla, vedendolo
sempre là, nel cortile, con gli occhi fissi a guardare in alto. Qui si domanda
troppo alla intelligenza di un cane, sia pure il re dei cani, come
Assurbanipal.
Ma egli finì pure con averne notizia,
fiutando nel vicinato, e udendo i discorsi dei cortigiani. Nembrot, il potente
cacciatore, non prendeva più diletto alla caccia. Stava i giorni intieri e le
notti col naso in aria e gli occhi al cielo. Nembrot era innamorato. Ah, bene!
una cosa naturalissima. Si ha un cuore in petto, e quel cuore o presto o tardi
sente lo stimolo della passione. Ma innamorato di chi? Assurbanipal ci perdeva
il suo latino.
D'una figlia degli uomini? Pazzo era il re,
se per una di queste si buttava alla disperazione. Quale tra le figlie degli
uomini avrebbe potuto, o voluto, resistere ai desiderii del re? No, non era
possibile che fosse questa, la cagione del suo intenso dolore. D'una figlia dei
cieli, forse? Ma questa, come l'aveva egli veduta? e dove? Sicuramente
l'avrebbe veduta anche Assurbanipal; perchè da anni ed anni Nembrot non esciva
mai senza il cane.
Mistero, adunque, e per il cane e per gli
uomini. Ma quello che teneva così gelosamente celato agli uomini, Nembrot disse
un giorno al suo cane, vedendolo sdraiato a' suoi piedi, col muso appoggiato
sulle zampe anteriori e gli occhi fissi nel volto del signor suo, in atto di
muta interrogazione.
- Tu mi guardi, Assur, e non sai.... e
vorresti sapere perchè non vado più a caccia. Ah, Banipàl, se tu sapessi!-
E qui un sospirone tanto fatto. Il cane levò
la testa e guardò il padrone, con aria di dirgli: prosegui, versa la piena
degli affetti nel seno del fedele tuo cane.
- Povero Assur! - riprese il re. - Pare che
tu m'intenda e non domandi altro che di poter lambire la ferita del mio cuore.
Non c'è modo, sai, non c'è modo di risanarla; o io non lo vedo, e tu non
potresti rintracciarmi il rimedio. Amo disperatamente, o Banipàl. E sai tu
perchè amo disperatamente? Perchè amo, desidero, voglio.... la Luna. Ti
maravigli, Assur? Ebbene, maravìgliati dei fatti miei, dammi pure dello sciocco
a tutto pasto; io amo la moglie di Sam, del dio che risplende nella vôlta dei
cieli. L'amo, la desidero, la voglio. Sai che la vedevo sempre, sul finir della
notte, uscendo con te dalla reggia, per avviarmi alla macchia. Avevo un occhio
a te e l'altro a lei. Perdonami, Banipàl, più spesso avevo tutt'e due gli occhi
a lei; non ricordavo neanche più la tua esistenza. Per un cacciatore, questo è
un cattivo segno. Un cacciatore che ama una donna più del suo cane, non è più un
cacciatore. Ebbene, io fui così cieco per te; non vedevo che lei. Ad ogni
radura del bosco, vedevo il suo volto bianco, la sua guancia tondeggiante, il
suo occhio vigile e buono. Così dev'essere sempre l'occhio della donna per
l'uomo ch'ella ama.
Ed ella mi ama, io lo so; mi ama, o Banipàl,
ma non può scendere fino a me. Il feroce marito la tiene incatenata lassù con
catene d'argento. Ed io la voglio, Assur, e morrò se non mi sarà dato di baciar
la sua guancia. Compiangimi, o Banipàl, compiangimi fin d'ora, perchè presto tu
non avrai più padrone. Prima che passi il mese, io sarò fatto l'ombra di me
stesso; prima che passi l'anno, quest'ombra sparirà dalla vista dei viventi. Ma
il re, prima di morire, comanderà che nessuno ardisca di seppellirlo nella tomba
di Sippara. Voglio esser doposto all'aperto, sulla piattaforma della torre di
Barsipa, perchè l'occhio del re guardi ancora la Luna, perchè la guancia del re
sia baciata ancora dall'amor mio.-
Così parlò Nembrot, e il fedele Assurbanipal
fu preso da un senso di tristezza ineffabile. Mise un lamento quasi umano,
mosse la coda e fece, l'atto di voltarsi, per andar verso l'uscio.
- Dove vai, Assur? - chiese il re.
Il cane si rivolse al suo signore, e spiccò
un salto, aprendo la bocca e richiudendola, quasi volesse accennare di prendere
qualche cosa in alto.
- Ah, t'intendo, Banipàl, t'intendo. Tu
vorresti metterti in caccia, e prender la Luna.-
Assurbanipal spiccò un secondo salto, mugolò
e scodinzolò, per la gioia di vedersi capito a volo dal suo potente signore.
- Tu dunque ti sentiresti da tanto? - riprese
Nembrot. - Lo credo, Assur; il cuore non ti manca. Ma ohimè, per lungo che tu
sia, non arriveresti alla Luna. Vedi? Sono andato stanotte sulla torre di
Barsipa. È alta, molto alta; ma la Luna è ancor troppo lontana. Bisognerebbe
andare sui monti più alti della terra, e trovar quello dove essa va qualche
volta a coricarsi.-
Assurbanipal non istette alle mosse. Oramai
ne sapeva abbastanza. Fuggì, senza dar retta alle nuove chiamate del padrone.
Pareva che dicesse, fuggendo: - Sì, ho capito, lascia fare a me.-
Era un cane dotato d'intelligenza
straordinaria, già ho avuto l'onore di dirvelo. Nembrot era il re degli uomini,
ma Assurbanipal era il re dei cani. Non andò molto lontano, quella notte;
giunto in mezzo alla pianura del Sennaar, si piantò a sedere, in una posizione
scultoria, col muso in alto, per studiare le abitudini della signora, e
abbaiandole ad ogni tanto, come per ridestare la sua attenzione. Ma la signora
non badava a lui. Era bella, e godeva di farsi ammirare. A un certo punto parve
occuparsi della sua acconciatura di notte, poichè Assurbanipal vide che si
accostava un diamante al capo, il diamante di Istar, altrimenti chiamato la
Stella del mattino. Come lo ebbe in capo, stette ancora un pochino a
pavoneggiarsi ne' cieli; poi calò lentamente dietro un'alta catena di monti.
Qual era la vetta su cui andava a coricarsi
la bella? Assurbanipal non istette a pensarci più che tanto, e si avviò verso
quella catena di monti. Erano i monti di Armenia, figuratevi! Da lontano
parevano una costa sola; ma da vicino, ci sarebbe stato da impazzire, a voler
indovinare qual fosse il punto buono. Il viaggio del cane fu lungo, durò giorni
e notti in buon numero. Quante volte passò l'Eufrate, e quante il Tigri! Erano fiumi
rispettabili; ma egli si buttava risolutamente a nuoto, come un cane di
Terranuova, e passava sull'altra sponda. Intanto beveva. Il cibo, poi, lo
trovava anche per via; ora sbranando un leone, ora mozzando la proboscide di un
elefante. Alle lepri non badava, che lo avrebbero sviato, mentre egli, non
voleva perder d'occhio la meta. Il suo padrone gli aveva detto: - Fra un mese
io sarò l'ombra di me stesso. - Assurbanipal non voleva portar la Luna ad un
uomo incapace di prenderla.
Giunse ai monti, e cercò di orientarsi, da
quel giudizioso animale che egli era. Trattandosi della Luna, egli non poteva
orientarsi che di notte; aspettò dunque la notte, e vegliò attentamente, fino a
che non vide la candida sposa di Sam calare al riposo mattutino dietro una vetta.
Ed egli allora a quella vetta, per vegliarci la notte seguente; ma era stato un
errore d'ottica, il suo; la Luna andava a coricarsi più in là. Da un monte più
lontano, la vide, e da un altro ancora, sempre via via più vicina; ma le abbaiò
inutilmente.
- Diavolo! - pensò Assurbanipal. - Siamo
ancora bassini.-
Si guardò intorno, adocchiò un monte più
alto, e vi corse. La cima era tutta coperta di vecchie legna infracidite, in
mezzo a cui Assurbanipal fiutò odore di confratelli in canatteria. Infatti,
quelle legna che vedeva, erano gli avanzi dell'Arca, ed egli era proprio
sull'ultimo vertice del monte Ararat.
- Se ella non viene qui a coricarsi, non so
più dove dare del muso! - disse il cane tra sè.
La bella signora dei cieli era molto vicina,
tanto vicina che gli pareva di toccarla. Ma anche questo era un inganno ottico.
Aspettò pazientemente che s'avvicinasse dell'altro; e frattanto ammirava la sua
bella faccia bianca, a cui non disdiceva nemmeno una certa smorfietta
canzonatoria.
- Ah sì! vieni ancora un paio di parasanghe
più in qua e vedrai chi riderà meglio, di noi due,-
Ma ella cresceva, accostandosi, ed egli si
allungava inutilmente. Fu un momento che Assurbanipal vide sfuggirsi la preda,
che gli passava rasente. Allora fece uno sforzo che nessun cane aveva fatto mai
prima, che nessun cane doveva più fare dopo di lui; spiccò un salto prodigioso,
e addentò la bella alla guancia.
- Ora non mi scappi più; - ringhiò egli,
nella sua favella canina. - O dente, o mascella!-
Quando ricadde, aveva la sua preda. Ma non
tutta. Mezza, o poco meno, ricurva come le due corna di una giovenca, seguitava
la sua via nello spazio. Era un guaio, perchè un cane da caccia che si rispetti
non deve guastare la selvaggina. Ma se quella era dura, doveva egli lasciarla
andare? e se gli si sfaldava tra i denti, era egli colpevole? Il caso era
nuovo, e non si poteva giudicarne con le vecchie norme cinegetiche. Quando la
preda si difende, e nello sforzo lascia una parte di sè stessa al cane, il cane,
naturalmente, porta quello che può.
Notate, del resto, la sua grande virtù.
Assurbanipal non ne mangiò neanche un pezzettino. E se non portò la Luna
intiera al suo innamorato padrone, la colpa non fu sua, che portò quanto prese.
Ritorniamo a Nembrot, che sospirava frattanto
ogni notte alla Luna. La vide scema, e s'impensierì fortemente. Che cos'era
avvenuto alla faccia divina della moglie di Sam? Perchè fino allora una cosa
simile non si era mai vista. Si adunò tosto il collegio dei Casdim, per
disputare sul fatto e darne sentenza. Ma quei dottissimi uomini disputarono a
lungo, ne pensarono molte e ne dissero altrettante, senza cogliere nel segno.
La più naturale, la più conforme al vero, non entrò nella mente di un solo tra
loro. Disputarono ancora, dieci giorni dopo, quando venne il povero cane,
ansante, trafelato, e depose ai piedi del re i suoi due terzi di Luna.
Ce n'era abbastanza per riconoscerla. Nembrot
abbracciò la sua diletta; ma dimenticò, nell'impeto della passione, perfino di
ringraziare il suo cane. L'ingratitudine dell'uomo verso il cane è antica, come
vedete.
Ma quell'anno fu un grosso guaio, per tutto
il reame di Nembrot. Il sole mandò raggi infuocati alla terra di Sennaar. Quel
Dio corrucciato si vendicava come poteva del rapimento di mezza moglie. Non era
che mezza, o poco più, ve l'ho detto; gliene restava ancor tanta da credersi
bene ammogliato. Ma sì, andate a persuadere un marito di quella fatta! I raggi
infuocati si seguitavano senza posa; si asciugarono i pozzi, ne vennero
carestie, inedie, stragi, pestilenze. Si adunarono i Casdim, disputarono, e
sentenziarono. La colpa era del cane.
- Egli ha offeso Sam; - dicevano essi al re.
- Tema egli oramai quel che può cader dal cielo.
- Dico bene! - esclamò il re, aggrottando le
ciglia. - Perchè sulla terra, me vivo, nessuno gli torcerà un pelo sul dorso.-
Amava il suo cane, dopo tutto. Se non lo
aveva ringraziato subito, perdonategli, poichè egli abbracciava la Luna.
Ma i Casdim erano dotati di spirito
profetico. Le profezie cascavano loro dalle labbra come perle da un vezzo
slegato. "Tema il cane quel che può cadere dal cielo" avevano detto i
Casdim. Era una profezia? era una supposizione generica? A buon conto, Nembrot
pensò subito a proteggere la vita del suo cane, e mandò a chiamare i mastri
muratori, perchè gli fabbricassero un canile più solido.
Fu allora che al gran re cacciatore venne,
come suol dirsi, il male del calcinaccio. Fabbricò un canile che era un'altra
reggia. Come il canile fu fatto, non gli parve bastante, o forse gli parve troppo
larga la piattaforma, e perciò esposta troppo ai colpi di Sam; donde la
necessità di erigere su quel cubo smisurato un cubo minore, e via via sette
cubi, uno più ristretto dell'altro. Quel numero di sette lo avevano anche
indicato i Casdim. Era il numero dei sette pianeti. Facendo un atto di
riverenza ai pianeti, Nembrot si rendeva propizi quei signori, quasi facesse
assegnamento sul loro patrocinio, per sfidare la collera di Sam.
Una torre, per altro, è sempre una torre. Una
piattaforma, poi, per ristretta che sia, è sempre una piattaforma. Nembrot
voleva finir l'opera in punta, perchè non offrisse spazio alle ire del cielo.
Ma egli non conosceva ancora la proprietà delle punte, che è quella di tirare
la elettricità; e per una ragione che facilmente intenderete, senza ch'io pur
ve la dica, non pensò a provvedere quella punta del suo bravo parafulmine.
Capitarono le pioggie equinoziali. Grosse burrasche imperversarono sulla
pianura del Sennaar. Una mezza dozzina di fulmini scapitozzò il colmo della gran
torre; le pioggie fecero il resto, in quel principio di rovina. Si lavorava a
rimediare; ma c'erano troppi architetti, e fu una confusione di lingue. I
medici del'edifizio non s'erano ancor messi d'accordo, quando una bella notte,
filtrando un nuovo acquazzone tra le commessure dei mattoni (anche essi mal
cotti, secondo l'uso), le grosse mura dei cubi inferiori si enfiarono,
cedettero, e la torre non fu più che un ammasso di rovine. Assurbanipal, che
dormiva sugli allori, ci restò sotto, e non ci fu più mezzo di liberarlo dalle
macerie. È vivo? è morto? sicuramente fu perduto per il suo signore.
Nembrot ne fu inconsolabile; ben presto morì
di crepacuore; e Sam riprese la sua parte di Luna, che i Casdim rimandarono in
gran pompa sul monte Ararat.
La bella signora dei cieli si è rappiccicata
la sua guancia. Ma non c'è mastice di ciarlatani che tenga. Quel che è rotto
non si racconcia. Ad ogni tanto la povera signora perde la guancia, e deve
mandare per il cerusico che la saldi. Ciò ricorda ai popoli del Sennaar la
famosa caccia del cane di Nembrot. E perchè tutti i cani, come tutti gli uomini
della terra, si sparsero di là sulla faccia del globo, è naturale che dopo
Assurbanipal essi abbiano preso tutti il costume di abbaiare alla Luna. Ma
invano. Di cani come quello non ne nascono più.
Amici, è grande fortuna avere un buon cane.
Per un cacciatore è tutto. In altri termini, abbiate un buon cane, e sarete un
valente cacciatore, e vi sarà magari dedicato un versetto nel primo giornale
dell'umanità.... quando ne faremo una seconda edizione.-
|