III.
Così disse Alessandro Dumas, e si fermò,
perchè la sua leggenda era finita. Ebbe applausi, come potete pensare; ma io
non ero persuaso.
- Scusate, maestro.... - gli dissi.
- Che? mettereste in dubbio?...
- Tolga Iddio! Credo bene alle leggende che
sono lo spirito stesso della storia, anzi l'unico che si possa cavare da questa
rapa.
- Ah, dicevo bene! - esclamò il narratore.
- Sì, ma vedete, maestro? Le mie restrizioni,
poichè n' ho qualcheduna da fare, non risguardano la leggenda; bensì la
conclusione, la moralità della favola. Io ci ho un aneddoto da raccontare, che
proverebbe contro la vostra conclusione.
- Fuori l'aneddoto, allora.
- Non lo racconterò come voi la leggenda, e
non mi farò applaudire dall'udienza. Ma sarò breve, e sarà l'unico modo per
farmi tollerare.
- Sia breve l'esordio!
- È finito; ed ecco la storia:
Un amico mio, cacciatore appassionato, poteva
stimarsi un buon cacciatore, poichè aveva un buon fucile; si stimò un
cacciatore valente quando ebbe acquistato un cane famoso. Il cane si chiamava
Parigi. Non so se abbaiasse alla Luna, o se avesse mai sperato di prenderla;
certo è che puntava maravigliosamente, e levava a quel dio. L'amico lo comprò
fatto, e lo pagò una bella moneta. Incominciava allora il passo delle quaglie;
ottima occasione per l'amico di provare il suo cane. Noi fummo invitati alla
strage; come testimoni, s'intende. Le quaglie erano calate a migliaia, sul pian
di Varazze, dove accadde il gran fatto; nei prati, nei campi di frumento, nelle
fruttaglie, non c'era che da levare e sparare.
L'amico entra in caccia, e Parigi lo precede
a venticinque passi di distanza. Fiuta una quaglia e si arresta: l'amico dà il
cenno, e Parigi la leva. La quaglia spicca il volo, e l'amico spara. Disgrazia
per il cacciatore, fortuna per la quaglia, che non è toccata, e vola via. Il
cane si volta al cacciatore, lo guarda, ed ha l'aria di dirgli: che è stato?
Si ricomincia; e avanti da capo. Parigi fiuta
un'altra quaglia, si ferma, ha il cenno, e la leva. L'altro spiana il fucile e
lascia andare la botta. Niente! la quaglia non è toccata, e vola via. Parigi si
volta ancora, guarda un po' più lungamente il cacciatore, ed ha l'aria di
dirgli: a che giuoco giuochiamo? Ma egli è un buon cane: ha fatto l'obbligo
suo, e si rimette in cammino tra l'erbe.
Altra quaglia, a cinque passi di là, puntata
e levata. Noi attenti a guardare, pensando in cuor nostro il proverbio: la
seconda si perdona, ma la terza si bastona. Terza schioppettata; niente; la
quaglia è incolume, vola via come le altre. Volete credere? Questa è verità
sacrosanta. Parigi si volta; ma non solamente col muso, bensì con tutto il
corpo, e ritorna indietro, accostandosi al cacciatore e guardandolo fissamente;
lo fiuta anche; pare ohe lo disprezzi, se dobbiamo giudicarne dall'atto. Ma
forse non è che un atto di degnazione signorile, una specie di benservito che
gli si rilascia. Infatti, se ne va, compiuto l'atto, abbandona il padrone.
"Parigi! qua, Parigi!" Niente. Parigi tira di lungo per la sua via,
come se non dicessero a lui. Nè più fu visto, nè più si seppe dove fosse andato
Parigi.
Il cacciatore era furioso, mentre noi
tenevamo a stento le risa. "Vedete che cane? E me l'avevano dato per
buono! Sul più bello mi lascia! Non so chi mi tenga dal mandargli una
trombonata nella groppa!" Così diceva egli; ed uno di noi gli rispose:
"Non lo fate, per carità! Non si sa mai; potreste anche colpirlo". A
voi ora, maestro! Dite ancora che per essere un buon cacciatore basta avere un
buon cane.
- Ma foi! vous pourries blen avoir raison;
- rispose Alessandro Dumas, - Fors'anche il vostro non è che un caso, e prova
che ogni regola ha le sue eccezioni. Del resto, - conchiuse bonariamente, - a
buon cacciatore buon cane; a buon cane buon cacciatore.
- A tutt'e due selvaggina! - sentenziò
placidamente sir James.
- Amen! - si rispose tutti in coro.
Questa è, lettori, la vera leggenda di
Nembrot e del suo cane. E perchè c'era un cane, era giusto che ci fosse anche
la coda.
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