Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Anton Giulio Barrili
Uomini e bestie: racconti d'estate

IntraText CT - Lettura del testo

  • I DUE RAMARRI.
    • I.
Precedente - Successivo

Clicca qui per attivare i link alle concordanze

I DUE RAMARRI.


 

I.

 

Il signor Lorenzo Brunelli, egregio uomo, cavaliere dalla testa ai piedi, e nei giorni di parata anche all'occhiello del soprabito, aveva raccolti nella sua villa, in una certa settimana d'agosto, otto o nove amici e compagni d'infanzia, tutti uomini in qualche modo eminenti, nella letteratura e nell'arte, nella scienza, nell'amministrazione, e perfino nella politica, ma tutti in paragone suo rimasti indietro nell'arte di arricchire. Sapete pure: ci sono tante vie, nella vita; ma ce ne sono pochissimo che conducano ad una miniera d'oro. Si parte tutti da un tronco comune, quello della beata infanzia, del collegio, delle illusioni, delle speranze, dei sogni, delle nebbie luminose, in mezzo a cui s'intravvedono belle figure di donne amanti, liete compagnie di amici sinceri, e lauri e palme di gloria sempiterna. - "Io farò questo, e tu? - Io quest'altro. - Ottimamente! E lassù, all'ingresso del tempio di Mnemosine, o della Dea Prenestina, ci riconosceremo, non è vero? - Si domanda? Non ci perderemo mai d'occhio, ci aiuteremo, anzi ci faremo coraggio a vicenda nella faticosa salita. - Avanti dunque, e fortuna!" - Con questo augurio sulle labbra, con questa speranza nel cuore, si è andati, ognuno per la sua strada: questi legale, quegli medico, quell'altro ingegnere, un quarto nell'esercito, un quinto nella marineria, un sesto nelle poste, o nei telegrafi, un settimo negli impieghi, un ottavo nel commercio, e chi più n'ha ne metta. Per un po' di tempo, ci si vede ancora a punti di luna, e ci si segue con la lettera affettuosa, col telegramma solenne, col pensiero ricordevole; ma poi, a mano a mano, allontanandosi ognuno nella molteplicità dello vie, dei sentieri, dei tragetti e delle scorciatoie, buona notte a lor signori! La vita nuova ci afferra, ci stringe, ci trasforma a suo modo; dispersi per molti rami di operosità, prendiamo abito e colore diverso, mutiamo tempra e pensiero; amori ed odî nuovi, gioie e dolori, fastidi e malanni, grandezze e splendori (anche questi trovati così disformi dal sogno antico!) ci trascinano, ci travolgono, ci confondono, povere carni lacerate, poveri spiriti abbattuti; e bazza ancora se non ci sono ossa rotte ed anime perdute! E dopo tanti anni, quando ci si rivede in due della bionda comitiva, ma con qualche filo d'argento nei baffi e molta lacuna alle tempia, che fiotto di sangue giovane alle porte del cuore! Che impeto di memorie al cervello! - "Sei qua, eh? Vecchio amico dell'anima mia, come ha conciato anche te, il maledetto calendario! E il tale, come sta? E il tal altro, che se n'è fatto? Sai più nulla di Beppe? E Bista, e Meo?... E quell'altro.... aiutami a dire.... quell'altro, che sedeva in capo alla panca, un bruno, dagli occhi vivi, che insegnava sempre il maneggio del fucile alle mosche? Diamine, ho il suo nome qui sulla punta della lingua, e non mi riesce di cavarlo fuori! Povera memoria! Ma già, con tant'acqua passata, come ricordarsi? -"

Quando ci si ritrova in due, è una commozione; in tre una festa; in quattro una solennità; in cinque un giubileo. E si parla di mille cose senz'ordine, evocando immagini e ricordi, trovando figure dimenticate, profili sbiaditi, episodi tristi e lieti, paurosi e ridicoli, che non si credeva più di avere tra i fondi di bottega. E allora vien sempre l'idea a qualcheduno di raccogliere gli amici, i compagni d'infanzia, quelli almeno del medesimo corso. - "Ah, se ci si ritrovasse un giorno tutti quanti, alla medesima tavola, che bella cosa! Ma come? dove? quando? Tutti li abbiamo, nell'anno, i nostri otto giorni; ma chi potrebbe incaricarsene? Chi, sopra tutto, potrebbe farsi centro, aver memoria da ricordarsene ad un certo momento, e modo di tirarci tutti ad un punto?"-

Lorenzo Brunelli lo aveva potuto. Era il milionario della comitiva. È inutile alla mia storia il dire quante volte lo fosse, ed è anche inutile alla storia generale, poichè l'amico nostro non lascerà un nome ai cataloghi della posterità. Non si può essere ogni cosa, nel mondo, e un uomo onesto deve contentarsi dei suoi milioni, quando non ha che quelli. Infine, è un'aurea mediocrità, la sua, e può essere anche argomento di bella invidia alle genti.

Gli amici suoi, per esempio, invidiavano a Lorenzo Brunelli quello stupendo castello antico, così egregiamente restaurato che non si distingueva il vecchio dal nuovo, dove egli passava i mesi caldi dell'anno. Il luogo era abbastanza vicino alla strada ferrata, per raccogliere con facilità ospiti d'ogni parte; abbastanza lontano dall'abitato, per dare ad essi l'illusione del Medio Evo, senza prospettiva di pali telegrafici, di macchine, di raffinerie, e d'altre novità, tanto utili quanto brutte a vedere. Il castello del cavaliere Brunelli aveva i merli, come tutti i castelli che si rispettano, ed anche le caditoie, le torri, i fossati, gli spaldi, il battifredo, la corte a due piani, con due ordini di logge, i colonnini accoppiati, le finestre bifore e trifore, il pozzo di marmo lavorato stupendamente da un artista del Quattrocento, una leggenda terribile intorno a quel pozzo, e una dama bianca, visibile in certe notti; ma non d'estate, per solito.

Il cavaliere Lorenzo si lasciava invidiare, e sorrideva con la sua beatitudine padronale agli ammiratori della sua piccola reggia, quando essi gli dicevano che faceva male a non abitar tutto l'anno lassù. Figurarsi! Partiti gli ospiti, anche il castello perdeva la miglior parte della sua poesia. Si può egli intendere un castello senza ospiti? senza trovatori e giullari, cavalieri e romei? Delle belle donne non si parla neanche; son esse il fondamento di ogni convivenza civile.

Una gaia brigata d'uomini cortesi e la presenza delle belle signore, ecco ciò che anima il quadro. Così ravviva, così rallegra il teatro una scena coreografica, con isfoggio di colori, sotto il barbaglio della luce elettrica, mentre tutto in giro fioriscono bellezze e scintillano diamanti da più ordini di palchi. A spettacolo finito, la sala più vasta e meglio ornata apparisce povera e fredda; il palcoscenico è brutto a dirittura, nella sua nudità desolata.

Gli amici del cavalier Brunelli avevano ammirato dentro; volevano anche ammirare di fuori. Là, dietro al castello, si stendeva una gran macchia di cerri, che invitava alle passeggiate. Di là dai cerri, lungo la falda del monte, erano gli avanzi di una strada romana, eterno argomento di curiosità e di religiosa venerazione, anche quando non si ami l'archeologia. Si parlava inoltre d'una fontana d'acqua freddissima, con un borro capace, chiamato il lago della Fata, dai naturali del paese, e decorato della rispettiva leggenda. Ringraziate il cielo che io non la ricordi più bene, e che, tra tante altre leggende di fate e di fontane, io non mi raccapezzi tanto da ricomporla nella mia testa, e da riferirvela qui.

La campagna era bella; stridevano le cicale al sol d'agosto, cantavano i grilli tra l'erbe alte, ronzavano gl'insetti, svolazzavano le farfalle attraverso i sentieri, tutto il bosco fremeva, nella pienezza della vita. La comitiva era allegra: le corse e le fermate, i discorsi e le risate, si armonizzavano alla vita del bosco, quasi per atto di obbedienza istintiva alla teorica degli ambienti. Il professore di storia naturale (perchè c'era anche quello, tra i nove) non aveva mai pace: a lui si volgevano tutti, perchè dèsse un nome latino a tutte le felci e a tutte le varietà di borracina incontrate lungo le prode, o il nome volgare agli esemplari di Rumex, di Verbascum, di Vaccinium Myrtillus e di Vaccinium Vitis Idæa, che attiravano via via lo sguardo delle dame.

- Romice; - risponderà il professore, obbediente, - da rumex, lancia, per la figura delle foglie cuoriformi, ristrette alla base. Questo, per altro, che ha le foglie bislunghe e chitarriformi, è il Pulcher, detto comunemente Cavolaccio. Il Verbascum, alterazione di Barbascum, dalla villosità delle sue foglie glauche, ha qui la sua prima varietà, cioè il Verbascum Tapsus, chiamato volgarmente Barabasco, Tasso Barbasso, ed anche Labbri d'asino. Il Vaccinium Myrtillus, dalle foglie simili a quelle del mirto, è conosciuto comunemente sotto il nome plurale di Baccole, Bagole, Baggiole, a cagione delle sue bacche nere, mangerecce, in forma di chicchi d'uva, che sono ad autunno inoltrato quasi l'unico cibo degli uccelli di passo. Il Vaccinium Vitis Idæa, che fa le bacche rosse, si chiama Vigna d'orso. C'è altro?-

La signora Elisa, una bellissima bruna dalle labbra vermiglie, che andava innanzi saltellando, appoggiata al suo lungo bastone ferrato, come una Baccante al suo tirso frondoso, si fermò tutto ad un tratto e mise un piccolo grido.

- Che è stato? - domandarono i vicini.

- Guardate là.

- Dove?

- Su quei sassi. Vedete quella testina che si muove, con due occhietti luccicanti. Se fosse un aspide! una vipera!...

- Professore, a te! - disse il deputato di centro destro, che accompagnava la signora, ed era il più galante della brigata. - Dalla botanica passerai alla zoologia, serie dei vertebrati, classe dei rettili.

- E ordine dei saurii; - rispose il professore, dopo aver guardato a sua volta. - Quello non è un serpente, è un ramarro, lacerta viridis.

- Sì, bravo, dàcci i connotati per fargli il passaporto.

- Non ne ha bisogno, veramente, fuorchè per l'Inghilterra e l'Irlanda, dove non è bestia di casa; - replicò il naturalista, ridendo. - In tutti gli altri paesi d'Europa è conosciuto, ma più specialmente in Italia, Francia, Spagna, Grecia, Turchia, ed anche lungo le coste mediterranee dell'Africa. È assai sensitivo e patisce il freddo; gli piacciono i luoghi soleggiati, dove la lucida sua pelle risplende di bei colori metallici. Il colore generale di questa gentile lucertola è un verde intenso, che nelle parti inferiori va smontando in tinte più pallide, o giallognole. Il capo è talvolta minutamente sprizzato di nero, talvolta di giallo, e non di rado predomina sul dorso una tinta azzurra.

- Qui ti soccorro io, professore; - entrò a dire il poeta. - Nel commento dantesco del Buti si legge: "Il ramarro è un serpentello verde, con quattro piedi, e ancora ne sono degli sprizzati, o di color nero, ovvero bigio".

- Certamente; - rispose il naturalista. - Ci sono parecchie varietà.

- Quello là è d'un bell'azzurro marino; - disse la signora Elisa. - Pare che abbia indosso un mantello di velluto operato.

- Effetto di riflessi; fors'anche è la livrea d'amore; - rispose il naturalista. - Il ramarro vorrà piacere alla sua dama.

- È molto gentile; - osservò la signora. - Se non fosse un rettile, vorrei vederlo più da Vicino..

- Potete accostarvi, signora; non c'è pericolo che vi venga incontro. È un rettile innocuo, ed anzi utilissimo alla campagna, per gl'insetti che distrugge.-

La signora Elisa, non più paurosa, si era fatta avanti due o tre passi. Il ramarro era rimasto là, muovendo la testa e ammiccando con gli occhietti lucidi; ma appena la signora accennò di voler piegare dalla sua parte, guizzò via in un baleno.

- Eccovi illustrata dall'esempio una terzina di Dante; - disse allora il naturalista. - Non è vero, poeta?

 

Come ramarro sotto la gran fersa

Dei dì canicular, cangiando siepe,

Folgore par, se la via attraversa.

 

- Bellissimo, e come osservazione della natura e come armonia imitativa; - rispose il poeta, assentendo. - Quell'ultimo verso par proprio che ti sfugga di mano. Ah, divino Dante! Se io fossi pittore!...

- Ebbene, se tu fossi pittore, che cosa faresti?

- Cento, duecento quadretti, quanti ne bisognassero per illustrare tutti i passi del poema, in cui Dante accenna ad una scena di paese, ad un effetto di luce o d'ombra, a uno spettacolo della natura, veduto certamente da lui e reso con quella sua magistrale esattezza di osservazione, con quella sua proprietà singolare di vocaboli e con quella sua evidenza di frase. In ogni tela, si capisce, vorrei esprimere il punto di natura da lui colto in sull'atto, mettendo sempre lui, malinconico pellegrino, a piedi o a cavallo, in un angolo, o nell'alto, o nel fondo del quadro.

- Permettimi di esser sincero; - disse l'uomo politico. - I tuoi dugento quadri riescirebbero abbastanza monotoni.

- Non mi pare.

- Con quella eterna zimarra scarlatta, sfido io a far altro!

- Ebbene, amico mio non politico, qui sta l'inganno; - replicò il poeta, ostinandosi. - In primo luogo, non vedo come possa riescire monotono il più vivace e il più allegro dei sette colori. Se è Dante, quello che ti dà noia, non so che farci; ma il pretendere che una stessa figura non può essere ripetuta in molti quadri senza ingenerar sazietà, sarebbe come sostenere che debba venire in uggia la Venere Capitolina. Del resto, senti: l'Alighieri è ritratto come il necessario testimone delle cose, dei momenti di natura che tu rendi sulla tela, prendendone argomento dagli stessi suoi versi. Cangiando il paese, la disposizione della scena, gli effetti di luce e d'ombra, e insieme con essi gli atteggiamenti del personaggio, avrai subito una sufficiente varietà di composizione. E dove metti quell'altra che deriva dal soggetto, cioè dalla diversità delle cose osservate? Veder Dante col naso in aria sotto la Garisenda, in Bologna, sarà molto diverso dal veder Dante che s'inerpica sul masso di Bismantua; coglierlo malinconico viandante all'aer bruno, profilato in massa scura sul fondo grigio del sentiero, sarà tutt'altra cosa dal figurarlo rosso fiammeggiante al sol di luglio, mentre da siepe a siepe gli passa davanti il ramarro, e magari facendogli adombrare il cavallo. A questo modo vedi come ti favorisco! in un quadro solo illustreresti due passi del poema.

- Capisco, capisco, - mormorò l'uomo politico.

- Ah, bene, così! Ho dunque il tuo voto?

- Senti!... la mia approvazione, sì, ma il voto è un'altra cosa; - rispose quegli, ridendo. - Bisogna sapere, prima di tutto, quel che ne pensa il governo. Se il ramarro è ben veduto dal ministero, posso anche fartelo entrare nella commissione generale dal bilancio.

- No, per carità! - gridò il poeta. - Egli non sarà mai fuggito più svelto che in questa occasione.

- Quando si dice, - osservò l'avvocato, - che il ramarro è l'amico dall'uomo!

- L'amico dell'uomo, il ramarro? - gridò il giornalista. - Quando lo vedo, scappa, che pare abbia veduto un usciere.

- Pure, - insistè quell'altro, - c'è il proverbio, che lo dice: le lézard est l'ami de l'homme.

- Caro mio, questo è proverbio francese.

- Che vuol dir ciò? Anche i francesi lo avranno foggiato sull'esperienza; non lo avranno mica inventato!

- Eh, perché no? - disse il giornalista, che era per l'alleanza nordica.

- Via, - entrò a diro la signora Elisa, cercando di conciliare i due amici, - ragioniamola in questo modo: il ramarro è l'amico dell'uomo.... in Francia. Vi torna?

- Poichè lo dite voi, signora, come no? - rispose il giornalista. - Ma badate: se la cosa fosse così, sarebbe presto venuta di moda anche in Italia.

- Allora, lasciamola lì! - disse la signora ridendo. - Voi altri signori della penna....

- D'oca!

- Ebbene, sì, anche d'oca, ma temperata a dovere; e ci avete sempre la risposta pronta per tutti i casi.

- Troppa bontà! - esclamò il giornalista inchinandosi. - Il vero è che ne abbiamo cinque o sei preparate, e usiamo questa o quella, secondo il bisogno.

- Signori, - diceva frattanto il poeta, - ci fu un tempo che il ramarro era l'amico dell'uomo, e poi....

- E poi se no scordò! - conchiuse il maestro di musica, sull'aria della Matilde di Chabran.

- Le prove? - domandò il naturalista.

- Tu chiedi troppo; - rispose il poeta.- Così è, perchè così dev'essere stato. Non ci fu un tempo che l'uomo vivera in bella armonia con ogni razza d'animali?

- Già! - disse il deputato. - Al tempo degli amori degli angioli: /*     Sul mattin della vita era il creato;     Belli di nova luce apriano gli astri     Le festanti carole.... */ - Sicuramente; - riprese il poeta. - Ma per i ramarri non è neppur necessario di rimontare così alto. Io stesso, per esperienza mia, potrei raccontarvi un fatto....

- Senti! Ci ha una storia da raccontare, il poeta!

- Perché no? Anche una storia.

- Con la sua morale in fine?

- No, perché non è una favola.

- E tu allora ce la darai, con un complimento finale alle dame.

- Benissimo! benissimo! - gridarono le signore.

- Il luogo è bello; par fatto a posta per una conferenza.

- Accetto; - disse il poeta; - ma vorrei mettere qualche piccola condizione.-

Erano giunti al lago della Fata. Le signore andarono a sedersi in mezzo cerchio sulla falda del bosco, all'ombra dei faggi. Accanto ad esse si adagiarono i cavalieri sull'erba.

- Prima di tutto, - continuò il poeta, - vediamo l'ora.

- Sono le quattro; - disse il castellano, guardando l'orologio.

- A che ora si pranza?

- Dopo le sei.

- Bene; allora c'è tempo.

- Come? - gridò l'uomo politico. - Hai da parlarci di ramarri per due ore.

- O poco meno.

- È un orrore.

- E tu, quando parli alla Camera, per tutta una seduta, di tariffe differenziali o di dazio consumo, credi forse di essere più divertente?

- E tu parla per due ore di ramarri. Ti avverto per altro che le parti non sono uguali tra noi. Quando parlo io alla Camera, è permesso di far conversazione ed anche di andarsene a fumare una spagnoletta. L'essenziale è che ascoltino gli stenografi.

- Onorevole, - disse la signora Elisa, - se non si permette all'oratore d'incominciare, gli mancherà il tempo per finire la sua storia, e noi rimarremo senza il complimento finale.

- M'inchino alla autorità presidenziale; - rispose il deputato.

- E badate, signori, che desidero un grande, un religioso silenzio; - riprese il poeta.

- L'avrai, tira via! - dissero gli amici.-

Il poeta si appoggiò ad un masso, che pareva essere stato collocato lì a bella posta per servir da pulpito, e dopo un istante di pausa incominciò.

- Signore e signori! Ero giovane....-

Scoppiò una risata, a quelle prime parole d'esordio, e fece come la striscia di polvere, al cui capo si accosti la fiamma. Rideva il deputato, rise il naturalista, rise l'avvocato, risero l'ingegnere e l'archeologo; via, via, comunicandosi la scintilla, risero tutti gli astanti, perfino il caposezione al ministero della guerra, uomo cogitabondo, e l'ispettor generale delle gabelle, filosofo giobertiano, il cui buon umore non era andato mai più in là del sorriso.

- Ebbene, che c'è da ridere? - chiese il poeta, volgendo intorno sull'adunanza uno sguardo trasognato.

- Lasciatelo parlare; - disse il medico. - È una frase come un'altra, tanto per attaccare: /*     Era una notte     (Così diede al narrar cominciamento     Ibraimo di Gaza) era una notte,     E per le vie di Solima deserte...., */ Son versi tuoi, poeta; vedi che ho buona memoria, e rammento forse meglio di te il tuo gran poema arabo Ismaele e Mirìam, che non giunse al sessantesimo verso.

- Che vuoi? - replicò il poeta, niente lusingato da quella evocazione. - Mi sono avveduto in tempo di averne fatto cinquantanove più del bisogno. Ma questa volta, se Dio vuole, e se voi smetterete di ridere, sarà un poema in prosa.

- Racconta dunque, ed incomincia pure con la medesima frase; promettiamo di non ridere.

 

 

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License