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Anton Giulio Barrili
Uomini e bestie: racconti d'estate

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  • MALANOTTE.
    • II.
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II.

 

Una donna, non bella, nè brutta, nè vecchia, nè giovane, come se ne vedono tante nella campagna, condannate alla fatica precoce e alla maternità senza tregua, ci apparve dal vano di un uscio affumicato. Capì che eravamo due viaggiatori scioperati, ascoltò le nostre domande e le nostre proferte, e senza riscaldarsi troppo, ma anche senza farsi troppo pregare, ci diede ospitalità nella sua stamberga, che era cucina e tinello insieme, e sala di ricevimento per giunta. Prima di tutto ella ci offerse da bere. Ma noi si aveva più fame che sete, e quella buona donna non poteva darci che polenda e uova. C'era il pollaio, nondimeno, e si faceva presto ad allungare il collo ad una gallina. Ma io ho sempre odiato questa maniera d'improvvisare un pasto; maniera spicciativa, sì, ma feroce; la quale, per il suo ripetersi frequente, rende così antipatici alle galline i cacciatori e i pittori, e in genere tutti i viaggiatori delle nostre campagne.

- Polenda e uova? - gridai. - Ce n'è d'avanzo, per aspettare la giornata di domani.

- La polenda è ottima, quando non c'è pane; - sentenziò il mio compagno di viaggio. - Quanto alle uova, le vogliamo.... a bere.-

La donna non sapeva come si dovessero cuocere le uova a bere; e il marito, che capitò in quel punto, non lo sapeva neanche. Le uova, per solito, non le mangiavano loro; le portavano invece ogni settimana a Berceto.

- Ecco, - disse allora Cesare Pascarella, mettendosi sul grave, - si accosta prima di tutto una pentola al fuoco; appena l'acqua ha staccato il bollore, ci si buttano dentro le uova. Queste poi, ci si lasciano otto o dieci secondi, e son cotte in punto.

- Se non è che questo, - disse la donna, ridendo, - Sarete serviti. Ma, e se ci restano di più?

- Allora, - replicò gravemente Cesare Pascarella, - diventano uova sode.-

Io, che non ho mai saputo cuocere un uovo, guardai con ammirazione il mio compagno di viaggio, ed anche, lo confesso, con un pochino d'invidia.

- Potrete anche darci da dormire? - diss'io, per fare qualche cosa a mia volta.

- Signori miei, - rispose il marito, - questo è un affare più serio. Qui, dove abitiamo noi, accanto all'ingresso, c'è appena posto per la famiglia. Su, nei cameroni del castello, non li consiglio di andare, poichè il tetto è da rifare quasi intieramente, e topi e scorpioni, e civette e gufi, ci vivono da padroni.

- Ma giù a pianterreno?

- Ci venivo or ora, per l'appunto. Parecchi anni fa, il padrone, che è il signor Cerri, di Piacenza, aveva deciso di venire a passare alla Malanotte qualche mese della buona stagione, e già aveva incominciato a far mettere in ordine cinque o sei camere, aprendo le finestre nel bastione, e levando l'acqua dal fosso. Nel quartierino nuovo erano anzi già stati calati i mobili meno guasti del piano superiore, e tra essi due letti. Ma poi cambiò di proponimento, e i letti sono rimasti là, senza materasse, coi semplici sacconi di paglia.

- E dura, la paglia; - risposi. - Ma infine, quando si è stanchi, come noi, e s'è dormito un'altra notte, a Rigoso, rinvoltati in una coperta da cavalli, anche un saccone ha i suoi pregi. Potete metterci un paio di lenzuola?

- Oh, quelle, sicuramente, e di bucato; - entrò a dire la donna.

- Egregiamente! Andiamo dunque a vedere le camere, mentre la pentola è al fuoco.-

Il bravo contadino prese una lucerna di ottone a tre becchi, v'accese un lucignolo, e ci condusse sotto il porticato, donde entrammo nel quartiere nuovo. Nella gran sala erano poche sedie, un orologio a pendolo, che il mio amico si pose subito in testa di far andare, e una gran tavola nel mezzo, su cui i nostri ospiti deliberarono d'imbandirci la cena. Dalla sala si entrava in due camere da letto, l'una dopo l'altra, anch'esse modestissimamente arredate, col puro e semplice necessario, come a dire il letto, un tavolino da notte, due sedie e un cassettone, su cui nereggiava uno specchio a bilico.

- Anche lo specchio! - gridai. - Ma qui c'è più del bisogno.

- Ed anche dei quadri! - soggiunse l'amico Cesare, vedendo certe tele annerite, che pendevano alla parete. - E dei ragnateli dappertutto, per far da cortinaggi!

- Ah, di questi non c'è carestia! - disse il nostro ospite. - In queste camere noi c'entriamo forse una volta l'anno.-

Stavamo ancora osservando il nostro quartiere, quando la moglie del castaldo venne a stendere la tovaglia sopra un angolo della tavola. Poco dopo era imbandita la mensa, con due bottiglie di trebbiano, un tagliere di polenda, due piatti sbreccati, la pentola fumante con le uova dentro, un cucchiaio e la saliera. Che cosa si voleva di più?

I bambini che avevano accompagnata la mamma, come i pulcini accompagnano la chioccia, ci guardavano con tanto d'occhi, e bisbigliavano qualche cosa tra loro, in quel grazioso dialetto, tra il ligure, il bolognese e il lombardo, che è comune, salvo le gradazioni e gli accenti, a tutti i popoli montanini, dalle vette dell'Appannino alla riva destra del Po. Del loro discorso intesi facilmente una frase: - I signori dormono nelle camere dove ci si sente.-

La mamma, che aveva udito al pari di me, allungò la mano, come per dare uno scappellotto. Quei diavoli di ragazzi toglievano la riputazione al castello, e meritavano perciò la correzione materna,

- Sposa, - diss'io allora, per metter carte in tavola e saper la storia del castello, se una storia c'era, - è vero che ci si sente?

- Oh, non dia retta a questi chiacchieroni! - rispose la donna. - Ci si sente il vento, quando soffia, perché ci sono troppi vetri rotti. Ma le finestre hanno gli scuretti, e lor signori li possono chiudere.

- E poi, - soggiunsi io, - che importa? Noi non abbiamo paura degli spiriti. - Piuttosto, se non vi spiace, berremo una bottiglia di più.

- Le porto il fiasco, senz'altro.

- Ottimamente! A tavola dunque, egregio compagno di sventura!-

Cesare Pascarella si spiccò dalla torre dell'orologio le cui ruote incominciavano a stridere, e venne ad attaccare le uova. Io avevo già addentato una fetta di polenda, e la bagnavo con una sorsata di vino, che mi pareva nettare, il famoso nettare "rapito alla mensa dei Numi".

I nostri ospiti, frattanto, mettevano le lenzuola e le coperte sui letti. Mi sembra di ricordare che mettessero anche le fèdere ai guanciali. Dopo di che, augurandoci la buona notte (non inutile augurio, in un castello che portava il nome della Malanotte) se ne andarono per le loro faccende. Noi mangiammo religiosamente tutto quello che c'era stato imbandito, bevemmo le due bottiglie e attaccammo anche il fiasco; da ultimo cavammo di tasca le pipe.

Non torcano il viso, le graziose lettrici. Oltre che questi contorcimenti non giovano alla bellezza, vuolsi considerare che la pipa non è più quella brutta cosa che un antico pregiudizio aveva stabilito. Essa ha oramai tutti i suoi quarti di nobiltà, poiché la fumano anche gli eroi, i semidei dell'evo moderno. Io penso che non fosse neppure ignota agli antichi, ed ho fede che un giorno o l'altro se ne troverà un esemplare autentico in qualche tumulo preistorico, parendomi impossibile che l'umanità sia stata tante migliaia d'anni senza un aiuto così potente ai voli del pensiero, senza un sollievo così prezioso alle noie dell'esistenza. Comunque, senza pipa, non si intenderebbe più il mio amico Pascarella. Aggiungete che questo arnese, di gesso o di spuma, di terra di Schemnitz, o di barba di scopa, è assai più pulito del sigaro, che insudicia le labbra, o della spagnoletta, che ingiallisce le dita. Infine, che vi dirò? Il marinaio di guardia alla vela, il cacciatore alla posta, il pittore al cavalletto, il pensatore a tavolino, tutti hanno un'ora di gioia da questa dolce compagna, non foss'altro per il fumo che n'esce, prendendo tanta varietà di mobili forme. E l'arte dei cerchi! Quella è veramente meravigliosa! Con un colpo secco e misurato di labbra, il fumo vi esce di bocca già foggiato ad anello; e gli anelli si seguono, si levano mollemente, danzano, si dilatano, si dileguano in aria. E si pensa, guardandoli; e qualche volta, tra tanti pensieri vani, ce n'è uno fecondo, il pensiero eletto, che prenderà forma anch'esso nella fantasia dell'artista; ahimè, spesso una forma così mutevole come l'anello di fumo, e per dileguarsi anch'esso nel buio dell'eternità.

Posterità, pipa, due termini di una equazione! Ma la posterità è un'incognita; la pipa è nota; la pipa è il fatto concreto, visibile, tangibile; forse è tutto ciò che ci resta di sicuro nel tempo, quando un colpo più secco non ce la spezza tra i denti.

 

 

 




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