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Anton Giulio Barrili Uomini e bestie: racconti d'estate IntraText CT - Lettura del testo |
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IL GABBIANO
I.
Egli amava raccontare ed io lo stavo a sentire molto volentieri; poi mettevo fuori il taccuino e segnavo. Eravamo spesso insieme nel giorno; e sempre, poi nella notte, che a quei tempi non era ancor fatta per dormire. Con lui e con Angelo Mariani, che ore! Lui soleva chiamarle, con frase poetica e vera, le "ore all'amicizia sacre." Ma era poi capace di dedicarmi tutte le ventiquattro del giorno astronomico, dimenticando le assicurazioni marittime e i noleggi, che esercitavano la sua pazienza quotidiana, negli anni della vecchiaia. Perchè oramai era vecchio e i suoi sessanta facevano un curioso contrasto coi miei trentadue; ma da ciò derivava un carattere nuovo e più intimo alla sua amicizia, tutta improntata di una tenerezza gelosa, provvida, quasi paterna. Con nessuno, neanche in più giovane età, neanche adolescente, ebbi a sentirmi così bambino, come mi sentivo con lui; e ahimè! non potrò più sentirmi tale, essendo egli partito per quelle regioni, dove si sta così bene, che non viene più voglia di ritornare. Era un bel tipo, con la sua barba bianca, fina e fluente in mosaiche anella sul petto, co' suoi begli occhi cilestri, la sua carnagione bianchissima, le labbra vermiglie e il naso breve e diritto, dalle nari delicatamente modellate e rosee, come se fosse il naso di una leggiadra donnina. Fu bello fino a sessant'anni; ma da venti, o da venticinque, non curava più la bellezza esteriore. Portava giacca e calzoni d'un colore, ma niente sottoveste, nè di estate nè d'inverno. Col pastrano lo vidi una volta sola, perchè il termometro era sceso a parecchi gradi sotto lo zero, e lui non aveva mai indossato un corpetto di flanella. Per contro, non si levava mai dal capo il suo cappelletto a cencio, nero, finissimo, e piantato un pochino alla sgherra. Si diceva, ridendo, che con quel cappello in testa solesse anche dormire, tanto si era avvezzi a vederlo in ogni occasione con la fronte coperta. Si credeva ancora che volesse nascondere una precoce calvizie; ma in questa opinione non c'era niente di vero. Egli non aveva più la fitta selva di capegli d'oro della sua gioventù; ma ne possedeva sempre abbastanza, come io ebbi occasione di vedere, l'unica volta che si levò, e spontaneamente e con giubilo, il suo cencio nero dal capo. Animo gentile e cuore aperto, pensava e sentiva nobilmente, con certe originalità tutte sue. Impetuoso d'indole, andava qualche volta in collera; ma si pentiva subito, e aveva tenerezze di donna innamorata per colui che gli paresse di avere strapazzato a torto. Vi ho detto de' suoi racconti, ed aggiungo che era ricco di storie e di aneddoti, perchè aveva molto viaggiato. Già parecchi de' suoi ricordi hanno guidata la fantasia del vostro umilissimo servo. Qualche volta egli mi si faceva cooperatore senz'altro; specie per le faccende marinaresche, le costruzioni navali, i viaggi, l'attrezzatura e la manovra dei vecchi bastimenti che io dovevo far muovere. C'è nel Merlo bianco un certo sciabecco barbaresco, che a me è costato mezza giornata di scarabocchi, a lui una settimana di pensieri, per richiamarsi alla memoria la invelatura di quel legno, e un'altra settimana di conversazioni coi vecchi lupi di mare, per cogliere al volo qualche indicazione che potesse servirmi. Era lui il mio capitan Dodèro, e a lui erano regolarmente dedicate le storie in cui aveva parte il faceto narratore. Lui morto, amo dire il suo vero nome: Tommaso Marchesani. Per necessità di stato civile, capitan Dodèro era nato a levante di Genova, nelle vicinanze di Quinto al mare. I Dodèri vengono tutti da un paesello nascosto fra due scogli, dietro le tre colline d'Albaro. Il curvo lido sembrò ai nostri padri antichi una bocca spalancata; ma perchè la bocca di un certo animale terrestre e ragliante, anzi che di uno acquatico e muto? Ignoro le ragioni, ed accenno brevemente che i moderni hanno italianizzato il nome del paesello, in Boccadasse. Comunque gli piaccia di esser chiamato, è un piccolo e grazioso ceppo di case al sole, e tutte così vicine alla spiaggia, che una volta, avendo un bastimento inglese sbagliata la rotta e scambiato il porticciuolo di Boccadasse per l'entrata dei moli di Genova, si piantò col bompresso nella sala da pranzo di un altro capitan Dodèro, sfondandogli la parete di contro, e, insieme con la parete, la lastra di uno specchio di Venezia. Tommaso Marchesani, invece, era nato a ponente di Genova, nella piccola ma nobilissima città di Loano. Colà era vissuto molti anni, negli intermezzi delle sue peregrinazioni marinaresche e delle fermate a Genova, dove da ragazzo aveva appresi gli elementi della nautica, assistito ai primi rivolgimenti liberali italiani e partecipato anche, senza capirci molto, all'assalto del palazzo in cui era alloggiato il governatore Des Geneys, il fiero ammiraglio, che aveva nominato medico di corvetta il proprio barbiere. Del mio Tommaso Marchesani vi racconterò oggi una storia, come io l'ho avuta dalle sue labbra "nelle ore all'amicizia sacre", cioè a dire dalla mezzanotte alle cinque del mattino; una delle più brevi, ma altresì delle più intime; attori principali: lui, si capisce, una donna e un gabbiano. Come c'entri il gabbiano lo intenderete facilmente, quando io ve lo avrò riferito; per intanto avrete già indovinato che si tratta di un amore di gioventù. La donna che glielo aveva ispirato è viva ancora, nonna da trent'anni e bisnonna da dieci. Prego i miei amici di Loano, a cui potessero capitare sott'occhio queste pagine, di non andargliele a leggere. La signora Caterina Rocca nei Carli potrebbe aversi a male delle mie chiacchiere, e non ricordarmi più nelle sue orazioni.
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