IL PIANETA MARTE
Estratto dai fascicoli N.i 5 e 6
1 e 15 febbraio 1893
della Rivista «Natura ed Arte»
IL PIANETA MARTE.
Nelle belle sere dell'autunno passato una grande stella rossa fu
veduta per più mesi brillare sull'orizzonte meridionale del cielo; era il
pianeta Marte, che si accostava per qualche tempo alla Terra in una delle sue
apparizioni, solite a ripetersi ad intervalli di 780 giorni. Nella schiera
degli otto pianeti principali Marte occupa, per volume, il penultimo luogo; il
solo Mercurio è più piccolo di lui. Ma in certe posizioni, in cui egli ritorna
ad intervalli di sedici anni, Marte può avvicinarsi alla Terra più dell'usato,
brillando più di ogni altro pianeta, Venere sola eccettuata; ed in tali
contingenze tanto arde di luce rossa, da meritare il nome, che i Greci gli
diedero, di Pyrois (infocato). Nei tempi ormai per sempre passati,
quando si pretendeva di leggere in cielo l'avvenire degli umani eventi, queste
grandi apparizioni di Marte erano lo spavento dei popoli, e davano molto da
fare agli astrologi, ai quali incombeva il compito, non sempre facile, di
studiare l'influsso del pianeta sulle vicende guerresche e sulle costellazioni
politiche del momento. Anche ora la grande apparizione testè avvenuta di Marte
ha destato il pubblico interesse; ma per una ragione ben diversa. Oggi è nata
presso alcuni la speranza, che da osservazioni diligenti fatte sulla sua
superficie con giganteschi telescopi, si possa ottenere quando che sia la
soluzione di un gran problema cosmologico; arrivar cioè a sapere, se i corpi
celesti possano dirsi sede di esseri intelligenti, o, almeno, di esseri organizzati.
L'idea di popolare gli astri e le sfere celesti d'intelligenze
pure o corporee, di animali e di piante, non è nuova; ed una curiosa rassegna
sarebbe a farsi di tutti gli scrittori antichi e moderni che si esercitarono su
questo tema, incominciando dal Sogno di Scipione di Cicerone, e dalla Storia
veridica di Luciano Samosatese, e venendo già per Dante, Giordano Bruno,
Ugenio e Kircher a quegli eleganti novellatori francesi Cyrano di Bergorac,
Fontenelle, Voltaire, i quali posero negli spazi celesti il teatro delle loro
argute o satiriche descrizioni, per arrivare in ultimo al celebre Hans Pfaal
d'Amsterdam, ben noto ai lettori di Edgar Poe. La maggior parte di questi
scritti però o professano di esser pure immaginazioni poetiche, o sono scherzi di
ingegno dei quali il vero pregio deve cercarsi in tutt'altra parte che in una
seria discussione dell'argomento di cui stiamo discorrendo. Ma nel presente
secolo diversi scrittori tentarono di elevare la pluralità dei mondi abitati
alla dignità di questione filosofica. Lasciando da parte le sedicenti
rivelazioni degli spiritisti, che ai nostri tempi hanno rinnovato ed anzi
superato le visioni di Swedenborg, basterà nominare Giovanni Reynaud (Terre
et Ciel) e Davide Brewster (More Worlds than one) i quali collocarono
negli astri le speranze della nostra vita futura e seppero trovare, non dirò
dimostrazioni (che in questa materia non ve n'è) ma pensieri ed aspirazioni che
ebbero e sempre avranno eco vivissima nel sentimento di molti. Metafisica per
metafisica, preferiamo questa ai dogmi brutali e scoraggianti del materialismo.
Quanto ai teologi cristiani, essi, seguendo l'esempio di San Tommaso, quasi
tutti osteggiarono l'idea che possano esistere altri mondi simili al mondo
terrestre. Dico, quasi tutti, perchè noi leggiamo in uno di loro, a cui
certamente nessuno ha potuto far rimprovero d'empietà, le parole
seguenti1
«Il creato, che contempla l'astronomo, non è un semplice ammasso
di materia luminosa; è un prodigioso organismo, in cui, dove cessa l'incandescenza
della materia, incomincia la vita. Benchè questa non sia penetrabile ai suoi
telescopii, tuttavia, dall'analogia del nostro globo, possiamo argomentarne la
generale esistenza negli altri. La costituzione atmosferica degli altri
pianeti, che in alcuno è cotanto simile alla nostra, e la struttura e la
composizione delle stelle simile a quella del nostro sole, ci persuadono che
essi, o sono in uno stadio simile al presente del nostro sistema, o percorrono
taluno di quei periodi, che esso già percorse, o è destinato a percorrere.
Dall'immensa varietà delle creature che furono già e che sono sul nostro globo,
possiamo argomentare le diversità di quelle che possono esistere in altri. Se
da noi l'aria, l'acqua e la terra sono popolate da tante varietà di esse, che
si cambiarono le tante volte al mutare delle semplici circostanze di clima e di
mezzo; quante più se ne devon trovare in quegli sterminati sistemi, ove gli
astri secondarii son rischiarati talora non da uno, ma da più Soli
alternativamente, e dove le vicende climateriche succedentisi del caldo e del
freddo devono essere estreme per le eccentricità delle orbite, e per le varie
intensità assolute delle loro radiazioni, da cui neppure il nostro Sole è
esente!
«Sarebbe però ben angusta veduta quella di voler modellato
l'Universo tutto sul tipo del nostro piccolo globo, mentre il nostro stesso
relativamente microscopico sistema ci presenta tante varietà; nè è filosofico
il pretendere che ogni astro debba esser abitato come il nostro, e che in ogni sistema
la vita sia limitata ai satelliti oscuri. È vero, che essa da noi non può
esistere che entro confini di temperatura assai limitati, cioè tra 0° e 40°-45°
gradi centesimali, ma chi può sapere se questi non sono limiti solo pei nostri
organismi? Tuttavia, anche con questi limiti, se essa non potrebbe esistere
negli astri infiammati, questi astri maggiori avrebbero sempre nella creazione
il grande ufficio di sostenerla, regolando il corso dei corpi secondarii
mediante l'attrazione delle loro masse, e di avvivarle colla luce e col calore.
E qual sorpresa sarebbe, se fra tanti milioni, anche molti e molti di questi
sistemi fossero deserti? Non vediamo noi che sul nostro globo regioni, in
proporzioni assai estese, sono incapaci di vita? L'immensità della fabbrica,
non verrebbe perciò meno alla sua dignità, nè allo scopo inteso
dell'Architetto.
«La vita empie l'universo, e colla vita va associata
l'intelligenza; e come abbondano gli esseri a noi inferiori, così possono in
altre condizioni esisterne di quelli immensamente più capaci di noi. Fra il
debole lume di questo raggio divino, che rifulge nel nostro fragile composto,
mercè del quale potemmo pur conoscere tante meraviglie, e la sapienza
dell'autore di tutte le cose è una infinita distanza, che può essere intercalata
da gradi infiniti delle sue creature, per le quali i teoremi, che per noi son
frutto di ardui studi potrebbero essere semplici intuizioni».
Mi son permesso di trascrivere questo passo del Secchi, perchè è
difficile dir più e meglio in sì poche parole. Ai nostri tempi la dottrina
della pluralità dei mondi abitati da esseri viventi ed intelligenti ha trovato
un ardente apostolo in Camillo Flammarion. Questo dotto ed immaginoso
scrittore, nel quale la scienza copiosa ed ordinata dei fatti d'osservazione
non impedisce l'esercizio di una fantasia potente e della più seducente
eloquenza, già da trent'anni va svolgendo la questione sotto i suoi varii
aspetti in diverse opere, le quali e da chi consente, e da chi dubita si fanno
leggere assai volentieri2. Egli si è proposto di sottrarre questo tema
alla fantasia dei poeti ed all'arbitrio dei novellieri, e di circondare
l'ipotesi della pluralità dei mondi abitati con tutto l'apparato scientifico,
che oggi è possibile chiamare in suo soccorso; di darle così tutto quel grado
di logica consistenza e di probabilità empirica di cui è capare. «Faire converger toutes les lumières de la
science vers ce grand point, la Vie universelle; l'éclairer dans son aspect
réel; établir ses rayonnements immenses et montrer qu' il est le but mystérieux
autour du quel gravite la création toute entière; agrandir ainsi jusque par de
là les bornes du visible le domaine de l'existence vitale, si longtemps confiné
à l'atome terrestre; déchirer les voiles qui nous cachaient le règne de
l'existence à la surface des mondes; et sur la vie à l'infini répandue
permettre à la pensée de planer dans son auréole glorieuse; c'est là, selon
nous, un problème, dont la solution importe à notre temps». Questo è lo splendido programma al quale il cosmologo francese ha
consacrato il suo ingegno e la sua varia coltura. Leggendo le sue pagine
animate da calda eloquenza ed ardenti del desiderio dell'ignoto, si è tratti ad
esclamare coll'Ettore virgiliano:
Si Pergama dextra
Defendi possent, certe hoc defensa fuissent
Se fosse stato possibile dimostrare la esistenza della vita e
dell'intelligenza nei globi celesti con altri argomenti, che con quelli della
diretta osservazione, nessuno più del Flammarion avrebbe meritato di farlo. Ma
pur troppo è da confessare che, quanto a risultati di osservazione, finora
abbiamo poche speranze e nessun fatto. La Luna, che di tutti gli astri è senza
paragone il più prossimo a noi, e nella quale oggetti di 400 e 500 metri di
diametro sono visibili senza troppa difficoltà nei potenti telescopi del tempo
moderno, la Luna non ha dato fatti, e non dà neppure speranze. Più la si
esamina, e più si ha ragione di credere, che sia un deserto di aride rupi,
privo d'ogni elemento necessario alla vita organica. Nè fatti, nè speranze si
possono avere dallo studio della superficie di Venere, che fra tutti i pianeti
è quello che può avvicinarsi maggiormente alla Terra. La sua atmosfera è
perpetuamente ingombra di dense nuvole, le quali finora hanno impedito, ed
impediranno probabilmente ancora per lunghi secoli (se non per sempre) di
conoscere i particolari del suo corpo solido, e quanto su di esso avviene. Per
ragioni non dissimili (a cui si aggiunge la grande lontananza) nulla avremo a
sperare in quest'ordine di idee dallo studio dei grandi pianeti superiori,
Giove, Saturno, Urano, e Nettuno. Quanto a Mercurio, le sue osservazioni sono
di una estrema difficoltà, avviluppato com'egli è di continuo nella luce del
Sole; tanto, che solamente negli ultimi anni è stato possibile discernervi
entro qualche macchia con sufficiente frequenza e determinare il vero periodo
della sua rotazione. Non parliamo nè del Sole, nè delle stelle, nè delle
comete, nè delle nebule; tutti corpi, dei quali la costituzione fisica non
sembra propria alla produzione e alla conservazione della vita, almeno nelle
forme con cui noi l'intendiamo.
Tutte le nostre speranze si sono quindi poco a poco concentrate su
Marte il solo astro che possa giustificarle sino ad un certo punto, siccome or
ora si vedrà. Tali speranze si sono accresciute ed hanno raggiunto anzi presso
alcuni un grado di esaltazione quasi febbrile, dopo che un esame accurato di
quel pianeta ha fatto scoprire in esso alcuni cambiamenti, e un sistema di
misteriose configurazioni, in cui con un po' di buona volontà si potrebbe
congetturare piuttosto il lavoro di esseri intelligenti, anzi che la semplice
opera delle forze naturali inorganiche. L'ultima grande apparizione di Marte ha
dato origine ad espressioni entusiastiche di tali speranze, specialmente presso
i Nordamericani; i quali, possedendo nel loro Osservatorio di California il più
gran cannocchiale che mai sia stato costrutto, avrebbero tutto il diritto al
vanto di aver scoperto non solo un nuovo mondo, ma anche una nuova umanità. Ma
in Francia l'agitazione delle menti ispirata dal Flammarion ha prodotto effetti
anche più straordinari: ivi con tutta serietà sono proposte ingenti somme come
premio a chi sarà primo a dimostrare, per mezzo della diretta osservazione, che
esistono in alcuno degli astri indizî certi di esseri intelligenti. In America
poi ed in Francia si sta macchinando la costruzione di nuovi telescopi
d'inusata potenza, il costo dei quali si conterà per milioni. Fra tanti segni
dei tempi questo almeno ci dà diritto a sperar bene dell'avvenire. L'ansietà
con cui molti guardano alle tenebre del futuro non mi sembra in ogni parte
giustificata. Non è vero che l'età presente, più delle passate, manchi di
elevati principi e di aspirazioni ideali. Il secolo decimonono può considerare
con orgoglio quello che ha fatto; il suo posto negli annali del progresso umano
non sarà senza gloria. A costo d'incredibili fatiche e di eroici sacrifizi esso
ha compiuto ormai l'esplorazione di tutta la superficie terrestre, sulle cui
carte non restano che poche lacune. Penetrando nelle viscere del nostro
pianeta, ha mostrato la storia delle trasformazioni a cui fu soggetto, ed ha
rievocato dal loro sepolcro le infinite generazioni che lo popolarono per
milioni di anni. Coll'investigazione archeologica, collo studio dell'etnografia
e della filologia ha ritrovato i veri titoli di nobiltà del genere umano, e
fatto risorgere alla luce del giorno i primi prodotti delle sue civiltà. Con
estese associazioni di pazienti e di instancabili osservatori ha iniziato lo studio
dell'atmosfera, e delle sue leggi, che sarà uno dei grandi problemi del secolo
XX. Ma tutto questo non gli è bastato; e dopo aver proseguito energicamente
nello studio dei cieli, della materia, e delle forze naturali l'opera dei
secoli anteriori e fondata la chimica degli astri, di cui prima pareva follia
parlare; ora aspira a più alta meta, e ansiosamente comincia a spiare, se
qualche voce di simpatia e di fratellanza non ci possa venir dalle profondità
cosmiche; e per ottenerne indizio è pronto a spender per un solo telescopio più
somme, di quante ne abbian spese in favore della scienza pura tutti i secoli
precedenti insieme considerati. Ecco uno, un solo dei tanti aspetti nobili,
moralmente grandiosi, poetici, sotto cui si presenterà alla posterità imparziale
quel secolo, che allo spettatore unilaterale sembra essere per eccellenza il
secolo della prosa, dell'egoismo, della meccanica brutale, dei godimenti
materiali. Noi siamo migliori di quello che crediamo essere! La stessa
difficoltà che proviamo ad esser contenti e soddisfatti di noi medesimi, è un
segno di progresso e di forza. Ma torniamo al nostro argomento.
II.
Nella scala delle orbite planetarie, la Terra occupa, a partir dal
Sole, il terzo posto e Marte il quarto. L'orbita di Marte comprende quindi
dentro di sè l'orbita della Terra; ed è di essa più grande nel rapporto di
circa 3 a 2. Ambedue le orbite sono di forma leggermente ovale, ma così per
l'una come per l'altra la differenza fra il più grande e il più piccolo
diametro è relativamente trascurabile: in altre parole, la differenza di queste
orbite da un circolo perfetto è assai poca, tanto che occorrebbero disegni in
molto grande scala per renderla sensibile a misure fatte col compasso. Il Sole
non si trova nel centro nè dell'una, nè dell'altra, e questo difetto di
centratura è assai maggiore per Marte che per la Terra. La Terra gira intorno
al Sole in ragione di 30 chilometri per minuto secondo; Marte in ragione di 24
chilometri. Essendo questi più lento, e dovendo percorrere un circolo più
grande, impiega, a far il suo giro completo intorno al Sole, 687 giorni, quasi
il doppio dei 365 che impiega la Terra a fare il proprio.
Quindi appare subito manifesta la ragione per cui così di raro
Marte rifulge in tutto il suo splendore. Movendosi i due astri intorno al Sole
in periodi così differenti, per lo più si troveranno in parti molto distanti
dello spazio celeste, e soltanto saranno vicini, quando l'uno e l'altro
giaceranno nella medesima direzione a partir dal sole. Trovandosi allora i tre corpi
(Sole, Terra, Marte) in linea retta, e la Terra (come quella che è più vicina
al Sole) occupando il posto di mezzo, allo spettatore terrestre, Marte ed il
Sole appariranno in plaghe opposte al cielo; e questo intendono dire gli
astronomi quando parlano di Marte in opposizione col Sole. Le epoche
adunque in cui Marte si presenta a noi più vicino, sono quelle delle
opposizioni, le quali ricorrono ad intervalli di circa ventisei mesi, o 780
giorni.
Ma non in tutte le opposizioni Marte giunge ad avvicinarsi alla
Terra in egual misura. Mentre l'orbita della Terra è quasi esattamente centrata
sul Sole, quella di Marte è invece notabilmente eccentrica: la loro proporzione
e disposizione può vedersi rappresentata nella figura qui a lato, dove S
rappresenta il Sole, il circolo minore è quello della Terra, il maggiore quello
di Marte. Ora si vede subito, che quando i due pianeti si avvicinano fra loro
nella parte più serrata dell'intervallo fra le due orbite, la Terra essendo in
T e Marte in M, si ha il massimo avvicinamento possibile, siccome (con poca
differenza) è accaduto nel 1877 e nel 1892, e di nuovo accadrà nel 1909.
Queste, che ricorrono ad intervalli alternati di 15 e di 17 anni, diconsi le grandi
opposizioni. Marte allora è veramente stupendo a considerare coll'occhio
nudo, ma più ancora col telescopio. Tuttavia anche in tale favorevolissima
posizione il suo diametro apparente non supera la settantacinquesima parte del
diametro apparente del Sole o della Luna: così che occorre un telescopio
amplificante 75 volte perchè in esso Marte si presenti come la Luna all'occhio
nudo. Ma nelle comuni opposizioni non si arriva neppure a tanto: e quando i due
pianeti occupano i punti designati sulla figura con T' M', la minima loro
distanza T'M' è quasi doppia della TM. In queste opposizioni meno fortunate il
massimo diametro apparente a cui Marte può arrivare non supera 1/150 del
diametro lunare, ed è necessario amplificarlo 150 volte per vederlo come la
Luna ad occhio nudo. La sua superficie apparente e la sua luce sono allora
soltanto il quarto di quella che si vede nelle grandi opposizioni.
Non conviene dunque illudersi su questi, che abbiam chiamato
avvicinamenti di Marte alla Terra; sono vicinanze relative, e la Luna, che pure
dista da noi trenta diametri del globo terrestre, ha ancora su Marte un
grandissimo vantaggio. Il 2 Settembre 1877 e il 6 Agosto 1892, giorni delle
ultime grandi opposizioni, ebbe luogo la minima distanza possibile del pianeta,
che fu di quasi 57 milioni di chilometri e di 146 volte la distanza della Luna.
Mentre adunque in questa un telescopio di mediocre potenza è capace di rilevare
montagne, valli, circhi e crateri senza numero ed un'infinità di altri
particolari topografici3, ben altro potere ottico sarà necessario,
perchè si possano vedere distintamente in Marte anche soltanto le
configurazioni delle macchie principali. L'esperienza ha fatto vedere che non è
difficile di rilevar nella Luna, col soccorso dei maggiori telescopi, un
oggetto rotondeggiante di mezzo chilometro di diametro, o una striscia di 200
metri di larghezza. In Marte si può arrivare a distinguere come punto un
oggetto rotondeggiante di 60 a 70 chilometri di diametro, e come linea sottile
una striscia di 30 chilometri di larghezza. Il corso di un fiume come il Po
sarebbe facile a distinguersi nella Luna su quasi tutta la sua lunghezza, ma
nessuno dei maggiori fiumi della Terra riuscirebbe a noi visibile in Marte. E
mentre nella Luna una città come Milano (od anche soltanto Pavia) sarebbe già
un oggetto ben vidibile a noi, in Marte non potremmo sperare di vedere neppure
Parigi e Londra, ed appena con molta attenzione sarebbe possibile distinguervi
isole rotondeggianti della grandezza di Majorca, od isole allungate, grandi
come Candia e Cipro.
Non farà dunque meraviglia, che Galileo, i cui telescopi non
superarono mai l'amplificazione di 30 diametri, non abbia potuto fare in Marte
alcuna scoperta. Primo ad osservare con qualche sicurezza le macchie di questo
pianeta fu il celebre Ugenio, che le vide coll'aiuto di telescopi lavorati da
lui stesso, assai più perfetti e più grandi di quelli di Galileo (1656-1659).
Pochi anni dopo, Domenico Cassini a Bologna (1666) non solo riconobbe diverse
macchie, ma dal loro rapido spostarsi sul disco fu condotto a scoprire la
rotazione del pianeta intorno ad un asse obliquo, a similitudine della Terra:
dalla qual rotazione definì la durata in 24 ore e 40 minuti. I telescopi usati
da Cassini erano lavorati in Roma dal più celebre artefice ottico di quei
tempi, Giuseppe Campani, i cui lavori godettero di un incontrastabile primato
per quasi cent'anni, fino a che per opera di Short, di Dollond e di Herschel
tale vanto passò per qualche tempo all'Inghilterra. E con telescopi di Campani
fece Bianchini in Verona nel 1719 i primi disegni alquanto accurati delle
macchie di Marte, scoprendo in esse particolari abbastanza difficili, quale per
esempio la sottile penisola che nella carta annessa porta il nome di Hesperia.
Verso la fine del secolo scorso Herschel e Schroeter dallo studio delle candide
macchie polari del pianeta dedussero l'obliquità del suo asse di rotazione
rispetto al piano dell'orbita, quell'angolo, cioè, che per la Terra costituisce
l'obliquità dell'eclittica, ed è poco diverso nell'uno e nell'altro pianeta.
Così fu determinato anche per i due emisferi di Marte il corso periodico delle
stagioni, e la legge delle variazioni dei climi, che tanta analogia mostrano
con le nostre.
Tutte queste osservazioni però non erano sufficienti a dare una
descrizione completa della superficie di Marte. Come vero fondatore dell'Areografia4
dobbiamo considerare il tedesco Maedler, il quale nel 1830, valendosi di un
perfettissimo telescopio di Fraunhofer (celebre ottico di Monaco, per cui opera
il primato nella costruzione dei telescopi passò verso il 1820 alla Germania),
vide e descrisse le macchie del pianeta incomparabilmente meglio che tutti gli
astronomi anteriori. Maedler fu il primo a determinare con misure bene ordinate
la posizione di un certo numero di punti principali sulla superficie di Marte
rispetto all'equatore e ad un primo meridiano, che è quello notato zero
sull'annessa carta.
Ordinando rispetto a questi
punti le diverse particolarità topografiche riuscì a costruire la prima carta
areografica: la quale, comechè ancora incompleta e necessariamente limitata a
poche macchie principali, è tuttavia monumento onorevole della sua cura e
diligenza, e rappresenta per la descrizione di Marte quello che 2000 anni fa la
carta di Eratostene fu per la geografia terrestre. Questa carta per più di 30
anni fu non soltanto la migliore, ma anzi l'unica; e soltanto verso il 1860 si
cominciò a fare nello studio del pianeta qualche progresso ulteriore,
specialmente per le osservazioni di Secchi, Dawes, Kaiser, e Lockyer. Da
quell'epoca e specialmente a partire dalla grande opposizione del 1862 quei
progressi si vennero accelerando, ed a ciò contribuirono non poco i grandissimi
telescopi, che negli ultimi tempi gli ottici, specialmente quelli d'America,
hanno imparato a costruire5.
Dalla comparazione di tutte le nuove ed antiche osservazioni
risultò come primo fatto importante, che la forma e disposizione delle macchie
del pianeta è invariabile nei suoi tratti principali, com'è sulla Terra la
distribuzione dei mari e della parte asciutta. Noi possiamo, per esempio,
riconoscere nei disegni di Ugenio (1659) il golfo appellato Gran Sirte
(vedi l'annessa carta); nei disegni di Maraldi (1704) il Mare Cimmerio e
il Mare delle Sirene; nei disegni di Bianchini (1719) il Mare Tirreno
e la penisola Esperia. Anche le posizioni dei punti principali
determinate da Maedler (1830), da Kaiser (1862) e da me (1877-1879) si
accordano fra loro in modo da escludere affatto l'idea di Schroeter, che le
macchie di Marte siano nuvole o formazioni atmosferiche transitorie, come
certamente sono quelle di Giove e di Saturno.
Marte ha dunque una topografia stabile, come la Terra e la Luna, e
per quanto si può sapere, anche Mercurio. Tale stabilità si ravvisa tuttavia
per Marte soltanto nelle forme generali, e non si estende agli ultimi
particolari. Osservazioni continuate han posto fuor d'ogni dubbio negli ultimi
tempi che molte regioni mutano di colore fra certi limiti, secondo la stagione
che domina su quei luoghi, e secondo l'inclinazione, con cui sono percossi dai
raggi solari. Tali mutazioni di colori hanno certamente luogo anche per molte
parti della Terra, e sarebbero visibili ad uno spettatore collocato in Marte.
Ma si osserva in questo una cosa, che certamente sulla Terra non ha luogo: i
contorni delle grandi macchie possono subire cioè leggiere mutazioni, piccole
rispetto alle dimensioni delle macchie stesse, ma pur tuttavia abbastanza
grandi per rendersi cospicue anche a noi. Anche questi contorni non sono sempre
ugualmente ben definiti. Molte minutissime particolarità si vedono meglio in
certe epoche, e meno bene in certe altre; e possono da un tempo all'altro anche
variar d'aspetto e di forma, senza che tuttavia si possa concepire alcun dubbio
sulla loro identità. E finalmente è da notare, che Marte ha un'atmosfera
abbastanza densa, ed una propria meteorologia, come sarà spiegato più innanzi.
Tutte queste variazioni annunziano un sistema grandioso di processi naturali,
che conferisce allo studio di Marte un interesse molto più grande di quello che
deriverebbe dal semplice studio topografico di una superficie immutabile ed
inerte, come sembra esser quella della Luna. Insomma il pianeta non è un
deserto di arido sasso; esso vive, e la sua vita si manifesta alla superficie
con un insieme molto complicato di fenomeni, ed una parte di questi fenomeni si
sviluppa su scala abbastanza grande per riuscire osservabile agli abitatori
della Terra. Vi è in Marte un mondo intiero di cose nuove da studiare,
eminentemente proprie a destare la curiosità degli osservatori e dei filosofi,
le quali daranno da lavorare a molti telescopi per molti anni, e saranno un
grande impulso al perfezionamento dell'Ottica. Tale è la varietà e la
complicazione dei fenomeni, che soltanto uno studio completo e paziente potrà
rischiarare le leggi secondo cui quelli si producono, e condurre a conclusioni
sicure e definite sulla costituzione fisica di un mondo tanto analogo al nostro
sotto certi rispetti, e pur sotto altri tanto diverso.
Non si creda tuttavia di poter accedere a questo studio così
attraente senza aiuto ottico proporzionato alla difficoltà della cosa. La
sempre grande distanza del pianeta, e la piccolezza relativa6 del
medesimo non permettono di usare con molto frutto amplificazioni inferiori a
200 e 300, nè telescopi di lente obbiettiva inferiore in diametro a 20
centimetri: questo nelle grandi opposizioni, come quelle del 1877 e del
1892. Ma nelle opposizioni meno favorevoli (ed in quelle appunto suole Marte
dispiegare i suoi fenomeni più curiosi) lo studio dei più delicati particolari
non si può far bene con amplificazioni minori di 500 e 600 diametri, quali si
possono avere soltanto da telescopi dell'apertura di 40 centimetri o più.
Le due carte annesse sono state fatte appunto con istrumenti della
forza che ho detto. L'emisfero australe, il quale a causa dell'inclinato asse
di Marte suole presentarsi meglio alla nostra vista nelle grandi opposizioni,
che nelle altre, è stato rilevato principalmente negli anni 1877-1879, con un
telescopio di 22 centimetri d'apertura. Ma per l'emisfero boreale, che si
presenta in prospettiva conveniente soltanto nelle opposizioni meno favorevoli,
si è potuto negli anni 1888 e 1890 approfittare di un istrumento molto più
grande, il cui vetro obbiettivo ha 49 centimetri di diametro, e permette di
spingere l'amplificazione di Marte fino a 500 e 650.
Non senza qualche interesse vedrà il lettore rappresentato
nell'annessa pagina quest'ultimo istrumento, il più potente che sia uscito
delle officine di Germania. La sua collocazione a Brera fu decretata dal Re e
dal Parlamento nel 1878; ogni volta che lo consideriamo esso richiama a noi la
memoria di quell'uomo non facilmente dimenticabile, che fu Quintino Sella, ai
cui uffici la Specola di Milano deve questo suo principale ornamento. La lente
obbiettiva, lavorata in Monaco da Merz successore di Fraunhofer, ha 49
centimetri di diametro nella parte libera; la macchina che porta il telescopio
e permette di dirigere con tutta facilità in cinque minuti la gran mole verso
qualunque plaga del cielo, è un vero prodigio della meccanica moderna e fu
lavorata in Amburgo dai fratelli Repsold. La sua parte mobile (che son
parecchie tonnellate di metallo) può essere mossa dalla pressione di un dito ed
aggiustato su qualunque astro colla stessa esattezza che si potrebbe ottenere
per il più delicato microscopio. Un meccanismo d'orologio la porta in giro
insieme al cielo intorno all'asse del mondo, per guisa, che diretto il
telescopio ad un astro, segue di questo la rivoluzione diurna, e l'astro appare
immobile nel campo telescopico per tutto il tempo che si vuole. I molti organi
sussidiari, che si veggono nella parte inferiore del tubo a portata
dell'osservatore, servono alle diverse specie di operazioni, che con questo
strumento si devono compiere.
È questo il massimo dei telescopi esistenti in Italia7 ma
otto o dieci altri di esso maggiori sono stati costrutti o si stanno costruendo
in diverse parti. Fra tutti giganteggia quello dell'Osservatorio di California,
eretto sulla cima del Monte Hamilton, presso S. Francisco per legato di James
Lick, ricco negoziante, che in tal modo volle assicurata presso i posteri la
sua memoria. L'obbiettivo di questo colosso dell'ottica moderna ha 91 1/2
centimetri di diametro, e da sè solo è costato l'egregia somma di 50 mila
dollari (275000 lire a un dipresso). Tutto l'istrumento è, nella sua generale
disposizione, poco dissimile da quello che qui sopra fu descritto, ma è due
volte più grande in ogni dimensione. Ma fra non molto il telescopio
Californiano sarà superato da un altro, per il quale già si hanno fusi i vetri
in America: questo avrà non meno di 102 centimetri d'apertura, ed il suo costo
è calcolato in 200 mila dollari (1.100.000 lire). E sarà collocato, non già nei
climi variabili della nostra zona temperata, e tanto meno poi in mezzo al fumo
e alla luce elettrica di una città grande; ma sopra una mediocre elevazione
delle Ande peruviane, in un clima sereno, di aria tranquilla e temperata,
benchè posto nella zona torrida.
Quanto al telescopio di tre metri di diametro che si vuoi
preparare in Francia per l'esposizione del 1900, e sul quale già si è mosso
tanto rumore, aspetteremo a parlarne quando sarà fatto. Non ha da essere un
telescopio a vetri, come i precedenti, ma un telescopio riflettore nel
quale la lente obbiettiva sarà surrogata da un grande specchio. Senza dubbio,
la maggior facilità e la minore spesa di questa maniera di telescopio
permetterà di raggiungere dimensioni molto maggiori che colle lenti di vetro:
anzi esistono già in Inghilterra ed in Francia parecchi di tali strumenti da
uno a due metri di diametro, i quali prestano utillissimi servizi in molte
ricerche e segnatamente in tutte quelle che richiedono gran copia di luce senza
molto riguardo alla precisione dell'immagine ottica: per esempio nello studio
del calore lunare e nella chimica celeste. Ma quanto a visione distinta, gli
specchi di grande dimensione finora si son dimostrati troppo inferiori alle
lenti di corrispondente potenza: e riguardo all'esplorazione dei mondi
planetari non sarà permesso di fondare sul futuro telescopio di Parigi molto
grandi speranze.
III.
Già i primi Astronomi, che studiarono Marte col telescopio, ebbero
occasione di notare sul contorno del suo disco due macchie bianco-splendenti di
forma rotondeggiante e di estensione variabile. In progresso di tempo fu
osservato, che mentre le macchie comuni di Marte si spostano rapidamente in
conseguenza della sua rotazione diurna, mutando in poche ore di posizione e di
prospettiva; quelle due macchie bianche rimangono sensibilmente immobili al
loro posto. Si concluse giustamente da questo, dover esse occupare i poli di
rotazione del pianeta, o almeno trovarsi molto prossime a quei poli. Perciò
furono designate col nome di macchie o calotte polari. E non senza fondamento
si è congetturato, dover esse rappresentare per Marte quelle immense congerie
di nevi e di ghiacci, che ancor oggi impediscono ai navigatori di giungere ai
poli della terra. A ciò conduce non solo l'analogia d'aspetto e di luogo, ma
anche un'altra osservazione importante.
Come è noto dai principî di cosmografia, l'asse della terra è
inclinato sul piano dell'orbe che essa descrive intorno al sole; l'equatore
pertanto non coincide al piano di detto orbe, ma è inclinato rispetto ad esso
piano dell'angolo di 23 1/2 gradi, detto l'obliquità
dello zodiaco o dell'eclittica. Ed è noto pure, come da questa semplice e quasi
accidentale circostanza tragga origine una varietà di fatti, che sono del più
grande influsso sui climi dei diversi paesi, producendo l'estate e l'inverno, e
la diversa durata dei giorni e delle notti. Ora lo stesso precisamente avviene
in Marte. Il suo equatore è inclinato rispetto al piano dell'orbita di quasi 25
gradi; e da tal disposizione ha origine la stessa vicenda delle stagioni e
dell'irradiamento solare, la stessa varietà di climi e di giorni, che ha luogo
sulla Terra. Marte ha dunque le sue zone climatiche, i suoi equinozi e i suoi
solstizi, e simili vicende d'illuminazione. Per quanto concerne la durata dei
giorni e delle notti il parallelismo è quasi completo nella zona torrida e
nelle temperate: perchè mentre il giorno terrestre solare è di 24 ore, il
giorno solare di Marte è di 24 ore e quaranta minuti prossimamente. Circa
l'andamento delle stagioni e delle lunghe giornate e notti del polo vi è questa
differenza, che le nostre stagioni durano tre mesi ciascuna, quelle di Marte
hanno una durata poco men che doppia, di 171 giorni in media: e i giorni e le
notti del polo, che presso di noi sono di sei mesi a un dipresso in Marte
durano per un medio undici mesi8. Tal differenza è dovuta a questo
principalmente, che l'anno di Marte è di 687 giorni terrestri, mentre il nostro
è di soli 365.
Così stando le cose, è manifesto, che se le suddette macchie
bianche polari di Marte rappresentano nevi e ghiacci, dovranno andar
decrescendo di ampiezza col sopravvenire dell'estate in quei luoghi, ed
accrescersi durante l'inverno. Or questo appunto si osserva nel modo più
evidente. Nel secondo semestre dell'anno decorso 1892 fu in prospetto la
calotta del polo australe; durante quell'intervallo, e specialmente nei mesi di
Luglio e d'Agosto, anche osservando con cannocchiali affatto comuni era
chiarissima di settimana in settimana la sua rapida diminuzione; quelle nevi
(ora ben possiamo chiamarle tali), che da principio giungevano fino al 70.°
parallelo di latitudine, e formavano una calotta di oltre 2000 chilometri di
diametro, si vennero progressivamente ritraendo al punto, che due o tre mesi
dopo pochissimo più ne rimaneva, una estensione di forse 300 chilometri al
maximum; e anche meno se ne vede adesso, negli ultimi giorni del 1892. In
questi mesi l'emisfero australe di Marte ebbe la sua estate; il solstizio
estivo essendo avvenuto il 13 Ottobre. Corrispondentemente ha dovuto
accrescersi la massa delle nevi intorno al polo boreale; ma il fatto non fu
osservabile, trovandosi quel polo nell'emisfero di Marte opposto a quello che
riguarda la Terra. Lo squagliarsi delle nevi boreali è stato invece osservabile
negli anni 1882, 1884, 1886.
Queste osservazioni del crescere e decrescere alterno delle nevi
polari, abbastanza facili anche con cannocchiali di mediocre potenza, diventano
molto più interessanti ed istruttive, quando se ne seguano assiduamente le
vicende nei più minuti particolari, usando di strumenti maggiori. Si vede
allora lo strato nevoso sfaldarsi successivamente agli orli; buchi neri e
larghe fessure formarsi nel suo interno; grandi pezzi isolati, lunghi e larghi
molte miglia staccarsi dalla massa principale, e sparire sciogliendosi poco
dopo. Si vedono insomma presentarsi qui d'un colpo d'occhio quelle divisioni e
quei movimenti dei campi ghiacciati, che succedono durante l'estate delle
nostre regioni artiche secondo le descrizioni degli esploratori.
Le nevi australi offrono questa particolarità, che il centro della
loro figura irregolarmente rotondeggiante non cade proprio sul polo, ma in un
altro punto, che è sempre press'a poco il medesimo, e dista dal polo di circa
300 chilometri nella direzione del Mare Eritreo. Da questo deriva, che
quando l'estensione delle nevi è ridotta ai minimi termini, il polo australe di
Marte ne rimane scoperto; e quindi forse il problema di raggiungerlo è su quel
pianeta più facile che sulla Terra. Le nevi australi sono in mezzo di una gran
macchia oscura, che colle sue ramificazioni occupa circa un terzo di tutta la
superficie di Marte, e si suppone rappresenti l'Oceano principale di esso. Se
questo è, l'analogia con le nostre nevi artiche ed antartiche si può dire
completa, e specialmente colle antartiche.
La massa delle nevi boreali di Marte è invece centrata quasi
esattamente sul polo; essa è collocata nelle regioni di color giallo, che
soglionsi considerare come i continenti del pianeta. Da ciò nascono fenomeni
singolari, che non hanno sulla Terra alcun confronto. Allo squagliarsi delle
nevi accumulate su quel polo durante la lunghissima notte di dieci mesi e più,
le masse liquide prodotte in tale operazione si diffondono sulla circonferenza
della regione nevata, convertendo in mare temporaneo una larga zona di terreno circostante;
e riempiendo tutte le regioni più basse producono una gigantesca inondazione,
la quale ad alcuni osservatori diede motivo di supporre in quella parte un
altro Oceano, che però in quel luogo non esiste, almeno come mare permanente.
Vedesi allora (l'ultima occasione a ciò opportuna fu nel 1884) la macchia
bianca delle nevi circondata da una zona oscura, la quale segue il perimetro
delle nevi nella loro progressiva diminuzione, e va con esso restringendosi
sopra una circonferenza sempre più angusta. Questa zona si ramifica dalla parte
esterna con strisce oscure, le quali occupano tutta la regione circostante, e
sembrano essere i canali distributori, per cui le masse liquide ritornano alle
loro sedi naturali. Nascono in quelle parti laghi assai estesi, come quello
segnato sulla carta col nome di Lacus Hyperboreus; il vicino mare
interno detto Mare Acidalio, diventa più nero e più appariscente. Ed è a
ritenere come cosa assai probabile, che lo scolo di queste nevi liquefatte sia
la causa che determina principalmente lo stato idrografico del pianeta, e le
vicende che nel suo aspetto periodicamente si osservano. Qualche cosa di simile
si vedrebbe sulla Terra, quando uno dei nostri poli venisse a collocarsi
subitamente nel centro dell'Asia o dell'Africa. Come stanno oggi le cose,
possiamo trovare un'immagine microscopica di questi fatti nel gonfiarsi che si
osserva dei nostri torrenti allo sciogliersi dei nevai alpini.
I viaggiatori delle regioni artiche hanno frequente occasione di
notare, come lo stato dei ghiacci polari nel principio della state, ed ancor al
principio di Luglio, è sempre poco favorevole al progresso dei viaggiatori; la
stagione migliore per le esplorazioni è nel mese di Agosto, e Settembre è il
mese, in cui l'ingombro dei ghiacci è minimo. Così pure nel Settembre sogliono
essere le nostre Alpi più praticabili che in ogni altra epoca. E la ragione ne
è chiara; lo scioglimento delle nevi richiede tempo; non basta l'alta
temperatura, bisogna che essa continui, ed il suo effetto sarà tanto maggiore,
quanto più prolungato. Se quindi noi potessimo rallentare il corso delle
stagioni, così che ogni mese durasse sessanta giorni invece di trenta;
nell'estate in tal modo raddoppiata lo scioglimento dei ghiacci progredirebbe
molto di più e forse non sarebbe esagerazione il dire che la calotta polare al
fine della calda stagione andrebbe interamente distrutta. Ma non si può
dubitare ad ogni modo, che la parte stabile di tale calotta sarebbe ridotta a
termini molto più angusti, che oggi non si veda. Ora questo appunto succede in
Marte. Il lunghissimo anno quasi doppio del nostro permette ai ghiacci di
accumularsi durante la notte polare di 10 o 12 mesi in modo, da scendere sotto
forma di strato continuo fino al parallelo 70° ed anche più basso; ma nel giorno
che segue di 12 o 10 mesi il Sole ha tempo di liquefare tutta o quasi tutta
quella neve di recente formazione, riducendola a sì poca estensione, da
sembrare a noi nulla più che un punto bianchissimo. E forse tali nevi si
struggono intieramente, ma di questo finora non si ha alcuna sicura
osservazione.
Altre macchie bianche di carattere transitorio e di disposizione
meno regolare si formano sull'emisfero australe nelle isole vicine al polo; e
così pure nell'emisfero opposto regioni biancheggianti appaiono talvolta
intorno al polo boreale fino al 50° e 55° parallelo. Sono forse nevicate
effimere, simili a quelle che si osservano nelle nostre latitudini. Ma anche
nella zona torrida di Marte si vedono talora piccolissime macchie bianche più o
meno persistenti, fra le quali una fu da me veduta in tre opposizioni
consecutive (1877-1882) nel punto segnato sui nostri planisferi dalla
longitudine 268° e dalla latitudine 16° nord. Forse è permesso congetturare in
questi luoghi la esistenza di montagne capaci di nutrire vasti ghiacciai.
L'esistenza di tali montagne è stata supposta anche da alcuni recenti
osservatori, sul fondamento di altri fatti.
Quanto si è narrato delle nevi polari di Marte prova in modo
incontrastabile, che questo pianeta, come la Terra, è circondato da
un'atmosfera capace di trasportar vapori da un luogo all'altro. Quelle nevi
infatti sono precipitazioni di vapori condensati dal freddo e colà
successivamente portati; ora come portati, se non per via di movimenti
atmosferici? L'esistenza di un'atmosfera carica di vapori è stata confermata
anche dalle osservazioni spettrali, principalmente da quelle di Vogel; secondo
il quale tale atmosfera sarebbe di composizione poco diversa dalla nostra, e
sopratutto molto ricca di vapore acqueo. Fatto questo sommamente
importante, perchè ci dà il diritto di affermare con molta probabilità, che
d'acqua e non d'altro liquido siano i mari di Marte e le sue nevi polari.
Quando sarà assicurata sopra ogni dubbio questa conclusione, un'altra ne
discenderà non meno grave; che le temperature dei climi marziali, malgrado la
maggior distanza dal Sole, sono del medesimo ordine che le temperature
terrestri. Perchè se fosse vero quanto fu supposto da alcuni investigatori, che
la temperatura di Marte sia in media molto bassa (di 50° a 60° sotto lo zero!)
non potrebbe più il vapor acqueo essere uno degli elementi principali
dell'atmosfera di Marte, nè potrebbe l'acqua essere uno dei fattori importanti
delle sue vicende fisiche; ma dovrebbe lasciare il luogo all'acido carbonico o ad
altro liquido, il cui punto di congelazione sia molto più basso.
Gli elementi della meteorologia di Marte sembrano dunque aver
molta analogia con quelli della meteorologia terrestre. Non mancano però, come
è da aspettarsi, le cause di dissomiglianza. Anche qui, da circostanze di
piccol momento trae la Natura un'infinita varietà nelle sue operazioni. Di
grandissima influenza dev'esser la diversa maniera, con cui in Marte e sulla
Terra veggonsi ordinati i mari ed i continenti; su di che uno sguardo alla carta
dice più che non si farebbe con molte parole. Già abbiamo accennato al fatto
delle straordinarie inondazioni periodiche, che ad ogni rivoluzione di Marte ne
allagano le regioni polari boreali allo sciogliersi delle nevi: aggiungeremo
ora, che queste inondazioni diramate a grandi distanze per una rete di numerosi
canali, forse costituiscono il meccanismo principale (se non unico), per cui
l'acqua (e con essa la vita organica) può diffondersi sulla superficie asciutta
del pianeta. Perchè infatti su Marte piove molto raramente, o forse anche
non piove affatto. Ed eccone la prova.
Portiamoci coll'immaginazione nello spazio celeste, in un punto
distante dalla Terra così, da poterla abbracciare d'un solo colpo d'occhio.
Molto andrebbe errato colui, che sperasse veder di là riprodotta in grande
scala la immagine dei nostri continenti coi loro golfi ed isole e coi mari che
li circondano, quale si vede nei nostri globi artificiali. Qua e là senza
dubbio si vedrebbero trasparire sotto un velo vaporoso le note forme, o parti
di esse. Ma una buona parte (forse la metà) della superficie sarebbe fatta
invisibile da immensi campi di nuvole, continuamente variabili di densità, di
forma e di estensione. Tale ingombro, più frequente e più continuato nelle
regioni polari, impedirebbe ancora per circa la metà del tempo, la vista delle
regioni temperate, distribuendosi su di esse in capricciose e perpetuamente
variate configurazioni; sui mari della zona torrida si vedrebbe disposto in
lunghe fasce parallele, corrispondenti alle zone delle calme equatoriali e
tropicali. Per uno spettatore posto nella Luna, lo studio della nostra
geografia non sarebbe un'impresa tanto semplice, quanto si potrebbe immaginare.
Nulla di questo in Marte. In ogni clima e sotto ogni zona la sua atmosfera
è quasi perpetuamente serena e trasparente abbastanza per lasciar riconoscere a
qualunque momento i contorni dei mari e dei continenti, e per lo più anche le
configurazioni minori. Non già che manchino vapori di un certo grado di
opacità; ma ben poco impedimento danno essi allo studio della topografia del
pianeta. Qua e là vedonsi comparire di quando in quando alcune chiazze
biancastre, mutar di posizione e di forma, di raro estendersi sopra aree
alquanto ampie; esse prediligono di preferenza alcune regioni, come le isole
del Mare Australe e sui continenti le parti segnate sulla carta coi nomi di Elysium
e di Tempe. Il loro candore generalmente diminuisce e scompare nelle ore
meridiane del luogo, e si rinforza la mattina e la sera con vicenda molto
spiccata. È possibile che siano strati di nuvole, perchè così bianche appajono
pure le nubi terrestri nella parte superiore illuminata dal Sole. Però diverse
osservazioni conducono a pensare, che si tratti piuttosto di sottili veli di
nebbia, anzichè di veri nembi apportatori di temporali e di piogge: se pure non
sono temporanee condensazioni di vapore sotto forma di rugiada o di brina.
Adunque, per quanto è lecito argomentare dalle cose osservate, il
clima di Marte nel suo generale complesso dovrebbe rassomigliare a quello delle
giornate serene nelle alte montagne. Di giorno un'insolazione fortissima, quasi
punto mitigata da nuvole o da vapori; di notte una copiosa irradiazione del
suolo verso lo spazio celeste, e quindi un grande raffreddamento. Da ciò un
clima eccessivo e grandi sbalzi di temperatura dal giorno alla notte e da una
stagione all'altra. E come sulla Terra ad altezze di 5000 e 6000 metri i vapori
dell'atmosfera più non si condensano che sotto forma solida, formando quelle
masse biancastre di diacciuoli sospesi, che si chiamano cirri; così
nell'atmosfera di Marte saranno raramente possibili (od anche non saranno
possibili) vere agglomerazioni di nuvole capaci di dar luogo a piogge di
qualche momento. Lo squilibrio di temperatura fra una stagione ed un'altra sarà
poi accresciuto notabilmente dalla lunga durata delle medesime; e così si
comprende la grande coagulazione e dissoluzione di nevi, che si rinnova intorno
ai poli ad ogni rivoluzione compiuta dal pianeta intorno al Sole.
IV.
Come le nostre carte dimostrano9, nella sua generale
topografia Marte non presenta alcuna analogia colla Terra. Un terzo della sua
superficie è occupato dal gran Mare Australe, che è sparso di molte isole, e
spinge entro ai continenti golfi e ramificazioni di varia forma; al suo sistema
appartiene un'intiera serie di piccoli mari interni, dei quali l'Adriatico
ed il Tirreno comunicano con esso per ampie bocche, mentre il Cimmerio,
quello delle Sirene, e il Lago del Sole non hanno con esso relazione
che per mezzo di angusti canali. Si noterà nei quattro primi una disposizione
parallela, che certo non è accidentale, come pure non senza ragione è la
corrispondente positura delle penisole Ausonia, Esperia ed Atlantide.
Il colore dei mari di Marte è generalmente bruno misto di grigio, non sempre
però di uguale intensità in tutti i luoghi, nè nel medesimo luogo è uguale in
ogni tempo. Dal nero completo si può scendere al grigio chiaro ed al cinereo.
Tal diversità di colore può aver origine da varie cause, e non è senza analogia
anche sulla Terra, dove è noto che i mari delle zone calde sogliono essere più
oscuri che i mari più vicini al polo. Le acque del Baltico, per esempio, hanno
un color luteo chiaro, che non si osserva nel Mediterraneo. E così pure nei
mari di Marte si vede il colore farsi più cupo quando il sole si avvicina alla
loro verticale e l'estate comincia a dominare in quelle regioni.
Tutto il resto del pianeta fino al polo Nord è occupato dalle
masse dei continenti, nelle quali, salvo alcune aree di estensione
relativamente piccola, predomina il colore aranciato, che talvolta sale al
rosso più cupo, altre volte scende al giallo ed al biancastro. La varietà di
questa colorazione è in parte d'origine meteorica, in parte può dipendere dalla
diversa natura del suolo, e sulle sue cause ancora non è possibile appoggiare
ipotesi molto fondate. Neppure è nota la causa di questo predominio delle tinte
rosse e gialle sulla superficie del vecchio Pyrois. Alcuno ha creduto di
attribuire questa colorazione all'atmosfera del pianeta, attraverso alla quale
si vedrebbe colorata la superficie di Marte, come rosso diventa un oggetto
terrestre qualsiasi, veduto a traverso vetri di tal colore. Ma a ciò si
oppongono più fatti, fra gli altri questo, che le nevi polari appajono sempre
del bianco più puro, benchè i raggi di luce da esse derivati attraversino due
volte l'atmosfera di Marte sotto una grande obliquità. Noi dobbiamo dunque
concludere che i continenti marziali ci appajono rossi e gialli, perchè tali veramente
sono.
Oltre a queste regioni oscure e luminose, che noi abbiamo
qualificato per mari e continenti, e la cui natura ormai non lascia luogo che a
poco dubbio, alcune altre ne esistono, veramente poco estese, di natura
anfibia, le quali talvolta ingialliscono e sembrano continenti, in altri tempi
vestono il bruno (anche il nero in certi casi) e assumono l'apparenza dei mari;
mentre in altre epoche la loro colorazione intermedia lascia dubitare a qual
classe di regioni esse appartengano. Quasi tutte le isole sparse nel Mare
Australe e nel Mare Eritreo appartengono a questa categoria, così pure le
lunghe penisole chiamate Regioni di Deucalione e di Pirra, e in
contiguità del Mare Acidalio le regioni sognate coi nomi di Baltia e di Nerigos.
L'idea più naturale e più conforme all'analogia sembra quella di supporre in
esse vaste lagune, su cui variando le profondità dell'acqua si produca la
diversità del colore, predominando il giallo in quelle parti dove la profondità
del velo liquido è ridotta a poco od anche a niente, e il colore bruno più o
meno oscuro nei luoghi dove le acque sono tanto alte da assorbire molta luce e
da rendere più o meno invisibile il fondo. Che l'acqua del mare o qualsiasi
acqua profonda e trasparente veduta dall'alto appaja tanto più oscura quanto
maggiore è l'altezza dello strato liquido, e che le terre in confronto di esse
appajano chiare sotto l'illuminazione del Sole, è cosa nota e confermata da
certissime ragioni fisiche. Chi viaggia nelle Alpi spesso ha occasione di
convincersene, vedendo dalle cime neri come l'inchiostro stendersi sotto i suoi
piedi i profondi laghetti di cui sono seminate, in confronto dei quali luminose
appajono anche le rupi più nereggianti percosse dal sole10.
Non senza fondamento adunque abbiamo finora attribuito alle
macchie oscure di Marte la parte di mari e quella di continenti alle aree
rosseggianti che occupano quasi i due terzi di tutto il pianeta, e troveremo
più tardi altre ragioni che confermano tal modo di vedere. I continenti formano
nell'emisfero boreale una massa quasi unica e continua, sola eccezione
importante essendo il gran lago detto Mare Acidalio, del quale
l'estensione pare mutarsi secondo i tempi e connettersi in qualche modo colle
inondazioni che dicemmo prodotte dallo sciogliersi delle nevi intorno al polo
boreale. Al sistema del Mare Acidalio appartiene senza dubbio il lago
temporario denominato Iperboreo ed il Lago Niliaco: quest'ultimo
ordinariamente separato dal Mare Acidalio per mezzo di un istmo o diga
regolare, la cui continuità soltanto nel 1888 fu vista interrompersi per
qualche tempo. Altre macchie oscure minori si trovano qua e là nella parte
continentale, le quali potrebbero rappresentare dei laghi, ma non certo laghi
permanenti come i nostri; tanto sono variabili d'aspetto e di grandezza secondo
le stagioni, al punto da scomparire affatto in date circostanze. Il Lago
Ismenio, quello della Luna, il Trivio di Caronte e la Propontide
sono i più cospicui e i più durevoli. Ve ne sono di piccolissimi, quali il Lago
Meride e il Fonte di Gioventù, che nella loro maggiore appariscenza
non superano i 100 o 150 chilometri di diametro e contano fra gli oggetti più
difficili del pianeta.
Tutta la vasta estensione dei continenti è solcata per ogni verso
da una rete di numerose linee o strisce sottili di color oscuro più o meno
pronunziato, delle quali l'aspetto è molto variabile. Esse percorrono sul
pianeta spazi talvolta lunghissimi con corso regolare, che in nulla rassomiglia
l'andamento serpeggiante dei nostri fiumi; alcune più brevi non arrivano a 500
chilometri, altre invece si estendono a più migliaja, occupando un quarto ed
anche talvolta un terzo di tutto il giro del pianeta. Alcuna di esse è
abbastanza facile a vedere, e più di tutte quella che è presso l'estremo limite
sinistro delle nostre carte, designata col nome di Nilosyrtis: altre
invece sono estremamente difficili, e rassomigliano a tenuissimi fili di ragno
tesi attraverso al disco. Quindi molto varia è altresì la loro larghezza, che
può raggiungere 200 od anche 300 chilometri per la Nilosirte, mentre per altre
forse non arriva a 30 chilometri.

Queste linee o strisce sono i famosi canali di Marte, di
cui tanto si è parlato. Per quanto si è fino ad oggi potuto osservare, sono
certamente configurazioni stabili del pianeta; la Nilosirte è stata veduta in
quel luogo da quasi cent'anni, ed alcune altre da trent'anni almeno. La loro
lunghezza e giacitura è costante, o non varia che entro strettissimi limiti;
ognuna di esse comincia e finisce sempre fra i medesimi termini. Ma il loro
aspetto e il loro grado di visibilità sono assai variabili per tutte da
un'opposizione ad un altra, anzi talvolta da una settimana all'altra; e tali
variazioni non hanno luogo simultaneamente
e con ugual legge per tutte, ma nel più dei casi succedono quasi a
capriccio, od almeno secondo regole non abbastanza semplici per essere subito
intese da noi. Spesso una o più diventano indistinte od anche affatto
invisibili, mentre altre loro vicine ingrossano al punto da diventar evidenti
anche in cannocchiali di mediocre potenza. La prima delle nostre carte presenta
tutte quelle che sono state vedute in una lunga serie di osservazioni; essa
tuttavia non corrisponde all'aspetto di
Marte in alcuna epoca, perchè generalmente soltanto poche sono visibili di un tratto11
Ogni canale (per ora chiamiamoli così) alle sue estremità sbocca o
in un mare, od in un lago, od in un altro canale, o nell'intersezione di più
altri canali. Non si è mai veduto uno di essi rimaner troncato nel mezzo del
continente, rimanendo senza uscita e senza continuazione. Questo fatto è della
più alta importanza. I canali possono intersecarsi fra di loro sotto tutti gli
angoli possibili; ma di preferenza convergono verso le piccole macchie cui
abbiamo dato il nome di laghi. Per esempio sette se ne veggono convergere nel Lago
della Fenice, otto nel Trivio di Caronte, sei nel Lago della Luna,
sei nel Lago Ismenio.
L'aspetto normale di un canale è quello di una striscia quasi
uniforme nera o almeno di colore oscuro simile a quello dei mari, in cui la
regolarità del generale andamento non esclude piccole diversità di larghezza e
piccole sinuosità nei due contorni laterali. Spesso avviene che tal filetto
oscuro, mettendo capo al mare, si allarghi in forma di tromba, formando una
vasta baja, simile agli estuari di certi fiumi terrestri: il Golfo delle
Perle, il Golfo Aonio, il Golfo dell'Aurora, e i due corni
del Golfo Sabeo sono così formati dalla foce di uno o più canali
sboccanti nel Mare Eritreo o nel Mare Australe. L'esempio più grandioso di tali
golfi è la Gran Sirte, formata dalla vastissima foce della Nilosirte
già nominata; questo golfo non ha manco di 1800 chilometri di larghezza e quasi
altrettanti di profondità nel senso longitudinale, e la sua superficie è di
poco minore che quella del golfo di Bengala. In questi casi si vede
manifestamente la superficie oscura del mare continuarsi senza apparente
interruzione in quella del canale; quindi, ammesso che le superficie chiamate
mari siano veramente espansioni liquide, non si può dubitare che i canali siano
di esse un semplice prolungamento a traverso delle aree gialle, o dei
continenti.
Che del resto le linee dette canali siano veramente grandi
solchi o depressioni delle superficie del pianeta destinate al passaggio di
masse liquide, e costituiscano su di esso un vero sistema idrografico, è
dimostrato dai fenomeni che in quelli si osservano durante lo struggersi delle
nevi boreali. Già dicemmo che queste, nello sciogliersi appaiono circondate da
una zona oscura, formante una specie di mare temporario. In tale epoca i canali
delle regioni circostanti si fanno più neri e più larghi, ingrossando al punto
da ridurre, in un certo momento, ad isole di poca estensione tutto le aree
gialle comprese fra l'orlo della neve e il 60° parallelo nord. Tale stato di
cose non cessa, se non quando le nevi, ridotte ormai al loro minimo di
estensione, cessano di struggersi. Si attenuano allora le larghezze dei canali,
scompare il mare temporario, e le aree gialle riprendono l'estensione
primitiva. Le diverse fasi di questa grandiosa operazione si rinnovano ad ogni
giro di stagioni ed i loro particolari si son potuti osservare con molta
evidenza nelle opposizioni 1882, 1884, 1886, quando il pianeta presentava allo
spettatore terrestre il suo polo boreale. L'interpretazione più naturale e più
semplice è quella che abbiam riferito, di una grande inondazione prodotta dallo
squagliarsi delle nevi; essa è interamente logica, e sostenuta da evidenti
analogie con fenomeni terrestri. Concludiamo pertanto, che i canali son tali di
fatto, e non solo di nome. La rete da essi formata probabilmente fu determinata
in origine dallo stato geologico del pianeta, e si è venuta lentamente
elaborando nel corso dei secoli. Non occorre suppor qui l'opera di esseri
intelligenti; e malgrado l'apparenza quasi geometrica di tutto il loro sistema,
per ora incliniamo a credere che essi siano prodotti dell'evoluzione del
pianeta, appunto come sulla Terra il canale della Manica e quello di Mozambico.
Sarà un problema non men curioso che complicato e difficile lo
studiare il regime di questi immensi corsi d'acqua, da cui forse dipende
principalmente la vita organica sul pianeta, dato che vita organica vi sia. Le
variazioni del loro aspetto dimostrano che questo regime non è costante: quando
scompaiono o lasciano di loro traccie dubbie e mal definite è lecito supporre,
che siano in magra, od asciutti affatto. Allora nel luogo dei canali rimane o
niente, oppure al più una striscia di colore giallastro poco diverso dal fondo
circostante. Talvolta prendono un aspetto nebuloso, di cui per ora non si
saprebbe assegnar la ragione. Altre volte invece producono veri allagamenti,
espandendosi a 100, 200 o più chilometri di larghezza, e questo avviene anche
per canali molto lontani dal polo boreale secondo norme fin qui sconosciute.
Così è avvenuto dell'Idaspe nel 1864, del Simoenta nel 1879,
dell'Acheronte nel 1884, del Tritone nel 1888. Lo studio
diligente e minuto delle trasformazioni di ciascun canale condurrà più tardi a
conoscere le cause di questi fatti.
Ma il fenomeno più sorprendente dei canali di Marte è la loro geminazione;
la quale sembra prodursi principalmente nei mesi che precedono e in quelli che
seguono la grande inondazione boreale, intorno alle epoche degli equinozi. In
conseguenza di un rapido processo, che certamente dura pochissimi giorni, od
anche forse solo poche ore, e del quale i particolari non si sono ancora potuti
afferrare con sicurezza, un dato canale muta d'aspetto e d'un tratto si trova
trasformato su tutta la sua lunghezza in due linee o strisce uniformi, per lo
più parallele fra di loro, che corrono dritte ed uguali con tracciamento
geometricamente tanto esatto, quanto suole esser presso di noi quello di due
rotaje di ferrovia. Ma questo esatto andamento è il solo termine di rassomiglianza
colle dette rotaje: perchè nelle dimensioni non vi è alcun paragone possibile,
come del resto è facile immaginare. Le due linee seguono a un dipresso la
direzione del primitivo canale, e terminano nei luoghi dov'esso terminava.
L'una di esse spesso si sovrappone quanto più è possibile all'antica linea,
l'altra essendo di nuovo tracciamento; ma anche in questo caso l'antica linea
perde tutte le piccole irregolarità e curvature che poteva avere. Ma accade
ancora, che ambe le linee geminate occupino dalle due parti dell'ex canale un
terreno interamente nuovo. La distanza fra le due linee è diversa nelle diverse
geminazioni, e da 600 chilometri e più scende fino all'ultimo limite, in cui
due linee possono apparir separate nei grandi occhi telescopici, meno di 50
chilometri d'intervallo; la larghezza di ciascuna striscia per sè può variare
dal limite di visibilità, che supponiamo 30 chilometri, fino a più di 100. Il
colore delle due linee varia dal nero ad un rosso scialbo, che appena si
distingue dal fondo giallo generale delle superficie continentali; l'intervallo
è per lo più di questo giallo, ma in più casi è sembrato bianco. Le geminazioni
poi non sono necessariamente legate ai soli canali, ma tendono anche prodursi
sui laghi. Spesso si vede uno di questi trasformarsi in due brevi e larghe
liste oscure fra loro parallele, tramezzate da una lista gialla. In questi casi
naturalmente la geminazione è breve, e non esce dai limiti del lago primitivo.
Le geminazioni non si manifestano tutte insieme, ma arrivata la
loro stagione cominciano a prodursi or qua, or là, isolate in modo irregolare,
o almeno senza ordine facilmente riconoscibile. Per molti canali mancano
affatto (come per la Nilosirte, a cagion d'esempio), o sono poco visibili. Dopo
aver durato qualche mese, si affievoliscono gradatamente e scompajono fino ad
una nuova stagione egualmente propizia a questo fenomeno. Così avviene che in
certe altre stagioni (specialmente presso il solstizio australe del pianeta) se
ne vedono poche, od anche non se ne vede affatto. In diverse apparizioni la
geminazione del medesimo canale può presentare diversi aspetti quanto a
larghezza, intensità e disposizione delle due strisce: anche in qualche caso la
direzione delle linee può mutarsi, benchè di pochissima quantità; sempre però
deviando di piccolo spazio dal canale con cui è associata strettamente. Da
questa importante circostanza si comprende immediatamente, che le geminazioni
non possono essere formazioni stabili della superficie di Marte, e di carattere
geografico, come i canali. La seconda delle nostre carte può dare un'idea
approssimativa dell'aspetto che presentano queste singolarissime formazioni.
Essa comprende tutte le geminazioni osservate dal 1882 fino al presente; nel
riguardarla bisogna tener a mente, che non di tutte l'apparizione è stata
simultanea, e che pertanto quella carta non rappresenta lo stato di Marte in
nessun'epoca; essa non è che una specie di registro topografico delle
osservazioni finora fatte in diversi tempi su quel fenomeno.
L'osservazione delle geminazioni è una delle più difficili, e non
può farsi che da un occhio bene esercitato, ajutato da un telescopio di
accurata costruzione e di grande potenza. Ciò spiega perchè non siano state
vedute prima del 1882. Nei dieci anni trascorsi da quel tempo esse sono state
vedute e descritte da otto o dieci osservatori. Nondimeno alcuni ancora negano
che siano fenomeni reali e tacciano d'illusione (o anche d'impostura) coloro
che affermano d'averle osservate.
Il loro singolare aspetto e l'esser disegnate con assoluta
precisione geometrica, come se fossero lavori di riga o di compasso, ha indotto
alcuni a ravvisare nelle medesime l'opera di esseri intelligenti, abitatori del
pianeta. Io mi guarderò bene dal combattere questa supposizione, la quale nulla
include d'impossibile. Notisi però che in ogni caso non potrebbero essere opere
di carattere permanente, essendo certo, che una stessa geminazione può cambiare
di aspetto e di misura da una stagione all'altra. Si possono tuttavia assumere
opere tali, da cui una certa variabilità non sia esclusa, per esempio, lavori
estesi di coltura e di irrigazione su larga scala. Aggiungerò ancora, che
l'intervento di esseri intelligenti può spiegare l'apparenza geometrica delle
geminazioni, ma non è punto necessario a tale intento. La geometria della
Natura si manifesta in molti altri fatti, dai quali è esclusa l'idea di un
lavoro artificiale qualunque. Gli sferoidi così perfetti dei corpi celesti e
l'anello di Saturno non furon lavorati al tornio, e non è col compasso che
Iride descrive nelle nubi i suoi archi così belli e così regolari; e che diremo
delle infinite varietà di bellissimi e regolarissimi poliedri onde è ricco il
mondo dei cristalli? E nel mondo organico, non è geometria bella e buona quella
che presiede alla distribuzione delle foglie di certe piante, che ordina in
figure stellate così simmetriche tanti fiori del prato, tanti animali del mare;
che produce nelle conchiglie quelle spirali coniche così eleganti, da
disgradarne ciò che di più bello ha fatto l'architettura gotica? In tutte
queste cose le forme geometriche sono conseguenze semplici e necessarie di
principi e di leggi che governano il mondo fisico e fisiologico. Che poi questi
principi e queste leggi siano esplicazioni di una potenza intelligente
superiore, possiamo ammetterlo; ma ciò nulla fa al presente argomento.
In omaggio dunque al principio, che nella spiegazione dei fatti
naturali convenga sempre cominciare dalle supposizioni più semplici, le prime
ipotesi proposte sulla natura e sulla causa delle geminazioni hanno per lo più
messo in opera solamente le azioni della natura inorganica. Sono o effetti di
luce nell'atmosfera di Marte, o illusioni ottiche prodotte da vapori in vario
modo, o fenomeni glaciali d'un inverno perpetuo a cui sarebbe condannato tutto
il pianeta, o crepature raddoppiate nella superficie di esso, o crepature
semplici, di cui si duplica l'immagine per effetto di fumo eruttato su lunghe
linee e spostato lateralmente dal vento. L'esame di questi ingegnosi tentativi
conduce tuttavia a concludere, che nessuno di essi sembra corrispondere per
intiero ai fatti osservati nel loro insieme e nei particolari. Alcune di tali
ipotesi non sarebbero neppur nate, se i loro Autori avessero potuto esaminare
le geminazioni coi proprii occhi. Che se alcuno di questi, ragionando ad
hominem, mi domandasse: sapete voi immaginar qualche cosa di meglio?
risponderei candidamente di no.
Più facile sarebbe il compito, se volessimo introdurre forze appartenenti
alla natura organica. Qui è immenso il campo delle supposizioni plausibili,
potendosi immaginare infinite combinazioni capaci di soddisfare alle apparenze,
anche con piccoli e semplici mezzi. Vicende di vegetazione su vaste aree e
generazioni d'animali anche minimi in enorme moltitudine potrebbero benissimo
rendersi visibili a tanta distanza. A quel modo che un osservatore posto nella
Luna potrebbe avvedersi delle epoche, in cui sulle nostre vaste pianure succede
l'aratura dei campi, il nascere e la messe del frumento; a quel modo che il
fiorir dell'erba nelle vastissime steppe dell'Europa e dell'Asia deve rendersi
sensibile anche alla distanza di Marte per una varietà di colorazione; così può
certamente rendersi visibile a noi un eguale sistema di operazioni che si
produca in quegli astri. Ma come difficilmente i Lunari ed i Marziali
potrebbero immaginare le vere cause di tali mutazioni d'aspetto senza aver
prima qualche conoscenza almeno superficiale della natura terrestre: così anche
per noi, che tanto poco conosciamo dello stato fisico di Marte e nulla del suo
mondo organico, la grande libertà di supposizioni possibili rende arbitrarie
tutte le spiegazioni di tal genere, e costituisce il più grave ostacolo
all'acquisto di nozioni fondate. Tutto quello che possiamo sperare è, che col
tempo si diminuisca gradatamente l'indeterminazione del problema, dimostrando,
se non quello che le geminazioni sono, almeno quello che non possono essere.
Dobbiamo anche confidare un poco in ciò, che Galileo chiamava la cortesia
della Natura, in grazia della quale talvolta da parte inaspettata sorge un
raggio di luce ad illuminare argomenti prima creduti inaccessibili alle nostre
speculazioni; di che un bell'esempio abbiamo nella chimica celeste. Speriamo
adunque, e studiamo.
Giovanni Schiaparelli.
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