DUE PAGINE AUTOBIOGRAFICHE
A USO DI PREFAZIONE.
«Sed tamen exiguo quodcumque e pectore rivi
Fluxerit, hoc patriae serviat omne meae.»
Proper.,
lib. IV, el. I.
Un bel mattino passeggiavo con mio padre,
secondo il nostro costume; eravamo inseparabili; s’egli andava in un luogo senza
di me, di lì a un poco mi vedeano spuntare; parea che sapessi di doverlo
perdere così presto. Ero in su que’ bei diciott’anni, e su que’ bei colli
veronesi. La strada che talora serviva di letto al torrente, serpeggiava
profonda, sassosa, sdrucciola, tutta segnata sulla creta, dalle unghie fesse
delle pecore, e dalle scarpe ferrate dei montanari. Due file di càrpini e di
querce scapitozzate con macchie di rovi legate insieme da volubili madriselve
sorgevano ombrose sull’alto delle due ripe, più a guisa di parete che di siepe,
lasciando cadere dai cigli corrosi le pendole barbe delle radici nude.
Così
scivolando e inerpicandoci, io facevo discorrere mio padre di Napoleone e di
battaglie, perchè molto mi piacevano que’ racconti, e perchè sapea di fargli
piacere a toccar que’ tasti: tanto che si giunse al monte di San Giorgio; un
paesello, là, sul colmo, come le antiche cittadette nell’Umbria e nel Piceno,
con la sua vecchia chiesuola nel mezzo, con le casupole stipatevi intorno;
povero ma pulito, fecondo di lastre e di vigne, ricco di memorie romane e
longobarde.
Ivi, al
pendío, ci sedemmo sopra una pietra che dovea essere un pezzo d’ara romana,
rimanendo in silenzio, non tanto per la fatica della strada, quanto per la
magnifica scena, che ci si spiegava davanti.
La vista
difatti era stupenda. A destra una serie di colline, brune in sull’alto di
roveri, pallide d’ulivi alla pendice, co’ suoi paesetti qua e là raggruppati o
sparsi; con le sue mille case bianche, quali esposte al sole, come pannolini della
lavandaia, quali velate da qualche frutto, che faceano capolino fra un albero e
l’altro a guisa di bimbe che giuocano a capo-nascondersi. Davanti un’altra
serie di colline minori color viola, che si disegnavano con linea serpeggiante
sull’acqua del Garda, piana, lucente, sulla quale vedevi girare una vela da
pescatore. Più lunge i monti azzurri del bresciano, che via via digradando
morivano nella guerriera città di Arnaldo, dove, un giorno, dovevo trovare
tanta cortesia di ospitalità, tanta benedizione di nobili affetti. Poi, a
sinistra, la vasta pianura coi campi rigati di solchi divisi a quadretti,
amabili all’agricoltore, inamabili all’artista, coi praticelli morbidi tagliati
a mo’ di panno da bigliardo, coll’Adige in mezzo che non si vede ma s’indovina;
coll’immenso orizzonte lontano, velato di vapori come l’idea dell’infinito.
Poche
memorie avevo là in mezzo, perchè ero in sul cominciare della vita; e non
sapevo che in parecchi punti di que’ monti, di quel lago, di quel piano avrei
sparso lagrime amare; non sapevo che in qualche luogo laggiù avrei veduto
seppellirmi persone dilette. Tutto invece in quello istante brillava; l’acqua,
la terra, il cielo e l’anima mia.
Vi è mai
accaduto di stare con persona, la cui indole, per lunga soave famigliarità, la
sapete a mente; la quale abbenchè taccia, pur si capisce che à qualche cosa
insolita a dirvi; abbenchè parli, pur si capisce che non vi dice quello che vi
vorrebbe dire, e sentite che quanto v’à a dire, è cosa importante; è una di
quelle parole che sono come il compendio d’un monologo rimuginato lungamente
nel suo segreto? Tale il tacere, tale il discorrere di mio padre. Eran due
giorni, che quantunque al solito, fossimo sempre insieme, e si fosse parlato di
mille cose; pure io vedeva che c’era una cosa che non mi aveva detto, e volea
dirmi, e forse a dirmela gli recava amarezza. E bisogna sapere che, venuto due
giorni prima nella mia stanza, trovò sul tavolino una carta; la lesse, la
rilesse; sbirciandolo, mi parve non gli spiacesse: ma la depose senza far
parola; ed era una mia canzone. Finalmente, fosse l’effetto del luogo aprico,
dell’aria mite e profumata, dell’ora quieta che invitava a confidenze, egli si
volse e mi guardò in tal maniera, ch’io dissi tra me e me: ci siamo. E difatti
improvvisamente uscì con queste parole:
— Figlio
mio, sai s’io t’amo: da’ retta; non ti mettere sulla via del poeta; ti condurrà
a male: parrai uno strambo, uno stordito fra la gente; trascurerai i fatti
tuoi; sciuperai il tuo; e caduto dalle dorate nuvole della tua fantasia, ti
troverai male su questa terra di calcolo. —
Poi
sorridendo, come se avesse temuto d’avermi mortificato, soggiunse:
— Pensa che
carmen lo dicono venire da una certa Carmenta, una brava donna, madre di
quel gentiluomo campagnuolo del Re Evandro; la quale però avea delle ore
lunatiche e strane che dicea su le cose più strampalate del mondo, quasi carens
mente. Tu che sai il latino, cavane il costrutto. –
Io tacqui
un poco, ma siccome non gli avevo negato mai nulla, risposi: ”Farò come ti
piace“ e misi involontariamente un sospiro.
Ma un capraio che scendea per un sentiero in
mezzo al prato declive; alcune capre che venute in faccia a noi si
fermavano a guardarci con occhio fisso; quella barchetta che passava sul lago
come un moscerino con l’ali tese sopra un cristallo; quel profumo di Salvator
Rosa che usciva da certi roveri vecchi; quell’aria di idillio virgiliano che
saliva dai campi, mi rapivano l’anima, mio malgrado, nelle regioni della
poesia. Una vocina di non vista persona, che avea del flauto, si prossimava
cantando non so che versi paesani, finchè uscì dalla svolta del torrentello una
fanciulla di sedici anni, di que’ bei sangui là, con al braccio il paniere,
onde avea forse recato da mangiare a suo padre nelle vicine cave di tagliapietra.
Era messa come una figurina del Zuccarelli; era gentilina e languida come una
vergine del Guido. Nel passare mi volse il suo occhio ceruleo dicendo con
disinvolta modestia ”Siorìa; “ e non ci volle altro. La mia fantasia correva le
quattro plaghe dei venti, e immemore della promessa data pocanzi, vestiva, a
suo modo, di canto involontario e segreto tutta quella bellezza animata e
inanimata della eterna natura.
Una sera
passeggiavo con mio padre; non avevo ancor tocchi i vent’anni; si era in un
luogo romito, lungo l’Adige, nella ricca pianura veronese. Andavamo per una
viuzza che costeggia la sponda: mi par ancora di vederla. Il sole tramontava
fra un gruppo di pioppi; le onde parevan d’oro; i pesci, esultando, schizzavano
fuor dell’acqua per salutare la luce morente; i passeri faceano uno svolazzìo,
un cicaleccio confuso prima d’appollaiarsi sui salici dell’isolotto ch’era in
mezzo al fiume.
Anche
allora ei mi parlava del gran Côrso, e di quelle battaglie da giganti: era il
suo tèma favorito; e talvolta, soffermandosi, segnava sulla rena con la sua
canna d’India il posto dei Francesi, e di quegli altri lassù di Germania
ch’egli pure mandava con tutto il cuore alla malora.
Ma anche
quella sera io capivo benissimo che fra que’ vèliti e quelle squadre di dragoni
qualche altra cosa che avea da dirmi e non dicea. Eravamo a Marengo. Melas,
ch’egli chiamava con le sardoniche canzoni del suo tempo Melacotte, si
tenea in pugno la vittoria: Bonaparte schizzava fulmini d’ira; quando a un
tratto smette il racconto, mi guarda fisso e mi dice:
— Figlio
mio, te n’ò già fatto parola un’altra volta. Non invaghire, ti prego, di questa
civettuola di Poesia, che con tutti i suoi andari di gran dama, ti farà qualche
mal tiro da crestaina infedele. Piglia una buona compagna, come sarebbe a dire
la Legge; e ti comporrai una famiglia, avrai del ben di Dio, sarai contento in
vita, morrai sereno e benedetto. Questi amori vagabondi ti faranno capitar
male; vivrai irrequieto, forse infelice; ti logorerai l’anima e la vita. –
Io
nicchiai; ma rimasi in silenzio e feci segno d’assentire.
Sonò
l’avemaria, ci levammo il cappello e si pregò. Quel lontano rintocco nelle
orecchie, quei poveri morti in cuore, e Dio che ci ascoltava: quel fiume velato
dal crepuscolo che andava, andava perpetuamente parlandomi della fugacità della
vita: quell’orizzonte con una striscia d’arancio che mi parlava del giro
vertiginoso della terra: quella stella d’Arturo che cominciava ad apparire, e
mi parlava della immensità dei mondi, mi vinsero, non so. come, mi commossero,
mi sollevaron l’anima; ed essa a tradurre, senza volerlo, quelle impressioni in
meste note di poesia. Passò un carro che tornava carico di covoni dai campi,
somigliante a quello stupendo dei mietitori, che ò visto dopo, ispirato dalla campagna
romana al povero Leopoldo Robert. C'era su una nidiata barcollante di
villanelle che cantavano una lor villotta con voce resa tremula dagli
sbalzi delle rote per l’inugual carraia, e per le catene dei mulini che
attraversavano la strada. Que’ buoi dalle lunghe corna, dall’occhio grande e
tondo che Omero assomigliava a quel di Giunone; quel villano dinanzi al timone,
giovine, scalzo, ercolino, divoto; quel canto che allo squillar della campana
moriva in un bisbiglio di preghiera; quell’ultimo lume di ponente che tingea la
georgica scena, aggiunsero anch’essi alimento al fuoco contrastato dell’estro.
Pochi istanti dopo eravamo venuti di fronte a un mulino da riso: tornava a
terra sulla palàncola una mugnaina giovine, bella, battendo svelta sul pancone i
suoi fieri zoccolini. La mi strisciò con la veste passando: mi diè la buona.
notte, e il mio cuore andò in visibilio. Mi sentii tumultuar dentro la fantasia
più che mai; e la lucernetta della mia camera sa che quella stessa notte ò
disubbidito mio padre. Ero malato del mal dei versi.
Povera
Michelangiola! tu se’ ita così presto. I tuoi occhioni azzurri, così pieni di
giovinezza e di sorrisi, si spensero; il tuo snello corpicino di donna immatura
fu chiuso entro una rozza cassa di abete; e addio. Un mattino passavi davanti a
me soletta; la tua manica era impolverata di farina; ed io osai di pulirti la
spalla. Fu l’unica confidenza che ò avuta con te: allora mi parve un grande
ardimento: in quell’istante il cuore mi batteva in sussulto; e siamo divenuti rossi
tutti e due, come due ciliegie. Non so se ti amassi; so che allora la chiesa mi
pareva vuota, se, la festa, non ci eri tu; so che quando sonava l’organo, io
cercavo quasi per istinto la tua testina, come fosse anch’essa un’armonia; so
che fra le cento voci dei vespri, io distinguevo la tua voce di fanciulla, che
fra le cento inginocchiate, in un batter d’occhio, io trovavo il tuo velo
candido con que’ bei ricciolini che ne scappavan fuori. Oh, i tuoi capelli!
sono tanti, anni, e li ho ancora davanti agli occhi. In Grecia quando muore una
ragazza, si vede pendere qualche treccia alla sua tomba, con sòpravi uno
scritto, come ad esempio: della Dima dal
collo di cigno: della Tea dal dolce canto. Le sue compagne in lutto le
ànno tagliata quella treccia, e gliel’àn posta là come il più gentile ornamento
che avesse. Se tu fossi morta in Grecia, la più lunga, la più morbida treccia
sarebbe stata la tua. Dio sa, Michelangiola, qual parte forse avesti nel
fragile tessuto delle mie idee e de’ miei sentimenti. Tu non ne sapesti mai
nulla, ed io ne so meno di te: sono segreti del Signore.
Un profondo
amore dunque, e un po’ d’intelligenza della natura, un sentimento quasi
idolatra del bello ovunque sia, un cuore pieno anche troppo di tenerezze, se
non m’ànno fatto poeta, che ci vorrebbe un bel coraggio a credersi tale, m’ànno
svegliato una passione ardente per la poesia.
Sennonchè
dice il proverbio:
«Chi
promette e non attiene,
L’anima sua non va mai bene. »
Ed io ò trasgredito
il volere di mio padre: non ò tenuta la mia promessa; non ò ascoltata la sua
preghiera; e perciò l’opera mia à da essere cattiva: c’è passata su l’ombra
della colpa: dev’essere come un fiore nato con entro il baco, il baco della
disubbidienza; à da essere perciò un lavoro caduco, il quale, in verità, non ò
avuto mai speranza che avesse a durare.
A proposito
del qual durare mi viene in mente una vecchia e nota leggenda che fa in parte
al caso mio. Le nostre nonne appassionate del maraviglioso, come i fanciulli,
la contavano così:
Un mattino
Fra Felice esce dal chiostro col suo bastoncello di spino, e baloccandosi pel
bosco, eccoti cantare un uccello che tutto il rapisce. Il cielo è netto, l’erba
fresca, l’ombra profumata sotto il tiglio in fiore: e il bravo uccellino, color
celeste, seguita a cantare. Che gorgheggi, che trilli! Fra Felice non aveva mai
sentito in vita sua simile melodia; l’organo del suo Santuario, Dio gliel
perdoni, non à che fare con questo organino di primavera, che modula i suoi
canti in mezzo alla luce. Fra Felice ascolta, ascolta, e si lascia rapire
infino all’estasi; quando, giunta l’ora del ritorno, si incammina al convento.
Ma, cosa strana! presentatosi il portinaio, questi gli fa due occhi da
barbagianni, scrolla la testa, e rifiuta di riceverlo. Qui nasce un battibecco,
alzano la voce, e di qua, di là corrono allo strepito i fraticelli. Altra cosa
strana: egli non vede che musi nuovi, nissun lo conosce, non riconosce nissuno.
Allora lo si conduce dal Priore; il buon uomo barbogio, che casca dalla
vecchiaia, finisce, dopo molto pensare, col ricordarsi d’avere un tempo, quando
era novizio, conosciuto un frate chiamato Felice, che rassomigliava appuntino
alla persona che gli era presentata. Si scartabellano gli unti registri del
convento, e vi si trova difatti il suo nome. Cento anni erano scorsi, durante i
quali egli avea seguitato a sentir cantare l’uccellino color celeste.
Io temo
forte che se avessi a tornare dopo un siffatto svago di cento anni col mio
volume e col mio nome fra i miei concittadini, che son di là da venire, mi
toccherebbe a un di presso la sorte di Fra Felice. E forse vivono molti, in
questi anni di grazia, i quali, quantunque nol pensino nè anche per sogno,
riuscirebbero altrettanti Fra Felici, se si trovassero a quel caso. E forse
irritati dalla. sorpresa darebbero nelle furie e commetterebbero qualche grave
scandalo. Io almeno l’avrei prevista.
Ma quali
che sieno queste povere mie cose, eccone qui parecchie stampate se non altro
per sottrarle alla invereconda rapina dei contraffattori. Di esse partitamente,
come altri usa, non dico, e perchè ne giudicherai tu meglio di me, arguto
lettore; e perchè mi tarda di uscire da questa vanità del parlare di me.
Solo,
dacchè ci siamo, permettimi ancora due parole. Se io per avventura ero nato a
qualche cosa, ero nato al pittore; e per questo se qualche cosa ci è di non
cattivissimo nella roba mia, è tutto pittura; e per questo co’ pittori me la
intendo, e mi vogliono bene. Il mio vecchio maestro di disegno che avevo a
sett’anni, l’ultimo, credo dei nipoti di Giambettino Cignaroli, voleva a ogni
costo persuadere mio padre ad avviarmi a quest’arte. Mi tremola ancora in mente
la ricordanza di un giorno, che, tra lo scherzoso e il serio, il brav’uomo gli
si pose in ginocchio a pregarlo di questo: parmi di veder ancora i suoi pochi
capelli d’argento che in quell’istante gli svolazzavano. Probabilmente non
sarei riuscito a nulla; ma sarei stato di certo più contento; avrei avuto fra
mano un’arte cara, che occupa molte ore anche materialmente; avrei menato vita
casalinga, raccolta; non sarei ito girovagando, e col pretesto di cercar
poesia, non avrei trovato tante altre cose che m’ànno costato poi tanta
amarezza.
Non
avendo dunque potuto adoperare il pennello, ò adoperato la penna. E appunto
perciò ella sente troppo di pennello; appunto perciò sono sovente troppo
naturalista, e amo troppo perdermi nei particolari. Sono come uno che
camminando proceda a bell’agio, e si fermi ogni tratto a considerare lo sprazzo
di luce che penetra tra gli alberi del bosco, l’insetto che gli si posa sulla
mano, la foglia che gli cade sulla testa, una nebbia, un’onda, una striscia di
fumo, i mille accidenti in somma pei quali è così ricco, vario, poetico il
creato, e dietro i quali s’intravede sempre quel gran che arcano, eterno,
immenso, benigno, non fiero mai, nè crudele, come altri ce lo vorrebbero far
credere, che si nomina Dio.
Anzi
per questo mio eccessivo amoreggiar con la Natura, non ricordo in quale
scritto, m’ànno dato per sino del panteista. Io venero, è vero, quel magnanimo
infelice di Giordano Bruno, che un papa à fatto bruciare in nome di quel Cristo
che non avrebbe torto un capello a Giuda Scariotto; amo i filosofi, amo molto i
sommi poeti della giovine Germania: ma quanto a panteista, lo sono a un bel
circa, come lo era l’ingenuo e affettuoso poverello d’Assisi, che in quella sua
delicata comunione con la universal natura prescegliea di pregar nelle selve;
trattava da pari col lupo d’Agubbio; componea con le sue mani il nido alle
tortori salvate; s’intratteneva in lunghi colloqui con le rondinelle del
vicinato, ch’egli chiamava «sue sirocchie.
»
Se
non che questa Natura è un libro difficile per tradurlo a modo in poesia.
Bisogna mettervi del proprio; bisogna raccogliere gli spettacoli del creato
nell’anima, come luce in diamante, e farglieli riflettere; trasformarli in
emozioni, in pensieri eloquenti; infondere nelle cose la grazia, il sentimento,
la malinconia, le lagrime che abbiamo dentro di noi; bisogna fare come faceva
Raffaello quando traduceva la Fornarina in Madonna: il modello era profano, era
mondano, e niuno meglio di lui lo sapeva; ma lui sapeva anche renderle la
virginità. I Caravaggio, i Téniers della poesia non mi vanno; ma ci vuol altro
a fare come la scuola umbra!
Quanto
a classici e a romantici, ne ò capito sempre poco. Mi parea bensì, che queste
beghe domestiche degl’ingegni, come quelle altre antecedenti sulla lingua,
fossero, in fin dei conti, servigi spontanei che si rendevano al tedesco. Mi
parea strano da una parte, che gente la quale sul serio, nell’intimo del cuore,
invocavano il Cristo, nell’intimo poi della mente, nelle intime commozioni
della poesia si incaponissero di invocare Apollo o Pallade Minerva; mi parea
strano, dall’altra che gente nata in Italia, con questo sole, con queste notti,
con tante glorie, tanti dolori, tante speranze in casa nostra, avessero la
manìa di cantare le nebbie della Scandinavia, e i sabati delle maliarde, e
andassero pazzi per un tetro e morto feudalismo che c’era venuto dal
settentrione, la strada maestra delle nostre sventure. Mi pareva inoltre che
ogni arte poetica fosse a maraviglia inutile; e che certe regole fossero mummie
imbalsamate dalle mani dei pedanti. Mi pareva infine che ci fosse due sorta di
arte: una, serena di serenità olimpica, arte di tutti i tempi, che non
appartiene a nessuna terra; l’altra, più appassionata, che à le radici nella
patria, all’ombra del campanile, nel cortile della casa materna: la prima,
quella di Omero, di Fidia, di Virgilio, di Torquato: l’altra, quella dei
Profeti, di Dante, di Shakespeare, di Byron: ed io ò tentato di tenermi a
quest’ultima, perchè mi piaceva vedere come codesti grandi uomini pigliano la
creta della lor terra e del loro tempo, e ne modellano una statua viva che somiglia
ai loro contemporanei.
Siccome
poi l’amore alla poesia si andò svolgendo dentro di me coll’amore al mio paese,
così ò pensato di far sempre servire, come meglio potevo la prima al secondo.
M’accorgevo benissimo ch’egli era un impicciolire il campo della Musa, uno
strapparle molte penne dalle ali, un darle il fare, quasi direi, di vassalla;
ma io sentivo l’orgoglio d’essere Italiano, presentivo che non sarei morto
schiavo; e mi assunsi il canto, come si assume un debito.
Sennonchè,
parecchie delle cose mie essendo state scritte sotto l’occhio vigile, bieco,
sospettoso dello straniero, con lo spettro del censore che mi ballava sempre
sul tavolino, con la immagine dinanzi d’una prigione stiriana, ungherese,
boema; molte idee le ò dovute strozzare in germe, molte gettar là a guisa
d’indovinello; altre accennare con languido profilo senza potervi mettere le
ombre che danno risalto, o il colore che le fa spiccar evidenti. I quali
impacci fastidiosi certo non approdano all’arte che vuol essere libera ne’ suoi
andari, come l’anima. Di qui molte oscurità: di qui uno stile artifiziato,
sconnesso, irresoluto, velato, senza quella linda semplicità, senza quella
nervosa nudità, che son tanto care agli artisti, specialmente della razza greca
e latina; di qui molta parte di quei difetti, che insieme agli altri, dovuti
proprio alla mia insufficenza, balzeranno facilmente agli occhi del lettore.
Schivo
poi per indole di ogni servitù, ò sempre avuto in uggia anche la servitù
letteraria. Quel poco che potevo essere, o male o bene, ò voluto essere io. Mi
sono quindi guardato, più che mi fu possibile, dalla imitazione: ò ammirato
coloro che andavano per la strada maestra, e mi sono messo per un sentierino: ò
lasciato ai canefori delle feste antiche l’ufficio di raccogliere i fiori
altrui per ispargergli sulla propria via.
Ò
scritto più col cuore che con la mente, perchè credo che l’arte prima di tutto
sia sentimento.
Ò
sempre sagrificato alla dea Indipendenza, e il mio più bel sogno sarebbe stato
quello di diventare, per un istante, il poeta cesareo di questa povera regina
che era la mia nazione. Peccato che non sia stato che un sogno!
Fino
dai tempi antichi la Musa à perduto l’odore di santità. Nella Grecia gaudente
un vecchio elegante e libertino, ricinto di fiori, profumato d’unguenti, la
inebriò col suo bacio impudico, le scorciò pel primo un po’ troppo le vesti a
guisa di baccante, e col calice in mano, in mezzo a un drappello di giovani
maligni, se la pose sulle ginocchia, e le insegnò parole che suonano male in
bocca d’una fanciulla. Io invece la tenni sempre in conto di vergine modesta;
l’ò trattata come una casta sacerdotessa. Ò considerata la poesia come la perla
del pensiero; che nasce anch’ella da una febbre dell’anima, come la perla da un
malessere della conchiglia; chè l’acido della scurrilità o della malvagità la
distrugge, come l’aceto dissolve la perla.
Vedo
anch’io adesso, padre mio, che poco mi à giovato questa capricciosa verginella;
poche gioie mi à dato; anzi mi fu larga di patimenti. Ma ora è troppo tardi,
bisogna seguitare, dacchè sento che ò qui dentro ancora qualche cosa da dire. È
troppo tardi: se ò sbagliato sentiero, da tornare indietro non ò più tempo;
potrei cascarvi su sfinito prima di pigliarne un nuovo. Frattanto sinchè mi
rimangono queste ore malinconiche di tramonto, reciterò anch’io l’orazione del
reverendo Sterne, del povero Yorick: Accordaci, mio Dio, il nostro pane, la
nostra passioncina, le nostre dolci lagrime, il nostro sorriso d’ogni giorno.
Ed io aggiungerò: e il perdono di mio padre. E così sia.
Aleardo Aleardi.
Concesio, il dì 7 novembre 1863
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