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Aleardo Aleardi
Canti

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  • UN’ORA DELLA MIA GIOVINEZZA.
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UN’ORA DELLA MIA GIOVINEZZA.

 

CARME.

 

A TE

NINA SAREGO-ALIGHIERI GOZZADINI

CHE COMPRENDI PIU’ CHE NON DICO

QUESTI RICORDI

DEI NOSTRI MONTI.

UN’ORA DELLA MIA GIOVINEZZA

 

I.

 

            Pria che sulle infelici artiche terre

Scenda la notte al morïente autunno

Col suo buio di mille ore; sul lembo

Dell’orizzonte, pari ad un fuggiasco,

Va circolando il sol per lunghi giorni

D’imminente tramonto: e poi ch’è spenta

L’ultima larva de la faccia d’oro,

Un incessante vespero scolora

L’onda e le terre, e l’aquilon ricopre

Di neve alta ogni cosa, a quella guisa

Che si coprono i morti. In lontananza

Da le cozzanti Cicladi di ghiaccio

Deriva un metro di lamenti nuovi,

E spiccan su l’azzurro a poco a poco

Il solitario astro del polo, e i sette

Lumi dell’Orsa. Allor la battagliera

Stirpe dei cigni si raduna in grembo

Di recondito golfo; e detto addio

Ai bianchi monti, ai gracili ginepri,

A’ suoi talami d’alga, intuona il canto

De la partenza, e per le nubi manda

La metallica nota. In suo vïaggio

Saluta i ghiacci tinti di berillo,

Gli splendidi vulcani e le bollenti

Polle dei Gaisèri, e il mesto giallo

Degl’islandici prati; e faticando

L’ala di giglio in mezzo a boreali

Aurore, migra a le gioconde plaghe

Dell’Orïente, a le solinghe lame

Dell’adriaca pineta, ai memorandi

Lauri lambiti dal vocale Eurota.

 

II.

 

            Così l’anima mia, da queste opache

Giornate senza gloria, agita il volo

A ritroso del tempo, e migra agli anni

De la sua giovinezza. Oh! mi ridona,

Mi ridona, o Signore, un giorno solo

De la mia giovinezza. Ero a quel tempo

Sereno, audace, vergine, e rapito

De l’universo. E non sapea gli spasmi

De la mente superba; e non le dolci

Miserie dell’amore; e non ancora

Raccolto avea da que’ soavi incendi

Pugni d’amara cenere, che sparsa

D’una lagrima tarda ha poi cresciuto

Il solitario fior del pentimento.

E m’era ignota la viltà dei mille;

seminato ancor l’itale angosce

Aveano di cicuta il chiuso campo

De la mia vita. Allora le infinite

Voci che a’ suoi devoti invia natura

Da la terra, dal mar, da le profonde

Nebulose del cielo, ad una ad una

Percotevan nell’anima echeggiante

Del giovinetto. Tal che a le querele

D’una calandra; al vespertin tintinno

De la reduce mandra; a le opaline

Ali d’una libellula che danza

Sovra un tappeto di palustre lemna;

A un gemito di vento; al subitano

Illuminarsi di soggetta villa

Per un notturno lampo; a le pesanti

Gocce di piova che l’april balestra,

L’aure odorando di percossa polve:

Via per lo mar degli esseri vogava

L’agil pensiero, ed era tutta vele

La navicella de lo ingegno mio.

 

III.

 

            Che se talvolta m’assalian quell’ore

D’una tristezza incognita, che sveglia

Sul fiorir de la vita non so quale

Vago desío de la lontana tomba;

Quell’ore combattute da indistinte

Fantasie di dolori; ore feconde

Quando l’anima cresce, e nel fanciullo

Lampeggia l’uomo; io conosceva il loco

Del mio rifugio. Ed era un dissüeto

Campestre tabernacolo di quattro

Pioppi ne la severa ombra raccolto.

Ivi io pregava, non so ben qual Santo;

E se la brezza mormorava in alto

Per le fronde, e’ parea che il prego mio

Secondasser que’ pioppi. Indi partiva

Lieto, gentile e forte. Oh! mi ridona,

Mi ridona, o Signore, un giorno solo

De la mia giovinezza. Oh! ch’io rivegga

Redivivi i miei cari, i quali or tanta

Erba di cimitero a me nasconde;

Che nel cor reverente anco risenta

La melodia de la paterna voce,

E i consigli magnanimi; ch’io miri

La grande, nera, vereconda e mesta

Pupilla di mia madre. Oh! tu passasti

Gracile peregrina in su la terra,

Come raggio di sol per cupo stagno,

Immacolata; e gli anni tuoi passâro,

Quasi divelti pètali di rosa

Gittati su rapace onda di fiume

Rapidissima. E pur ne la deserta

Mia cameretta ancor sento il celeste

Tuo profumo di Santa. A le amorose

Fibre del seno tuo quel poco attinsi

Rivo di pöesia che mi feconda;

E se avverrà che del figliuolo al crine

Un piccioletto allôr questa conceda

Italia mia; sul tuo sepolcro, madre,

Quallalloro porrò, perch’esso è tuo.

 

IV.

 

                E mi ricorda d’una blanda sera

Per molta età, per duri casi ormai

Remotissima. Ed era il dolce tempo

Quando la state muore nell’autunno;

Volgea la festa di Maria nascente.

Solo, soletto, in compagnia di cari

Entusïasmi io giva cavalcando

Per una via maravigliosa. Il forte

Nome di Chiusa l’alpigian le impose: 1 *

Io, da quel , l’appello in mio linguaggio

Via de la Musa. Fra due ritte, ignude

Pareti eccelse di cinerea pietra

Serpe la strada candida, e la verde

Onda del fiume. Passa una poana

Su pel ristretto ciel: per la declive

Acqua pericolando una veloce

Zattera passa. Il loco à somiglianza

Di Termopile; e forse alcuno attende

Leonida venturo. Ivi dall’erta

Ripa si elevan tuttavia gli avanzi

D’un veneto fortino, ove sull’alto,

Con gli occhi vòlti al Brennero, l’antico

Lïon posava vigilando i moti

Dell’eterno avversario. Or su que’ sassi

Invece, stanco dal cammin, si sdraia

Il vïennese sordido gregario;

Stira le membra, del bastone esperte,

Plebeamente, e accesa l’acre foglia

Americana, guarda in vêr le pingui

Venete valli e le lombarde, e dice:

Quelli son miei poderi. Ivi tra i marmi

Frange spumando l’Adige, e il saluto

Sorrisogli da Trento, ultima gemma

Dell’Italico lembo, assiduamente

Reca a le torri de la mia Verona;

Poi volge con allegro impeto al mare

E a le procelle. Di lontano il rauco

Canto venìa d’un carrettier tedesco

Giù per la china, e mesto era. Ei pensava

Forse a’ suoi monti, e a un tetto acuminato,

Ove una bionda vergine sedea

Filando i lini per le attese nozze.

Ed io guardava a i colli ermi, e a la villa

Poveretta di Rivoli, nel tristo

Libro dell’uomo che si chiama Istoria,

Scritta con segni di color di fuoco;

Però che un giorno immansueta e bella

Dea la vittoria scese; e per quei poggi,

Raccolti i crini nel berretto frigio,

Danzò la danza pirrica su metro

Repubblicano. E poi che vide il niveo

Piè nel tripudio rosseggiar di sangue,

Come rosseggia a’ de la vendemmia

La pigiatrice: ai nitidi lavacri

Calò del fiume, e si deterse e rise

Ferocemente, perchè l’onda mista

Ad alemanne lagrime correa.

La prima volta allor sentii con fieri

Bàttiti arcani martellarmi il core

Superbamente; e via pel dilatato

Cielo dell’inquïeta anima mia

Venian fuggendo a nuvole pensieri

Novi, confusi, vagabondi, come

Ne’ scompigliati de le burrasche

Passan augelli non veduti in pria.

Con mille voci il sottoposto fiotto

Mi susurrava nobili racconti

Di caduti guerrieri: i solitari

Passeri che tornando in su la sera

Ruotano intorno al loro asil di selce,

Note metteano in guisa di sospiri,

E mi parevan l’anime vaganti

Dei sepolti laggiù: intesi al mondo

Tanti strepiti mai, come in quell’ora

Queta di vespro e in quel deserto alpino.

 

V.

 

                Ma, in un baleno, non so come, quella

Solitudine austera agli occhi miei

Trasfigurossi. Adusta era la chioma

A le selvette cedüe di quercia,

E sui rigidi rami ordia la brina

Le sue frange d’argento. Avea riarse

L’ultime poe sulle pendici il verno;

E solo qua e qualche cipresso,

Fedel decoro a’ miei pampinei colli,

Dondolava la testa a le folate

Del rovaio, com’uom colto da tristi

Presentimenti.

                    Dal nevoso dosso

Del Baldo insino all’infime convalli

Subitamente s’incurvò la scena

A foggia di scalee d’anfitëatro;

Ed una folla, non so donde uscita,

Di popoli diversi d’idïoma

Inondò quella cerchia, attratta al bando

Di spettacolo novo2

                              Allor dai fessi

Cadmici solchi sursero due schiere

Di battaglieri, e cominciâro un bieco

Torneo di sangue. Nuvole di fumo

Ondeggiavan sui colli; e con selvaggia

Eco indefessa ripetea la Chiusa

L’armonia dei moschetti. I due rivali

Si contendean la povertà d’un poggio,

Non bastevole pure a seppellirli;

Ma su quel poggio era il fatal convegno

De la vittoria. A le crüente falde

Vinte e perdute con crudel vicenda,

Simili all’urto di falcate carra,

Tempestavano splendidi e serrati

I criniti dragoni, e la possanza

Degli omerici fanti. Era un deliro

Di rabbia, sì che l’un sull’altro spinti,

I cavalli mordevano i cavalli,

O, via con la criniera irta fuggendo,

Seco rapian per gli eminenti, angusti

Sentier di pietra i cavalier, che pari

A fulminati demoni d’un salto

Nell’abisso cadean. Era di morti

Gremito il tristo anfitëatro. I Marmi

Stillavan sangue. E se con lena inferma

Qualche ferito nuotator fendea

L’onda ansïoso dell’opposta riva;

Feroci cacciator d’in sulle rupi,

Col piombo inesorabile l’emersa

Testa frangean.

                       Solo fra tanto strazio

Stava guatando immobile un superbo.

Lungo e d’ebano il crin giù per le guance

Pallide; fosco, come il nembo, l’occhio,

E brillante di folgori; il sole

Fronte più vasta illuminò giammai

Di quell’itala fronte. Ardeagli i polsi

La febbre lëonina del trïonfo;

E con repressa bramosia guardava,

Come fa l’uom di Corsica, se attende

Fra le macchie il rival. Se non che inveco

A cielo aperto su gli aperti campi

Egli attendea popoli e re. Pöema

Nuovo fu la sua vita; ed ogni canto

Fu canto di battaglia. Or dopo lui

Cavalcava la morte. Era il tramonto,

E il popol vinto da la immonda arena

Alzava il dito ad impetrar la vita,

Gladiator moribondo. E quel fatale

Spronò il corsiero; e come procellaria

Sull’antenna di naufrago vascello,

Da sommo l’arco del conteso poggio

Cessò la strage con lo sguardo. E il vasto

Anfitëatro risonò di lunghi

Plausi iterati e di percosse palme.

Poi fu silenzio, e tutto sparve, tranne

Quella mèsse di morti. Una campana

Da Rivoli sonò l’avemmaria:

Allora io vidi aerea vïatrice

Uscir dal tempio de la sua Corona,

Cinta d’un nimbo d’iridi, la diva

Signora di quei monti; e avea sembianza

Di verginella che non sa del mondo.

Ma posto il piè di luce in su quel campo

Insanguinato, smisuratamente

Si dilatâro le stellate falde

Del suo manto di ciel, cosi che tutto

Di sotto alle divine ali raccolse

Quello infelice popolo di morti.

 

VI

 

            Già il firmamento si fioría di stelle;

E il ritorno chiedeami irrequïeto

Con la zampa il destrier. E più di pria

Visibilmente mi batteva il core

Concitato. Una lagrima brillava

Sulle allentate redini, mia

La sapeva. Era forse uno dei primi

Momenti arcani, quando Iddio col pianto

E col viril martello del dolore

Tempra l’acciar dell’anime. Di fosco

Più si tingeano le crescenti nubi

De’ miei pensier. ancor sapea che in grembo

A quel turbin d’idee si racchiudesse

Il gentil lampo della Musa. Ancora

Io l’ignorava, o Vergine severa.

La irrefrenabil fantasia sconvolti

Vedea gli aspetti delle cose; e dentro

Pungeami un senso d’infantil paüra

Che ben sentia degnissima di riso;

Ma quel riso moriva. Una perenne

Elegía di lamenti e di sospiri

L’onda gemea dell’Adige in misura

D’esequie. Al margin de la trista riva

Scellerati ranuncoli e solatri 3

Stillanti di mortal filtro, fra loro

Mormoravan parole di congiura

Contro la vita. Dai pungenti ruschi,

Che costeggiavan la deserta via,

Pendean dipinte in porpora le bacche,

Simili a gocce di recente sangue

D’assassinato vïandante; e quella

Che mi fería da lunge, ultima strofa

Di canzone alemanna, entro il profondo

Del cor scendeva a suscitar faville

D’ira e torvi fantasimi. E siccome

Scocca pensiero da pensier, volando

Più de la luce; io mi trovai d’un tratto

Sotto il Ciel di Copernico, sul piano

Dei Jagelloni, su la eroica terra

Di Sobieski a que’ giorni vïolata

Dai cavalli d’Ucrania e da le fruste

Dei selvatici Etmani. 4 Ivi a le sponde

Dei litüani laghi, e sovra il campo,

Libero ancora di Varsavia, vidi

Guizzar le nude sciabole di cento

Drappelli e gli elmi, perocchè volgea

Quell’ora di funèbre ira di Dio,

Che la polacca Vergine, costretta

In terribil amplesso da un selvaggio

Bello superbo e incoronato Scita,

Si dibatteva disperatamente. 5

Povera grande! Allor che in mille chiese

Di questa Europa ingenerosa, un giorno,

S’inalberâr su la riversa croce

Le verdi insegne d’Ottomano, e il capo

Stellato di Maria fu ricoperto

Di scherno; e le giannizzere cavalle

Cibâr l’avena nell’avel dei Santi;

Quando una lunga notte ormai su i nostri

Regni pareva ricader solcata

Da i tetri lampi de la turca luna,

Ben co’ tuoi forti principi volasti

Tu, magnanima Slava; e redentrice

Coi popoli il poeta e il sacerdote

Te salutâr. E che ti valse ? — Pari

Al tapinello debitor plebeo,

Del qual le carni, chè altro non avea,

Si divideano i fërrei Quiriti; 6

Le tue gesta espïasti, e lacerate

Fûr le tue membra.

                           Povera tradita!

Invan risorta dai materni boschi,

Dove mugge il Bisonte, 7 a mille a mille

Spiccavi i rami a provveder di lance

I tuoi patrizi. E apparvero all’appello

Sacro, sull’uscio de le lor capanne

Palleggiando le falci, i tuoi coloni

Tremendi invano. E sì che nei contesi

Paduli de la Vistola. scavasti

Molta tomba al nemico: e per l’opaca

Selva de gli alni giacquer su la polve

I lïoni di Varna. E i tuoi lancieri

Fêr con le picche tentennar sul fronte

La recente corona al giovin Sire. 8

Ma Dio teco non era. I padri tuoi,

Al par de’ miei, peccarono di sangue

Civile e di vendetta; e a poco a poco

Inariditi si mutâr gli allori

In ghirlande di spine ai pronipoti.

E però allor che il mio spirto correa

Per le vie di Varsavia, ivi a le porte

Le Eumenidi ruggiano; e in mezzo a’ lampi

Di lugubre eröismo, era quel grande

Turbamento di un popolo, che l’ore

Presènte estreme e il fato; e gli animosi

Suoi cavalieri promettean sull’are

D’ir per la terra, Annibali raminghi,

Odio accattando contro a la feroce

Roma dell’Orsa.

                             Io non sapeva allora

Quella tanta agonia; ma vôlto il guardo

In parte, dove olezzano i serpilli

De le lessinie praterie, 9 vedea

Salir del ciel per gl’inquïeti azzurri

Una corrusca nuvola, simíle

A riflesso d’incendio; e in mezzo ad essa

Azzuffarsi due croci, e quella greca

Trïonfar la latina. Ed una voce

Mi uscía dal core, che diceva: Prega,

Perocchè in quel canto de la terra

Avvien per fermo qualche gran sventura.

 

VII.

 

                Ed io pregai. Sorgea d’accanto a un ponte

Una recente lapida a ricordo

D’una povera uccisa. 10 Ivi ristetti

Pregando come se tacitamente

Quella sepolta mi facesse invito.

Già ne sapea l’istoria. Eran più lune,

Vivea colà sull’alto de la Chiusa

Benedetta di grazie una fanciulla.

Tre volte eventi, dacch’ell’era nata,

La rondin venne a compiere le nozze

Alla cornice della sua finestra.

E da quel giorno mai sovra il paterno

Camperello la grandine non cadde;

al mandorlo imprudente arse la brina

I frutti; verun maggior dolore

Osò varcarne la vegliata soglia.

Avea riccia la chioma e colorata

Come la buccia di castagna alpina;

Molti fior di giardino avrian voluto

Paragonarsi coll’aerea tinta

Che azzurreggiava ne la sua pupilla;

Ma ciò che forse le venìa più presso,

Era il lin che fiorisce, o il ciel di sera.

Sovra un balcone si educava un cespo

Di gelsomino, e quando e’ si coprìa

Di sue candide stelle, i primi fiori

Ella offeriva a un rustico altarino

Infisso al tronco d’un vetusto noce;

Dava i secondi a un Alpigiano, al quale

Avea già dato il cor. Beltà dicea

Chi dicea Caterina. Ahi! ma sovente

Quei che dice beltà, dice sventura!

Avvenne un , ch’ella cogliea manelle

D’erba sugli orli dell’abisso, e dietro

Quell’Alpigian venia. Fuor del costume

Torbido in cor per non so qual sospetto

Ei minacciò la vergine. Si strinse

Coll’atto di mimosa pudibonda

Quella, sdegnata; e le falliva il piede;

E qua e battendo e ribattendo,

Ruinò dall’altezza e giacque al fondo

Dilanïata. Ella si spense, come

Si spegne un cero per soffiar di vento:

Salgono al cielo l’anima e la fiamma.

Quei che passâr da la profonda via,

Per lunghi giorni videro, funèbre

Vessil di sangue, il vel de la caduta

A una ginestra penzolar dall’alto;

Poscia un mattin più non fu visto; forse

Per la pietà dei miseri parenti

L’angiol custode lo rapiva in cielo.

 

            In faccia a quella lapida una brama

Mi colse acuta di sapere il fato

Dell’eroica mia Slava; onde con fede

Animoso esclamai: «O Caterina,

Sorgi, e mi narra, tu che sai, qual cosa

di tremendo accade.» — Una persona

Esile, bella, pallida, vestita

Di gelsomini, si rizzò sul ponte,

E mi guardò senza pupilla e disse:

”In questo giorno di Maria nascente

Spenta posò la Vergine polacca

Nel suo ferètro di Varsavia. A in mano

Il crocefisso, lo spezzato brando

E la bandiera. — Or che ti parlo è morta.”

 

”No. T’inganni, o fanciulla, ella è sepolta,

Ma non è morta: un popolo non muore…”

 

Queste parole udii dietro le spalle

Romper da voce che sentìa di pianto;

E mi rivolsi, e te vidi, mio primo

Amore, Itala Musa: eri vestita

Di veli tricolori, e mi baciasti

La prima volta in fronte, e da quel bacio

D’improvviso sull’anima mi piovve

L’aura del canto, e un’immortal speranza.

 

VIII.

 

            E da quel cantai. L’amor, la morte,

La natura, il dolor, gl’innumerati

Mondi e la patria miseranda; tutte

Le benigne potenze e le sinistre

Del crëato m’indussero l’olimpia

Febbre dei carmi; e ricusâr la veste

Che non fosse armonia, che non di rime

Sonasse ordita. e di cadenze elette.

E misurati sul veloce o lento

Ritmo del core eruppero i solinghi

Canti e l’estro. Ma fioca e pudibonda

Soltanto a’ rai de le indulgenti stelle

Dall’inesperto labro uscía la voce,

Tanto che niuno, tranne Dio, l’intese.

 

Bëate ore e tremende, allor che i campi

Del Vero austeri discorrea la mente

A spigolar qualche non tocco fiore

Di poesia nascoso, e nei silenzi

Origliava a raccorre un suono, un’eco

Dell’inno eterno, che Natura manda

Al Crëator! Allor che in regioni,

A’ ribaldi inaccesse o a la fortuna,

Ella vedea danzar i sospirati

Fantasimi del Bello, e disperando

Significarne le fuggenti grazie

Piangeva. E quella lagrima piovuta

Sopra la trama di sottil lavoro

Incominciato, ne sperdea le, traccie;

Come la grandin fa sopra i ricami,

Che fra due rose tendono gl’insetti.

 

del mio carme la mercè superba

Sognai d’un nome. E che gli cal d’un nome

All’usignolo? Per gentile istinto

Modula il verso come Dio lo vuole,

Parla all’erbe, a la luna, a la tacente

Selva: contento se nei ciechi stagni

La rana intanto si ristà dal metro:

Poi torna al nido, che intrecciò, presago

De le terrene vanità, con secche

Foglie d’alloro. 11

                                 E da quel t’amai

Vergine. E nato di virile affanno,

Mesto crebbe e virile il nostro amore,

E di te indarno ingelosîr le belle

Crëature, che un mi seminaro

Di vipere e di fior la primavera

Della mia vita; e stettero per anni

Del mio riso signore e del mio pianto

Dolcezze occulte ebbi di te, sorella,

Note a pochi quaggiuso. A te fidai

Speranze audaci, illusion d’amore,

E segreti da morte. E tu pulisti

Il verso, come si pulisce un’arma:

E tendesti dell’arpa in fra le corde

Corde d’un arco di battaglia antico,

Acciò non molle o querulo vagisse

L’inno; ma säettasse. E mi dicevi

Che mai non fôra un’anima codarda,

Anima di pöeta, e che sua legge

È caritade: suo perpetuo fato

Dir le glorie, gli affanni e le speranze,

Patire e perdonar. E tu le rabbie

A me temprasti per estranie terre

Ramingo: e l’ardua dignità reggesti

Del prigioniero; e tu mi reggerai,

Fin che s’apra la tomba inesorata.

Su quella tomba siediti, sorella,

E tolto in mano il sapïente legno 

Del Nazzareno, canta a le novelle

Schiatte, che innanzi ti verran passando

Le libere canzon che incominciai,

E la crudel malignità dei tempi

Mi negò di compir. Canta quegl’inni

Che pensai, ma non dissi, eccitatori

D’opre gagliarde e generose. E quando

Sull’obbliato mio sepolcro, l’unghia

Scalpiterà degl’itali cavalli

Vittorïosi, io spezzerò la pietra,

Risuscitato dall’amor, volgendo

Postumo canto di trionfo ai Forti,

Che attendo in vita e attenderò sotterra.

 




1 La Chiusa è un luogo stretto, che per circa un miglio corre fra alte e diritte rupi, formate dalle pendoci del Baldo e dai fianchi del Pastelo, 12 miglia distante da Verona sulla via che a ritroso dell’Adige mena in Tirolo.



* Vedi le Note in fine del Canto.



2 La battaglia di Rivoli, paesotto vicino all’Adige accanto alla Chiusa, fu combattuta fra Napoleone e gli Austriaci il 14 Gennaio 1797, dopo quella della Corona, dov’è un tempio sacro alla Madonna venerata per tutti i dintorni. Cominciò prima dell’alba e finì alle cinque della sera. Lo sforzo maggiore si fu per vincere il monticello di Rivoli dove venne innalzata a memoria una guglia.



3 Ranunculus sceleratus, Lin. – Specie che vive per tutto, appresso alle acque correnti, infesta agli uomini e alle bestie. — Solanum nigrum conosciuto dal popolo sotto il nome di Tossico.

 



4 Copernico nacque a Thorn in Polonia. – I Jagelloni furono i principi della Lituania, che per alcun tempo racolsero sotto al loro scettro anche la Polonia. Etmano o Atamano è il nome che davasi ai capi cosacchi. — Fra le armi consuete dei quali, vi è una frusta che dicono Natraika, onde si servono a battere il cavallo e percuotere il nemico.



5 L’8 settembre 1831 cadde Varsavia e con essa la Polonia, il giorno della nascita della Madonna.



6 «Tertiis nundinis corpus rei (del debitore) in partes secanto; si plus minusve secuerint, sine fraude esto.» (XII Tav., Tav.III, Leg. XI.)



7 Il Bisonte europeo vive ancora nelle selve della Lituania.



8 Alla selva detta degli Atni vicino a Krakow il 25 febbraio 1831 fu data una fiera battaglia, in cui perirono 5000 Polacchi, e costò ai Russi il meglio dei loro ufficiali e 10,000 uomini posti fuor di combattimento.— Alla battaglia d’Igania fu sconfitta quella scelta fanteria russa, che l’imperatore, dopo la guerra della Turchia, chiamava i Lioni di Varna.



9 I monti Lessinei si trovano sul veronese, a chi sta alla Chiusa, nella direzione di Nord-est, proprio nella direzione della Polonia.



10 Ecco l’iscrizione:

CATERlNA CAVALIERI DI MONTE

D’ANNI 23 NUBILE

IL 20 NOVEMBRE 1829

CADDE DALLA CIMA DI QUESTA RUPE

E MORÌ

IL PADRE DOLENTE VI PREGA

D’UN REQUIEM.

 

Corse fama che vi fosse urtata giù dal suo damo.



11 I rosignuoli, secondo Paolo Savi nella sua Ornitologia, si costruiscono il nido di foglie secche di quercia, di leccio e di alloro.






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