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Aleardo Aleardi
Canti

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  • I FUOCHI DELL’APPENNINO
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I FUOCHI DELL’APPENNINO

 

Nella notte del 5 Dicembre 1846

 

ANNIVERSARIO DELLA CACCIATA DEGLI AUSTRIACI

 

DA GENOVA

 

CANTO


 

A

DONNA PAOLINA SAN GERVASIO

E

MADDALENA SAN GERVASIO FIORETTI

 

 

A voi, madre e figliuola, che vivete del respiro l’una dell’altra, inseparabili sempre, come conchiglia e perla; amiche elette che meco visitaste, son pochi mesi, i toscani Appennini, gli umbri, e i piceni, offro questi versi a memoria di viaggio. Vi ricordate, mie care, que’ tanti voti ch’erano appesi qua e nel Santuario di Loreto? Or bene, accettate questo canto, come un voto che l’affezione appende alle vostre domestiche pareti. Anche l’amicizia ha le sue divozioni.                                                                                                                                                                                            

ALEARDO ALEARDI.

 

I FUOCHI DELL’APPENNINO

 

I.

 

            Via quelle bende di servil gramaglia

Che per pietà de la defunta patria

Da secoli portiam! Via quella plebe

Di nausëata gioventù! Venite,

Vispi fanciulli, amabili imprudenti,

A cui già ridon su la testa bionda

Il primo albor che rompe all’orïente

Nitido, e i rai dell’avvenir che spunta.

Qui festivi accorrete in man recando

Rame d’allor, rame di cedri tolte

Ai giardini dei Doria. In questa notte

Si festeggiò per le montagne un grido

Di Libertà, che dai Liguri offesi,

Un giorno a noi per cento anni remoto,

La sublime imprudenza, e lo scagliato

Ciottolo provocâr d’un giovinetto.

Inghirlandati de la nobil fronda,

Stringendo in pugno ciottoli votivi,

Qui venite, speranze itale; io canto.

Non l’aura bruna, che s’imperla e stilla

Vivificando il calice dei fiori

Ne le arsure del mortificati;

il quïeto splendor d’alabastrina

Luna che batte su le muraglie

De le case montane, e su la snella

Gora spumante del mulin che geme,

M’eccitan l’estro e i sùbiti ardimenti;

Però che solo per cantar non canto:

Non tra le siepi il piccioletto lume

De la lucciola errante, o il mesto verso

Che il cuculo dai folti aceri manda,

Simile a voce umana che si lagni;

O le legioni tacite degli astri

Che ne passan sul capo, ànno il mio canto:

Un Dio virile le sdegnose invita

Malinconie del liberal pöeta.

Indomato desir di Libertade

Sento rïarder ne le vene. Oh fosse

Pari a quegli astri splendido il mio verso

Ed immortal! chè allor da le vilmente

Aperte chiuse de la rezia rupe

Al flagellato da procelle ionie

Capo dell’Armi, come folgor sacra

Trapasserebbe illuminando, il carme!

 

II.

 

            Ma perchè dove si leva il sole

Spunta a fior d’onda una funerea croce?

Forse è il voto che pose un battelliere

Per ricordanza d’affogato amico.

No; su quel lido, ove impaluda e requia

La famiglia dei rivoli dell’Alpe,

Fu la più bella marinara; e quelle

Son le lagune, ove moría Venezia.

 

            Rode l’aliga e il nicchio, e l’acre fiotto

Le basi inferme e le sconnesse pietre

De’suoi palagi, che gl’illustri nomi

In barbari mutaro: e quando il vento

D’Affrica mugge, sui canali immondi

Cascan dall’alto i fregi, e le pensose

Teste e le braccia a’ suoi dogi di marmo.

La sua gloria sparì, come una barca

Di pescadori, cui la lunga fame

Dei figli spinse a ritentar le irose

Onde del verno, e non tornò più mai.

Un’orfana e una vedova sedute

Sopra la rena, puntan le pupille

Tra le nebbie del mar; e a quando a quando

Asciugano una lagrima coi cenci

Del lor grembiule.

                          E il suo Lione è morto.

Pur v’à chi dice ch’egli viva ancora,

Che fu visto vagar muto, di notte

Tra gli scogli istrïani, e per le coste

Cavernose dei Dàlmati fedeli

Fino all’ultimo giorno. Esce, e sul lido

Posa l’antico, e con la lenta lingua

Lambe le piaghe che dan sempre sangue;  

Ma se l’armonioso inno o il tamburo

Sente sonar dei Vandali, si leva,

E flagellando con la coda i lombi,

Torna al covil che alcun occhio non vide.

E aspetta. E Italia sa cosa egli aspetta.

 

III.

 

            Perché dal sen di quell’elisio golfo

Spunta vêr ponente un’altra croce

A contristar quel tiepido teatro

Di palagi, d’aranci e d’oliveti?

Forse è l’indizio ch’ivi cadde un giorno

Sotto il perfido stil dell’assassino

Un vïatore. Il mulattier che scende

Dal petroso cammin de la collina,

Giunto davanti a quella croce, il canto

Sospende, scopre il capo, e prega, e in via

Poscia rimette al suon d’una bestemmia

L’unghia ferrata de la sua giumenta.

No; t’inganni: laggiù dentro a un fiorito

Sepolcro di cinerea lavagna,

I trafficanti di famiglie umane

Ancor viva calar l’ardimentosa

Mercadantessa, che da Giano à nome,

E deserta finiva, ella che avea

Dato l’aure vitali, e le fidenti

Audacie, e l’ansia di venture, e il primo

Amoreggiar coi remi all’indovino

Dell’atlantico mar che trovò un mondo

Da Dio nascosto. Pel suo porto un tempo

Di merce carchi, di valor, di senno

Andavano e reddiano i suoi navigli,

Come le spole in man del tessitore.

Ma in un momento di mercato iniquo

Fu recisa la sua libera vita,

Come fil che recide il tessitore.

 

IV.

 

            Fra i toschi monti, dove la villana

Parla a quel modo che Alighier scrivea,

Vedo laggiù su la fatal collina

Di Prunetta spuntar un’altra croce.

Accanto ad essa nei color listato

De la fiamma, dell’oro, e de la notte

Sorge immobile ai venti un alemanno

Stendardo imperïal, che stilla sangue

Da le lacere falde. Ivi spirava

Ne la convalle un l’indipendenza

Italica; nel loco, ove recinto

Da romani cadaveri, con morte

Da eroe compia la parricida vita

Catilina. E quel sangue usci dal core

Di Ferruccio. Però che quando curvo

Sopra il morente, l’assassin di Spagna

Il più vigliacco dei pugnali infisse

Nel magnanimo petto, il Fiorentino

S’avvoltolò nell’aquile di seta

Del vessillo stranier, per affacciarsi

Con quella rea sindone a Dio, chiedendo

Una vendetta che non giunge ancora.

O Iberia, Iberia! allor che il lïoncello

Ausonio un giorno metterà le giubbe,

Prega il tuo cupo Dio, ch’ei non ricordi

Le codarde tue colpe. Ove la piova

Batta sul tetto dell’alpina chiesa

Di Cavinana, colano le gronde

A macerar le sante ossa ferite

Dell’Ettore toscano. E forse in quella

Scurità de la fossa a lui parranno

Stille di sangue torpido che cada

Dal rotto seno de la patria ingrata.

E quando inoltro e prego in quell’ostello

Di numi che si chiama Santa Croce,

Meno io penso talora ai glorïosi

Raccolti , di quel che a te non pensi,

Grande obliato che ne sei lontano.

 

V.

 

            E nuove croci e simboli di morte

Veggo per tutto, dove più s’imborga

La gemina pianura ove Appennino

Più s’incastella ne le grigie alture.

Strappate via quelle tristezze. Iddio

Certo non volle scindere quest’alma

Penisola in amari cimiteri

Di patrie. Dai celesti ognor protette

Fûr le concordi, valorose, e pie

Cittadinanze. Ormai le avite colpe

Troppo scontammo. Per selvaggio e lungo

Deserto, è vero, abbiam peregrinato,

Esuli in patria, incatenati, irrisi;

Ma se non v’era altro sentier che questo

Triste di spine e di servile affanno

A mondarne dai vecchi astii, e dal sangue

Sparso in pugne fraterne, e a farci uniti,

Siccome fascio di littoria scure,

Benedetto l’affanno! — E il di che in capo

Provocata discenda a lo straniero,

Benedetta la scure! Esulta, o patria;

In queste di servaggio ultime prove;

Dopo i riposi sui novali solchi

Germoglierà più rapida la sacra

Pianta di Libertade; ove dei forti

La congiurata carità la guardi

Dai turbini dell’Alpi; ove il codardo

Non l’avveleni col femmineo pianto.

E voi fate esultanza, Isole illustri,

Smeraldi eterni in campo di zaffiro,

Fate esultanza entro quel mar che un giorno

Era lago di Roma.

 

VI.

 

                             Al passeggero

Che a Teramo s’avvia ne la festiva

Notte di San Giovanni, occorre un nuovo

Spettacol di lumiere. Da le cime

De le montagne insino a le pendici

Róse da due profonde urne di fiumi,

Per quanto abbraccia di curve campagne

Quell’abbruzzese austero anfiteatro,

Ogni chiesa, ogni villa, ogni abituro

Accende innanzi de la porta il suo

Falò votivo: e le figure umane

Che passano, come ombre, su la faccia

De le candide case e de le fiamme,

Paion drappelli d’anime beate

Che intreccin balli al suon de le infinite

Campane in festa ed al tonar dell’armi

Di qua, di , dall’eco ripercossi.

Non altrimenti in questa nobil notte,

Dagli umbri ulivi ai siculi castagni,

Dai toschi pini ai calabresi lecci,

Lungo la schiera de le brune corna

Dell’Appennino si levaron fiamme

A Vesta Independente, itala Dea.

Accorgimento di stranier geloso

Non valse a penetrar chi le accendesse

Su quell’ultime rupi; e forse fûro

Provvedimento di quel Dio gagliardo

Che a le tribù de la promessa terra

I fuggitivi passi illuminava

Con colonna di foco. Ed eran cento

Quelle bandiere mistiche di fiamma

Perchè son cento le città speranti.

Sollecitate da la brezza alpina

Salian le punte al firmamento, offerta

Grata ai Celesti; e di su una stella

Con vivo lume di cortesi assensi

Corrispondea, però che allora allora

Dall’orizzonte emersa era la stella

D’Italia rinascente.

 

VII.

 

                             Oh inver stupenda

Festività notturna! Ancor che acuto

Fosse il rigor del moribondo autunno,

Pur una falda candida di neve

Non fioccò su que’ balzi a far insulto

Ai fochi sacri. Fu però chi scòrse

Altissima passar pei tersi cieli

Una procella, e ne reggeva il volo,

Di negro e di color giallo dipinta,

Inferocita un’aquila scettrata,

La cui simíle non fu vista viva.

Rivolte vèr gli squallidi Trïoni

Valicarono l’Alpi; ivi le nubi

Sciolser dal grembo gli adunati geli

Che ruinando crepitâr sull’alte

Querce d’Arminio, e sui poveri tetti

Acuminati d’una fulva stirpe.

Rupper la calma de la notte strane

Novità di clamori. I pii che stanno

In perpetua vigilia al Santuario

De le speranze italiche, agitarsi

Su la pianura di Roncalia udiro

Un’assemblea d’astuti laureati

Che di fede]e schiavitù, di dritti

Favellava, e d’antiche signorie

D’una gente sull’altra, e di ribelli:

Tal che del Po si diffondea sull’onde

Una viltà di striduli cavilli;

Poi sull’Olona un cigolio di aratri

Che squarciavan le vie, dove era stata

Una città per seminarvi il sale.

Allor pei campi di Legnan s’intese,

Come a risposta, un gran tumulto, ed era

Un percoter di ferree aste, di spade

Repubblicane su le maglie e i cranii

Tedeschi; un giuramento dell’audace

Legïon de la Morte; una severa

Melodia trïonfal: mentre lontana

Sonava l’unghia d’un cavallo in fuga

Che vêr Costanza su la vuota sella

L’onta recava del superbo Svevo.

E quando all’alba gli astri impallidiro,

Parve si udisse da normanne chiese

Salir con la marina ôra distinto

Uno squillo di Vespri siciliani

L’Avemmaria dell’itale vendette.

 

VIII.

 

            Ave Maria, se a te son cari i folti

Vigneti, e gli orti, e la divota china

dove al mesto dell’adriaco mare

Sorride il colle de la tua Loreto,

O mistico geranio de le notti,

Questa notte t’offriamo e questi fuochi.

Regina dei dolenti, Ave Maria;

Se tu celeste viaggiatrice un clivo

Dell’Appennin sceglievi, ove posasse

La povertà de la materna casa,

Siccome l’orto de la tua famiglia

Questa patria proteggi. Ave Maria,

Il pescadore in disperata angoscia

Tra la furia d’ingorde onde ti chiami

Stella del mare. L’esule che passa,

E ad ogni vecchiarella de la via

Pensa a la madre e lagrima, ti chiami

Rifugio de la prole esule d’Eva

Noi Te con l’inno di viril preghiera

Arca di Federanza invocheremo.

 




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