LA VALLE DELLA MORTE
NELL’ISOLA DI GIAVA.
1 *
In un’isola in fondo all’Orïente
Da quaranta vulcani illuminata
Fra le magiche valli, ond’è ridente,
V’è una picciola valle avvelenata.
Cava, rotonda, senza un filo d’erba
Da enormi pietre e da paure cinta,
In vetta a un monte, sovra il letto serba
Sempre un’arena in livido dipinta.
Folte allo incontro su gli esterni clivi
Selve di cocco sorgono e d’allori:
Brucano cervi, cantano giulivi
Augelli strani in cima a strani
fiori.
Di fuori è il monte un natural giardino:
Da le cortecce sudano le manne:
L’aura che spira odor di benzoíno
Fa dondolare del bambù le canne.
Ma su in la valle, come in trista reggia
Sempre col dardo vigile sull’arco,
Cacciatrice infallibile passeggia
La morte, e attende gli imprudenti al
varco.
Le rondinelle che sfilando a nembi
Riedono a le lor case in Occidente,
Solo che radan di quel loco i lembi,
Come ferite piombano repente.
Vi muor il daino che trapassa a volo,
Vi muor il seme che vi reca il vento,
D’ossa biancheggia il maladetto suolo,
L’aura che ne vapora è un tradimento.
Ode il fragor de’ sotterranei tuoni,
E queto pasce il buffalo selvaggio;
Vede le vampe de’ fumanti coni,
E pasce queto de le lave al raggio:
Ma se un alito sol di quella infesta
Aura lo tocca, esterrefatto mugge,
Agita il pondo de la torva testa,
Vibra la coda e ruïnando fugge.
E pure, Elisa, io so d’un’altra cosa
Di questa valle ancor più desolata:
Cara di fuori, splendida, festosa;
Morta di dentro, e come avvelenata.
E tu sei quella. Io non ò mai veduto
Deserto più deserto del tuo cuore,
Come una tomba devastata muto,
Dove ogni affetto che s’appressa,
muore;
Sterile camperel sparso di brevi
Scheletrini d’amori appena nati,
Sparso di spente illusïon, di lievi
Ali di spemi colte negli agguati;
Ei pare un cimitero senza croci.
Se pur care vi sono le vostre vite,
Da questa valle, trepidi, veloci,
O giovinetti, fuggite, fuggite.
IL CANTORE SCHAHKOULI. 2
Polvere e fumo avvolgon le dugento
Torri di Bagdad, la città dei Santi:
Per le moschee fischian le fiamme e il vento
Salgono gli urli de la strage e i
pianti
Al firmamento.
Brilla per tutto la cornuta Luna,
Fuor che a la Porta ancor de le Tenèbre;
Poi che. tentando l’ultima fortuna,
Ivi un audace con ardor funèbre
Le schiere aduna.
Ma la vittoria è omai dell’Ottomano.
Da la sua tenda che di gemme luce:
«Schiavi, recate di quel reo Persiano
Qui la testa esecrata,» urla con
truce
Volto il Sultano.
E quel giovine audace era un Cantore
Celebrato
in sul Tigri. «Io voglio, pria
Di morir, presentarmi al vincitore:
Per me non
già, ma per quest’arte mia
Che
meco muore.»
Con disperata man de lo stromento
Corse le
corde in faccia del tiranno,
E cantossi la morte. Era un concento
Di gemiti,
di fremiti; un affanno
Senza
lamento.
Poscia cantò le ceneri e la tomba
De la sua
patria misera, e la valle
Del Tigri schiava. E sibili di fromba
Quelle note
parean; fischi di palle,
Squilli
di tromba.
Intonò alfine l’inno dei redenti:
Narrò la
pace, il rinnovato aprile
Dell’arti, i lieti campi, i monumenti;
Narrò
l’amor, la voluttà gentile
D’esser
clementi.
In quello istante divenuto buono
Era ogni
tristo, e si quetaron l’ire.
Taccion le schiere: dal gemmato trono,
Sorridendo,
al Cantor concede il Sire
Vita
e perdono.
Anch’io ti dissi un giorno, o traditora:
«Senza di
te morrei: oh non lasciarmi
Languir! Oh non voler che meco muora
Questo che
tu mi spiri estro dei carmi,
Dolce
Signora!»
E l’itala cantai buona novella
Sfidando il
palco de l’austriaca gente,
E con l’audacia di canzon ribella
Le
battaglie predissi, e la nascente
Itala
stella.
Ma tu, crudele, arte spregiando e pianto,
Compisti
inesorabile il misfatto;
Tolto al mio cor dell’amor tuo l’incanto,
Spenti,
Sultana, tu volesti a un tratto
Cantore
e canto.
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