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Aleardo Aleardi
Canti

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  • EPICEDIO PER UNA BIMBA.
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EPICEDIO PER UNA BIMBA.

 

A L. Z. F.

 

I.

 

 

LUIGIA.

 

            Ti ricordi una sera? Al firmamento

Levasti, cara dolorosa, il viso,

E somiglianti a due righe d’argento,

Bagnâr due stille il tuo mesto sorriso;

                        E mi dicesti: ”Mio poeta, oh quanta

                        Parte dell’alma mia vive lassù!

                        O mio poeta, una canzon mi canta

                        D’Amelia mia, che non vedrò mai più.”

 

            Io canterò. Su quell’avel ti siedi;

Su quell’avel ti sederò daccanto:

Ai che fûro con la mente riedi;

Cerchiamo un delicato estro nel pianto.

                        Oh! il mio passato è una città deserta

                        Ove due cippi mortuari in piè

                        Segnan le tracce de la via mal certa

                        Fra gli avanzi dei gaudi e de la .

 

            Vergine lieve in rapida carola

Che ti lambe e dileguasi; spedita

Gondola che pel bruno aere s’invola,

È il picciol lampo de la nostra vita.

                        Qui tutto muor. Interroga gli ardenti

                        Deserti, ove orma viva non appar;

                        E ti diranno quanta onda di genti

                        Volse e sparì, come essiccato mar.

 

            E un matura l’avvenire arcano

Quando, simíle ad un navil che affonda

Per vetustade in placido oceàno,

Svanirà ne la tenebra seconda

                        L’orbe: e forse per l’etere, sull’ale

                        Si librerà qualche divin cantor

                        Armonizzando un inno funerale

                        Su le virtù sue brevi, e i lunghi error.

 

            Arpa de’ miei prim’anni, a cui le miti

Gioie ò fidato del paterno tetto;

E il fremito di popoli avviliti

Sotto il flagello di straniero abbietto;

                        A cui l’ardore di desir mal domi

                        E un tesoro di speme e di martír,

                        Cui lagrimando ò confidato i nomi

                        Di quelle che amai tanto e mi tradîr;

 

            Arpa de’ miei prim’anni, al ciel converso

Qui nel silenzio, ignoto carme io sciolgo;

Però che sdegno l’indiscreto verso

Che pubblica gli affetti intimi al volgo;

                        Tu a questa bella travagliosa assenti

                        Da le tue corde un suon consolator:

                        Niuno il metro udirà de’ tuoi concenti,

                        Chè l’angoscia profonda à il suo pudor.

 

II.

 

 

AMELIA.

 

            Non fu di te più morbida

La foglia de la rosa;

Non fu di te più candido

Un fior di tuberosa,

O lagrimata Amelia,

Illusïon perduta,

Che il mio solingo cantico saluta.

 

            Una corona attendere

Parea la bionda chioma;

Era l’amabil alito

L’olezzo d’un’aroma;

Vaghe, azzurrine linee

Le trasparían dal fronte,

Quasi di cielo incancellate impronte.

 

            Ma sorse un che languido

Più dell’usato e anelo

Il grande occhio ceruleo

Ora volgeva al cielo,

Or de la madre all’avida

Pupilla al pianto esperta,

Qual fra due cari paradisi incerta.

 

            Ella patía. Per gelida

Febbre che l’agitava,

Pieno di sparsi ninnoli

Il letticciuol tremava,

Come per vento tremola

Sopra la pianta un nido;

Quando mi colse un disperato grido.

 

            Chi può ridir quell’ululo

D’angoscia e di terrore,

Che manda da le viscere 

Una madre al Signore,

Se tramutati in feretro

Dell’unica fanciulla

Vede i guanciali de la fredda culla?

 

            Io m’affacciai dall’andito

A le funeste porte;

Sentii, passando, battermi

Il fiato de la Morte

Di contro il volto, un brivido

Mi penetrò nell’ossa;

Ed ò provato il freddo de la fossa.

 

            Or che fuggì la nivea

Perla da la conchiglia;

Or ch’ài lassù tra gli angeli

L’angiol di tua famiglia;

Che mai ti resta, povera

Donna, del perso incanto?

Un biondo riccio, una memoria, e il pianto.

 

            Prega, o gentil; le lagrime

Tergi. Verrà quell’ora

Che poserai nel placido

Avel dei padri. Allora

Dio ti darà di ascendere

A la lucente sfera

D’Amelia tua. Prega, o gentile, e spera.

 

            Spera; chè sol nei fervidi

Istanti de la mischia

Quando una fitta grandine

Di palle intorno fischia,

Ed erran polve e gemiti

Per le cruente rive;

Solo la gloria del valor non vive;

 

Ma vive a tutti incognito

Magnanimo un valore

Nel cor che regge all’ultima

Speranza che gli muore,

E a pugne solitarie

Scende dall’alba a sera

E strazia l’alma sì, ma non dispera.

 

Oh! benedici al giubilo

D’allor che a te spossata,

Disser le ancelle vigili:

Una fanciulla è nata.

Benedici agli spasimi

Che ti squarciâro il petto

Curva a la sponda del mortal suo letto!

 

S’Ella or si bea pei floridi

Campi non perituri,

Forse sfuggì le perfide

Lusinghe de gli impuri;

Le gelosie, le smanie,

Le illusïon mendaci,

E d’uno sposo fastidito i baci.

 

Qual chi rapito naviga

Di Spezia la marina,

Vêr l’onda cara a Venere,

Accanto a una collina,

Se de la Polla torbidi

Vede bollire i lembi

Ne tragge auspicio di venturi nembi:

 

Tal per quest’aere italico

Prevedo un saette.

L’odio fu sparso; il postero

Raccoglierà vendette.

Però in que’ giorni trepidi

Del lugubre duello

Batteran le sventure ad ogni ostello.

 

Ella dal ciel propizie

Ci pregherà le sorti;

fia che beva al calice

Di consanguinee morti,

Ove la goccia ascondesi

La più cocente e amara,

Quella che serba la materna bara.

 

III.

 

 

MARIA.

 

            Oh la bara materna! Io l’ò sentita

Lenta, un vespro, passar giù nella via:

E l’angoscia che in quella ora ò patita

Non patirò nell’ultima agonia.

 

            Quando la salma uscì fuor della porta

Sentii la vita che dal cor mi usciva;

L’avrei meco voluta, ancor che morta,

Sempre, e adorarla, come fosse viva.

 

            Madre mia, tu mi fosti il primo amore,

Amor che solo il padre ebbe a rivale;

La tua fossa fu il mio primo dolore,

Dolor selvaggio, immobile, immortale.

 

            Sempre ò dinanzi l’ora, che le stanche

Palpebre in cerca del figliuol levasti;

E con le labbra tremolanti e bianche

Quell’ultimo tuo bacio a me donasti;

 

            E mi dicesti con un fil di voce:

«Ricordati di me, che t’amai tanto.»

Piangevan tutti. Ella guardò la croce,

E passò. Io stetti in disperato pianto,

 

            Con la sua man di cera ne la mia,

Per quanta ora non so. So che un momento

Sentii la man che fredda divenía;

E caddi freddo anch’io sul pavimento.

 

            Ch’io mi ricordi? E non sai tu che spessi

Giorni venni a picchiar a la tua stanza,

Sperando ancor che tu mi rispondessi

Con quell’amor che avevi per usanza?

 

            Non sai che s’io sentía su la mia testa

Passeggiar due piedini pel soffitto,

Balzava a un tratto da la sedia, in festa;

Poi ricadeva dal dolor confitto?

 

            Ch’io ti ricordi? E non sai tu che mai

Donna non chiamo che Maria si appelli,

Che la miseria de’ tuoi lunghi guai

Nel devoto pensier non rinnovelli?     

 

            Che dal tuo letto, donde quella sera

Spiegasti il volo che non à ritorno,

Ogni sera ti mando una preghiera

E in te riposo fin che spunta il giorno?

 

            Il paesello de le mie memorie

Rividi dopo molti anni passati,

E ne la mente ritessea le storie

Del mio mattino e i bei sogni beati.

 

            Inavvertito peregrin d’affanno

La dolce visitai casa romita,

E nell’arida età del disinganno

Cercai le impronte de la prima vita;

 

            Vidi la stanza, ove la pia scendea

A risvegliarmi con l’amplesso usato,

L’ampia finestra, onde vegliar solea

Me ne’ giuochi anelante in mezzo al prato;

 

            Rividi i fiori, il mandorlo, il giardino,

E udir mi parve il capinero antico

, su la cima tremola del pino,

Che festeggiasse il ritornato amico;

 

            La corte, l’atrio, il focolar, le scale,

Tutto in quel mio perduto paradiso,

Quando io passava, mi diceva: vale;

Tutto avea la sua lagrima, il suo riso.

 

            E piansi, e piansi; e su la fossa acerba,

Arcano albergo d’infinito affetto,

Genuflesso raccolsi un filo d’erba,

Gemma fatata che mi posa in petto.

 

            E tu perdona, bella travagliosa,

Se al tuo dolore il mio dolor confondo;

Non avea che una corda armonïosa

Pel mio fil d’erba, e pel tuo riccio biondo.

 




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