I SETTE SOLDATI
A
ALEARDO ALEARDI
I SETTE SOLDATI
«……. tedesco……….
Giusto giudicio dalle stelle
caggia
Sovra 'l tuo sangue, e sia nuovo
ed aperto.»
DANTE, Purg. canto VI
I.
Ecco la
valle: io la ravviso, tetra
E uniforme; deserto
Passaggio in mezzo a due schiene di monti
Ardui, che sempre ignora
Le rose dell’aurora e dei tramonti.
L’imo ne solca un fiume; astori e nebbie
Ne solcan l’aure. Una turchina spira
Di fumo, ch’esca da abituro umano,
Per quanto l’occhio gira
Tu cercheresti invano.
Pria che vi fosse questa gran miseria
Di servi e di signori,
Di tormentati e di tormentatori;
Questa follìa di popoli devoti
A la bugía di
mille sacerdoti,
Trafficatori di paure arcane
De la tomba e di Dio; sotterra un foco
Intimo scosse il loco; e da la china
Giù de’ monti piombâr
quelle infinite
Enormi pietre che ti vedi innanti
Bianche, diritte, come
Tumoli di giganti.
Con piè veloce per sospetto vola,
Se passa tuttavia, la mandrïana
Che, tratto tratto, a salti,
Ode fischiando ruinar la frana
Dei lividi basalti;
Ode e asseconda con tremante voce
Il segno de la croce.
Ogni eminenza dopo la procella
Versa per cento conche I
In curve e fuggitive
Cascatelle il soverchio de la piova:
Suonano le spelonche
A la cadenza di frequenti stille:
Brilla l’immenso verde,
E tutta di vaganti iridi piena
È la silvestre
scena.
II.
Pur quando
all’aure pronube d’aprile
Di requie impazienti
Fremono i germi in grembo a la Natura
Che in pompa si riveste
Per le nozze imminenti;
E per la terra, e per il cielo spira
Quello indistinto fáscino
d’amore
Che scorre per le fibre a le fanciulle,
Pei calami del fiore,
E forse per le stelle:
Anche quest’erma valle e queste brulle
Rocce si fanno belle
D’un lor riso severo.
Lungh’esso il fiume in su la tersa ghiaia
Manda il pivier la gaia
Nota di sposo. Ai piedi de le selci,
Coronate di felci, esce il ciclame
Profumando; e la vite
Selvatica diffonde
Lontanamente i balsami rapiti
Dal venticello ch’alita sull’onde.
Nasce, amoreggia, e muor tra le dorate
Selvette tenüissime
dei muschi
Un mondo di viventi atomi, a cui
Sembra una stilla di rugiada un lago
E per girare intorno
All’orbe immenso d’una margarita
Consumano la vita.
Fino ai colubri appigliasi l’arcano
Assillo dell’amor. Sbucan dai covi
Cinti di rovi al sol meridïano,
Avviandosi ardenti al consueto
Loco dei cento talami. Costretti
Ivi in beata voluttà di spire
Mettono un fischio languido; ed il sole
Coi raggi indifferenti
Feconda a un tempo il tossico ai serpenti,
L’olezzo a le vïole.
III.
E un dì
passai per questa valle. L’alba
Illuminava d’una luce scialba
Le declivi boscaglie; e in ciel languía
Il curvo filo de la stanca luna.
Quivi a lungo, poc’anzi avea ruggito
Una battaglia disperata e santa
Tra i figliuoli d’Italia
E lo stranier: una vendetta allegra
De la schiatta latina.
In vetta a una collina
Guardai giù basso, e a la crescente luce
Mi parve innanzi rinnovato il truce
Spettacolo di Flegra.
Oh quante genti fulminate! quante
Agonie disperate
Ne la giovine etade
De le speranze! quanti fior di vita
Ricisi da le spade!
Che amor, che generosi impeti, e arditi
Proponimenti e lampi
Di poesia spariti
Là con quei cor, con quelle bionde teste
Ne la fuga dei carri e dei cavalli
Orribilmente péste!
E quanta folla d’anime immortali
Che varcano le soglie de la morte
Dai lor cari defunti inaspettate!
Simili a nembo di sinistri augelli
Che ratto migri ai nidi oltramontani,
Volaron le novelle
Crudeli, e dai moravi
Ai campi transilvani
Sorse un gemito d’avi,
Un singhiozzo di madri e di sorelle
Diserte. E cento acuti
Archi di stranie chiese
Brillâr di torce
funerali, accese
Per la pietà dei poveri caduti.
Quivi frattanto, senza onor di tombe
Ai venti abbandonata e a la rugiada,
Giacea questa ecatombe
Di servi de la spada.
Essi eran morti udendo il trïonfale
Suon dell’itale trombe,
Beffardo ultimo vale:
Quando che sia risorgeranno al tócco
De le angeliche squille, e forse ancora
A quel subito suono
Dubiteranno d’essere inseguiti
Dall’itala vendetta
Lungo gli eterni liti.
Poi che nè pur la pace de la fossa
A spegnere non val l’odio compresso
Che contro l’oppressor nutrì l’oppresso.
IV.
Dentro al
mio core s’era fatto un grande
Buio. Il più triste spirito dei carmi
Agitava il poëta:
L’italiano esultava, e l’uom piangea.
Pure all’idea de le recenti e antiche
Catene, e degl’insulti
Da tre secoli inulti: all’empia vista
Di quel popol di morti, affascinato
Alzai la destra in guisa
Di chi vuol maledir: ma a mezzo l’arco
Ella mutossi in man che benedice:
E come ebro discesi
Da la pendice al campo insanguinato.
Colà in disparte parvemi la salma
D’un caduto su l’orlo de la riva.
Pendea nel fiume la sinistra palma
Che sospinta dall’onde
Iva e rediva come cosa viva.
Tenea con l’altra al core
Un suo strumento nitido di bosso,
Donde ei ritrasse in vita
Pane e sorrisi, e note
Di gentil melodia col sapïente
Alternar de le dita. 1*
«Povero onesto,
io dissi, e chi di noi
Offese i padri tuoi?
Chi ti spinse a lasciar l’esile aratro
Sovra i piani dell’Elba? E non ti afflisse
Abbandonar l’immenso anfiteatro
De la patria boema, a cui fan cinta
La famosa foresta e le brillanti
Montagne dei Giganti? O perchè non seguìvi
Ad animar con gli eredati suoni
De le natie canzoni
I convegni giulivi
Del villaggio domestico; e la vaga
Danza che folta ti attendea, la festa,
Tra mezzo a le fiorite
Collinette di Praga?
Come nel pianto abbandonar potesti
La tua fanciulla, a cui dall’arpa ebrea
Derivare apprendesti
Nobili accordi con la man plebea?
Ella di speme l’avvenir ricama;
E per l’amor d’un pane
Va trascinando lietamente il santo
Strumento dei profeti
Per gli anditi indiscreti
Di taverne profane.
Ma poi che giunto all’Elba il picciol grido
Sia del tuo fato, la vedranno a poco
A poco dileguar; cosi che in breve
L’immondo ragno tenderà le reti
Fra le disciolte corde;
L’arpeggiatrice dormirà nel prato
Inugual del sagrato.»
Io gía come
l’afflitto che cammina
Favellando da sè. Quando lontano
Appena un trar di sasso
Contenni il piè dinanzi
Un inclinato masso.
Simile al gufo che il villano inchioda
Là crocefisso al legno de le porte
Per divertir non so che malefíci
Temuti de la sorte;
Tal qui giacersi con aperte braccia
Vidi un supino fulminato al core.
Al fosco lividore
Del poco fronte e dell’obliqua faccia,
Al crine irto, ai nodosi
Lacerti disegnati
Dai panni luttuosi,
Io riconobbi un nato
All’ardor di selvaggi abbracciamenti
Sul giaciglio croato. Anime prave
Che ricevono al fonte un odïoso
Battesimo di schiave;
Intelligenze pigre
Là giù nei lor materni antri alla caccia
Degl’Itali educate ne le atroci
Scaltrezze de la tigre:
A cui ne la ferina
Tragedia de le pugne unica Musa
È la rapina. Ahi miseri, e non sanno
Che insieme un dì ci leverem fratelli
D’ire e d’affanno! — A lui
Insuperato nuotator non valse
Fortificar i nervi incontra ai flutti
Rapaci de la Kulpa; 2
O pareggiar nel corso
Anelante i selvatici bidetti
Aborrenti di morso;
Ch’or non di meno, come inerte cosa,
Ne la perpetua calma
De la morte riposa. —
Lungo un’erbosa riva che si perde
Col pallido suo verde
Nell’adriaca marina,
Mena solinga a pascere la vacca,
Util compagna e cara
De la sua vita amara,
Una gentil Morlacca.
Quivi seduta senza trovar pace
Riguarda al sol che tramontare accenna
Oltra quel mar, da quella banda, dove
Ne la deserta antichità si giace
La nobile Ravenna.
Poi s’alza ratta e un súbito
sgomento
Le stringe il core, perocchè le parve
Sentir passar col vento
Caldo, che soffia dal lombardo lito,
Mista al lamento di cognate larve
La larva del marito.
Leva lenta le nari, e l’aure anch’ella
La vaccherella fiuta,
E con lungo muggito
Il tramonto saluta. —
Oh va’, infelice! gitta in mar l’infausto
Anel di sposa: la tua terra è omai
La patria de le vedove. Levate,
O donne, a schiere la canzon dei morti
Per le serbe vallate.
Misere! e a voi non fia
Nè pur concesso lagrimar sull’erba
Sorta dal sangue dei mariti estinti;
Però che tutti maledetti e vinti
Giacquero sui pugnati
Campi de lo straniero;
E il lor cenere è sparso ai quattro lati
Del moribondo impero.
Ite, o donne, coi macri orfani in collo
Dinanzi a voi spiegando,
Simbol d’immenso lutto, il funerale
Stendardo giallo e nero: ite, e levate
A mille a mille la canzon dei morti
Per le serbe vallate.
VI.
Con tal
procella di pensier che invano
Significar con l’impotenti rime
Si trova la pittrice arte dei carmi,
Io m’innoltrai nel piano
Vie più di membra mutile, di rotti
Carriaggi sparso e d’armi.
Era un silenzio pauroso. In questa
Campagna dei sospiri
Non sentivi un sospir. Pure un momento,
Quasi ronzío
d’insetto vagabondo,
Mi parve udir maravigliando il lento
Mormorare d’un salmo. L’inquïeto
Sguardo girai d’intorno, e vidi in mezzo
A un denso rovereto
Starsi un mesto, diritto in fra due morti.
Le lunghe pieghe de la veste nera,
L’onda fluente dell’intonso crine,
I severi conforti
De le voci latine
Mi palesâr che
gli era
Un ministro dell’ara.
Ei non piangea: ma più del pianto amara
Era l’angoscia de lo scarno volto.
Io m’appressai. Non fece
Motto, e finì la prece.
Poi senza pur guardarmi: “Tu chi sei?
Disse; che cerchi?” —
“Io mi son un, risposi,
Che piange e canta; e vengo
A contemplar un’itala vendetta.”
- “Or ben, soggiunse sospirando, nota
Que’ due caduti che mi fûr
si cari;
E se a nemico generoso io parlo,
Ricorditi di lor, te ne scongiuro,
Canta di lor che fûro
Grandemente infelici.” — Ed io guardai.
Uno era biondo e bianco; avea la morte
Dimenticato di coprirgli il fisso
Orbe de le pupille,
Picciole e brune, come due granate
De’ suoi natii Carpazi
Da un alito appannate.
I mal contesti rami
Dei crocëi ricami
Sui rozzi panni dell’azzurra veste
Facean contrasto col candor di neve
Dei lini, e de la breve
Sua mano, e con la gemma
Effigïata di non
so che stemma
Ond’era ornata. Avea per origliero
Il fianco ancora tepido del suo
Moribondo destriero,
Tutto di spume livide e vermiglie
Bruttato il crine, il largo
Petto e l’inerti briglie.
Agonizzando il nobile leardo
Al trafitto soldato
Volgea lo sguardo, quasichè volesse
Chieder perdon di non lo aver salvato.
VII.
«Censo di
boschi, seguitò quel pio,
Censo di ville e vastità di prati,
Dai rivoli fecondi
Dell’Ipoli solcati, 3
Ereditò quel misero nascendo.
Gioia di cacce, turbine di balli,
Squittir di veltri, volo di cavalli
L’accompagnaro al novo
Affacciarsi nel mondo; ove a tardarne
Le facili procelle
Guidavanlo i materni occhi, siccome
Due domestiche stelle.
Ma poi che con insoliti rintocchi
A libertà sonò la vaticana
Mentitrice campana,
E dall’Ionio al Baltico, dal Ponto
Al mar d’Atlante un grido
Di súbita rivolta
Salì da venti popoli, comparsi
In fantastica mostra
Con armi antiche e con vessilli novi
A la fervida giostra;
Quando fûr visti
rodersi ne’ passi
Scorati de la fuga
Pallidi coronati impenitenti,
E de le reggie per le invalse sale
Tonò la liberale
Canzone dei redenti;
Quando i colli vitiferi, e le lande
Dell’ungarica terra
Arser d’inclita guerra; ei ne le vene
Sentì l’orgoglio d’esser nato in grembo
A la patria de gli Ussari. De gli avi
La sciabola brandì: pose sul core
Il nastro tricolore:
Su le spalle il dolman: balzò in arcioni:
Verso il Tibisco insanguinò gli sproni. 4 —
Là del castel su la ventosa altana
Stette a lungo la madre a benedirlo,
Fintanto che cavallo e cavaliero
Parvero un punto nero
Ne la campagna. E da le interne corti
Inquïeti
echeggiavano e lontani
I latrati dei cani
Che facean vïolenza
a la catena. –
Ei combattè. Ne la notturna pugna
Al fiero passo di Branisco, i crini 5
Del suo corsiero, e l’ugna
Stillâr del
sangue dei nemici estinti.
Tra le carpazie rupi
In galoppi silenti
Volò su le recenti
Nevi a inseguirne le fuggenti schiere;
E dei roveti a le conserte spine
Vide pendere a cenci le bandiere
Dell’aquile assassine.
In quelle notti che l’assiduo lampo
De le infuocate palle
Illuminava di baglior sinistro
I colli, i forti, il campo
Ungarico, e la valle
Benedetta dall’Istro,
Notti selvagge onde tuttor si offende
L’aspra beltà de la ritrosa Buda,
Ei, lasciate le tende
Ozïose, e le
indocili cavalle
A scalpitar la paglia
Fangosa de le stalle,
Impugnato il moschetto,
Nel più fitto salía
de la battaglia,
Demone giovinetto.
L’ultimo dì s’inerpicò tra i varchi
De le cadenti mura, in ogni canto,
Per le vie, ne le chiese, e per le piazze
Pugnando: e allor soltanto
Posò, che vide il tricolor vessillo,
Iride di vittoria,
Brillar su le ruine
De le squarciate case palatine:
Allor si assise tra il tumulto e il pianto
Sui ruderi tranquillo.
Quivi deposto il volto in fra le palme,
A la patria pensò: pensò all’amara
Gloria de’ morti; e all’acre
Ebbrezza degl’infranti
Ceppi, in que’ giorni di battaglie sacre.
Sopra la rupe del castel di Buda
Veder gli parve ritta in fra le cupe
Nuvole degl’incendi
Una cristiana Pallade magiara,
Che, proteso lo scudo ampio, copría
La vergine Ungheria.
E dopo molte lune,
La prima volta ei rise. —
Pensò a la madre. Ahi! sventurata. Invase
Fûr le sue case;
e apparve in su la soglia
Il giustiziero. La gentil ribelle
Senti infamarsi le patrizie terga 6
Dal vituperio dell’austriaca verga:
E odiò la vita. E dato
L’ultimo bacio a le atterrite ancelle,
Sotto la pietra del sepolcro ascose
Le membra vergognose.
E dopo molte lune,
La prima volta ei pianse.
VIII.
» Fra le ruine a lo improvviso, acuto
Un accento sonò: “Sia maladetto
L’imperadore!” – “E sia!”
Interruppe il seduto.
E vôlto il
guardo, scôrse un giovinetto
Con sanguinosa mano
Una lancia d’Ulano,
Che genuflesso in atto
Di giubbilo, di rabbia e di preghiera,
La glorïosa
antenna
Baciava dell’ungarica bandiera.
Come sospinti da virtù segreta,
Levârsi a un
tratto e si abbracciâr. Vent’anni
Di feste insiem gioite,
D’insiem patiti affanni,
Come quel punto non avríeno
avvinte
Di tanto amor le vite
Di que’ due che giammai non s’eran visti.
V’à de’ momenti in questo
Tenebroso passaggio de la terra,
Che in mezzo al turbinío
dei sentimenti
L’anima splende, e illumina gli arcani
D’un’alma ignota che s’affaccia; e a un punto
La comprende, l’attrae, l’ama, e contesse
In un balen lo stame
D’un immortal legame.
Al patrio Dio rivolti 7
Giurâr d’esser
fratelli
Uniti in vita, uniti
Fin ne la tomba istessa:
E come vedi, tenner l’impromessa.» —
Ei tacque. E quel secondo
Infelice guardai. Come era bello
Il volto de la morta creatura,
Ritoccato così da la sventura!
Un non so che di femminile uscía
Dal languido sembiante, e da le brevi
Onde del crine di cotale un biondo
Che nel color di cenere moría.
Quasi cercasse un ultimo saluto,
Verso il fratel tendea la man che sola
Gli rimanea già tinta
Di sepolcral vïola.
Poco da lui lontano
Ancor da una vulgare elsa indivisa
Giacea soletta un’altra man ricisa,
E forse era la sua. — “Questi
che guardi”
Seguì quel mesto con rotte parole
Qual di chi sta per piangere, e non vuole,
“Questi a
Tarnovo, la città funèbre,
Da antichi di Polonia avi gagliardi
La sfortuna sortía
del nascimento:
E pur sin da la cuna
Una corona gli arridea di conte.
Ma non appena incominciò per lui
Il giovanil festino,
In cui novizia audace
La pubertà si piace;
Truce conviva gli sedè di fronte
Lo spettro di Caino.
A que’ dì da la Vistula a la Sava 8
S’era diffuso il fremito d’un verbo
Eccitator, compreso
Tra le famiglie de la gente slava.
E nel lor cielo, che parea sereno,
Di qua di là splendea
Qualche improvviso liberal baleno.
Come di notte stando a la pianura
Vedi talor del monte
Sopra la faccia oscura
Di loco in loco vagolar dei lumi
Che son portati, e par che vadan soli;
Non altrimente là per quella immensa
Vastità di contrade tenebrose
Scorrevano facelle
Di libertà, recate
Attraverso reconditi sentieri
Da non visti corrieri.
Un’aura nova e calda di congiura
Gonfiava a un tempo i veleggianti lini
Del pescador finlandico. e battea
Sopra gl’irsuti crini
Del Cosacco selvaggio
Lungo la riva, ove peccò Medea;
Traendo in suo passaggio
Ribelli mormorii da le campane
Dei villaggi boemi,
Note di sdegno in liberi poemi
Dall’arpe lituane.
E, magnanimo alfiere,
Già uscía con lo
spiegato
Vessil de la risorta aquila bianca
Il patrizio gemmato cavaliere:
E apertamente con fraterna voce
Intorno a sè da gli ampi
Predii invitava la mutabil plebe
Curvata in su la croce
Ereditaria dei sudati campi.
Ma un livido canuto, 9
D’oro carico e d’anni e più di colpe,
Con pupilla di volpe
Vigilando scrivea ne la ferale
Reggia de la tedesca
Sodoma imperïale.
Nè de la penna intinta
Nel sangue de la gente
Posava mai insidïoso
moto.
Ed era l’alma sua quasi morente
Faro che guizza da un infausto porto
In riva a un mare morto.
Egli credeva, ghibellin fatale,
D’aver sepolta viva,
Come antica vestale,
La libertà dei popoli, nel fondo
D’un sotterraneo feodal di Vienna,
Perch’ella in un immondo
Dì fornicato avea con gli eloquenti
Carnefici di Francia in su la Senna.
E non contento all’aulico mercato
Ch’ei fece in vita de le stirpi umano
Rivendute a le Corti;
Prima di scender, celebre esecrato,
Carcerier de le menti, in mezzo ai morti;
Pria d’affacciarsi al giudice divino,
Volle sul fronte suggellarsi il turpe
Marchio dell’assassino.
Sottil velen di perfide promesse
Stillò nel vulgo, il pravo
Fango eccitando dei ribaldi istinti;
E patteggiato con lo scalzo slavo
Il fiorin de la colpa, entro i palagi
De’ lor signori, con l’acuta falce
Scagliò i sedotti mietitori a infami
Saturnali di stragi.
Poscia seduto in su la piazza, in mezzo
A lo sfilar de le funeree ceste,
Con scellerata calma
Ei numerò sopra la sporta palma
Dei parricidi il piccoletto prezzo
De le recise teste.
E l’infelice che tu miri estinto
Vide a que’ giorni ladre
Marre villane trucidargli il padre.
Il sacro capo, simile ad un frutto
Dall’arbore sbattuto,
Rotolò su la terra, e fu venduto.
E forse il cane, al lume de le tetre
Stelle, affannato vagando lambiva
Su le rigate pietre
Il sangue di colui che lo nutriva.»
IX.
Queste
parole di ricordo atroce
Quel delicato pronunciò sommesse,
Quasi temendo di svïar
col grido
De le memorie e l’ira de la voce
Al limitar mal fido
De la seconda vita
Quell’anima di fresco dipartita.
E vòlto in mesta illusïone
al cielo,
Come chi guardi e segua
Cosa che sale e nel salir dilegua,
In un sospir si tacque;
Nè più si udì per la funerea valle
Che il frangere dell’acque.
Poi seguitò“:
«Congiunti
Sempre pugnâro i
due
Bei cavalieri dove più rïarse
La titanica guerra. In su le sponde
De la Vaaga montana 10
Ambi trovârsi in
quel crudel cimento,
Quando fûr visti
rovesciar nell’onde
I nemici, travolti
In disperata frana. Oh! lo rammento.
Dopo quel truce giorno a quando a quando
Pei flutti sanguinosi
Scendevano pietosi
Viluppi di cadaveri. Posato
Su qualche testa lacerata un corvo
Crocidando talor parea guidarla,
Abborrito nocchier: mentre le polle
Che una virtù di sotterraneo foco
Calde dall’imo di quel fiume estolle,
Spinte a fior d’acqua si scioglieano in bianche
Colonnette volubili di fumo.
A quella vista, involontarie il passo
Fermavano le schiere
Del vincitore: e da le ripe muto
Con l’arme e le bandiere
Porgevano un saluto
Religïoso e pio:
Chè lor pareva in que’ vapori erranti
Gli spiriti veder dei trucidati
Che salissero a Dio.
Poi li trovai nell’ispida foresta
D’Acse pugnare a lato 11
Fra tronco e tronco per angusto calle.
Un’indefessa grandine di palle
Mietea le vite al pari de le foglie:
Tal che poscia al mattino uscía dal molle
Suolo il rapido fungo,
Tinto d’arcane lettere di sangue.
Era spento il fragor de la battaglia,
Spesso li vidi scendere d’un salto
Dai fumanti destrieri; e a somiglianza
Dei combattenti d’Attila, scagliarsi
In un giocondo turbine di danza.
Urlavan le canzoni;
Sonavano gli sproni;
Eran tappeto l’aquile di seta
Vinte e calpeste; lampe
I casolari in vampe;
E testimoni a quel festin di forti
Qua e là pel campo i cumuli dei morti.
X.
» Ma contro
il dritto, la virtude, e il Dio
Ungarico, la vile onnipotenza
Del numero prevalse e il tradimento.
Mendico imperïale,
Lagrimando, la man perfida tese
Il fanciul Lorenese,
Chiedendo al boreale
Sire la pronta carità di cento
Mila Cosacchi, e l’onta.
Solcâr le nevi,
scesero dai monti,
Lande varcâro e
valli,
Fêr su le travi
dei deserti ponti
L’unghia sonar dei sarmati cavalli
Quei tetri servi; e il cuspide piantâro
De le lor lance freddamente in core
Al moribondo popolo magiaro. –
Saliva per la terza
Decima volta il sol d’agosto al sommo
Arco dei cieli, e con ardente sferza
Batteva le profonde
Fratte e i burroni del fatal Vilago; 12
I grappoli di menes, e il Mariso
Che travolgea nell’onde
Sabbie dorate e lagrime di prodi;
Battea sull’uniforme
Sconfinata pianura ondoleggiante
Di mèssi, al par d’un oceano biondo;
Battea per la suprema
Volta su le infelici
Sciabole, e su le illustri cicatrici
D’un esercito muto. Era il nefando
Giorno del gran rifiuto. Era scoccata
L’ora dell’onta, quando
Patria, vessillo e brando
Dovean cadere ai piè d’uno straniero.
Pöeta! oh non fu
mai giorno più truce
Di quello così fulgido di luce.
Passavano con plumbea ala gl’istanti,
Siccome anni pesanti
Sull’anima. Da mille
Volti grondava a grosse e lente stille
Pianto e sudore. Ognuno
Sentia scavata sotto i piè la tomba
Del proprio onore. Ognuno avria voluto
Morir. In mezzo al funebre silenzio
Uno scoppio improvviso
Tratto tratto s’udiva. Era un soldato
Che taciturno con l’ultima palla
De la sua carabina
Fendeva il cranio de la sua cavalla.
Talor per l’aura nitida saliva
Una riga di fumo:
Era un drappello, che baciata in giro
Pïamente la santa
Patria bandiera, lacera in ottanta 13
Combattimenti, la fidava al foco.
Al pro’ che l’asta ne tenea, tremava
La man che non avea
Giammai tremato; e gli altri intorno intorno,
In circolo fremente,
Con l’occhio fisso e con la guancia smorta,
Seguíano i guizzi
e il cenere cadente
Di quella nova morta.
Fu chi rivolto a la vicina selva,
A un rovere le sciolte
Briglie, gli arcion, le offese
Armi, l’assisa, e la speranza appese;
E seminudo su le ignude groppe,
Col cibo d’una ghianda,
Con la sua frusta glorïosa
in pugno 14
Tornò libero figlio de la landa.
Fu chi dell’onta impazïente,
al petto
Drizzò la bocca del fedel moschetto;
E, dato col pensiero a la lontana
Madre, che l’attendea, l’ultimo addio,
Tornò libero a Dio.
E al traditor, che torbido le file
Cavalcando radea, spruzzò sul fronte
Una goccia di sangue del tradito.
O Arturo, Arturo! tutta 15
La rapida ed eterna onda dell’Istro
Da quel segno sinistro
A lavarti non vale;
Poi che l’infamia ormai su lo aborrito
Campo di Ieno a te pose nel dito
Il suo vipereo anello nuzïale.
—
Tramontò il sole, e l’Ungheria. Sul piano
Solingo, su la bruna
Selva, e le ville, tutta notte rise,
Come beffarda maschera, la luna.
XI.
» E il
tradimento rinverdì la pianta
Selvaggia del patibolo che cresce
Nei giardini d’Asborgo. Era nel tempo
Dei novi geli, quando
Da la mia terra a schiere
Repubblicane parton le cicogne
Abbandonando il culmine dei tetti
Ospitali, dal fido
Lor nido benedetti. Era un mattino:
E a me che un colle discendea sui primi
Albór, già si
pingeano in lontananza
D’Arad le torri, il vallo, il rivellino,
E lungo il vallo non so qual sembianza
Di palchi eretti, e di scavate fosse.
Ma poscia che il crescente
Raggio si tinse d’un color di rame,
Tutta m’apparve all’atterrita mente
Scoverta l’opra de la notte infame.
Eran tredici tombe: era un filare
Di nove forche. Il frale 16
D’otto martiri, ormai livido e nero,
Pendea dal trave. Un’ultima figura
Lenta salir le desolate scale
Vidi, e una corda, e un fiero
Dibattimento di convulse forme.
Gli altri dal piombo fulminati, in terra
Giacean come chi dorme.
Qual dïanzi
sparite
Eran dall’orizzonte
Scintillando le Pleiadi consorti,
Tale passava splendida e col fronte
Sereno quella Pleiade di forti
Vincitor di battaglie.
E da due lustri un popolo tradito
Ne veste le gramaglie.
Ora in quella silvestre
Santa Croce là giù dell’Ungheria
Posano sotto un campo di ginestre,
Senza pietra, confusi
In una gloria, e senza accanto il brando,
Il giudizio di Dio sul coronato
Carnefice aspettando.” —
Qui l’evocata visïon
feroce
Gli soffocò la voce. Indi sui due
Dolci defunti raccogliendo il guardo:
“Questi,
soggiunse, il nome
Non anco illustre, e la novella etade
Da la fune salvâr;
ma fûr dannati
A perpetui soldati.”
Poi, quasi un novo e splendido ricordo
Passasse a vol per quella anima offesa,
Seguì sclamando con parola accesa:
“E tu, Sandor,
perivi, 17
Dei carmi favorito e de la spada,
Mentre l’arco de gli anni e di fortuna
Poetando salivi.
Verga gentile d’albero plebeo,
Tu la natía
favella,
Che non à madre, che non à sorella, 18
Ai virili educasti
Metri di guerra, rustico Tirteo.
Ove n’andasti che non torni? Siede
Sul letto nuzïal
la giovinetta
Tua vedova che attende;
Tra le candide bende
De la cuna bisbiglia
L’angiol recente de la tua famiglia.
Vieni. Per te le belle
Figlie de la tua landa
Sfidando i delatori
T’intrecciâro ciascuna
una ghirlanda
Di tre colori. — Ahimè, la patria, ignora
Perfin la zolla, dove
Inginocchiarsi a piangerlo! Cadea
Forse in battaglia. Forse
Ne le notturno insidïate
corse
De la sconfitta sanguinando, immerso
Dentro un padule transilvano, ai venti
Diede il suo desolato ultimo verso.
Forse un Cosacco, cacciator di vite,
Incontrato lo stanco
Là per quelle romite
Vie, con la picca ne trafisse il fianco:
E oltra passando il tartaro corsiero
Col piè ferrato lacerò la santa
Testa che tanto contenea tesoro
D’inni venturi e tanta
Carità di pensiero.
Forse smarrito in una fonda gola
Tra i sàssoni dirupi, anima sola,
Quando quei truci abitator dell’alte
Vette spïando del
nemico i passi,
Sui fuggitivi dirigean la furia
Dei rotolati massi
Quivi periva. A immagine del forte
Paladino ferito in su le arene
Fatali di Pirene,
Forse egli pria de la solinga morte
Chiedendo aita, il corno
Disperato sonò: ma non l’udia
La esanime Ungheria.”
Quel doloroso fe’ silenzio, e al suolo
Cadde pregando genuflesso: e forse
La sua gentil preghiera
Spiccando il vol, come divina cosa,
Là giù in terra straniera
Scoperse la segreta
L’afflitta fronte del civil pöeta.
XII.
Senza
saperlo io stesso
Mi trovai genuflesso. E quando il vidi
Già ritornato in terra col pensiere
Dal vïaggio del
ciel fatto sereno,
“Ma chi se' tu, gli chiesi,
Che così onesto lagrimando parli?»
Ei mi rispose“: «Piccioletta istoria,
O poeta, è la mia. Io son Rumeno
De la tua stirpe. Da latina gente
Messa a vegliar con l’aquile sull’Istro
Il torbido Orïente,
Per mille e settecento anni oblïata,
Usciron gli avi miei. Fra i sette monti
Dei cavalieri Sécleri io nascea,
Dove Sandor cadea. Quivi pei boschi 19
Bruni di pini, e i nobili castelli,
Sin da fanciullo l’odio
Vêr lo stranier
m’appreser le ribelli
Melodie del magnanimo Racoschi. 20
Dentro il cristal d’un lago
Montano, azzurro, placido, profondo,
Ch’era tutto il mio mondo, ove le stanche
Onde riposa la spumante Aluta,
Si riflettea con le pareti bianche
La mia casa paterna.
In mezzo a un prato i ruderi di un campo
Del Dacico Traiano eran ricordi
De la Cittade eterna:
A’ piè d’un colle l’arabo sorgea
Cippo d’un ottomano
Col verso arcano e la falcata luna,
Reliquie di quei dì, che al transilvano
Brando ridea fortuna.
Or da due lustri in quella onda turchina
Si specchia la ruina
Del mio nido natío.
Poi ch’una sera
Del Lorenese le fuggenti squadre
Giunser là su, nè paghe a la rapina,
M’arser la casa, e il padre.
Ahi! sventurato! Ed io,
Come ogni cosa mi fu tolto in terra,
Mi son rivolto a Dio.»
Disse, e movendo i passi
Guardinghi in fra i cadaveri, cennava
Con l’addio de la man ch’io me ne andassi.
XIII.
Affrettando
la via, come sospinto
Da non so qual paura, abbandonai
Quel campo seminato di sventura.
E per novo sentier, che più veloce
S’inerpicava al colle,
Salendo mi pareva
A quando a quando scorgere un feroce
Lampo di riso balenar sui volti
Dei barbari insepolti;
E qualche man che livida sporgesse
Con brancolanti gesti
Tentando al mio passaggio
D’afferrarmi le vesti.
Quivi sull’erba ravvisai caduti
A drappelli i devoti
Cacciatori del Brénnero; cui meglio
Era inseguire col sagace veltro,
Col mazzolino sul cappel di feltro,
Pei nevicati vertici remoti
Le retiche camozze; e sull’aperto
Verde dei prati fulminar le lepri
Fuggendo uscite dai tentati vepri.
Quivi giaceano con gli ambrosii crini
Eruttati, ahimè! di polvere i divini
Battaglieri dell’Enno; a cui fu gloria 21
Sul passeggiato lastrico sonoro
Di fremente cittade
Sbatter l’acciar de le innocenti spade.
Nè li guardai. Ma in vetta
Giunto del colle, mi rivolsi indietro
Vêr quella forra
che rendea sembianza
D’un immenso ferètro.
XIV.
Ormai si
affretta al fine
La maledetta secolar tragedia
Fra le alemanne genti
E le genti latine.
Da le molte favelle, a cui l’astuto
Sire insegnò con dïuturna
insidia
A ricambiarsi accenti
D’odio e d’invidia, è per uscire alfine
La parola d’amore.
Iddio con immortali
Caratteri di monti e di marine
À segnate le
patrie. All’opra sua
Già troppo contrastarono gli avari
Discernimenti, l’ámbito,
e la fame
De’ figliuoli d’Arminio. Ognun possieda
Le sue tombe, e i suoi lari. Omai son vòlte
Le settimane del divin decreto
Che per trecento afflitti anni dannava
L’Itala stirpe a schiava.
Ora è fatal, che per la terza volta
Essa la sacra fiaccola raccolga
Di civiltà fra i ruderi di Roma
Sacerdotal sepolta;
E il suo seguendo nobile destino,
Per ispirate vie,
Maestra eterna, a le sorelle apprenda
Libere, oneste, e nove
Socïali armonie.
È ver che ancora scalpita sul santo
Sepolcro de’ miei padri l’esecrato
Destrier tedesco; e spasima tra l’Alpe
E il Po, tra il lago di Catullo e il mare
Un ultimo Prometeo incatenato.
Con scellerata festa
Tuffa la moritura aquila il fondo
Occhio e le penne de la scarna testa
Ne le venete viscere: fumando
Esce stanca, non sazia, dall’immondo
Pasto; e, deterso il rostro ne la vesta
Imperïal, mette
un funereo strido.
Rispondono da lunge
I glorïosi
portici deserti
Del Sansovino, i templi epici, e il Lido,
Che serba in su la grigia
Arena tutta volta del tradito
Lïone le
vestigia.
Ma numerati i giorni
Son del tripudio. In folto ordine invano
Col lor panno da morto per vessillo,
Con la foglia di rovere sul crine
Passan le torme dei perpetui Cimbri
L’odïoso confine.
Ogni famiglia
È una congiura:
ogni città, Pontida: —
Tempesta la battaglia. Il derisore
Dio de le fughe visita le file
De gli stranieri, e il core.
Vedo del combattuto Adige l’urne
E dell’Isonzo tingersi di rosa,
E una danza di bionde
Teste rotar pei vortici dell’onde.
Vedo per tutti i valichi dell’Alpe,
Come per l’atrio de la nostra casa,
Svolgersi il drappo de la mia bandiera.
Vedo un ramingo che fu già ricinto
Ne la sua torva gioventù di molte
Corone, ire solingo.
La logorata porpora nel fango
Strascina, ove è trapunta
Un’aquila defunta.
Ora di tanti servi a lui rimane
Il carnefice solo. Una condanna
Giusta l’astringe a mendicar il pane,
Al castello battendo e a la capanna
Ov’è il figliuolo, a cui
Fece appendere il padre. — Oh! come è bella
L’alba d'Italia. All’orïente
ascende
La sua limpida stella
Col raggio che si frange in tre colori;
All’occaso la squallida discende
Cometa de gli Asborgo. E da le vaste
Terre e dai mari un cantico si leva
Di vituperio e d’onta
Per quella che tramonta.
Pisa, 17 dicembre 1860.
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