POESIE VOLANTI.
Io non ti
vidi mai, nè forse mai
In terra ti vedrò. So che sei bella,
Che sei giovine e pia,
So che rispondi al nome di Maria.
E questo
nome mi va dritto al core
Per una morta che tuttora adoro;
Chiamavasi Maria
Anche quell’angiol de la madre mia.
Come
incognito fior che non si vede
Ma si sente olezzar söavemente,
Tu, fior di cortesia,
Mandi i profumi in sino a noi, Maria.
Povero
prigioniero, io non ò nulla
Da invïarti, o gentil, tranne quest’una
Fuggevole armonía
Che passa il muro in cerca di Maria.
Ma siccome
ò giurato a la mia Musa
Di non cantar fuor dell’Italia mai,
Se la incontri per via,
Non le dir ch’io cantai, bella Maria.
Josephstadt, 1 agosto 1859.
A TE.
Partiam, fanciulla mia, lasciam le sponde
Tristi
dell’Adige,
Dove l’eterno Barbaro profonde
Verghe
e patiboli.
Una cerchiam coi passi dell’afflitto
Terra
di liberi,
Ove a un italo cor non sia delitto
Amar
l’Italia.
Vieni, aduniamo i nobili tesori
De
le nostr’anime,
Perchè il ricordo de’ passati amori
È
vita all’esule.
Rechiam con noi le linëe ridenti
Dei
colli patrii,
Dove i trascorsi splendidi momenti
Valser
dei secoli.
Con noi rechiamo del paterno e santo
Tetto
l’immagine,
Ove siam nati, ove abbiam riso, e pianto
Virili
lagrime.
Con noi rechiamo un pugno de la terra
Amor
dei Veneti,
Caro segno e fatal d’antica guerra,
Di
nuovi spasimi.
Io porterò queste vïole colte
Sopra
due tumoli,
Dove in pace de’ miei padri sepolte
Son
le reliquie….
Fanciulla mia, nell’intimo commosso
Il
cor mi sanguina….
Non so partir. Di mia madre non posso
Lasciar
le ceneri.
Josephstadt, 10 agosto 1859.
CHE PARTIVA DALLE PRIGIONI DI JOSEPHSTADT.
Tu fra poco
vedrai bello, agitato,
Spiegarsi all’aure l’italo stendardo.
Digli ch’io l’amo con amor gagliardo,
E l’amerò finchè mi spenga il Fato.
Digli ch’io
gli ò sacrato anima e canto
E ceppi; e che da lunghi anni l’aspetto
A sventolar sul povero mio tetto….
Recagli questo addio che sa di pianto.
Josephstadt, 14 agosto 1859.
S’io potessi portar meco sotterra
L’amor mio,
la mia casa e la mia terra,
Lunge dai ceppi, lunge da gli affanni,
Lunge da
questa plebe di tiranni:
Oh, come volentieri oggi morrei,
Quantunque
chiuso, qui, lontan dai miei!
E là nell aurea regïon dei morti,
Ove non son
nè schiavi, nè risorti,
Mi comporrei del mio terrestre eliso
Un paradiso
in mezzo al paradiso.
Josephstadt, agosto 1859.
CHE INVIANO PER LA EMIGRAZIONE UNO STIPO DI VEZZI.
Barca che
passi vigile e furtiva
L’onda fatal del fiume di Virgilio,
Recaci questi vezzi all’altra riva,
Riva gioconda, e pur riva d’esilio.
Colà ci
parve udir come un lamento
Di nota voce languida per fame,
Che vereconda dimandasse a stento
La carità d’un obolo di rame;
E noi
venimmo rapide col pondo
Lieve di questa piccioletta offerta;
Poi che ci pose a la miseria in fondo
La bieca Signoria che ne diserta.
Giacchè il
nipote d’Attila che impera
Legislator d’assidue rapine,
Presago che il suo regno è giunto a sera,
L’ultima gemma ne torría dal crine.
A noi
meschine in questi dì supremi
Fra la speme e lo spasimo ondeggianti
Non si confanno anelli o dïademi,
Perle non si confanno o dïamanti:
Abbiam
catene in cambio di smaniglie,
La fune al collo in cambio di monili;
Le nostre fronti gocciano vermiglie
Sotto un serto di rie spine servili.
Ma ormai
già spunta un fior di libertade
Dai nostri serti d’alemanne spine;
Ma coi ceppi si temperano spade
Nel misterio di venete fucine:
E se
avverrà che una funèbre sera
Suoni i secondi Vesperi, siccome
Fecer le donne di Messina arciera,
Noi pur, se giova, taglierem le chiome;
E con le
trecce dei capelli neri
Tenderem corde da avventar saette,
Da avventarle nel cor degli stranieri,
Bersaglio eterno all’itale vendette….
Vela la
nebbia de le stelle il lume;
Va’, barcaiolo, e ti compensi Iddio:
Varca furtivo di Virgilio il fiume;
Va’, generoso barcaiolo; addio.
Brescia, 2 febbraio 1860.
V’à un
paese che un giorno era una reggia,
Era un giardino ed ora è un cimitero;
Ai quattro lati tristamente ondeggia
Vessil di morte un panno giallo e nero;
Ivi un scettrato Vampiro passeggia,
Che ululando la lingua di Lutero,
Sugge ogni notte al lume de le stelle
Il cor di nove misere sorelle.
E le
infelici con pupille intente
Guardano a un astro di superbo raggio;
L’astro d’Italia sorto all’occidente,
Che s’incammina al suo terzo vïaggio;
Lo guarda con stupor tutta la gente
Oramai persuasa a fargli omaggio;
Ei sale, sale via per l’aria bruna
Cupido di brillar su la Laguna.
Dell’italico
suol Parghe novelle
Queste nove cittadi dei dolori
Come mandâr, perpetüe rubelle,
Prima i lor figli, or mandano i lor fiori:
E voi, Lombarde memori sorelle,
Se mai trovate tra i soavi odori
Qualche stilla rimasta per incanto,
Badate, o pie, non è rugiada, è pianto.
Brescia, 22 gennaio 1860.
AL BARONE NATOLI.
Salendo un giorno de la tua Messina
Una
collina,
Vidi per l’aure pingersi una strana
Fata
Morgana:
Da un lato apparve un luminoso soglio
Nel
Campidoglio,
Ov’era assisa una persona onesta
Col
serto in testa;
Parve dall’altro un ideal Sultano
Nel
Vaticano:
Questi con man, che benedir dovea,
Maledicea.
E a quel dissidio un pcpolo guardava
E
minacciava.
Ma sorto a un tratto un impeto di vento,
Svanì
il portento:
Dai visceri dell’Etna usciano fuori
Cupi
rumori;
Bollía di sotto il mar vertiginoso
Senza
riposo.
Vôlto di novo all’etere lo sguardo,
Vidi
il vegliardo
Abbracciarsi quel re con un sorriso
Di
paradiso:
E fuso il Campidoglio in modo strano
Col
Vaticano,
Il popolo esultò, quetaron l’acque,
E
l’Etna tacque.
Fata Morgana, dipingesti il vero,
O
il mio pensiero?
Brescia, 8 maggio 1862.
I.
Fior
subalpin di cortesía severa,
Ida, quand’io movea
Ieri, in sull’ora de la blanda sera
Al paradiso de la nota altura,
Arcana sorridea
Non so che festa in tutta la Natura.
Lampade eterne dell’azzurra vòlta
Gli astri infiniti e i mondi
Mandavan dai profondi
Cieli una gioia di sereni lampi;
Agili, brevi, fuggitive stelle
De la campagna, a nubi
Danzavano le lucciole. Novelle
Èro istintive, che tra bui meandri
Accese le lor fiaccole d’amore,
Invitavano i cúpidi
Leandri
Veleggianti pel mar dell’aura bruna
A possederle in seno
Al calice d’un fiore.
Fuor da le siepi dell’obliqua via
La lonicera i molli evaporava
Balsami usciti con l’Avemmaria;
E gli usignuoli prorompeano in balde
Sfide di canto. E forse,
Giudice imparzïale,
Li udia da un ramo la contesa amica,
Per dividere poi col vincitore
Il nido nuzïale.
Percorrea l’universo un’armonia
Di profumi, di note e di splendore.
E parea che fugaci
Le lucciolette mi dicesser: «ama;»
Che gli astri eterni mi dicesser: «pensa;»
Che gli usignoli mi dicesser: «canta.»
Ida, tale dovea
Esser l’ora che a te mi conducea.
II.
Quando discesi,
tutto
Vôlto era in
lutto. Un tenebroso velo
Rubava il cielo. Se pupilla alcuna
Di que’ viventi incogniti che stanno
Più innocenti di noi forse e più lieti
Nei consorti pianeti,
In quello istante riguardò la terra,
Dovea parerle tetra
Nave solinga con le vele nere
Vagabonda per l’etra.
Gravi cadeano e rare
Goccie di piova, somiglianti a tristi
Goccie di pianto che, passando a volo,
Lagrimassero spiriti non visti.
Ne la valle, là giù, quelle notturne
Lampe, color dell’oro,
Che fugan le tenèbre
A la città del Toro,
Immagine tenean d’una funèbre
Adunanza di ceri
Raccolti a pompa di regal mortoro:
Mentre l’onda del Po, che si frangea
A le pile dei ponti,
Coll’indefesso murmure parea
Salmeggiasse ai defonti.
Il castello straniero
Del Valentino mi porgea sembianza
D’imperïal
fantasima francese,
Quivi posato con crudel iattanza
Vïolando il
confin del mio paese.
E non so come quelle
Lampe parea dicessero: «Borbone;»
Quell’onde eterne mormorasser: «Roma;»
Da quel castello una beffarda voce:
«Nizza» gridasse. - — Tale esser dovea,
Ida, fanciulla cui dal ciel concessa
Fu de lo ingegno la superba croce;
Quell’ora che da te mi dividea.
Torino, 25 giugno 1860.
QUANDO LE DONNE VENETE LO PRESENTARONO D’UN MAZZO.
Venezia ai giorni audaci e glorïosi
Dall’aurëo
vascello
Al mare, al più infedele degli sposi,
Affidava
l’anello
Ora soletta, povera, fremente,
Da dieci
anni amorosa,
Al più fedel dei Re segretamente
Il mazzo
invia di sposa.
Brescia, 1860.
FANCIULLA CIECA.
Bello è il
giorno e la luce e il colorato
Sembiante d’ogni cosa;
Lo spirito dell’uomo affascinato
Vi spazia e si riposa:
Ma
sublime è la notte e le profonde
Stelle e i
mondi e il perpetuo scintillio;
Vola
immenso per essi e si diffonde
Lo spirito
di Dio.
Bella
siccome il giorno è la pupilla;
Dal sole illuminato
Nel picciol orbe l’universo brilla
Quasi per lei creato:
Ma
sublime è la notte, ove si giace
L’occhio de
la mia Cieca. Uno splendore
Intimo,
arcano, provvido di pace
La appressa
al Creatore.
PERCHÈ?
Dimmi
perchè se a la campagna io sento
Un suono, un canto, tu mi vieni in mente?
Dimmi perchè se guardo il firmamento
In ogni stella tu mi sei presente?
Dimmi
perchè da qualche dì mi pare
Che il mondo non sia fatto che di te;
Tu nei fior’, tu nell’aere, tu nel mare….
Sorridi?…. Ah dunque tu lo sai perchè.
Ti vidi,
Olga, brillar ne la divina
Integrità de le virginee forme;
Ma venne il dì de la fatal rapina
Che Amore ardisce sul Pudor che dorme.
Vidi un
bolido splendere una sera,
Bello che innamorava ogni pupilla;
Quando il raccolsi era una cosa nera
Tinta di ferro e sordida d’argilla.
Paolina, tu
il sai, dopo quei colli
Pieni d’olezzo e facili a salire
Si spiana un lago lieto d’aure molli,
Ma che infuria tal volta e fa morire.
Or che siam
soli, e ch’egli se n’è ito,
Di’ dopo il bacio che ti diè per via
(Bimba, non mel niegar chè l’ò sentito)
Dopo quel bacio, sai cosa ci sia?
Rude
maestro di gentil sentire
È sovente il dolor;
E il sa, fanciulla esperta nel patire,
Il nobile tuo cor.
Dai fuochi
che squarciâr la terra antica
Il diamante uscì fuor.
È la sventura una severa amica
Che ci manda il Signor.
E sa Lui
solo, perchè in questa frale
Vita che vola e muor,
Essere debba agli uomini fatale
Necessità il dolor.
MARITATA IN PAVAN
EDUCATRICE DI FANCIULLE.
Quando il
festivo Paganesmo empía
Di sane risa i greci campi, corsi
Da nidiate di Satiri e di Ninfe,
D’Olimpia per i prati ampii, segnati
Di piè d’atleti e d’unghie di cavalli,
Sul pomifero ottobre ire vedevi
Fanciulle a bande col paniere in testa
Colmo di frutte, che offeriano all’ara
De’ lor facili Dei.
Ecco che arriva
Per me l’ottobre de la vita, e sento
Già farsi i giorni rigidetti e brevi
E approssimarsi l’inamabil alba
Dei Morti; e con dolor tardo m’avvedo
Che non ho frutte da recare a Dio.
Gli anni miei son caduti ad uno ad uno
Come goccie che stillan da la gronda,
Le quali invece d’avvivar la zolla
Mettono a nudo i ciottoli infecondi.
Te beata, che allor quando il Divino
Raccoglitor dell’anime partite
Da questa terra ti dirà: “Carlotta,
Dove son le tue frutte?” E tu, raccolte
A te d’attorno cento giovinette
Che nel cuore ispirasti e nella mente,
Potrai risponder: “Eccole, Signore.”
Voi pur
chiedete, candide
Fanciulle, un verso a la mia stanca lira.
Ahi! questa età, che spasima
Dietro i guadagni e al pronto oro sospira
Seppellì
sotto a sudice
Carte di banca gli odïati carmi
Quasi illustri cadaveri
Gittati a sfregio sotto immondi marmi;
Poscia
rivolta all’avide
Turbe gridò: «la Poesia disparve;
» Ormai dei vati il fatuo
» Regno divenne il regno delle larve. »
Non le
credete, candide
Sorelle. Intere sono ancor le corde
Del poeta. Se è tacita
La Musa è perchè l’alme ora son sorde:
Ma torneran
dei nobili
Canti al desío. Finchè vi sieno fiori
Per le campagne e fervidi
Di tenerezza due giovani cuori,
Finchè vi
sia l’Oceano
Sterminato e la notte co’ suoi mille
Soli e l’inevitabile
Saetta, di due languide pupille;
Finchè vi
sia una patria,
Una tomba, una lagrima romita
E questa che ne domina
Necessità de la seconda vita,
Non
dubitate, candide
Fanciulle mie, la Poesia non muore.
Ella vivrà perpetua
Finchè l’umanità duri e l’amore.
UN LETTO DI FERRO.
Letto,
ov’io spero di morir, del forte
Metal temprato, onde si fan le spade,
Vanne dall’Arno all’Adige e le porte
Turrite varca de la mia cittade;
Letto
a Venere ignoto ed alle orrende
Insonnie del rimorso, e ai fieri spasmi
Del traditor, che ansante balza e accende
Tremando il lume per fugar fantasmi,
Un’amabile
e fida vecchiarella
Di virtù ricca e di ricordi mesti
Ti deporrà nell’umile mia cella
Da carte ingombra e da volumi onesti,
E
alfin verrà quel dì, che tra le bianche
Tue coltri, o letto, ove morir desio,
Placidamente le pupille stanche
Io chiuderò, per rïaprirle
in Dio.
DEL 25 OTTOBRE 1870.
Luce
di sangue pel notturno cielo
Splende da raggi lividi ricorsa,
Languono incerti sotto il roseo velo
I sette soli della gelid’orsa.
Forse
laggiù nell’etere profondo
Dietro la terra, ove occhio non arriva
S’agita in fiamme un condannato mondo,
Che dell’Eterno il fulmine colpiva
E
si riflette colassù. La gente
Si affaccia a le finestre, apre le porte,
Discinta accorre, attonita, temente
Il prodigio a mirar giù ne la corte.
L’avolo
annoso in mezzo a la famiglia,
Caccia le mani ne la scarsa chioma,
Ed in aria profetica bisbiglia
Non so che di Pontefice e di Roma.
Ombra
di qualche antico Augure sorgi
Dall’Ipogeo del tuo funereo colle
Osserva il Polo, di’ quello che scorgi
E il ver dichiara a questo vulgo folle.
Una
gran voce favellò dal monte
E più corrusco il firmamento apparve:
“La podestà
sacerdotal, bifronte,
» Che tenne
l’alme in tenebre, disparve
» Per non più ritornar. Quella è l’aurora
» D’un secol
novo, intelligente e pio.
» L’Italia à
spento il Vaticano, ed ora
» Là ne fan festa
gli angioli di Dio.”
In villa, tra i monti.
Laura, al
tuo nome eresse un monumento
Il più gentil degl’Itali cantori;
Ma per la via di que’ sottili amori
Smarrîr talor le grazie il sentimento.
Egli era
nato in una primavera
Di civiltà: cuori e canzoni allora
Eran freschi, eran lieti: in quell’aurora
Non presentiano il mesto de la sera.
L’età
pensosa, che successe, impose
Un nuovo accento di tristezza al canto,
Perchè avesse a ritrar non so qual pianto,
Che dall’anime stilla e da le cose.
Se il
trovator de la crudel francese
Dalla tomba d’Arquà risuscitasse
E la cetra a novelli inni temprasse
Per dir tue lodi, vergine cortese,
Pago or non
fora a minïar concetti
Sugli occhi o il crin: ma scenderia profondo
Dentro al tuo cor, per rivelar quel mondo,
Ch’ivi tu serbi di potenti affetti.
ORA MARITATA IN WYHE, CHE SI RECAVA A VENEZIA.
Vedrai
Venezia, l’inclita infelice
Di pescatrice
Fatta regina
Ed or rovina;
Che da fanciullo amai come una tenera
Ava gentil, perchè amo i vecchi, i muti
Lochi deserti e i Grandi decaduti.
Pietosa
larva di città superba
Ella ancor serba
Le molli sere,
Le chiese austere,
Le cadenti sue reggie e le sue gondole,
Che sotto il panno funerale e fido
Celan sovente d’un amore il nido.
Tu saluta
per me, nobile Evelia,
Quell’egra Ofelia,
Che fu al gigante
Oceano amante,
E ne la pompa de le nozze mistiche
Assisa sulla prua del Bucintoro
Lo disposava coll’anello d’oro.
Poi colma
d’anni, inoperosa e molle
Diventò folle:
Fûr suoi diletti
Diurni letti,
Cene, teatri e provocanti maschere;
E ricinta d’elleboro e di malva
L’ebete fronte profumata e calva
Corse
ballando la silente riva
Di navi priva,
Le avite glorie
E le memorie
Gittando in mar, come la Vergin Nordica,
Scompigliata le viscere amorose,
Iva gittando le raccolte rose.
Ma un dì
fatal sul lubrico sentiero
Scontrò un Guerriero:
Quel glorïoso,
Mentito sposo,
La soffocò nel primo amplesso. Un ululo
Rassomigliante ad un immenso pianto
Mise il Leone e le spirò d’accanto.
E pur tra
quelle lontananze brune
Delle lagune
Pare esca fuora
Novella aurora.
Oh! poi che volgi a quelle sponde, Evelia,
Di’ se scorgi tu pur quel lieve albore,
Che la speranza mi raccende in core.
Firenze, li 27 giugno 1871.
Nell’ora
che pel bruno firmamento
Comincia un tremolio
Di punti d’oro, d’atomi d’argento,
Guardo e dimando: « Dite, o luci belle,
» Ditemi cosa è Dio? »
- « Ordine » - — mi rispondono le stelle.
Quando
all’april la valle, il monte, il prato
I margini del rio,
Ogni campo dai fiori è festeggiato,
Guardo e dimando: «Dite, o bei colori,
» Ditemi cosa è Dio?»
- «Bellezza» - — mi rispondono quei fiori.
Quando il
tuo sguardo inanzi a me scintilla,
Amabilmente pio
Io chiedo al lume della tua pupilla:
«Dimmi, se il sai, bel messaggier del core,
»Dimmi che cosa è Dio?»
E la pupilla mi risponde: —
« Amore. »
Satana
è un sogno. Lui creâr la nera
Colpa e i rimorsi. Satana è Caino,
Che fugge pei deserti come fiera
Inseguita dal fulmine divino.
Satana
è un sogno. È Attila, che passa
Sui teschi umani con le truci schiere.
E persin l’erba disseccata lassa
Sotto l’unghia dal tartaro corsiere.
Satana
è un sogno; È il perfido Macbeto,
Che afferra del tradito ospite il trono.
Satana è in noi. È l’orrido segreto
Di quelle colpe, che non han perdono.
Che
se d’odî il mortal stanco e di
guerre
Togliesse un giorno a vivere d’amore,
Pei mari allor si udrebbe e per le terre
Una voce gridar“:
«Satana muore.”
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