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Aleardo Aleardi
Canti

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  • ARNALDA DI ROCA
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ARNALDA DI ROCA

 

POEMETTO GIOVANILE.

 

 

ARNALDA DI ROCA

 

POEMETTO GIOVANILE.

 

 

 

 

A LUIGI CARLI MEDICO

CHE MI AMÒ COME PADRE

QUESTO CANTO GIOVANILE

VENT’ ANNI SONO

DEDICAI.

DOPO TRE LUSTRI CHE È MORTO

SCRIVENDO DI NUOVO IL SUO NOME

SENTO COSÌ PROFONDI

L’ANTICO AFFETTO E IL DOLORE

COME SE L’AVESSI PERDUTO IERI.

 

 

CANTO I.

 

            O nepote dei dogi, allor che a tarda

Notte ritorni da le allegre sale,

E nell’affaticata alma rïandi

De le cene il tumulto, e i Buoni e i canti,

Ricomponendo nel pensier le molli

Forme, e la stretta de la mano, e il bacio,

Onde furtivo in danza vorticosa

Lambivi il crine de la tua fanciulla:

Mentre dei remi all’uniforme tuffo

Che a la storica tua casa ti mena

La stanchezza ti vince; in quel sopore

Che non è veglia e ancora non è sonno,

O nepote dei dogi, ài tu sentito

Romper la calma de le tue lagune

Triste un gemito e lungo? ài tu veduta

Vagolare una nebbia, e il negro panno

Radere de la gondola e vanire? —

 

            Quando la squilla de le torri annunzia

L’alba di un che una passata gloria

Di Venezia rammenti, o una sventura,

Da le tombe oblïate inclita sorge

Una folla di padri, i mari, e i campi

Rivisitando de le antiche pugne

Dolorosi o festivi.

 

                           E questo è il giorno,

Che Cipro fu perduta, e una lucente

Perla divelta dal ducal diadema

Ingemmò la cruenta elsa al feroce

Sir di Bisanzio.

 

                       E, ier quando il silenzio

Più solenne regnava ne la notte,

E posavan le gondole fidate

A le catene del deserto lido,

s’udiva echeggiar pur d’una pesta

Il pavimento de le mute calli,

Fu vista navigar per la profonda

Oscurità de’ tuoi canali un’aurea

Larva di Bucintoro. Eran sue vele

Lacerate bandiere. Eran suoi remi

Labarde irrugginite. Su la curva

Prora, un fantasma di lïon morente

Governava il fatal corso, con l’ala

Rotta vogando per l’immobil onda,

Su le scalee dei templi, e innanzi a gli atrii

De le reggie patrizie erravan forme

Vaporose in ducal manto vestite,

Che, al venir de la nave, il piè strisciando

Senza passo sull’acqua taciturne,

Vi salían dentro dolorosamente

Festeggiate dai funebri consorti.

 

            Quando fûr dove frange a gli immortali

Murazzi il mar, misterïoso un vento,

Onde venuto non si sa, li spinse,

E via, siccome fulmine, per l’orba

Solitudine. Al par d’impäuriti

Corridori, fuggivano le sponde

Istrïane, e il deserto anfiteatro

Fuggía di Pola; dileguavan l’irte

Dai flutti tormentate assiduamente

Dalmatiche scogliere, e il profumato

Da le olezzanti sue vallee d’aranci

Äere di Corcira. E via pur sempre

Di quel navil l’irrefrenabil volo.

Allor quando scorrea per qualche golfo

Memore ancor di veneziane mischie,

Ratto salían da le profonde sabbie

Tavole sciolte o scavezzate antenne

Che ne seguivan, dietro galleggiando,

Il fantastico volo e la mestizia.

Ma come giunse procedendo in faccia

Di Lepanto a le torri e a la marina,

Tacque il vento, e fûr viste al manco lato

Tutte quante l’egregie ombre addensarsi;

E un protender di braccia, e un minaccioso

Guizzar di lampi da sinistre daghe;

E d’Epíro pei seni, e di Morea,

Qual di chi impreca, si diffuse un grido

Lungo. Ma il vento itera i soffi, e torna

La nave arcana a divorar gli spazi.

Sparve Citera, e le selvette, e i clivi,

Ove tuban le tortori fra i mirti;

Creta sparì con gl’insepolti avanzi

De le cento città; sparve il distrutto,

Sui baluardi fulminanti e negri,

Nido di cristïane aquile, Rodi.

E se un vascello in quell’ora passava

La pianura del mar licio solcando,

Vide sul bianco de le vele un lungo

Ordine d’ombre disegnarsi, e certo

Un senso di sventura attristò l’alme

A’ naviganti.

                     Tra i cornuti scogli

De la cercata Cipro alfin posava

L’impeto e i remi la feral congrega,

E gemendo per l’isola si sparse.

O nepote dei dogi, ove l’arguta

Parola t’abbia di stranier facondo

Le maraviglie de’ tuoi fasti apprese,

Ti rammenti di Cipro? 1*

 

                                          Usciva un’alba

Dal limpido Orïente; una di quelle

Liete di luce e di vittoria, ond’era

Giocondata Venezia a' beati.

La reina del golfo assunse i veli

Di corallo trapunti, e la ghirlanda

Contesta di marine alghe ricinse,

E, su conca di perle, in mezzo all’onde

Trasse superba fidanzata: al fido

Sposo, che ai piedi le fremea, donava

Il simbolico anello, e l’Oceano

L’isola d’Amatunta a la diletta,

Siccome dono nuzïal, porgea.

 

            Ch’io ti saluti, avventurosa amante

Dei Lusignani! Oh ti piacesse un tempo

A le tue sponde folleggiar, lasciva

Sacerdotessa di piacer, coi veli

Disordinati e balsamo stillanti;

O, di maglie crociate il sen difesa,

L’insania pia de le divote genti

Caro ti fésse dei corsieri il dorso,

Caro il fiutar la polvere de’ campi

Trïonfati, e il salir per le squarciate

Bastite, eri pur bella, o Citereia.

Limpidi sempre i ceruli tuoi mari,

Azzurri sempre i tuoi fulgidi cieli.

Tu in questo cerchio di zaffiro il molle

Capo difendi dall’ardente raggio

Del Sol che t’ama sotto l’odorose

Tue selvette di palme; e al mormorío

De le fresche fontane, e sotto i verdi

Pergolati dei celebri vigneti

Stai meditando, come donna afflitta

Ne la magione de’ suoi padri, overa

Signora un tempo, ed ora serve ancella.

            La Luna, le Piramidi, la Croce

Si levano sublimi in sull’immenso

Teatro di riviere, onde sei cinta,

            E tu vedesti, su le brune rupi

Assisa, fluttuar entro i vïali

Di profumati sicomori il Nilo

Sacerdotale; e un incessante muto

Incombere di sabbie e di sventura

Su le cittadi da le cento porte,

Su le reggie, sui templi, e su le sfingi

Divine.

 

            E tu dell’orïente all’onda

Affacciata, mirasti, in una cupa

Notte, la croce radïar da un colle;

E l’intera d’un popolo progenie

Maledetta, lasciar le dolci case

Native, e del Giordano ai saliceti

L’arpe, non più profetiche, pendenti;

Disseminando su la terra i tristi

Passi rivolti ad un esilio ignoto,

Sola in mezzo a le genti, vagabonda

Assiduamente. E allor che prodi turbe

Tentar l’acquisto del divino avello,

Lungo il sorriso de le tue marine

Un bosco t’apparia d’itale antenne

Carche d’illustri perituri.

                                     Ed ora,

Se lo sguardo protendi oltre i cipressi

D’ombre pietosi ai ruderi di Tarso,

Vedi la luna d’Ottoman sui flutti

Di giannizzero sangue imporporati,

Da le punte dei cento minareti

Splendere mesta e volgere al tramonto.

 

            Tu cinta di ruine ampie, ruina

Ampia tu pure, poi che invan di Pafo

Sopra la sacra collinetta attendi

Che ancor fumin le cento are a la dea;

Poi che sotto gli acuti archi del tempio

Di Nicósia, 2 una man misterïosa

Sovra le pietre dell’altare infranse

La corona di Cipro, e la fortuna.

E su le aiuole dei giardin deserti

Dei Lusignani inoperosa affila

L’Arabo l’arme, e nel pensier lascivo

Vagheggia ai vezzi de le tue fanciulle

Bramate e il rapimento; in fin dal giorno,

Che fu nel fango di tue piazze tratto,

Il veneto stendardo, infin dal giorno,

Triste e lontano che or m’invita al canto.

 

            Era una notte di settembre. — Un grave

Alito d’infocata aura pesava

Su lo squallido pian di Mezzarea;

Pure i diruti vertici dei monti

Circostanti inalbava un vel di neve,

Tracciandone le creste ardue del cielo ù

Pallidamente su gli immensi azzurri.

Per i colli regnava e per le valli

Quella perfida calma, onde talora

Il furïar dei turbini e lo scoppio

Più cupo de le umane ire s’annunzia;

Udito avresti il remigar dell’ali

D’augel notturno, che tornando ai balzi

Di Santa Croce, si recava al nido

La preda semiviva. E degna invero

Del feroce suo sguardo era la scena

Sottoposta.

                   La valle ampia, rotonda,

Un’arena pareva a cui d’intorno,

Quasi gradini d’un immenso circo,

S’inalzassero e i colli e le montagne,

Dove le nevicate ultime balze

Sembianza offrian di candidi velari.

Nel mezzo al piano ergea l’äeree croci,

Le cupole eminenti, il vedovato

Suo palagio di regi, e la scomposta

Zona dei baluardi sanguinosi

Nicósia estenuata, E d’ora in ora,

Quando sui merli de le mura il lungo

Grido iterava la mutata scólta,

Echeggiavati in cor, come l’estrema

Parola d’una gente moribonda,

Intorno i valli e per le fosse un truce

Spettacolo di laceri turbanti,

D’armi confuse e di squarciate membra

Di cavalieri e di cavalli estinti,

D’onde talora ti feriva il roco

Gemito d’un morente, e il desïoso

Crocidar d’una nuvola di corvi,

Accorsi in folla al funeral banchetto.

 

            Ahi! perchè mentre il mio canto repugna,

Ammalïata dal terror mi tenti,

Dell’arpa mesta la più mesta corda

O Musa luttuosa?

 

                            Un giovinetto,

Cui lo smeraldo del pugnal svelava

Cresciuto ai vezzi di dorata culla,

Sopra le ghiaie d’un torrente ardea

Strazïato da sete, e con l’intatto

Braccio aiutando l’altre membra inferme

Si traeva fin dove un mormorío

Di ruscello si udía. Come fu presso,

Alzò lo sguardo. Due raminghi cani

Rodeano i fianchi d’un corsier caduto;

Lo guardò, lo conobbe a le fastose

Briglie, che un giorno l’amorosa mano,

Gli ozi allegrando dell’areme, avea

De la madre trapunte oh! non per questa

Notte d’angoscia: lente per le guance

Sceser due stille, e nel pensier deliro,

Siccome in sogno, gli tornò quel tempo

Che su i pascoli d’Angora volava,

Invidïato vincitor del vento,

Sovra l’arabo dorso; e fra i vïali

Di gelsomin che il Bosforo riflette,

Perigliando nel corso, a traea

L’occulto sguardo de le turche spose.

E gemette profondo, ed un intenso

Disio l’assalse del materno volto;

Ed abbracciato con amore il collo

Al corsier de’ suoi dolci anni, moriva

Chiamando il nome di sua madre; e i cani

Frattanto ingordi proseguiano il pasto.

 

            Ma chi ti spinse a navigar per queste 

Acque, infelice giovinetto, contro

Un popolo innocente, a disertarne

Le case e i cólti, a vïolar le figlie?

Forse, notturno traditor, la spalla

Col pugnal ti sfiorava un uom di Cipro

Perfidamente? o una fidata sera

Spingea la face a incenerirti i lari?

No. — Dai guanciali del serraglio un giorno,

Sotto le curve d’una sala, al mito

Raggio di pinti vetri illuminata,

Sonò una voce, che iraconda indisse

Lo sterminio di Cipro. E tu repente,

Come a tornèo, sovra il corsier balzavi;

E ben ti colse la vibrata freccia

Su quel funebre solco. E tal si giaccia

Ogni stranier che l’altrui patria affligge.

 

            Stendesi intorno a la città sfidata,

Come bianco ricinto a cimitero,

Una fascia di tende, a cui sinistre

Corruscan sui pinacoli le lune;

Nel mezzo volge il verdeggiante flutto,

Siccome onda lustrale ai combattenti

Il Predeo flessüoso.

 

                             E pei zaffiri

Splende del ciel sui desolati campi

Col fatidico lume una cometa;

Come face, che un bieco angiolo rechi

Per vagheggiar giù ne la valle oscura

Le gesta ree de la ferocia umana.

 

            Buia mole, superba, taciturna

Son le case dei Roca. Una romita

Lampada, solo occhio di luce, veglia

Dentro una stanza, e tremolando sviene

All’affacciarsi de la prima prima

Alba che di Soría l’acque inargenta.

Presso una coltre candida una conca

Alabastrina d’oblïati e chini

Fior, che pareva avessero morendo

Lagrimato l’umor di quella conca.

Accanto ai fiori una fulminea canna

Damaschina e il fidato arco, e un lïuto

Oblïato da gli estri e da la mano

Animatrice. Su le mute corde

Stava un volume istorïato, dove

Posava un dardo a rammentar la smessa

Pagina. Era il divin libro, che primo

Scritto dall’uom, fia letto ultimo in terra:

E fra i margini d’oro e di vïola,

La meditata pagina dipinte

Porgea le mura di città battuta;

E un fluttüar di turbe entro una piazza

Tumultüando accorse, ove da un cippo

Bellissima e terribile una donna,

Da mille faci rischiarata, un teschio

Sanguinoso agitava: ed oltre i muri

Per l’ampia valle una codarda rèssa

D’anelosi fuggenti. E su la pinta

Invidïata Ebrea brillar pareva

D’una recente lagrima la perla.

 

            Col sen posato ad un veron che odora

Del soggetto giardin, una sembianza

Di non mortale crëatura appare:

Tacita, malinconica, distratta,

Con la man che parea nata soltanto

A le carezze, infrange le corolle

Convulsamente d’una madreselva,

Che olezzando si abbraccia a gli scolpiti

Stemmi di conte. Forse, un que’ molti

Serafini, che volano pei mondi

Apportatori d’un’eterna idea,

Qui riposando sul veron dell’orto

L’iri stringea de le celesti piume!

Ma quel mesto pallor, quel bruno lampo

Appassionato de la sua pupilla,

Quel tremito affannoso, onde agitarsi

Vedi del crin la negra onda diffusa,

Non mi rivelan la serena ebrezza

Dei Serafini. E troppo è fiero e rotto,

Il palpito di quel core; chè tale,

Malinconica Arnalda, era il tuo core.

 

            Le verginelle de la stessa etade

Che ai vispi giuochi, ai canti dell’amore,

A le preghiere le venían compagne,

La diceano fantastica. E talvolta

Mentre sul volto le splendeva il riso,

In un baleno, a una cadente stella,

Ai giri d’una rondine sul fiume

A lo squillar d’una campana, al lento

Battere de la pioggia nel cortile,

S’intorbidava di mestizia arcana;

E solitaria si piacea per lunga

Ora seguir ne’ rugiadosi solchi

Del vespertino radïante insetto

L’intermittente palpito di luce;

E il vagar d’autunnal foglia sul terso

Cristallo di correnti acque caduta;

E il vagar de le nubi in tempestoso

Cielo; e la barca che fendeva il mare.

E meditava — e meditava, e spesso

Il metro allegro d’una sua canzone

Seguíal tramonto d’una mesta idea.

 

            Ma in quella libertà de la natura,

Ma in quella ingenua libertà del core,

Ella apprese ad amar d’amor profondo

Dio, la patria, i parenti, ed infiniti

Eran de la soave alma i tesori.

 

            Ora il pensier, ond’ella è tribolata,

È l’imminente, irrevocabil, fiera

Agonía de la patria. È l’improvvisa

Morte, che fischia nell’ardente palla,

E pende forse sul capo paterno,

E sul capo di tal, ch’ella osa appena

Nomare, e pur dall’äere, dall’onda,

Dall’universo nominar l’ascolta.

E per quanti pensier tumultüando

Commovesser quell’anima, pur sempre

Avea dinanzi questi due, feroci

Indefessi. — E se mai qualche speranza

Passava di conforto apportatrice

Su quel core un istante, era l’augello

Sovra il lago d’Asfalte; un volo, un lieve

Volo e poi muor. Le ardea la fronte china

Sotto la piena dell’affanno. Un’aura

Non alitava. Impazïente ai caldi

Vapori che salían da la pianura,

Scese al giardino, già da lunghi giorni

Non visitato. La gramigna edace

Ingombrava i vïali. Un doloroso

Presentimento l’assalì mirando

La palma che sua madre, ahi! già sotterra,

Augurando piantò quand’ella nacque;

Chè rïarsa dal sole era la palma.

Per una via di scompigliati fiori

Giunse a un loco romito, ove un zampillo

Gli orli imperlava d’una vasca, ed ivi

Trasse più largo e men triste il respiro,

E sui rigidi marmi inginocchiata

L’infelice pregò.

 

                          V’à degl’istanti

Allor che de la vita è la miseria

Più disperata, che ti par vedere

All’improvviso illuminarsi il buio

Dell’avvenire. E sembra che una voce

Intima, arcana, udita sol dal core,

A te predíca, che le dolci cose

Cotidïane, che ti son dinanzi

Per lungo amore a te congiunte, è quella

L’ultima volta che le vedi in terra:

E le cerchi, e le noti ad una ad una,

E gli aspetti ne stampi entro la mente,

Quasi presago che verran tra poco

Giorni più tristi, che, per te lontano,

Fia ricordarle amaramente caro.

 

            E sì profondo a quella voce arcana

Era la bella tribolata intesa,

Con tanta pena trattenea lo sguardo

Sul vïal, su la vasca, e su la palma,

Che il Buon dell’arme e il concitato passo

D’un guerrier non udía, che, a lei venuto,

Immobile, commosso a mani giunte

La fissava adorando.

 

                                Ella pregava:

«Signor, tu che ponesti in me sì grande

Questo, che m’arde, amor de la mia terra,

Perchè vestirla di cotanto riso,

E poi farla si misera e scaduta,

E fieramente serva? Oh! sull’istesso

Monte de gli uliveti, e su le zolle

Dove pregasti la suprema notte,

Io supplicando ti richiesi un giorno:

Dammi che vegga almen splendere un sole

Dei suoi liberi giorni; e se delizia

Non m’assenti cotanta, oh! dammi almeno

Per questa cara che pugnando io spiri!

E venne il de le battaglie; e a un punto

Stretti ad un patto, proferito un giuro,

Folti concordi si levâro i forti….

E tu li percotesti! Oh! se nel cielo

La rüina n’è scritta, e pur di questa

Dolce mia casa un martire è voluto,

Salva, o Signore, la paterna salva

Veneranda canizie, e l’adorato

Petto di Nello mio salvami…. e sola

Sia la martire, io sola….»

 

                                       E quel vicino

Guerrier non visto, più e più commosso,

Udendo in quella nobile preghiera

Così sonar il nome suo, chinossi,

E intenerito la baciava in fronte.

La vereconda si rivolge; il noto

Sembiante scorge, e disperatamente

Gli si abbandona ne le braccia:

  

                                             “O Nello,

D’amor non favellarmi; in questi giorni,

Che la patria perdiam, parmi delitto

Un accento d’amor, qual se proferto

Presso il guancial d’una madre che spiri.”

 

            “Oh, non affatto nel mio seno, Arnalda,

È consunta la speme, ove una lancia

E un’anima ci resti; ed oggi pure

N’è promessa una pugna; ultima forse

E felice, chè insolito tumulto

Erra basso ne le tende; e il padre

Tuo m’invïava i riposati servi

Qui a ragunar.”

 

                      “Oh caro! tu mi parli

D’una speranza, che non ài nel core.

Mira su: non so perchè, ma quello,

Certo è un presagio che ne manda Iddio.”

 

            Ed ambi vêr le cupole di Santa

Sofia drizzâro le pupille afflitte.

Dall’aguglia maggior, che pari a snello

Pino lanciava verso il ciel la punta,

Una palla nimica avea d’un colpo

Svelta la croce; ed or pallida, scema,

Su quella punta passava la luna;

E l’aguglia fedel l’empia sembianza

D’un infedele minareto avea.

Vedi, Nello, la chiesa ove sovente

Inginocchiati al vespero pregammo

Pace all’ossa materne, ohimè! sur essa

D’una meschita l’avvenire incombe.”

 

            “Lascia, o cara, il terror de’ tuoi presagi;

Torna secura, ed animosa; in petto

Non mi spegnere questa ultima, ch’arde,

Scintilla di coraggio.”

 

                                ”Nello mio,

Qualche cosa di triste erra per l’aura!

Qui dentro al cor l’approssimare io sento

D’inevitabil, certa ora solenne

D’angoscia. Odimi, Nello: una segreta

Storia, la sola, che celata io t’abbia,

Sull’anima mi pesa, e mi parrebbe

Di morire in peccato, ove attendessi

Anco un giorno a svelarla…. Allor che un voto

Me col padre traea peregrinando

A le sante città di Palestina,

Tremo ancora in pensarlo!... Era un mattino,

Si fendeva il deserto. Una infinita

Curva di firmamento, un infinito

Orizzonte di sabbie era d’intorno;

Non una pietra, un fior; solo brillava

Lontan lontano, come via d’argento,

L’onda eritrea. Quando ad un tratto un cupo

Romoreggiare per lo cielo udimmo

Dietro le spalle: mi rivolsi e vidi

Tristi, rosse, infocate, ampie colonne

Tempestando seguirci, e acutamente

Urlò la guida: «Iddio ci salvi; è il vento

Fatale! » Un’ora di convulsa vita

Agitava il deserto, e dai profondi

Visceri, fumo e gemiti mettea.

Muti, cacciati da la morte, a lungo

Stretti volammo pei mobili solchi.

Altro io non so; chè un’ansia, una follía

Vertiginosa ardeami il sangue; e presso

, su la sella mi vedeva assiso

Un cocente fantasima di sabbia

Ad abbracciarmi. Allor che mi riebbi,

E blanda al cor mi rifluì la vita,

Posava sotto un sicomoro; e al capo

Facea guancial la lapide solinga

D’un Mussulmano. Un cavalier d’Arabia

Mi sorreggea pïetosamente il padre

Per sua cura redento. E fino al mare

Si offerse a la novella alba guidarci

Per la via perigliosa. Esule errava

Per delitti non suoi entro il deserto.

Bello era, e generoso, era proscritto,

Ed infelice, e mi richiese amore.

Io non l’ò amato, ma pietà sentii

Di quel gentile, che nel cor m’impresse

Una memoria che tuttor mi tocca.

Ora è qui, tu il conosci, è il prode Assano.

Odi una prece, Nello mio; nell’ora

De la battaglia, non drizzar la freccia

Te ne scongiuro, non drizzarla al pio

Che m’à salvato il padre….”

 

                                      Da le mura

Un improvviso fulminar di bronzi

Manda la voce de la sfida; e l’eco

Di monte in monte la diffonde, e muore.

 

CANTO II.

 

            Oh! mi soffia sul volto, e avviva i lenti

Estri, misteriosa aura che muovi

Dai campi malinconici del nostro

Grande passato, e mi riporta l’eco

De le antiche battaglie italïane

Ispirandomi il carme, onde il poeta

D’ogni età, d’ogni terra, i molli ardisce

Dispettoso scompor sonni di plebe

Concittadina.

 

                      Pei sudati solchi

De la valle feconda, ove poc’anzi,

Traea dal mare a correre la brezza

Sui larghi campi de le spiche d’oro,

E l’allegra canzon del mietitore

Predicea le vendemmie e l’esultanza,

Luccicando nell’arme, innumerata

Una turba tumultüa di gente

Mietitrice di vite, e come irose

Onde crescenti di marea, che batte

Contro le sponde di vascello infranto,

S’avventa a la cittade. Intorno, intorno

Ai rotti muri di Nicósia e ai tetti

Stanno i suoi figli, che silenti e radi,

Ma indomiti a la nuova alba saranno

Liberi in terra o martiri nel cielo.

Mirali! Come udîr l’antelucana

Squilla pei cieli, che a la prece invita,

Caddero genuflessi. Oh! niuno è al mondo

Spettacolo che quel d’un infelice

Popolo vinca, il qual cammina a morte

Come una sola e mesta anima, e prega

Per la terra dei padri innanzi a Dio!

Spirto d’Iddio, tu che due fiamme eterne

Ponesti in petto de gli umani, fiamma

Sacra d’amore a libertade, e sacra

Fiamma d’odio al servaggio, e ti fu caro

Veder levarsi un popolo nell’arme

Per le case, per l’are e le dilette

Bionde teste dei figli, e per le tombe

Venerate pugnar; perchè sovente

Ai rapaci stendardi ài benedetto,

E la catena con l’acciar temprasti

De le libere spade?

 

                            Un improvviso

Nembo di palle grandina dai muri:

La prima fila, la seconda morde

L’insanguinata polve. Intorno, intorno

Ai battaglieri si diffonde un folto

Nuvolo bianco, ove talor discerni

Trepido un guizzo di moschetto, un lampo

Di säetta che passa, un vagabondo

Aggirarsi di lacere bandiere,

Simiglianti a raminghe ale d’augelli

Sorpresi dal crosciar de la tempesta.

 

            Ài tu sentito, allor che per le tristi

Terre di brina assidüa lucenti

Fischia il rovaio turbinoso, e investe

L’antichissime selve, e ne’ conserti

Rovereti percossi eccita un foco

Che lunghi giorni illumina il paese;

Ài tu sentito crepitar gli antichi

Pini ed uscir dai covi de le fiere

Un ululo selvaggio?

 

                              E tale è il vario

Fragor, che assorda questa valle: misto

A lo squillo dei corni, odi il nitrito

De’ fuggenti cavalli, e l’iracondo

Grido de gli omicidi, e dei feriti

I lamenti supremi; e tutta quanta

Ti sembra palpitar l’isola, quasi

Impaurita ninfa oceanina,

In fra le spire di marino mostro.

 

            Da vaporoso padiglione intanto

D’accese nuvolette, i raggi d’oro

Trae, maraviglia d’ogni giorno, il sole;

E in mezzo a la prefissa orbita fulge,

Indifferente, se di sopra il nostro

Mondo, plasmato di superba creta,

L’uom nell’ebbrezza di gioiti amori,

O dell’odio nell’impeto si abbracci.

 

            Passar lunghore di scambiate morti,

lo stendardo del profeta ardiva

Agitar le sue verdi onde di seta

Su gli spaldi inaccessi. Invan le adunche

Scale rasente le muraglie, e i muti

Passi furtivi per le torte vie

De le breccie, e gli aperti impeti invano:

Poi che su gli eminenti orli una siepe

Sta vegliando di prodi; e all’uopo scende

Una ruina di cadenti pietre,

Balestrate da impavidi fanciulli

Usi a validi giuochi, e da animose

Giovani, ne la santa ira più belle.

 

            Ma lungamente fulminato il vallo,

Come terra per molte acque s’insolca:

E già le torri eran diserte, e i radi

Propugnator de la città scorata

Già cadean rassegnati. Era una ressa

D’orfanelli accorrenti a le gelate

Labbra dei padri, un accorato e lungo

Iterarsi d’amplessi, un lagrimoso

Passaggio di cadaveri diletti:

E per le case, per le vie, nei templi

Un ululo di morte e di terrore

Tristamente correva. Ahi! la fortuna

Volse i crini a la valle, consueta

Meretrice dei molti e de gli iniqui.

 

            Vedi tu quell’uom, che torvo e scuro,

Come una notte di tempesta, à l’occhio,

E la barba à d’argento, e ritto accanto

Al pennoncello de la sua progenie,

Par simulacro su quell’ardua torre

Che a’ lieti giorni di speranze altere

Gl’imprevidenti nominâr Costanza?

Quello è un gagliardo che non à sorrisi,

Che lagrime non à, tranne per due

Cose dilette; e due gentili amori

Ne governano il cor costantemente:

Amor di figlio per la bella Cipro,

Amor di padre per Arnalda bella,

Tenace come l’edera, ch’ei preme,

Stretta a le selci di quel merlo antico;

Cresciuto all’ombra de le sue castella,

Cui prime fûr religioni, Iddio,

E la patria, e lo stemma immaculato

De gli avi; e giuoco de le man fanciulle

Una bandiera, un morïone; e orgoglio

Del giovinetto, säettar primiero

La volpe per le macchie irte ringhiosa,

E, plaudito, domar lungo i vïali

Odorosi di fior le riluttanti

Selvatiche puledre; a cui fu ardente

Gioia una sfida; e il ritornar, superbo

Vincitor, dal tornèo; chi può del veglio

Ridir la giovin alma?

 

                               Or con lo sguardo:

Segue i passi nimici, e col diverso

Pallor del volto la dubbia vicenda

De le pugne asseconda; e immobilmente

Sfida la palla, che gli sfiora il negro

Pennacchio del cimiero e la corazza.

Quel tetro affanno, che non à parole,

Quell’ira che si erige incontro all’empia

Fatalità che ti calpesta, e leva

Torbida la ribelle anima a Dio,

Quasi il perchè richiegga irriverente

De le sventure immeritate; e l’odio,

Che ribolle al fallir de la vendetta,

Laceravan quel core, e cupamente

Trasparivan da gli occhi. Egli intravede,

Come in presaga visïon, pei rotti

Valli la furia dei vincenti, e ad ogni

Porta un rivo di sangue; e all’alba nova

La città del suo cor gli si presenta

Di carnefici ostello e di defunti,

E forse a lui serbata obbrobrïosa

Morte, o l’onta del remo, o la miseria

Dell’esule che va limosinando

Quel duro pane che gli fia negato

Da lo stranier con un insulto; mira

L’ignominia abitar ne le sue case

Donde gli sembra uscire un grido: — il grido

Di Arnalda vïolata. A quella atroce

Immagine, lo sguardo avido volge,

La sua diletta ricercando; ed ella

Gli stava in atto affettüoso accanto,

Come angiolo compagno. E la figura

Ti parea de la vergine, che un giorno

Con l’arpa fida seguitava i passi

Del cantor di Fingallo, allor che il bardo

Per dirupi scorgea meditabondo;

Mentre ei sul piano risonar di Lena

Sentía il fragor de le passate mischie

Eroiche e il picchio dei ferrati scudi,

E pel torbido mar le remiganti

Navi, e la sfida dei rinati prodi;

E lampeggiando ne la fervidalma

Proromper l’estro de gli eterni carmi.

 

            “Togliti, Arnalda, a questa torre; vedi

Come il Signor vi semina la morte;

Qui la tua vita e il mio coraggio è in forse:

Vanne, ripara a la difesa torre

De la nostra dimora; e presso l’ara,

Presso l’avello di tua madre prega….

Prega ch’io muoia, se la patria muore.

E se pria del tramonto odi a martello

Risonar le campane, e invano attendi

Una novella che di me ti parli,

L’ultimo, o cara, dei consigli accogli….

Io t’aspetto nel cielo.”

 

                                 “Oh se, la prima

Volta, non piego al tuo voler, perdona;

Nel periglio dei padri, unico in terra

Avvi un loco pei figli e questo è il mio. ”

 

            Ei non rispose; e vôlto al ciel, si strinse

La generosa lungamente al core.

Oh! chi può dire, in quella unica stilla,

Che dal mesto del veglio occhio discese

Sovra le maglie e la fanciulla, quale

Infinito dolor fosse racchiuso?

Stilla, che un cor di martire versava

Sopra il terren del sacrifizio! E pure

Da quell’amplesso, che potea l’estremo

Essere in vita, anco una gioia al forte

Sorrise: chè talora esce da due

Abbracciate sventure una dolcezza!

Del baluardo egli s’affaccia all’orlo,

E fra la polve, che di bianco velo

Del Pedeo la tranquilla onda celava,

Vede giù basso serpeggiar più folte

Le avverse bande; e per la breccia acclive,

Che ad uno ad uno i battaglier caduti

Indifesa lasciâr, silenzïose

Anelando salir.

 

                          L’ultime appella

Reliquie de’ suoi prodi, e vôlto intorno

Un guardo di pietà sui morituri,

Per la china li guida e si dilegua.

 

            L’angusta corte che mettea sul lembo

Dell’erta breccia, era d’infranti merli

Ingombra e d’arme e di cadute pietre;

E pari a campo sepolcral, quïeta.

Ondeggiava romito ancor nel mezzo

Lo stendardo di Cipro, quasi fosse

Da le pie de gli estinti alme agitato:

Distesi fra le péste erbe non freddi

I cadaveri ancora. Una fanciulla

Moría soletta accanto a un caprifico,

E sollevando le pupille nere,

Con l’estremo sorriso salutava

Il moto estremo de la sua bandiera.

 

            Lanciasi il Conte ne la cerchia, infigge

Dentro il terreno insanguinato il brando;

E protesa la man verso la croce

Dai trafori dell’elsa affigurata,

«Giuriamgridò, «di vendicar la santa

Terra dei padri, o di cader con essa!»

E cento destre, d’uomini, di donne,

Di giovanetti s’allungâr tremando

Non di terror, ma d’ira: e cento labbra

Solennemente proferir: “Lo giuro.”

 

            E attesero in silenzio. — Ed ecco spunta

Come disco lunar su da ruina,

Una fila di pallidi turbanti

Lungo l’ardue macerie; un improvviso

Nembo di freccie i più vicini atterra,

Spunta un’altra e precipita: ma sotto

Crescon le turbe ognor più folte, e poste

Le adunche scale, a dieci, a venti, a cento

Sorgono sul fortin gli assalitori;

Divorato è lo spazio. Odi un feroce

Cozzar di lame, e quel ferino, immenso

Urlo, che solo con la morte à pace.

Vedi sull’alto del pendio tremendi

Saettatori fulminare un misto

D’umane forme, che franano a valle

In amplessi di rabbia; e tra le punte

Batton de le ruine e a balzi a balzi,

Non altrimenti de le querce monde,

Che per le chine lubriche abbandona

Il boscaiuolo de le cedue selve,

Piomban ne la soggetta onda del fiume,

Che tinta in rosso a la città s’avvía!

 

            Voi, che passate a caso per i ponti,

Arme recando e cibi ai combattenti,

Misere donne, se vedete mai

Agitandosi giù per le correnti

Venir qualche persona moribonda,

Tendete il guardo, poi che forse è il vostro

Figlio esaugue che passa; è forse il vostro

Povero amor che passa! —

 

                                     È rotto e freme

Anco una volta l’infedel sul calle

Acerbo de la fuga. A la riscossa

Nello, il Signore di Saïdo, accorse.

Di tanta schiera non riman che un solo

Che bestemmiando si ritira, e scaglia

Il dardo che gli avanza. Oh! maledetta

Sia quella freccia, che gittasti, Osmano!

E se pur adorato, unico in terra

Ti resta un figlio, quella freccia un giorno

Sia destinata di tuo figlio al core.

Essa d’Arnalda il morbido volume

Lambì dei crini, rasentò l’usbergo;

E in petto al Conte si confisse. Intorno

S’affollano pietosi i combattenti

All’egregio ferito. Indarno ei volle

Anco fissar ne le fuggenti lune

Gli occhi errabondi, e cadde, e a la vicina

Chiesa fu tratto, come cosa morta!

 

            Era il funereo tempio ove la stanca

Polvere, e le virtù parche, e le colpe

Dormivano dei re; però che dentro

Gli avelli incisi di bugiarde cifre

La valorosa, irrequïeta e rea

Lusignana progenie era discesa.

Per mezzo all’ombra de le vôlte acute

Come lampa di speme in desolata

Anima, il sol dall’occidente invia

Mesto un saluto su purpureo raggio

Popolato da mille atomi erranti;

E, trapassando pei dipinti vetri,

Di fantastiche tinte si colora

Sovra la tomba d’Elena posando,

Quasi paresse coi sanguigni, azzurri

Guizzi di luce figurar l’eterne

Fiamme, dove la perfida reina

Sconta il veleno e i casalinghi lutti. 3

Steso ai piè dell’avel che all’infelice

Giano 4 fu primo ed ultimo riposo,

Aperse gli occhi il morïentc, e vide

China. su lui la figlia in quell’estremo

Disperato dolor, che è più di morte.

Guatò d’intorno attonito; gli parve

Di tornare a la vita dopo lungo

Sonno affannato: come in faticosa

Visïon, gli ricorse una confusa

Pugna, e un Osmano saltellon pei muri

Ir vagabondo con un dardo lungo;

E si sentia colpire, e de la morte

Arrivar la solenne ora comprese;

Ma il pensier de la sua misera terra,

Così com’era, anco il premeva:

 

                                              “Arnalda

Sali su: di’ cosa vedi.”

 

                                      Ed ella

Con quella punta di coltel nel core,

Barcollando saliva obbedïente

Le scale, onde si giunge a la sublime

Finestra de la chiesa. — Indi lo sguardo

Per molta parte di città si stende

E per molta campagna.

 

                                “Su le mura

Vedo ondeggiare un lacero stendardo

Ma non è quello di San Marco. Padre

Odi tu questo che mi gela il sangue

Rintocco di campana: a onde a onde

Scende il nimico per le vinte chiuse

A la cittade.”

 

                    E impallidendo, il capo

Chinava a la cornice, e si sentía

L’anima strazïata ire in dileguo.

Oh! perchè non morir!

 

                                   E giù il ferito

Tornava a domandar, “Di’ cosa vedi.”

 

            “Vedo avanzarsi per le vie la mischia,

Vedo le soglie de le case ingombre

Di morenti e di morti; e turbinosi

Nodi di fumo ascendere dai tetti:

Vedo di faci scintillar i vani

Qua e de le finestre. — Padre! padre!

Anco dal loco, ov’è la nostra casa,

Vedo salir la punta de le fiamme!

Povero avello di mia madre! — Tutto,

Padre, è perduto!”

 

                              E la paterna voce,

Come d’uom cui la mente egra delira,

Più fioca sempre favellava:

 

                                         “Io veggo

De la patria il fantasima che incede

Tacitamente per la chiesa: l’orma

I pavimenti insanguina; si posa

A me d’accanto ad aspettar ch’io spiri….

Attendi, o Patria, anco un istante, e al cielo

Ascenderemo a chiedere vendetta

Di tante colpe, che non àn perdono.”

E lieve lieve per le vôlte acute

L’eco del tempio rispondea: “Perdono.”

 

            Quando di Rama sui funerei colli

Passò un lungo lamento, e una regale

Mano i lattanti d’Isräel percosse,

Forse una madre col suo bimbo ascosa

Dietro le sacre are sentía le péste

Omicide vagar, con la medesma

Ansia di questa vergine diserta,

Che per le vie de la città la strage

Or vicina ruggire, or dileguarsi

Nelle confuse lontananze udía.

 

            Ai lunghi schianti commoveansi i vetri

Del Santuario, e rispondean gli stalli

Vedovi e i sotterranei ambulacri.

S’ode un fragor d’arme, che avanza; scende

Precipitosa da le scale Arnalda,

E davanti l’esanime si ferma.

Guai chi primo la tocca! Ardonle i polsi,

Lampeggia il brando, e ne lo sguardo à impressa

La maestà, che il sacrificio ispira.

Ma quel tumulto or cresceora s’allenta,

Finchè per andamenti altri si perde:

Torna il silenzio. Odesi poscia il passo

D’un corridor, che galoppa lontano;

La via divora, s’avvicina, — è giunto,

È già passato. — No: come a prescritta

Mèta dinanzi il portico sonoro

Del Santuario si fermò d’un tratto.

La prima volta, o donna, è che tu tremi!

Odi! — una pésta entra le porte — e inoltra

Per la crescente oscuritade. —

 

                                                    “Arnalda,

Ove se’, Arnalda?” – “Sei tu Nello? Oh! grazie,

Madre d’Iddio! sei vivo!”

 

                                        “Arnalda, dove

È tuo padre? Oh, celiamlo omai; per tutto

Si dilata lo scempio, e se speranza

Ancor ci resta, è di morir uniti!”

“Chi sei,” disse il vegliardo, “e perchè suona

Disperata così la tua parola?”

Ma rïapparsa ne la debol mente

La ricordanza de la nota voce:

Sir di Säido, or ti ravviso…. Dimmi,

Tutto dunque è perduto?”

 

                                     “Ad uno ad uno,

Signore, i forti caddero sui muri:

Caddero per le vie; dentro le piazze,

Dentro a le corti caddero pugnando:

Or non è pugna, è strage. L’abborrito

Carnefice di Stàmbol à fissato

Lo sterminio di Cipro. — Ormai l’antico

Onore è spento de le nostre case;

Spenta è la tua città. Di tanto e lungo

E infelice valore altro non resta,

Che qualche prode agonizzante, e questi

Laceri avanzi de la tua bandiera:

Carca di gloria, tu me l’ài ceduta;

Carica di sventura, io la riporto.”

 

            “Porgila ch’ io la baci, e qui sul petto

Ferito me la posa. — Oh! questo solo

Era il sudario ch’io bramava estinto….

Men triste or muoio…. Benedico Iddio,

S’Ei mi concede ch’io non vegga vivo

La servitù di quest’isola mia.

Ma che sarà di questa creatura?

Che sarà mai d’Arnalda? — Odimi, Nello:

Se mai t’arrise amor ai giocondi

Per questa che tra poco orfana fia,

E l’anima cortese, e le sembianze,

E la mestizia non ti fûr discare,

Deh! ch’ella trovi ai giorni del dolore

In te l’amor del padre e de la madre!

Ella è tua.… la proteggi.”

 

                                        E il cavaliero

Con un gaudio accorato a la fanciulla

Porgea la mano nuzïal.

                                   Sorrise

Il moribondo, e più commosse e roche

Gli uscían dal petto le parole:

 

                                            “Io scendo,

Nello, a la tomba poveretto. I nostri

Vezzi dimani adorneran le molli

Odalische dei ladri: entro i giardini

Pascoleranno le cavalle turche….

Volge Nicósia in cenere…. Le vampe

Del mio palagio esser dovean le tede

Pronube de la vostra ara!…. Di tanta

Ricchezza che sparì, solo vi lascio

Quello che non potean tutti rapirmi

Congiurati gli Osmani, e la fortuna:

La veneranda vanità d’un nome

Invïolato; e a te, Nello, quest’una

Lieve ma sacra eredità del mio

Brando, netto di colpa, e di viltadi….

A le tue man lo fido…. Oh, qui da canto

Chi è che geme?...o figlia…. o figlia mia….

Qui t’appressa; mi bacia anco una volta….

Ancor più presso; ò freddo, Arnalda, ò freddo….

Qui mi ti posa, e mi riscalda il petto.

Toglimi, cara, quest’anel dal dito.

Esso è quel che portò l’intemerato

Angiol che ti fu madre: io sull’altare

Puro gliel porsi, ed ella ancor più puro

Me lo rendea sull’origlier di morte.

Questo di me, questo di lei ti parli

Infin che vivi. — O, misera, sì forte

Non singhiozzar…. Io rivedrò fra poco

Quella santa nel ciel, ed ambi Iddio

Perpetuamente pregherem per voi.…

Ài tu per l’aure torbide sentito

Forte una voce che mi chiama a nome?….

Arnalda, ò freddo…. qui sul cor mi versa

Quelle lagrime calde…. o benedetta….

Ricòrdati di me che muoio….”

                                                Un fiero

Tumultüar d’armati e di cavalli

Che urlando irrompe da la porta, scuote

Quegl’infelici che pareano morti

Al par del morto. — Esterrefatto balza

Nello da terra; il brando impugna: “Sposa

Or siam perduti.”

 

                            Una rapace turba

Con agitate fiaccole s’accalca,

Cento facce selvaggie illuminando

Ai profanati limitari. — Primo

Sul pavimento di sconnessi avelli

Un Mussulmano col caval si lancia;

E, ravvisato in minaccioso aspetto

Ritto un guerriero ad un altar: “Il tuo

Dio, gli grida, ben scelse a la custodia

De la sua casa un guardiano imbelle.”

E curvo su le redini s’avventa

A quel deriso. —

 

                          “O sposo, è lui…. è lui….

È Assano.” Altro la vergine non disse:

Poi che sentì mancarle il core, e cadde

Su la salma del padre, inanimata;

E forse ora si volge al paradiso. —

 

            All’udir il suo nome e quella voce,

Attonito stupì l’Arabo, e rise

Come Satana ride. Intorno ai due

Che duellano, come ad un tornèo,

Si stringe con le fiaccole la gente.

Solo fra tanti il Sire di Säido

A una colonna che sostien le navi

Balza d’un salto, si ripara, e pugna.

E già due volte spezza con la spada

Le maglie, e offende il cavalier. La curva

Lama azzurrina dell’Osmano ai marmi

Guizza d’intorno e fa sprizzar scintille.

E già sul capo discoperto a Nello

Rapida scende; ma al corsier nimico

Manca sul terso lastrico una zampa,

Sfonda un avello ne la sua caduta,

E palafreno e cavalier confusi

Mordon la polve. — Sul caduto allora

L’altro inarca l’acciaro, e già la morte

L’Arabo sente. — Se non che, dal fondo

D’una navata sibila una palla;

Nello è caduto! — Furibondo sorge

L’arabo, un motto mormora all’orecchio

D’un fido schiavo, e fin che gli altri al sacco

Si spargono del tempio, ei su novello

Destrier apre la calca e via dispare;

E fuvvi alcun cui parve di vedere

Lungo gli arcioni pendergli dinanzi

Come una forma di persona morta.

 

            O generosi che cadeste, addio! –

Addio, bella di gloria e di dolori

Animosa cittade! Un’ odïata

Notte sopra il guancial de la sventura

Ti agitasti, cristiana, e sul mattino

Martire all’onte del servaggio sacra

Ti svegliavi ottomana; e preludevi

De la tua miseranda isola ai ceppi.

Così tramonta de le patrie il sole

All’occaso di sangue imporporato.

Cadono i padri combattendo; i figli

Vivon nell’odio memore: i nipoti

Si rassegnano al fato; e poi fin l’ombra

De la speranza, e le memorie sperde,

Più assai che il tempo, il postero codardo.

Pur nascoso talor fra le rovine

Cresce, da pianto nobile irrigato,

Gracile il fiore de la indipendenza:

Poco a poco, guardingo si propaga

Nei giardini domestici educato,

Fin che arriva a olezzar apertamente

Ne le piazze e sull’are, e se ne tesse

Una civil corona all’animoso

Eroe de la rivolta. —

 

                              Ahi! del riscatto,

Città infelice, non ancor nel cielo

È per te l’invocata ora battuta!

Veggo ancor per le azzurre aure beate

Volger la luna, e vïaggiar le stelle;

Veggo il sorriso de le tue marine,

E per le valli irrigüe gli aranci,

Sempre verdi fiorir: l’alma di foco,

Il crin di corvo e lo splendor del guardo

Ancora ammiro de le tue fanciulle

Desïose d’amor…. Ma dove i sacri

Giorni n’andâro de le patrie feste?

E l’inno popolar che fea le tue

Notti di canti liberi gioconde?

Dove il braccio dei prodi, e su le porte

Le scólte cittadine? ove il lucente

Altar da cui l’ardita incoronavi

Fronte dei Lusignani? Ove le egregie

Tombe ne andâro?

 

                          O stanche ossa dei regi

Dall’Eterno chiamate, e dall’umane

Storie, a giudicio, invan di queti sonni

La speranza v’allegra! Appare il giorno

De le sconfitte, e il vincitor vi fruga

Per rapirvi le gemme irriverente;

Il giorno appar de le rivolte, e il pugno

Dei popoli vi semina pel vento.

Pure a le tue contrade ove rïesca,

Derelitta Nicósia, il peregrino

Ancor dopo tre secoli di lutto,

Mesta i sepolcri de’ tuoi re gli additi.

Un sol ne manca: sì che invano ei chiede

Ove l’ultima tua dogal Signora

Dorma il sonno dei morti. — Oh, con le serve

Braccia tu l’ergi, dove è più deserta

Del mar la spiaggia; poich’è spenta

Ahi! sotto l’alga de le sue lagune

La tua Sultana, e del lïone alato

È spento l’antichissimo ruggito. —

 

CANTO III.

 

            Udite, solitarie anime care,

In cui celato per avversi fati

Freme de la natal terra l’amore,

Cui non è ~emma di regal corona,

Che pur una di sangue inclito vinca

Nobile stilla per la patria sparsa:

Udite, anime care, ove il desío

Tolto non v’abbia di saper gli affanni

D’Arnalda lagrimevole, la musa

Povera narratrice.

 

                             Ella era côlta

Da un penoso delirio. In quel dei sensi

Disordinato errar, cui la sospinge

De lo spirto l’angoscia e de le membra,

La fantasia, ne’ suoi voli di Fata

Or benigna or crudel, prendea le forme

Del terribile vero.

 

                            Essere in prima

In quel tempio credea, dove ai sereni

Giorni pregò. — Su splendido tappeto

Inginocchiato le brillava accanto

Il bellissimo Nello. — Un mar di luce

Diffondeasi dall’ara; e le sublimi

Cupolette indorando e il pavimento,

Sovra il candore del suo vel piovea

E sopra i gigli che le fean ghirlanda.

Un’ invisibil mano discorreva

Per gli ebani dell’organo spargendo

Di melodie le profumate vôlte.

Era il di nuzïal. —

 

                              Ma un’oppressura

Tormentosa, una scossa, un incessante

Scalpito a guisa di corsier che fugge,

I bei sogni rubando all’infelice

Mutan la visïone. —

 

                             Ecco a rilento

Sollevarsi le lapidi e dal vano

Una nube salir, che tutte quante

Occupò le colonne e le navate.

La paurosa con la man ricerca

L’anello che le fu lungo desio;

Ma l’anello si snoda, e le sembianze

D’una vipera assume, e il bianco dito

Avvelenato dall’acuto dente,

Morto le cade da la man di gelo.

 

            Per quei vapori, ovunque ella si volga,

Vede sempre un crudel volto che ride

Insultando e la fissa; e cento braccia

Lunghe, villose, col pugnale in alto.

Il sacerdote, il fidanzato, il raggio

Dileguano, e il sì dolce organo è muto;

E sol per gli ambulacri ultimi il tristo

Nitrito ascolta d’un caval morente.

Ella ghermita da una man di ferro

Depor si sente dentro un freddo marmo.

Trepida gira la pupilla, e vede

Che quel gelido marmo era un sepolcro,

Con dentro un morto, e il morto era suo padre:

E già un grido mettea….

 

                                 Ma un’ oppressura

Più tormentosa, un faticato corso,

Un fischiar d’affannosa aura pei crini,

Scotean la sognatrice; e si mutava

De le feroci fantasie la scena. —

 

            All’improvviso le parea quell’urna

Commoversi co’ suoi grifi di pietra,

Ed uscire dal tempio: e la persona

Morta, tremendo guidator, sedea.

E correano, correano per le vie

Note, pei suburbani orti, sui clivi

Precipitosi e lungo le campagne

Rapidissimamente. E lo splendore,

Che illuminava il disperato corso,

D’una vinta cittade era l’incendio.

E correano, correano, e si sentia

L’unghia di marmo battere il sentiero;

Finchè la terra si perdeva, e il lido

In un negro mettea vasto oceàno:

E quell’urna solcarlo; e la persona

Morta, tremendo navichier, sedea

Fra le spume del mar.

 

                             Ma un’oppressura

Più tormentosa ognor, ma l’impudico

Premer d’un bacio che le cerca i labbri

Quasi fugace rettile che strisci

Su le carni notturno, a quell’afflitta

Rompono i sonni. Apre le luci; in una

Barca lanciata a la balía dei remi

Si vede, e a quel fatale Arabo in braccio,

Cui riga ancora il candido mantello

Il vivo sangue del morente amico.

Si conobbe perduta. E con la mano

L’onta coperse del baciato viso.

Come in nube indistinta in pria le giunse

La ricordanza, indi più netta, infine

Limpida e disperata; in un istante

Vide il passato, vide l’avvenire;

E credette morir…. Ahi! poveretta,

Chè per angosce non si muore in terra!

 

            Un tramonto sul mare! Oh! come è bello

Il sol che ne le immense acque discende.

Che se la costa, ove al mattin sorgea,

Appellata è Soría; se quelle brune

Macchie lontane, ove tramonta, sono

Le sorelle di fama e di sventura

Isole dell’Egeo, superbamente

Egli è splendido allora! Ei, le solinghe

Colonne d’Elio, che fu sua cittade,

E i rovinosi simulacri, a cui

Fallîr da mille e mille anni i divoti,

De la luce più limpida colora.

E le mobili spume, onde s’imbianca

L’azzurro piano, imporporando irradia,

Sì che pare al rapito navigante

Reggere il pino dentro un flutto d’oro.

Danzan sull’onda con le argentee schiume,

Tratti al desio de la morente luce,

Fuggitivi i delfini, e la conchiglia

Schiude le valve per dar loco al raggio

Che le accarezzi la gentil sua perla!

È l’ultimora d’una festa. Il crine

Sparso di rose fulgide, nell’acque

Discende il re. La festa è consumata.

Una dolce quïete, una mestizia

Posa nell’aure e sull’oceano. Allora,

Come al passar d’un re per una villa

S’accendon lampe ne le vie notturne,

Via per le sfere un cherubin aleggia

E illumina le stelle e de la luna

Il niveo faro, perocchè si svela

Più maestoso ne la notte Iddio.

Oh, come è caro il che muore, e i bruni

Piani saluta dell’immenso mare!

 

            Ma tal non è per l’esule che triste

Solca pelaghi ignoti, ignoto ei pure

E sospettoso, e la memoria il punge

Dentro al core dei placidi tramonti

Accanto a genïale anima scôrti

Dal limitar de la paterna casa.

E si rammenta la fidanza onesta

Dei colloqui animati, assiso ai freschi

Vesperi de la patria, ond’egli forse

S’allontana per sempre; in su la poppa

Posato del navil, versa nascoste

Lagrime amare sovra l’onda amara;

E intanto ode cantar dietro di lui

In una lingua che non è la sua.

Tale non è per quel che di catene

Improvvise fu cinto, e va prigione

A stranie prode, ove nessun l’aspetta,

Fuor che il fantasma de le sue sventure.

Sol libero del guardo, a la palomba,

Che trapassa veloce, a la rosata

Nube, che vola vèr la patria, affida

Un addio lagrimoso. — E questo, o bella

Dolorosa di Cipro, era il tuo fato.

 

            Per cento vele biancheggiante sega

L’Issico seno col favor del vento

La flotta de la Luna, e con le aurate

Punte s’avvia de le dipinte prore

Di Famagosta ai venerandi muri,

Dove un futuro martire l’attende.

Guizza rasente i solitari scogli

La fusta del corsal, dentro le macchie

Si nasconde di canna, e traditrice

Esce di notte a derubar pei lidi.

Sole nel seno di tranquilla baia

Specchiansi immote due galee nell’onda

Mirti perenni, e pallide lavande

Fanno siepe a le rive; un’odorosa

Selvetta miri fluttuar di cedri

Su le eminenze, e quasi a guiderdone

De le frescure onde le fu cortese,

Sopra il suggetto mar, che la riflette,

Sparge il profumo de le sue corolle.

            Forse quelle galee, come una coppia

Peregrina di cigni, a tanto d’acque

Paradiso e di campi innamorata,

Qui l’àncora gittâro.

 

                            Oh, tu non sai

Qual carico di pianto e di peccato

Portin quelle galee!

 

                                     , su la rupe

Che al mar s’ affaccia, da le crocee foglie

Di selvatica vite inghirlandata,

Sali. — Non odi dal navil, che posa

Cheto nel mezzo del suggetto golfo,

Secondo la raminga òra lo porta,

Sollevarsi un lamento? Ivi legata,

Quasi rea da patibolo, si accalca

Prode una gente. A lei sui vinti muri

E su le soglie dei polluti lari

Fin la morte fallía. — Poveri egregi,

Che faranno dolenti e popolosi

I mercati di Galata! L’orecchio

Porgi di nuovo; non t’arriva un cupo

Fremito e un urlo? — Su le ignude schiene

Dei galeotti sibila cruento,

L’onta mescendo col dolore, il nervo.

Miseri! E voi forse una dolce casa

E la canizie tremebonda aspetta

D’un padre! E forse in questa ora d’angosce,

La sposa ignara, che vi attende, prega

Sotto la lampa di Maria, benigni

Supplicandovi i mari! —

 

                                      Oh, non ti fère

Un suon da la vicina eco ridetto,

Triste, come il sospir d’una sorella

Che domanda soccorso? — Oh, non è questo

Dell’avvoltoio cacciator lo strido,

Che su quell’altezze aride gira;

Questo è gemito umano. È un angoscioso

Pianto di donna; perocchè sull’empia

Nave che miri, à ragunato Assano

I tesori a le ville arse predati;

E le gemme più fulgide di Cipro

Le sue fanciulle. —

 

                          Oh, sventurate a cui

La giovinezza e la beltade è colpa

Che ogni sconterete vergognose

Nei chïoschi del Bosforo ridenti

Ed abborriti, a far più lunghe e acute

Le voluttà dei comperati amplessi.

Oh! sventurate!

 

                           Ed ella pur sedea

La vergine dei Roca, in mezzo all’altre

Miserabili donne. Era un’oscura

Cameretta di sotto agli impalcati

De la coverta. — Ivi empiamente sparsi

Miravi i candelabri e le rapite

Spoglie dei templi, e misti a le gemmate

Armi, ed ai vezzi a la beltàcari,

Quei voti, che nel del superato

Periglio, al santo del suo cor, contenta

L’anima appende.

 

                            Povere colombe!

Quale vi trasse da gli aperti campi

Fatalitade di tempesta al covo

Proprio del nibbio qui? Ier ne le case

Libere ancora, ancor dolce e superba

Esultanza di pie madri, e desío

Di giovinetti verecondi; ed oggi

profondo cadute!... e diman forse

Vituperate…. Oh! chi gli atroci e lunghi

Patimenti può dir di questo nido

Di caste ed immortali anime tratte

Come mandre al mercato?

 

                                      Alcune assise

Col guardo immoto, il volto infra le palme,

Giacean come impietrite; altre furenti,

Piene le pugna di strappate chiome,

Forsennate correan; chi genuflessa

Pregava; chi parea morta; ed alcuna

Su le tavole roride di pianto

Si rotolava disperatamente.

Pur se un lieve sonava urto a la porta,

Tutte volgeansi a quella banda, quasi

Per dovesse entrar il vitupero.

Oh quante angosce in quelle paurose

Pupille nere; in quei tremuli labbri

Illividiti; in quelle mani al petto

Raccolte in croce, in quelle pose stanche

Pur custodite dal pudor, che mai,

Fin nei deliri d’un dolore acuto,

Da la vergine mai non si scompagna!

 

            Sole nel mondo! Ognor che il reo pensiero

Ripiombava su quelle anime affrante,

Pietosamente commoveansi; e, nate

Di principe o di plebe, una cadea

In seno all’altra; poi che il duol profondo,

Simile al cimitero, ogni superba

Disuguaglianza toglie e tutti adegua

Sotto l’affanno d’una croce istessa!

 

            —  Donna, che vuoi tu qui? Splendidamente

Scende a lambire il tuo piè di fanciulla

La nerissima chioma; e l’immodesta

Onda del seno sotto un vel di neve

Manifesta di certo un cor di fiamma,

Un cor che è nato dove nasce il sole.

 

            La giovinezza ti dipinge il volto

Di procace beltà. — Pure nel mezzo

Al candor de le guance, solitaria

Una rosa di porpora mi dice

Che ratto scorre de’ tuoi lo stame:

Pur qualche cosa di sinistro avvampa

Dentro quel bruno orbe dell’occhio.

 

                                                     Donna,

Che vuoi tu qui? — Perchè quel lungo riso

Irriverente? Non sai tu, ch’è sacra

L’aura che spira da una gran sventura;

Poi ch’ivi più solenne orma rivela

La presenza d’Iddio?

 

                                  Ella depose

Sopra un guanciale un crocefisso d’oro

Che di strane tenea bende ravvolto.

E su le braccia mollemente a guisa

Di bambolo cullava. E a le cadenze

D’una mesta canzon del suo paese

Voluttüosa maritava i passi

D’una danza di Cipro. —

                                  E tutte l’altre

Pareano a quella gioia indifferenti.

 

            Ella seguía la danza e la canzone,

E un dolor pauroso uscía da quella

Vïolenta letizia; in fin che lassa

Mal traendo il respiro, entro le bende

Incespicava, e per morta cadea.

 

            Allor si mosse una gentil figura

A sollevarla con bontà pietosa;

Era Arnalda. — Seduta a lei d’accanto

Sull’origlier de’ suoi ginocchi il capo

Leggiadro ne depose. — Indi la mano

Tese a spïarne i palpiti del core:

E il core, or lento, or frettoloso, come

Dentro le spine de le sue memorie,

Intricato batteva. E meglio fòra

Che non battesse più: — “Povera Actea!

Povera pazza! Se non pur felice,

Fieramente felice, chè l’angoscia,

Come pietra scagliata in fondo al rio,

T’à intorbidato l’onda de la vita,

E nel tramonto del pensier ti tolse

A la veduta di sì ree giornate!”

 

            Se piomba la sventura in cor gentile,

Ne trae tesori che nei felici

Ignorava d’aver, e più benigno

Lo rende agli altrui mali. E quella pia,

Fatta siccome immemore del suo

Infinito martír, qual fa una madre

Con malato figliuol, le accarezzava

Il fronte, il collo, il crin.

                                  E le memorie

Agitavano Actea: — “Pria di lasciarmi,

Anco un bacio, amor mio; come sei bello!

Come ti ride su la nobil fronte

Scintillando il cimiero! — A me, fanciulle,

Venite a me, spose di Cipro! Avreste

Veduto al mondo mai re da corona,

Che la porti sì ben, come il mio sposo

Porta il cimiero? Oh nol guardate! io sono

Una fiera gelosa…. Oh parti e pugna,

E riedi; incontra io ti verrò sul ponte….

Eterna è un’ora ch’io l’attendo, e ancora

Non torna….

 

                 “È morto, e non tornano i morti...

Chi mi parla di morte? Oh maledetta

Questa voce crudel! — Per l’oppressore

Odïoso al Signor, non ei la spada

Servile assunse: ma v’è un tetto,

ov’egli Nacque; v’è un’ara, ove pregò fanciullo,

E mi diè la sua gemma; àvvi una breve

Culla, che dentro un’innocente accoglie

Creatura di rosa; un’infinita

D’amarezze e d’amor corrispondenza,

Che à nome patria; egli per lei soltanto

Vestì la maglia, e sguainò la spada:

Tornerà. —

 

                    “È morto, e non tornano i morti….

Son morti tutti, anco la patria…. un solo

Vive…. silenzio! non lo dite, o donne:

Il mio soave pargolo di rosa

Dentro un sepolcro io l’ò celato; un’onda

M’inseguia di turbanti; io per l’occulta

Via del giardino dileguai non vista:

Entrai la stanza nuzïale; oh come

Sorridevi, o celeste, entro l’intatta

Neve dei lini! Nel cortile udii,

Erompere pel vinto atrio la gente:

Egli vagì…. come celar quel mio

Solo tesoro, onde giammai non fôra

Stata povera in terra? Egli vagiva.

Io lo feci tacer col mio pugnale:

S’addormentò; lo trovar la gente….

Eccolo ei dorme ancora…. oh! con quel pianto

Non destatelo, o donne….” 5

 

                                     Da la mesta

Consolatrice che volea calmarla

Si liberava nel delirio Actea;

E su le bende lacere inclinata

Depose un bacio. Ah! misera nel legno

De la croce baciar credevà il figlio.

E tacque, e pien di pianto era il sorriso

De la povera pazza.

 

                            Entro la muda,

Per l’äer cieco, non s’udia che un rotto

Anelito di petti affaticati

A spirar la sventura: e di quel breve

Pauroso silenzio eran gl’istanti

Enumerati dai singhiozzi in terra,

Dal custode segnati angiolo in cielo.

Quando a la porta s’affacciò sinistra

La figura d’un Arabo. Su lui

Da la virtù d’un reo fàscino vinti,

Come per muta tenebría scintille,

Si conversero cento occhi di donne;

Quasi volesser coi fulminei sguardi

Incenerirlo. — Ei con beffardo accento

Loro indisse d’uscir. — Pietà non era,

Che su la tolda a respirar le addusse

Le placide frescure, e l’odorosa

Brezza, che lambe le tepenti rive:

Era timor che l’agitata e greve

Dimora ne la stiva a la bellezza

Appassisse le rose; e men gioconde

Tornassero le veglie a la feroce

Sete de’ sensi, che a Bisanzio attende.

 

            Nube in cielo non era, e dietro i colli

Vitiferi di Candia il sol morìa:

A quelle derelitte ultimo forse

Fra gli occidenti de la patria: e in due

Ne partiva la vita; in quel soave

Paradiso che fu, sparso di fiori,

Di blandizie e d’amore; e in quella ignota

Landa d’esilio che non à ritorni,

Terminata soltanto allor che aperto

Troveranno un sepolcro, ove le stanche

Membra celar con la crudel vergogna!

 

            Libera ancora sovra un’erta cima

Una imprudente campanella osava

Ridir Ave a Maria: da lunge un’altra

Risponderle parea; quasi un’austera

Coppia d’amici, che fidente parli,

Sull’imbrunir de le pensose sere;

De le cose del cielo.

 

                             Oh! chi nell’ore

De la partenza memori potea

Udir le squilla del natal paese

Senza un pio turbamento, a lui natura

Un raggio di gentile alma negava!

 

            Tal non era d’Arnalda, e non dell’altre

Sciagurate compagne: ed essa pure

Actea parve ascoltasse: e ne la offesa

Mente quel le arrise, allor che i bronzi

Sonâr la gloria di sue dolci nozze,

Qual sovvenir di noti ed amorosi

Volti, di tetti placidi, di allegre

Feste e di tombe! E chi pensava ai gaudi

De le romite sere, ai delicati

Lavori smessi, quando il sol lambía

Col raggio d’oro le trapunte tele;

Chi il secreto desío rimeditava

E i guardi, e le furtive orme, e il pudore

D’un cognito donzello, e l’infinita

Soavità d’un bacio fuggitivo.

E la madre? Oh la madre era di molte

L’amarezza suprema, e le scolpite

Sembianze, e gli atti mansueti innanzi

Redían cari e tremendi: e se d’alcuna

Menda vêr lei si ricordava il core,

Quella, che parve un mendalieve,

Tornava or colpa smisurata. — Arnalda

Le sacre ossa materne, e l’insepolto

Capo del padre ripensava, e un altro

Caro morente al piè d’una colonna,

E de la patria vïolata il grido:

E cadde genuflessa, e su le labbra

La morte e la preghiera avea dei morti.

Tacevan tutte, e tu, povera folle,

Mescevi inconsapevole la tua

Danza di Cipro a la natía canzone.

 

            Allor s’intese da le cento prore

Dei vincitor, cui le seconde brezze

Traevano e il desío de le rapine,

Diffondersi sull’acque una festiva

Armonía di stromenti.

 

                            Odela o surge,

Da non so qual divino estro rapita,

Arnalda e in tuon profetico prorompe:

 

            “Ite, l’avventurosa onda frangete,

Superbe navi, del trïonfo allegre;

E il sol che cade de le sue più vive

Porpore vi dipinga! Oh, di ben altra

Porpora tinte, che sarà di sangue,

Pria che ritorni vedova la selva,

Carche di morti, e fuggitive invano

E disperate in mari altri v’attendo….

Oh! chi mi leva in alto sì, che i giorni

Nascituri contemplo?...

 

                            “Ecco tre scogli 6

M’appaiono deserti in mar deserto,

Senza traccia d’umane orme e di fama;

Voi senza fama? — Oh! tale un nome avrete,

Che fia rampogna ai secoli codardi!

Però ch’io miro veleggiar per molta

Lontananza di fiotti un contro l’altro

Due popoli iracondi, e le galere

Fulminando scontrarsi, e uscir dal grigio

Fumo sul fianco lacero inchinate

Le capitane con le vôlte antenne.

Però che sento un sibilar di frecce,

E un urtarsi di prue l’una sull’altra

Lanciate, e il grido de le mille voci

D’un naviglio che affonda; e svolazzando

Sinistri augelli stridere invitati

Al festin de la morte; e le ululanti

Esequie e il pianto de le Tracie donne.

Però ch’io veggo fluttuare un bruno

Panno sull’alto de le tre scogliere,

E via per l’onda, finchè l’occhio arriva,

Un tristo di turbanti arsi e di vele

E di naufraghe salme impedimento….

Una prua dal tumulto esce veloce….

Tu parti? — Addio. — Sollecita il remeggio,

Adrïatica prua: te dei trionfi

Accarezzata messaggera attende

Venezia su la piazza unica in folla;

E tripudio di danze e ne le miti

Notti lungo la curva ampia prepara

Del suo Rialto luminarie in festa…. 

E tu, Sposa del mare, affretta il riso,

Perchè pure per te, misera, vedo

Spuntar nell’avvenir le faticose

Giornate del dolore: affretta il riso,

Finchè non t’abbia l’Oceán reietta,

Infedele ad amplessi altri correndo.

Se un immortale ai talami t’assunse,

Immortale non sei! Tu che lo scettro

Rapivi a Cipro mia, tu che a sì dura

Agonía l’abbandoni…. e tu morrai

Abbandonata. — E scorderanno i regi

Le delizie dei giorni, allor che molle

Li banchettavi dentro all’aule d’oro,

Ospite insuperata: e a far più lieta

La voluttà di quelle itale notti,

Infioravi le gondole, e per l’acque

Illuminate misurando il remo

D’armonïose serenate al canto,

Soavemente li traevi ai balli

Intrecciati di maschere e d’amori.

Scorderanno le sacre ire del tuo

Lïone e il rugghio salvatore, allora

Che navigando lungamente solo

D’Orïente le perfide marine,

De la Croce vegliante angelo stette

Contro la Luna; e con la fulva chioma

D’ottomane saette irta rediva,

Ma vincitor, di monumenti e d’arme,

D’aromati e di fior carco, e di gloria

Italïana a la ducal maremma!

Flagel di Dio, scendeva un dall’Alpi

Il guidator de gli Unni, e la Paura

Te generava, e poi ti nascondea

Fanciulla eroica in grembo a le tue cento

Isolette infeconde e glorïose.

Flagel dei troni, da quell’Alpi stesse

Scenderà di ponente un isolano

Agitator d’eserciti e d’idee;

Cavalcherà superbo pe’ tuoi lidi

Popolosi di ville e di codardi;

E tu, stupendo fior de le paludi,

Povera, antica, con le man posate

Sul grembo inerte, al par d’un tapinello

Infievolito, che s’asside al sole,

Côrrai, fisando, il moribondo raggio,

Che manda l’astro di tue glorie a sera.

Finchè te le päure uccideranno:

E agoníe calunniate, e morte avrai

Inglorïosa, inulta, occultamente

Da qualche solitaria anima pianta!…”

 

            Di canti un improvviso e di feroci

Risa tumulto, una diffusa striscia

Di fiaccole pei colli littorani

Che discendendo, i serpeggianti colli

Come serpe di foco assecondava,

Rupper la visïon dei non nati

A la bella rapita. Intorno ad essa

Pallide, genuflesse eran le donne,

Cespo di tuberose säettato

Dal sol meridïano, intorno a palma

Giovinetta da forti aure commossa.

Fin essi i guardïani all’idïoma

Incognito e possente, all’ispirato

Occhio fulmineo, al portamento ardito,

De la fanciulla intesi, avean dismesso

Lo sgranar de le inerti ambre, e la noia.

 

            Siccome i fuochi onde rosseggia il monte

Quando a valle sospinto il mandrïano

Le selvatiche accende erbe autunnali,

Pur nel desio di più fiorente aprile;

Tali apparíano quelle faci; or d’una

Fulgida riga incolorando i clivi

Si nascondcan fra gli alöe giganti,

Or rïuscivan più di pria vivaci

Rasente un balzo, o vagavan confuse,

A guisa de le lucciole sui prati.

Come scendeano approssimando, al guardo

Apparivan distinti armi e cavalli

E cavalieri, a cui bianco svolava

Qual lenzuolo da morti il vestimento.

Alfin posaro in una valle. — Quivi

Una tenda crescea di caprifoglio

Sopra un delubro rüinato. Un tempo

Le Amatusie fanciulle alzâr quell’ara

A Citerea di voluttà maestra:

Quando, furenti di desío, la baia

Correano seminude, e da la riva

Ai venturosi naviganti invito

Feano col canto; e i talami improvvisi

Eran cespi d’olenti erbe e col prezzo

Inverecondo componean la dote. 7

 

            Ivi d’Assano riposò la banda

Trafelata un istante, a cui tardava

Il mattino salpar, de le seconde

Prede bramosa; e ad ingannar l’attesa

Alzò per l’aure una canzon di guerra,

Cui risponder parea l’impazïente

Annitrir dei cavalli, e la montagna.

E al suolo infisse le cruente picche,

Urla mettea di scherno, e di crudele

Letizia insultatrice ai generosi

Spenti sul campo de la patria.

 

                                          Donne,

Oh, non guardate, misere!, di quelle

Aste a la punta! chè derisa e lorda

Forse ivi tale sanguina una testa,

Cui ieri ancora al mattutino addio

Di figliuole col bacio e di sorelle,

Adorando baciaste, ahi! destinata

A veleggiar; spettacolo di morte,

Del navile ai sublimi alberi in vetta!8

 

            Scende la notte: qualche prima stella

A poco a poco tremolando spicca;

Rompe i sereni al nitido orizzonte

Qualche tacito lampo irrequïeto,

Occhio di luce che si chiude e s’apre

Rapidissimamente.

 

                             Oh come cara

Fòra quest’ ora, se spuntar fra i rami

sull’alto del monte io non vedessi

L’albór di quel nascente astro crinito

A funestarla!

 

                       E con qual mai segreto

Discernimento, te lanciava Iddio,

Fuggitivo pel ciel pallido mondo?

Quando sei nato? Ove finor la tua

Vita di mille secoli traesti

Risvegliatrice di paure arcane?

Forse in te pur nasce, fatica, e muore

Una gente fugace, a cui diè vita

Inaffiata di lagrime la creta?

O se’ tu di maligni angeli un nido

Senza requie vaganti, a cui talenta

Col guardo avvelenar la poveretta

Letizia de gli umani? Ove prefiggi

Pei venturi la sinistra fuga?

Quanto ancora di genti congiurate

Agitarsi e di guerre, e vergognoso

Esular di regali orme maturi?...

 

            Chi mi narra, onde vien, come si chiama

Quel galeotto? Or con pupilla immota

Egli contempla il risalir di quello

Peregrino del cielo, e par confonda

La sua con la romita alma dell’astro:

Or si volge a quel punto ove il baleno

Con arcani caratteri di luce

Segna gli azzurri, e maledice al nembo,

Che su quell’acque infurïar non osa.

Però che un dal Golgota lontano

Per quell’onde una santa imperadrice,

Bella redía de la scoverta Croce;

E sorse nera una tempesta, ed ella

Gittò al fondo un divin chiodo,

che stette Mallevadore di perenni calme. 9

Ma quel dannato a la galera agogna

La tempesta e la morte. Al vergognoso

Remo non era la sua mano bianca

Esercitata. E s’io ne guardo il mesto

Pallor del volto, e su la nobil fronte,

La ferita recente, se del nero

Occhio contemplo la selvaggia cura,

Ben lo ravviso. E quella fronte. io certo

Vidi una sera scolorir trafitta

In una chiesa. Oh meglio era morire!

Quanto, Nello, mutato or ti riveggio

Da quel gagliardo, che scorrea sull’alba,

Tinto di spume del corsiero ansante,

Di Nicósia le vie precipitose

Verso gli spaldi sacri! E le fanciulle

Disïando balzavano dai letti,

E affacciate al balcone avean sui labbri

Quella preghiera che improvvisa il core

Pel valoroso cavaliere e bello!

Oh meglio era il morir! Chè fu ben vile

E frutto di profondo odIo il pensiero,

Che te costrinse col pudor del servo

A trascinar la tua vergine sposa

Tra le vergogne di chïoschi impuri!

Oh l’ignori la misera! Già troppa

È la sventura che le strazia il core!

 

            Ma perchè avvinghi il remo, e nel tuo sguardo

Si raccende la vita? — E dall’ardito

Volto, cui fiamma subita invermiglia,

Scuoti i negri capelli e intento ascolti?

 

            Sonò per la carena un improvviso

Commovimento, e un urlo di straniere

Favelle mescolato e di bestemmie;

Una rabbia di colpi; uno scompiglio;

Un accorrer pel cieco aere di genti.

A quando a quando di fulminea canna

Lo scoppio; un grido di morenti e un tonfo

Pei gorghi bruni di cadute salme.

 

            Oh! qui di sotto ne la buia stiva,

Chi muor? chi vive? e quale mai di sangue

Misterïoso dramma ora si compie?

Nello, non senti che qua giù si grida

In tua lingua natía? Rupper le funi

Gli schiavi. — De la carcere il lïone

Franse i cancelli, e rugge e all’atterrito

Domatore s’avventa e lo divora. –

 

            Come la turba dei mentiti amici,

Fugge dall’uomo sventurato il sonno;

E se lasso talora ei s’addormenta,

Fantasimi deformi e tenebrosi

Con gli occhi dell’afflitta anima vede,

Tale su quelle povere di Cipro

Un sopor faticoso era disceso,

Allor quando il fragor de la rivolta

Le riscosse: e balzâr per la tenèbra

Confuse in päurosi abbracciamenti.

Crebbe l’impeto e l’ira. — Una percossa

Fiaccò la porta de la muda; e amica

Voce sonò, che disse a le tremanti:

Libere! uscite — e combattete.” — Un motto

Scambiò le cerve in lëonesse. Usciro

Rapide, risolute…. a che?... non sanno.

Ma fosse pure a scendere d’un salto

Nel fondo a una voragine…. non monta:

Chè nel periglio v’è un’altera ebrezza,

E la morte sorride all’infelice,

Cui ne la vita non riman che l’onta.

 

            Va per le scale tenebrose, e i palchi

Trascorre Arnalda; in una scimitarra

Col piede inciampa, la raccoglie, e s’arma

Sente il marino aere sul fronte, e sbocca

Ne la corsia dei remiganti. In quella

Da la stiva irrompean ferocemente

I rivoltosi. — D’uno sparo il lampo

Illumina la tolda; e una confusa

Battaglia e i cento volti e la sinistra

Gioia e le pòse dell’avvinta ciurma

Un istante rischiara, e le paure

Più profonde rinnova e la tenèbra.

 

            Vide la giovinetta, o fu delirio,

Supplice in ceppi un remador le palme

Tendere ad essa, e udì chiamarsi a nome

Come ne’ giocondi?

                                In un baleno

Ella ogni cosa indovinò: lanciossi

Sul galeotto e se lo strinse al core!

 

            Novello lampo illumina la tolda,

E più cruda la mischia e più sinistro

Appare il ghigno de la serva turba:

E chi guardato in quell’istante avesse

Per la fila dei remi, avria veduto

Due crëature in un amplesso unite

E in un bacio d’amor. Ella disciolse

Nello dai nodi de la vil catena,

E congiunti pugnâr. Rade le scolte,

Atterriti i custodi, e la battaglia

Nel misterio dell’ombre impreveduta,

Rapidissima, atroce, e la favella

Diversa, a le ferite unica guida;

Sopra l’onda del mar fumando il sangue

A rivoli cadea da la galera

Dove appariva al lume de le stelle

Come una caccia di figure bianche

Che perseguíte da una gente armata

E seminuda, sull’infida tolda

Cadean trafitte, o dai raggiunti bordi

Si lanciavan nei vortici del mare.

 

            E la povera Actea, non abborrendo

I morti e il sangue ond’era molle e ingombro

De la stiva sfollata il pavimento,

Danzava al metro de le sue canzoni!

 

            “Cipro, vincemmo!” il sire di Saído

Gridò con voce a le battaglie avvezza.

Cipro, vincemmo! — I martiri insepolti

Esulteranno ne le patrie valli

Vendicati. — Ben altra opra ne resta!

Ora liberi alfin, lungo gli scogli

Costeggerem di quella curva baia,

Come pin da corsal tacitamente.

Dell’alba a le seconde aure vêr Candia

Veleggeremo. Ivi il Lïone alato,

Poi che lottò con le tempeste, dorme

Su le tarde galee sonni ozïosi:

Lui d’un tradito popolo le grida

Risveglieranno, pria che l’Ottomano

S’avventi a fulminar novellamente

Qualche nostra città. — Fratelli, al remo!

Se Diol concede, fia per noi redenta

Questa povera patria.” —

 

                                 E nel delirio,

Da quel nobile sogno affascinato,

Strinse esultando la sua sposa al core:

E la pupilla che non pianse mai,

Nel segreto versò la generosa

Stilla d’un gaudio ch’ogni gaudio avanza.

 

            Ohimè! nel mentre che a rilento move

Carca di tanta illusïon la nave;

Dopo la svolta d’una rupe appare

Un’altra nave! – “All’arme! All’arme! è quella

La galera d’Assano.”

 

                               E remigando

Cupa, silente, di vendetta anela,

Lunghesso la divisa onda lasciava

Un’orma luminosa; e da la poppa

Raggiavan sui pinacoli le lampe,

Somiglianti a due grandi occhi di bragia.

 

            Continüò per breve ora la voga,

Ai fuggitivi, a gl’inseguenti eterna

Ora d’angoscia, perocchè ogni petto,

Anche animoso, palpita al pensiero

De la morte imminente; e da la creta,

Ch’è per disfarsi, l’anima si leva

A parlare con Dio che s’avvicina.

 

            Guadagnando di spazio appressa intanto

La cacciatrice. In un balen di fiamme

Le si cingono i fianchi, e sui fugaci

Stride una pioggia di rovente piombo.

Surse un nuvolo denso, e in quell’istante

D’affannoso silenzio, sonò l’eco

De le montagne. Un lungo urto costrinse

Le gementi galere; e la commossa

Onda levossi con le mille spume

Su le teste omicide.

 

                              “All’arrembaggio!”

- Anco una pugna? Oh, non avrà il mio canto

Fastidito di sangue e di sventura;

Poi che soltanto a note di dolore

Quest’arpa mia non destinava Iddio:

Ma forse, io spero, a mantener le patrie

Speranze e l’ira, a consolar le pene

De’ miei fratelli; e intanto entro il modesto

Santuario dal cor, dove le faci

Sono i miei cari, con ignoto verso

Ella canta in segreto intimi amori.

Sai come pugni un libero coi polsi

Lividi ancora da la rea catena,

Cui sterilita la virtù del core

Non à il lungo servaggio?

 

                              E tal fu orrenda

E disperata e rapida la pugna.

E allorquando il solenne arco dei cieli,

Dove sui piani di Soría s’incurva,

L’alba dipinse con la man di gigli,

Cessâr le morti, e la galea ti parve

Cimitero natante in mezzo all’acque.

 

            Arnalda, ove ti ascondi, o dove giaci

Defunta? Assano avidamente cerca

Alcun vestigio che di te gli parli.

Forse de la nascente alba più pura

Salivi al cielo, e la crüenta piaga

Che il niveo sen di martire ti squarcia,

Ti fea cortese il guardïan severo

Del paradiso? e con aperte braccia

Ti corse la paterna ombra dinante?

 

            Muta, ferita, del pallor del cero

Che ne le chiese illumina gli altari,

Non fidente che in Dio, respira ancora

La vergine di Roca. — Il fianco posa

Molle di sangue in quell’angol riposto

Dell’asciutta carena ove il marino

Serba geloso la fulminea polve:

Quivi soletta nel silenzio attende

Rassegnata la morte.

 

                          Ahi! questo pure

Ultimo e fiero asilo è invidïato

A la diserta. Ànno odorato i falchi

De la colomba moribonda il nido.

Inoltra col mantello insanguinato

L’arabo vincitore, e nel suo sguardo

Traluce di dannata anima un lampo.

Addietro a lui due schiavi d’Etiopia

L’un con la face ne rischiara i passi

Giù per le scale, e reca l’altro un colmo

Bacil coperto di broccato d’oro.

 

            “Mia sultana d’amor, bella fra tutte

L’avventurose Uri del ciel, perdona

Se di ritardi al talamo promesso

Giungo scortese. — Non fu già mia colpa.

Pria di condurti al desïato Aremme,

Io ti cercava un dono, unico in terra,

Che vincesse ogni gemma d’Orïente.

Eccolo; e in esso il mio perdono.”

                                             E alzato

 

            Da quel bacile il vel, mise un orrendo

Riso, e di Nello discovrì la testa

Sanguinolenta.

 

                       Motto non rispose

L’inorridita vergine; nel volto

Non si mutò: si genuflesse, e al Dio

De’ suoi padri il sereno occhio volgendo,

Tolse un’arma dal cinto, e con la breve

Canna dentro a le polveri serbate

Placidamente fulminò la palla.

E viventi, e cadaveri, e chi fea

Patire, e chi pativa, e le rapaci

Galee, che a tanti affanni erano scena,

Sparvero avvolti dentro un mar di foco,

Quale fra sonni päurosi un’egra

Visïon di dolor. — Lacere l’onde

S’allontanâr in spumeggianti giri:

Per vasto tratto da le ardenti e rosse

Aure discese e crepitò sull’acque

Una pioggia di brage e di squarciate

Membra e di tronchi d’arbore fumanti.

 

            Tutto passò. — La calma, che precede

L’alba, sorride su la molle baia:

Riede pel terso aere il silenzio; e lungo

I montani sentier, la tremolante

Siepe di melarancio e di lavanda

Sveglia i profumi mattinali, e invita

Il gentil capinero, e la festiva

Lodoletta, che trae verso l’aurora;

E di vita cotanta, e da sì cupi,

Pur ora, odii agitata, altro non resta

Che una solinga nuvola di fumo

Che lambe l’acque dove fûr le navi.

Odi uno strido d’aquila, che scende

Mattiniera a la pésca: odi il maroso,

Che frange a gli orli de la ripa, e porta

Un remo, un teschio a la deserta arena:

Altro per l’infinita aura non odi;

Però che eterna è la natura, e nebbia

Vanitosa l’umane ire e gli amori.

 

            O nepote dei dogi, 10 ecco, nel mesto

Portomuto d’opere, la stanca

Voga ritorna del Lïon morente;

E l’inclite fantasme a le lor tombe

Riedono, e al sonno su guancial di polve;

Riede, qual si partía da le sue corse

Il bucintoro: — e quello che tu vedi

Vessillo immoto su la bruna antenna,

È la spoglia d’un martire; supremo

Astro, che, pria de la perpetua nebbia,

Ingemmasse di Cipro i firmamenti.

 

 




1 L’isola di Cipro, altrimenti nominata Ceraste, dai promontorii a guisa di corna, Pafia, Salaminia, Amatusia, Citereia, Macaria, ossia beata, perchè feconda e ricca d’ogni bene, è lontana sessanta miglia dalle coste di Soría, trenta dalla Cilicia, trecento da Alessandria d’Egitto. — Popolata da Cetima prollipote di Noèsoggiogata da Nino assirorapita agli Assiri da Amasi re di Egittoposseduta dagli Argivi — dai Fenicispartita fra nove re, dei quali Agapenore fabbricatore del magnifico tempio dalle cento are, che Tacito celebrò. — Malarrivata sotto de’ Tolomeiconquistata dai Romani, e taglieggiata al solito e smunta, — Nella partizione del Romano Impero, quando il mondo, fra le tante altre belle cose, era diventato un podere diviso in tre padroni, toccata in sorte ad Antonio. Da costui donata, come si dona un vezzo, a Cleopatra in cambio di un sorriso. — Caduta nelle fiacche mani degl’imperadori d’Oriente. — Da Costantino governata a mezzo di duchi, fra cui Isacco Comneno, levatosi a tiranno. —  Rapita al rapitore da Riccardo d’Inghilterra pel ragionevole motivo, che sbattuto da una burrasca gli fu niegata ospitalità. — Venduta, come una fattoria, ai cavalieri del Tempio — venne finalmente (1193) in potere, e retta, come Dio non vuole, dalla famiglia dei Lusignanidegni compaesani del duca di Atenerazza di Francia. La infelice isola beata, fra tristi e sopportabili, n’ebbe tanti da farne sedici re, — Aveano nell’impresa; pour loyauté maintenir, e furono pressochè tutti sleali. Aveano nello scudo: pour vant maintenir, e ve ne furono di prigioni, di schiavi, e splendidamente terminarono col bastardo Giacomo II. La bella vedova di costui, Caterina Cornaro, fu forzata a cederla spontaneamente alla Repubblica di Venezia sua affettuosa madre adottiva. Sotto la Serenissima passò abbastanza male ottantatrè anni — quando Selimo II per molte ragioni da conquistatore, la più fondata delle quali era che poco asceticamente gli piaceva il vin di Cipro, la volle sua; e l’ebbe; e tuttavia dai suoi posteri è governata. — Il 25 luglio del 1570 l’esercito turchesco imprese l’assedio di Nicósia. — Tentati invano dagli infedeli quindici assalti, il 9 settembre 1570 entrarono per le breccie: — quindicimila persone a fil di spada: il resto schiavi. — Una cometa n’avea minacciato ai superstiziosi la rovina. «Una nave fra le altre (scrive il SagredoMonarchi Ottomani) destinata a rallegrare il Sultano, contenea pretioso carico, et il trascelto delle bellezze di Cipro in alquante nubili donzelle. Arnalda di Roca più degna di corona che di catene, libera di animo, sebben schiava di corpo, vedendosi captiva con l’altre, condannata a satiare, dopo la crudeltà, anco la libidine ottomana, infiammatasi di generoso risentimento, accese la monitione che con ardore più vorace dei Turchi la nave con tutto il bottino incenerì. Diè fuoco al rogo dell’estinta patria per rinascere qual Fenice alla gloria del Cielo. Et fu questa l’ultima fiamma dell’esequie della capitale di così fiorito regno



* Vedi le Note in fine del canto



2 Nicósia, città fra le prime di Cipro, sta in mezzo alle terre nel vasto piano di Mezzarea, lontana dal mare ventiquattro miglia dalla parte di Salines, quindici da quella di Cerines. È divisa dal fiume Pedeo ingrossato per molti ruscelli delle vicinanze, passato da vari ponti. È circondata tutto intorno da monti che s’innalzano fino a quello di Santa Croce, il più sublime di tutti, uno dei quattro Olimpi, villeggiature degli antichi Dei. È munita di mura all’intorno con terrapieni, fosse. sortite; è forte di undici baluardi reali, uno dei quali era chiamato Costanzo. Bella di palazzi all’italiana, di piazze, di monumenti, di chiese, fra cui la maggiore Santa Sofia, edifizio gotico-bizantino, opera di Giustiniano, ora moschea; e San Domenico, ove stanno i sepolcri di molti principi della casa di Lusignano. — Illustre per nobiltà non ignava, in mezzo alla quale eminenti i conti di Roca, e di Carpasso, i signori di Said e di Suro.



3 Elena Paleologa, figlia del despoto di Morea, fu moglie a Giovanni II re quattordicesimo di Cipro (1432). Questa feroce donna ingelositasi di Maria di Patras, la più bella dama dell’Arcipelago, favorita del re, le fece cincischiare il naso e gli orecchi; e costrinse Giacomo figliuolo della povera Maria e del re, alla chierca. — Poscia maritò la propria figlia Carlotta a Giovanni secondogenito del re di Portogallo, e siccome il genero non secondava le sue mire, ella se ne sbrigò col veleno (1456).



4 Jano I (1403) terzodecimo re, fu così chiamato perchè nato a Genova, mentre suo padre Giacomo I era ivi prigione. Liberato il giovi netto coll’oro, vide alla sfortuna della nascita tener dietro l’infelicità del regno, poichè fu travagliato da guerre e devastazioni, da novella prigionia, e riscatto ruinoso.



5 Il pensiero di questo episodio dell’Actea fu suggerito da un fatto che trovasi narrato nell’opera di Anton-Maria Graziano intitolata:

«Antonii Mariæ Gratiani a Burgo Sancti Sepulcri Episcopi amerini, de Bello Cypro, Lib. V. Præteriri silentio non debet nobilis matronæ facinus. Ea cum teneri ab hostibus urbem accepisset, jamque trepidatione, ac tumultu cuncta perstreperent, proripit se domo, ut, quæ fortuna viri, quæ trium filiorum, quos pater secum in pugnam adduxerat, cognosceret; ad moenia ipsa vadentem refugentium impetus domum intrusit. Hic comperit, virum, filiosque egregie pugnantes pro patria mortem occubuisse. Tunc præceps, dolore et strepitu ingruentis in urbem tumultus, alienata prope mente, domum irrupit. Ei impuber filius eximia forma, quem unice diligebat, occurrit: quem complexa mater, diu osculo inhæsit: mox furisli percita pietate: Egone, inquit, te, fili, tam sævis hostibus vile mancipium relinquam? tu, jam jamque amplexu avulsus meo, barbarorum libidini ludibrium ibis? Simul, hæc dicens, pueri jugulum cultro transfixit, seque insuper, tribus vulneribus in pectus adactis, interfecit



6 In questi e ne’ seguenti versi si accenna alla famosa battaglia navale di Lepanto, incominciata presso i tre scogli detti Echinadi, ora Curzolari. La quale, dopo miracoli di valore, terminò colla sconfitta de’ Turchi (6 ottobre 1571), un anno dopo la rovina di Nicosia, e la presa di Cipro. La novella di quella disfatta, che fu una vera e solenne festa per l’intera Europa di allora, fu, non appena finita la giornata, mandata celerissimamente a Venezia da Veniero.



7 Propetidi erano donne della città di Amatunta, che avendo spregiata Venere e negata la sua divinità, furono punite dalla Dea col renderle insensibili all’onore e alla vergogna. Queste, secondo quello ne vien riferito dagli storici, mandavano in certi tempi determinati sulle spiaggie del mare le loro figliuole, perchè cercassero di guadagnarsi con la prostituzione qualche denaro, onde formarsi la dote: per quanto si pentissero dappoi della colpa, riacquistarono il senso del pudore.

Trog. Pomp. L. 18, c. 5.



8 Le teste dei conti di Roca furono mandate, per terrore, e per ischerno, sotto le mura dell’assediata Famagosta. (Piero Giustiniano, Storia Veneta.)



9 In una leggenda cipriotta è raccontato che la madre di Costantino, tornando da Gerusalemme per mare, dopo aver discoverta la croce, fu assalita da una fiera burrasca nel golfo di Settaglia, infame allora per naufragi. Ella, vedendo crescere il pericolo, lasciò cadere nel fondo del mare uno de’ sacri chiodi, e da quel giorno in poi, quelle acque da procellose si resero piacevoli e navigabili.



10 In questi ultimi versi intendo parlare di Bragadino, il generoso difensore di Famagosta, e della sua spoglia. Di questo fatto così dice uno storico: «Per ordine di Mustafà, Marcantonio Bragadino fu condotto in piazza nudo, colle mani e piedi legati, colla faccia volta alla colonna dove si castigano i malfattori: quivi, standosene Mustafà guardandofiera crudeltà, fu vivo scorticato. Rifulse incredibilmente in mezzo a sì tormentoso strazio la costanza e la fortezza di quell’uomo: non trasse gemiti, non mosse lamenti: confortavanlo la pietà verso Dio, e l’amore verso Cristo salvatore, il cui nome ed aiuto continuamente invocava: trapassò se non quando i tagli all’umbelico arrivarono: quando si venne, in divine lodi e preci profondendosi rendè l’anima invitta a Dio immortale, e le mortali spoglie con l’eterna e beata vita cambiò. contento il barbaro dell’aver mirato coi propri occhi scarnificato e lacero con orribil genere di tormento l’uomo fortissimo, volle anche incrudelire contro il suo cadavere. Appeso alla fune con cui stava legata la bandiera sulla piazza, ai morsi delle fiere l’offerse; poi la pelle riempiuta di fieno, ed a guisa di vivente vacca conformata, e ad ombrello sottoposta, fe’ portare a ludibrio per la città. Finalmente all’antenna d’una i galeotta sospendendola, ed a ferale spettacolo ai lidi di Cilicia e di Soria mostrandola, la condusse a Costantinopoli: affinchè quasi niun luogo fosse, ove stampati non si vedessero i vestigi della sua perfidia e crudeltà

Venezia al martire eresse un monumento.






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