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Aleardo Aleardi Canti IntraText CT - Lettura del testo |
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UN’ORA DELLA MIA GIOVINEZZA.
CARME.
A TE NINA SAREGO-ALIGHIERI GOZZADINI CHE COMPRENDI PIU’ CHE NON DICO QUESTI RICORDI DEI NOSTRI MONTI. UN’ORA DELLA MIA GIOVINEZZA
I.
Pria che sulle infelici artiche terre Scenda la notte al morïente autunno Col suo buio di mille ore; sul lembo Dell’orizzonte, pari ad un fuggiasco, Va circolando il sol per lunghi giorni D’imminente tramonto: e poi ch’è spenta L’ultima larva de la faccia d’oro, Un incessante vespero scolora L’onda e le terre, e l’aquilon ricopre Di neve alta ogni cosa, a quella guisa Che si coprono i morti. In lontananza Da le cozzanti Cicladi di ghiaccio Deriva un metro di lamenti nuovi, E spiccan su l’azzurro a poco a poco Il solitario astro del polo, e i sette Lumi dell’Orsa. Allor la battagliera Stirpe dei cigni si raduna in grembo Di recondito golfo; e detto addio Ai bianchi monti, ai gracili ginepri, A’ suoi talami d’alga, intuona il canto De la partenza, e per le nubi manda La metallica nota. In suo vïaggio Saluta i ghiacci tinti di berillo, Gli splendidi vulcani e le bollenti Polle dei Gaisèri, e il mesto giallo Degl’islandici prati; e faticando L’ala di giglio in mezzo a boreali Aurore, migra a le gioconde plaghe Dell’Orïente, a le solinghe lame Dell’adriaca pineta, ai memorandi Lauri lambiti dal vocale Eurota.
II.
Così l’anima mia, da queste opache Giornate senza gloria, agita il volo A ritroso del tempo, e migra agli anni De la sua giovinezza. Oh! mi ridona, Mi ridona, o Signore, un giorno solo De la mia giovinezza. Ero a quel tempo Sereno, audace, vergine, e rapito De l’universo. E non sapea gli spasmi De la mente superba; e non le dolci Miserie dell’amore; e non ancora Raccolto avea da que’ soavi incendi Pugni d’amara cenere, che sparsa D’una lagrima tarda ha poi cresciuto Il solitario fior del pentimento. E m’era ignota la viltà dei mille; Nè seminato ancor l’itale angosce Aveano di cicuta il chiuso campo De la mia vita. Allora le infinite Voci che a’ suoi devoti invia natura Da la terra, dal mar, da le profonde Nebulose del cielo, ad una ad una Percotevan nell’anima echeggiante Del giovinetto. Tal che a le querele D’una calandra; al vespertin tintinno De la reduce mandra; a le opaline Ali d’una libellula che danza Sovra un tappeto di palustre lemna; A un gemito di vento; al subitano Illuminarsi di soggetta villa Per un notturno lampo; a le pesanti Gocce di piova che l’april balestra, L’aure odorando di percossa polve: Via per lo mar degli esseri vogava L’agil pensiero, ed era tutta vele La navicella de lo ingegno mio.
III.
Che se talvolta m’assalian quell’ore D’una tristezza incognita, che sveglia Sul fiorir de la vita non so quale Vago desío de la lontana tomba; Quell’ore combattute da indistinte Fantasie di dolori; ore feconde Quando l’anima cresce, e nel fanciullo Lampeggia l’uomo; io conosceva il loco Del mio rifugio. Ed era un dissüeto Campestre tabernacolo di quattro Pioppi ne la severa ombra raccolto. Ivi io pregava, non so ben qual Santo; E se la brezza mormorava in alto Per le fronde, e’ parea che il prego mio Secondasser que’ pioppi. Indi partiva Lieto, gentile e forte. Oh! mi ridona, Mi ridona, o Signore, un giorno solo De la mia giovinezza. Oh! ch’io rivegga Redivivi i miei cari, i quali or tanta Erba di cimitero a me nasconde; Che nel cor reverente anco risenta La melodia de la paterna voce, E i consigli magnanimi; ch’io miri La grande, nera, vereconda e mesta Pupilla di mia madre. Oh! tu passasti Gracile peregrina in su la terra, Come raggio di sol per cupo stagno, Immacolata; e gli anni tuoi passâro, Quasi divelti pètali di rosa Gittati su rapace onda di fiume Rapidissima. E pur ne la deserta Mia cameretta ancor sento il celeste Tuo profumo di Santa. A le amorose Fibre del seno tuo quel poco attinsi Rivo di pöesia che mi feconda; E se avverrà che del figliuolo al crine Un piccioletto allôr questa conceda Italia mia; sul tuo sepolcro, madre, Quall’alloro porrò, perch’esso è tuo.
IV.
E mi ricorda d’una blanda sera Per molta età, per duri casi ormai Remotissima. Ed era il dolce tempo Quando la state muore nell’autunno; Volgea la festa di Maria nascente. Solo, soletto, in compagnia di cari Entusïasmi io giva cavalcando Per una via maravigliosa. Il forte Nome di Chiusa l’alpigian le impose: 1 * Io, da quel dì, l’appello in mio linguaggio Via de la Musa. Fra due ritte, ignude Pareti eccelse di cinerea pietra Serpe la strada candida, e la verde Onda del fiume. Passa una poana Su pel ristretto ciel: per la declive Acqua pericolando una veloce Zattera passa. Il loco à somiglianza Di Termopile; e forse alcuno attende Leonida venturo. Ivi dall’erta Ripa si elevan tuttavia gli avanzi D’un veneto fortino, ove sull’alto, Con gli occhi vòlti al Brennero, l’antico Lïon posava vigilando i moti Dell’eterno avversario. Or su que’ sassi Invece, stanco dal cammin, si sdraia Il vïennese sordido gregario; Stira le membra, del bastone esperte, Plebeamente, e accesa l’acre foglia Americana, guarda in vêr le pingui Venete valli e le lombarde, e dice: Quelli son miei poderi. Ivi tra i marmi Frange spumando l’Adige, e il saluto Sorrisogli da Trento, ultima gemma Dell’Italico lembo, assiduamente Reca a le torri de la mia Verona; Poi volge con allegro impeto al mare E a le procelle. Di lontano il rauco Canto venìa d’un carrettier tedesco Giù per la china, e mesto era. Ei pensava Forse a’ suoi monti, e a un tetto acuminato, Ove una bionda vergine sedea Filando i lini per le attese nozze. Ed io guardava a i colli ermi, e a la villa Poveretta di Rivoli, nel tristo Libro dell’uomo che si chiama Istoria, Scritta con segni di color di fuoco; Però che un giorno immansueta e bella Dea la vittoria scese; e per quei poggi, Raccolti i crini nel berretto frigio, Danzò la danza pirrica su metro Repubblicano. E poi che vide il niveo Piè nel tripudio rosseggiar di sangue, Come rosseggia a’ dì de la vendemmia La pigiatrice: ai nitidi lavacri Calò del fiume, e si deterse e rise Ferocemente, perchè l’onda mista Ad alemanne lagrime correa. La prima volta allor sentii con fieri Bàttiti arcani martellarmi il core Superbamente; e via pel dilatato Cielo dell’inquïeta anima mia Venian fuggendo a nuvole pensieri Novi, confusi, vagabondi, come Ne’ scompigliati dì de le burrasche Passan augelli non veduti in pria. Con mille voci il sottoposto fiotto Mi susurrava nobili racconti Di caduti guerrieri: i solitari Passeri che tornando in su la sera Ruotano intorno al loro asil di selce, Note metteano in guisa di sospiri, E mi parevan l’anime vaganti Dei sepolti laggiù: nè intesi al mondo Tanti strepiti mai, come in quell’ora Queta di vespro e in quel deserto alpino.
V.
Ma, in un baleno, non so come, quella Solitudine austera agli occhi miei Trasfigurossi. Adusta era la chioma A le selvette cedüe di quercia, E sui rigidi rami ordia la brina Le sue frange d’argento. Avea riarse L’ultime poe sulle pendici il verno; E solo qua e là qualche cipresso, Fedel decoro a’ miei pampinei colli, Dondolava la testa a le folate Del rovaio, com’uom colto da tristi Presentimenti. Dal nevoso dosso Del Baldo insino all’infime convalli Subitamente s’incurvò la scena A foggia di scalee d’anfitëatro; Ed una folla, non so donde uscita, Di popoli diversi d’idïoma Inondò quella cerchia, attratta al bando Di spettacolo novo. 2 Allor dai fessi Cadmici solchi sursero due schiere Di battaglieri, e cominciâro un bieco Torneo di sangue. Nuvole di fumo Ondeggiavan sui colli; e con selvaggia Eco indefessa ripetea la Chiusa L’armonia dei moschetti. I due rivali Si contendean la povertà d’un poggio, Non bastevole pure a seppellirli; Ma su quel poggio era il fatal convegno De la vittoria. A le crüente falde Vinte e perdute con crudel vicenda, Simili all’urto di falcate carra, Tempestavano splendidi e serrati I criniti dragoni, e la possanza Degli omerici fanti. Era un deliro Di rabbia, sì che l’un sull’altro spinti, I cavalli mordevano i cavalli, O, via con la criniera irta fuggendo, Seco rapian per gli eminenti, angusti Sentier di pietra i cavalier, che pari A fulminati demoni d’un salto Nell’abisso cadean. Era di morti Gremito il tristo anfitëatro. I Marmi Stillavan sangue. E se con lena inferma Qualche ferito nuotator fendea L’onda ansïoso dell’opposta riva; Feroci cacciator d’in sulle rupi, Col piombo inesorabile l’emersa Testa frangean. Solo fra tanto strazio Stava guatando immobile un superbo. Lungo e d’ebano il crin giù per le guance Pallide; fosco, come il nembo, l’occhio, E brillante di folgori; nè il sole Fronte più vasta illuminò giammai Di quell’itala fronte. Ardeagli i polsi La febbre lëonina del trïonfo; E con repressa bramosia guardava, Come fa l’uom di Corsica, se attende Fra le macchie il rival. Se non che inveco A cielo aperto su gli aperti campi Egli attendea popoli e re. Pöema Nuovo fu la sua vita; ed ogni canto Fu canto di battaglia. Or dopo lui Cavalcava la morte. Era il tramonto, E il popol vinto da la immonda arena Alzava il dito ad impetrar la vita, Gladiator moribondo. E quel fatale Spronò il corsiero; e come procellaria Sull’antenna di naufrago vascello, Da sommo l’arco del conteso poggio Cessò la strage con lo sguardo. E il vasto Anfitëatro risonò di lunghi Plausi iterati e di percosse palme. Poi fu silenzio, e tutto sparve, tranne Quella mèsse di morti. Una campana Da Rivoli sonò l’avemmaria: Allora io vidi aerea vïatrice Uscir dal tempio de la sua Corona, Cinta d’un nimbo d’iridi, la diva Signora di quei monti; e avea sembianza Di verginella che non sa del mondo. Ma posto il piè di luce in su quel campo Insanguinato, smisuratamente Si dilatâro le stellate falde Del suo manto di ciel, cosi che tutto Di sotto alle divine ali raccolse Quello infelice popolo di morti.
VI
Già il firmamento si fioría di stelle; E il ritorno chiedeami irrequïeto Con la zampa il destrier. E più di pria Visibilmente mi batteva il core Concitato. Una lagrima brillava Sulle allentate redini, nè mia La sapeva. Era forse uno dei primi Momenti arcani, quando Iddio col pianto E col viril martello del dolore Tempra l’acciar dell’anime. Di fosco Più si tingeano le crescenti nubi De’ miei pensier. Nè ancor sapea che in grembo A quel turbin d’idee si racchiudesse Il gentil lampo della Musa. Ancora Io l’ignorava, o Vergine severa. La irrefrenabil fantasia sconvolti Vedea gli aspetti delle cose; e dentro Pungeami un senso d’infantil paüra Che ben sentia degnissima di riso; Ma quel riso moriva. Una perenne Elegía di lamenti e di sospiri L’onda gemea dell’Adige in misura D’esequie. Al margin de la trista riva Scellerati ranuncoli e solatri 3 Stillanti di mortal filtro, fra loro Mormoravan parole di congiura Contro la vita. Dai pungenti ruschi, Che costeggiavan la deserta via, Pendean dipinte in porpora le bacche, Simili a gocce di recente sangue D’assassinato vïandante; e quella Che mi fería da lunge, ultima strofa Di canzone alemanna, entro il profondo Del cor scendeva a suscitar faville D’ira e torvi fantasimi. E siccome Scocca pensiero da pensier, volando Più de la luce; io mi trovai d’un tratto Sotto il Ciel di Copernico, sul piano Dei Jagelloni, su la eroica terra Di Sobieski a que’ giorni vïolata Dai cavalli d’Ucrania e da le fruste Dei selvatici Etmani. 4 Ivi a le sponde Dei litüani laghi, e sovra il campo, Libero ancora di Varsavia, vidi Guizzar le nude sciabole di cento Drappelli e gli elmi, perocchè volgea Quell’ora di funèbre ira di Dio, Che la polacca Vergine, costretta In terribil amplesso da un selvaggio Bello superbo e incoronato Scita, Si dibatteva disperatamente. 5 Povera grande! Allor che in mille chiese Di questa Europa ingenerosa, un giorno, S’inalberâr su la riversa croce Le verdi insegne d’Ottomano, e il capo Stellato di Maria fu ricoperto Di scherno; e le giannizzere cavalle Cibâr l’avena nell’avel dei Santi; Quando una lunga notte ormai su i nostri Regni pareva ricader solcata Da i tetri lampi de la turca luna, Ben co’ tuoi forti principi volasti Tu, magnanima Slava; e redentrice Coi popoli il poeta e il sacerdote Te salutâr. E che ti valse ? — Pari Al tapinello debitor plebeo, Del qual le carni, chè altro non avea, Si divideano i fërrei Quiriti; 6 Le tue gesta espïasti, e lacerate Fûr le tue membra. Povera tradita! Invan risorta dai materni boschi, Dove mugge il Bisonte, 7 a mille a mille Spiccavi i rami a provveder di lance I tuoi patrizi. E apparvero all’appello Sacro, sull’uscio de le lor capanne Palleggiando le falci, i tuoi coloni Tremendi invano. E sì che nei contesi Paduli de la Vistola. scavasti Molta tomba al nemico: e per l’opaca Selva de gli alni giacquer su la polve I lïoni di Varna. E i tuoi lancieri Fêr con le picche tentennar sul fronte La recente corona al giovin Sire. 8 Ma Dio teco non era. I padri tuoi, Al par de’ miei, peccarono di sangue Civile e di vendetta; e a poco a poco Inariditi si mutâr gli allori In ghirlande di spine ai pronipoti. E però allor che il mio spirto correa Per le vie di Varsavia, ivi a le porte Le Eumenidi ruggiano; e in mezzo a’ lampi Di lugubre eröismo, era quel grande Turbamento di un popolo, che l’ore Presènte estreme e il fato; e gli animosi Suoi cavalieri promettean sull’are D’ir per la terra, Annibali raminghi, Odio accattando contro a la feroce Roma dell’Orsa. Io non sapeva allora Quella tanta agonia; ma vôlto il guardo In parte, dove olezzano i serpilli De le lessinie praterie, 9 vedea Salir del ciel per gl’inquïeti azzurri Una corrusca nuvola, simíle A riflesso d’incendio; e in mezzo ad essa Azzuffarsi due croci, e quella greca Trïonfar la latina. Ed una voce Mi uscía dal core, che diceva: Prega, Perocchè là in quel canto de la terra Avvien per fermo qualche gran sventura.
VII.
Ed io pregai. Sorgea d’accanto a un ponte Una recente lapida a ricordo D’una povera uccisa. 10 Ivi ristetti Pregando come se tacitamente Quella sepolta mi facesse invito. Già ne sapea l’istoria. Eran più lune, Vivea colà sull’alto de la Chiusa Benedetta di grazie una fanciulla. Tre volte eventi, dacch’ell’era nata, La rondin venne a compiere le nozze Alla cornice della sua finestra. E da quel giorno mai sovra il paterno Camperello la grandine non cadde; Nè al mandorlo imprudente arse la brina I frutti; nè verun maggior dolore Osò varcarne la vegliata soglia. Avea riccia la chioma e colorata Come la buccia di castagna alpina; Molti fior di giardino avrian voluto Paragonarsi coll’aerea tinta Che azzurreggiava ne la sua pupilla; Ma ciò che forse le venìa più presso, Era il lin che fiorisce, o il ciel di sera. Sovra un balcone si educava un cespo Di gelsomino, e quando e’ si coprìa Di sue candide stelle, i primi fiori Ella offeriva a un rustico altarino Infisso al tronco d’un vetusto noce; Dava i secondi a un Alpigiano, al quale Avea già dato il cor. Beltà dicea Chi dicea Caterina. Ahi! ma sovente Quei che dice beltà, dice sventura! Avvenne un dì, ch’ella cogliea manelle D’erba sugli orli dell’abisso, e dietro Quell’Alpigian venia. Fuor del costume Torbido in cor per non so qual sospetto Ei minacciò la vergine. Si strinse Coll’atto di mimosa pudibonda Quella, sdegnata; e le falliva il piede; E qua e là battendo e ribattendo, Ruinò dall’altezza e giacque al fondo Dilanïata. Ella si spense, come Si spegne un cero per soffiar di vento: Salgono al cielo l’anima e la fiamma. Quei che passâr da la profonda via, Per lunghi giorni videro, funèbre Vessil di sangue, il vel de la caduta A una ginestra penzolar dall’alto; Poscia un mattin più non fu visto; forse Per la pietà dei miseri parenti L’angiol custode lo rapiva in cielo.
In faccia a quella lapida una brama Mi colse acuta di sapere il fato Dell’eroica mia Slava; onde con fede Animoso esclamai: «O Caterina, Sorgi, e mi narra, tu che sai, qual cosa Là di tremendo accade.» — Una persona Esile, bella, pallida, vestita Di gelsomini, si rizzò sul ponte, E mi guardò senza pupilla e disse: ”In questo giorno di Maria nascente Spenta posò la Vergine polacca Nel suo ferètro di Varsavia. A in mano Il crocefisso, lo spezzato brando E la bandiera. — Or che ti parlo è morta.”
”No. T’inganni, o fanciulla, ella è sepolta, Ma non è morta: un popolo non muore…”
Queste parole udii dietro le spalle Romper da voce che sentìa di pianto; E mi rivolsi, e te vidi, mio primo Amore, Itala Musa: eri vestita Di veli tricolori, e mi baciasti La prima volta in fronte, e da quel bacio D’improvviso sull’anima mi piovve L’aura del canto, e un’immortal speranza.
VIII.
E da quel dì cantai. L’amor, la morte, La natura, il dolor, gl’innumerati Mondi e la patria miseranda; tutte Le benigne potenze e le sinistre Del crëato m’indussero l’olimpia Febbre dei carmi; e ricusâr la veste Che non fosse armonia, che non di rime Sonasse ordita. e di cadenze elette. E misurati sul veloce o lento Ritmo del core eruppero i solinghi Canti e l’estro. Ma fioca e pudibonda Soltanto a’ rai de le indulgenti stelle Dall’inesperto labro uscía la voce, Tanto che niuno, tranne Dio, l’intese.
Bëate ore e tremende, allor che i campi Del Vero austeri discorrea la mente A spigolar qualche non tocco fiore Di poesia nascoso, e nei silenzi Origliava a raccorre un suono, un’eco Dell’inno eterno, che Natura manda Al Crëator! Allor che in regioni, A’ ribaldi inaccesse o a la fortuna, Ella vedea danzar i sospirati Fantasimi del Bello, e disperando Significarne le fuggenti grazie Piangeva. E quella lagrima piovuta Sopra la trama di sottil lavoro Incominciato, ne sperdea le, traccie; Come la grandin fa sopra i ricami, Che fra due rose tendono gl’insetti.
Nè del mio carme la mercè superba Sognai d’un nome. E che gli cal d’un nome All’usignolo? Per gentile istinto Modula il verso come Dio lo vuole, Parla all’erbe, a la luna, a la tacente Selva: contento se nei ciechi stagni La rana intanto si ristà dal metro: Poi torna al nido, che intrecciò, presago De le terrene vanità, con secche Foglie d’alloro. 11 E da quel dì t’amai Vergine. E nato di virile affanno, Mesto crebbe e virile il nostro amore, E di te indarno ingelosîr le belle Crëature, che un dì mi seminaro Di vipere e di fior la primavera Della mia vita; e stettero per anni Del mio riso signore e del mio pianto Dolcezze occulte ebbi di te, sorella, Note a pochi quaggiuso. A te fidai Speranze audaci, illusion d’amore, E segreti da morte. E tu pulisti Il verso, come si pulisce un’arma: E tendesti dell’arpa in fra le corde Corde d’un arco di battaglia antico, Acciò non molle o querulo vagisse L’inno; ma säettasse. E mi dicevi Che mai non fôra un’anima codarda, Anima di pöeta, e che sua legge È caritade: suo perpetuo fato Dir le glorie, gli affanni e le speranze, Patire e perdonar. E tu le rabbie A me temprasti per estranie terre Ramingo: e l’ardua dignità reggesti Del prigioniero; e tu mi reggerai, Fin che s’apra la tomba inesorata. Su quella tomba siediti, sorella, E tolto in mano il sapïente legno Del Nazzareno, canta a le novelle Schiatte, che innanzi ti verran passando Le libere canzon che incominciai, E la crudel malignità dei tempi Mi negò di compir. Canta quegl’inni Che pensai, ma non dissi, eccitatori D’opre gagliarde e generose. E quando Sull’obbliato mio sepolcro, l’unghia Scalpiterà degl’itali cavalli Vittorïosi, io spezzerò la pietra, Risuscitato dall’amor, volgendo Postumo canto di trionfo ai Forti, Che attendo in vita e attenderò sotterra.
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1 La Chiusa è un luogo stretto, che per circa un miglio corre fra alte e diritte rupi, formate dalle pendoci del Baldo e dai fianchi del Pastelo, 12 miglia distante da Verona sulla via che a ritroso dell’Adige mena in Tirolo. * Vedi le Note in fine del Canto. 2 La battaglia di Rivoli, paesotto vicino all’Adige accanto alla Chiusa, fu combattuta fra Napoleone e gli Austriaci il 14 Gennaio 1797, dopo quella della Corona, dov’è un tempio sacro alla Madonna venerata per tutti i dintorni. Cominciò prima dell’alba e finì alle cinque della sera. Lo sforzo maggiore si fu per vincere il monticello di Rivoli dove venne innalzata a memoria una guglia. 3 Ranunculus sceleratus, Lin. – Specie che vive per tutto, appresso alle acque correnti, infesta agli uomini e alle bestie. — Solanum nigrum — conosciuto dal popolo sotto il nome di Tossico.
4 Copernico nacque a Thorn in Polonia. – I Jagelloni furono i principi della Lituania, che per alcun tempo racolsero sotto al loro scettro anche la Polonia. — Etmano o Atamano è il nome che davasi ai capi cosacchi. — Fra le armi consuete dei quali, vi è una frusta che dicono Natraika, onde si servono a battere il cavallo e percuotere il nemico. 5 L’8 settembre 1831 cadde Varsavia e con essa la Polonia, il giorno della nascita della Madonna. 6 «Tertiis nundinis corpus rei (del debitore) in partes secanto; si plus minusve secuerint, sine fraude esto.» (XII Tav., Tav.III, Leg. XI.) 7 Il Bisonte europeo vive ancora nelle selve della Lituania. 8 Alla selva detta degli Atni vicino a Krakow il 25 febbraio 1831 fu data una fiera battaglia, in cui perirono 5000 Polacchi, e costò ai Russi il meglio dei loro ufficiali e 10,000 uomini posti fuor di combattimento.— Alla battaglia d’Igania fu sconfitta quella scelta fanteria russa, che l’imperatore, dopo la guerra della Turchia, chiamava i Lioni di Varna. 9 I monti Lessinei si trovano sul veronese, a chi sta alla Chiusa, nella direzione di Nord-est, proprio nella direzione della Polonia. 10 Ecco l’iscrizione: CATERlNA CAVALIERI DI MONTE D’ANNI 23 NUBILE IL DÌ 20 NOVEMBRE 1829 CADDE DALLA CIMA DI QUESTA RUPE E MORÌ IL PADRE DOLENTE VI PREGA D’UN REQUIEM.
Corse fama che vi fosse urtata giù dal suo damo. 11 I rosignuoli, secondo Paolo Savi nella sua Ornitologia, si costruiscono il nido di foglie secche di quercia, di leccio e di alloro. |
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