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Aleardo Aleardi
Canti

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  • LE PRIME STORIE.
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LE PRIME STORIE.

 

CANTO.


 

ALLA

SANTA MEMORIA

DI

GIORGIO

MIO PADRE

LE PRIME STORIE

 

 

CANTO

 

                Itale genti, che per via passate,

Deh! vi punga pietà; siate cortesi

Al poeta che mèndica; un severo

Iddio m’impone sotto questi pioppi

Di piangare e pregar. Io non il vostro

Oro dimando. I rapidi puledri

Che il mercadante d’Albïon stemmato

Per i prati diffusi e per le siepi

Educava a le corse, abbian quell’oro:

La melodía che da le molli scene

Spande l’oblio sugli animosi sensi;

La sapïenza d’arrischiati salti

Procaci, e i piè di piuma, e i flessuosi

Ondeggiamenti di venali forme

Pubblicate sul palco, abbian quell’oro;

Abbian cantici e plauso, abbian corone,

Le corone di Italia, o verecondi;

Chè di lauri ferace è questa terra.

Limosinante insolito e sdegnoso,

Non chieggo a voi che un obolo d’amore

Per la povera Madre.

                                Itale genti,

Che passate per via, siate cortesi

Al mendico poeta.

                             Indifferente

Passa e non bada quella folla morta;

Ahimè! tutti passâr.

                                Ài tu veduto

Ne la convalle di Siddim profonda,

Sotto il nitido ciel di Palestina,

Ài veduto brillar sinistramente

La laguna. d’Asfalte? Oh! quelle coste

Di maledetto cener seminate,

Sempre avversarie d’ogni cosa. viva;

Quell’afflitto stridir de la. cicogna,

Che agli orli de la perfida marina.

Muor sitibonda; quel sepolcro d’acque

De le cinque città di peccatori,

Dove persin quando veleggia il nembo,

Tacito passa e folgore non vibra;

Mostran con la implacata ira. del cielo

Una miseria che ti stringe il core

Amarissimamente.

                            E pure è in terra

Una. miseria ancor più luttüosa,

Uno spettacol, dove più ti pare

La vendetta di Dio significata.

È un vanitoso popolo d’imbelli

Che non à patria, ed all’ombría d’illustri

Ruine, da trecento anni riposa

Sognatore perpetüo: e ravvolto

Ne la sdruscita porpora degli avi,

Al patrio sole liberal le membra

Scalda, e beve le molli aure d’autunno,

Immemore sui campi ove pugnaro

Da lïoni i suoi padri…. A piene mani

D’elleboro spargiamo e d’infingardi

Papaveri la via.

 

                              Tutti passaro!

Musa, ove sei? Dove se’ tu, segreto

Spasimo e orgoglio mio? Forse e tu pure,

Fedelissima ieri, oggi l’amara

Del tuo cantore povertà rifuggi

E l’iroso abbandono? Oh! non a questo

Educata io t’avea, Musa dei forti

Afflitti amica. Vedila che siede,

Schiva del rombo de le vie frequenti,

Colà sul prato, ed a corona intreccia

Ramoscelli di quercia e di cipresso;

E al firmamento che si va stellando

Col tremolo di pianto occhio dimanda

Quando torni l’antico astro d’Ausonia.

 

Cessa il pianto, o dolente; a me t’appressa,

E del tuo serto, simbolo severo

Di fortezza e di morte, il crin mi cingi.

Non sono il primo, e non sarò l’estremo

Coronato che mèndica. Conforto

Chiediamo agl’inni: una gentile, arcana

Corrispondenza fra il dolore e il canto

I celesti ponean, però che tutti

Gli sventurati cantano. Ma lunge,

Lunge da noi le nebulose e viete

Favole d’un Olimpo inverecondo,

Che sotto il vel d’insuperate forme

La greca arte serbò. Non è più tempo

D’ardere incensi a Dëità defunte.

Di sotto a cespi d’odorosa menta,

Son le Driadi sepolte; e più non guida

Dïana al colmo de le quete notti

Le cerve invulnerabili e la biga

Di madreperla a far beati i sonni

Del pastore di Caria. E la convalle

Più non risponde a lo scoccar dei baci

Furtivi, od al sonante arco; dei veltri

Immortali al latrato, o a le plebee

Risa dei Fauni. Degli aurati lembi

De la conchiglia rorida di perle

Precipitò nei fondi oceänini

Già la nivea beltà di Galatea;

E dormono con lei l’eterno sonno

Nei loro avelli di corallo in pace

Le Nereidi obbliate. In noi ben altro

Iddio favella.

                        Vergine, ricordi

Quand’io varcava. con giocondo piede

Dell’infanzia la soglia? Allor non era

L’insurta Ellenia di leggiadre fole

Più novelliera, ma bensì tremende

Storie tesseva di battaglie al mondo

Plaudente. Allor d’Anacreonte il roseo

Carme, sbocciato sotto il guardo ardente

De le ionie fanciulle, abbandonato

Tacea. Ma non tacean ne le animose

Veglie d’Epiro, e per le vie d’Atene

Gli agitatori cantici di Riga. 1 *

Misero! il teschio del gentil tradito,

Cura e sospir di tessale donzelle,

Avea le porte decorato un tempo

De lo infermo Serraglio.

                                       Allor dal colle

Di Carpenísi al lume de la luna

Il martire di Suli intemerato 2

Vide le tende biancheggiar dell’oste;

Nè le contò il. magnanimo; la morte

Vide aspettarlo ne la valle, e scese

Tremendo e lieto ad incontrarla: i fieri

Suoi convitò ducento Palicari

A banchettar dopo la strage in cielo;

E tennero l’invito.

                            Allor, fra il lutto

Di Missolungi, dall’estremo amplesso

De la tua sospirata Ada diviso

Per tanta onda di mar, l’alma due volte

Immortale spiravi, addolorata

Del dolor di due popoli, cantore

D’Aroldo, all’urna d’Albïon lasciando

L’ossa e i poemi al mondo. 3

                                                 E tu cadevi

Povero, ignoto e solo, inclito fiore

D’Allobrogi, Santorre; e la caverna

D’un’isoletta di Messenia bevve

Il sangue tuo. Piangete, itale Muse!

Egli, bandito dal nativo ostello,

Ramingo illustre invidïò sovente

Al pan del mandrïano, ed or tre sassi,

Romiti, da straniera onda corrosi,

Copron quel core, che sofferse tanto.

            E tanto amò. Piangete, itale Muse! 4

Allor non già sugli odorati paschi

Dai sacri rivi dell’Alfeo lambiti,

Ricinte di conifero la negra ù

Chioma, danzando al suon della siringa,

Al simulacro dell’agreste Pane 5

Vesti e voti offerian l’arcadi donne:

Ma all’are di Maria vezzi ed anelli

Nuzïali appendeano, e la bandiera

Dell’egra patria: e si giurâro eterne

Spose ai mariti che perian da forti;

Vedove a quelli che reddian dal campo

Codardi. 6 E in noi l’Iddio stesso favella.

 

            Dal sangue de la Górgone l’alato

Pegaso nacque, e calpestando il monte

Fe’ l’Ippocrene zampillar.

                                        Dal sangue

Versato per le nostre ire fraterne

Usciro squadre di destrier guidati

Da lo straniero, che squarciar con l’ugna

Il sen d’Ausonia, onde sgorgaron fonti

D’odi profondi e di sdegnose angosce

Di amara e forte poesia. Per noi

Dolorosa, ma splendida, ma sacra

Ippocrene, la patria.

                               Or tu m’allegra,

Fidanzata immortal, le faticose

Malinconíe. Se rinnegasti un giorno

La sonnolenta eredità di carmi

Che i molli ne lasciaro arcadi padri,

Cantami un inno vero; e te non turbi

Questa tenebra folta. Allor che buia

Sopra una terra più s’addensa e fuma

Una nebbia di colpe, Iddio le invía

Il turbine che monda.

                                Attendi e spera

Chè questa. patria assai per le altrui colpe

E per le sue sofferse. Attendi e canta.

E se mai qualche impura ala di strige

Ti striscia il crine, e sventola sull’arpa;

Se col lamento di sue tristi note

Vola per gli olmi il cuculo e ti beffa;

L’inno prosegui. Dai patenti prati

Le farfallette luminose a nembi

Accorreranno a rischiararti il corso

De le armoniche dita.

                                     E la divina

Così cantò:

                      Con immortal vicenda

Uno Spirito arcano agita e caccia 7

Via per le terre e il cerchio ampio dei mari

La irrequïeta umanitade. Ed ella

Giovine di seimila anni s’avvia

Ancor, come feconda arca di vita,

Sovra il mare dei tempi a una beata

Terra promessa che non giunge mai.

All’alba del creato uno dei primi

Soli sorgeva a illuminar l’umana

Pupilla, che conosce, unica, il pianto,

Quando in pria cominciò l’avventuroso

Pellegrinaggio.

                       Un giovinetto ai lembi

Mestamente sedea del paradiso

Da sua madre perduto; era solingo

D’accanto un’ara, e Abele era il suo nome;

Di lontano ei vedea l’ultime cime

Dei felici palmeti, ed al passaggio

De le penne d’un angelo agitarsi

I padiglioni di conserte liane,

E in mezzo dominar superbamente

Il pomo reo con la fatal bellezza.

L’aura che sui vietati orli moria,

Gli recava l’odore alle celesti

Lonicere rapito, e da le valli

D’asfodillo sorrise evaporato;

Scendere a balzi per le conche d’ambra

Sentía l’onda beata, e con l’eterna

Pioggia di perle accarezzar le ottonie

Immortali, e le cerule corolle

Del simbolico loto. E dal ricinto 8

Per l’esterne vallee si propagava

Molle tenor di melodia, siccome

Entro ad ogni sbocciante urna di fiore

Germinasse una dolce arpa di cielo.

 

            E il reietto piangeva. Imperversando

Contro il sudor che gli piovea nei solchi,

Bieco il fratel dall’opera riedea;

E al mansüeto si levò di contro,

E lo percosse a morte. Era il tramonto,

E ruppe l’aure il grido d’una madre;

Chè presso la travolta ara giacea

Il cadavero primo. Ahi! quella striscia

Nova di sangue, che bruttò la terra,

Le domestiche rabbie, e i pertinaci

Combattimenti cittadini, e i nappi

Avvelenati, e sovra i palchi il lampo

De le bipenni e il lutto de le bare

A le schiatte venture inaugurava.

E con quel pio che discendeva il primo

Nell’ignoto sepolcro, iva perduta

La tanto invano lagrimata in terra

Genitura dei giusti.

                                 Il fratricida

Mirò quel sangue ed impietrò; dall’alto

Udì voce tonar misterïosa

A maledirlo; e in mezzo de la fronte

Si senti fulminato.

                               Allor dal core,

Schiuso a la colpa, la codarda emerse

Religion dei pallidi terrori;

Commosso allora, come cosa viva,

L’albero del peccato orribilmente

Su terre ed acque dilatò le fronde

Con la sua velenosa ombra inseguendo

Dei Caini le fughe, Allor da gli alti

Balzi deserti, ove attendea la preda,

Si spiccò de’ rimorsi il Cherubino,

E per caverne assiduo e per capanne,

Presso il guanciale a tormentar si assise

Dei Caini le notti. E chi primiero

Per l’ardue solitudini, pei gioghi

E i labirinti de la vergin terra

Questa raminga Umanità condusse,

Fu un maledetto.

                            O vertici solenni

Dell’Imalaia, a voi, la più superba

De le altezze di creta, ora il mio canto 9

O vastità di lande e di boscaglie,

Dove l’Eterno seminava i mesti

Licheni al renne, e citiso a le cerve;

O pelaghi segreti entro le fresche

Cavità di granito alimentati

Dal gemitío de le muscose linfe,

Onde perpetue balzano le sacre

Gangetiche fontane, e i rivoletti

De le valli divine; o tra i zaffiri

Intemerate cupole di neve

Vicine più d’ogni creata cosa

Al non velato mai riso de gli astri;

A le vostre pendici e voi le prime

Are vedeste, e guardïani al campo

I termini, e le tombe e ne le tende

Concordi i riti de le caste nozze.

 

            E quell’arcano Spirito sui vostri

Pinnacoli sublimi, esercitati

Dal lento fiocco di perpetue nevi,

Sedea custode a la mortal famiglia.

 

            Un murmure d’umane opere ascese

Da le pianure, ed iterâr le grotte

Il picchio dei martelli, 10 onde svelossi

Da le feconde viscere dei monti

Il ferro, e il disonesto oro col raggio

Fascinatore. E ripetean le rupi

La cadenza d’un maglio, ed il perenne

Salto dell’onda su le adunche pale

Di volubile ruota; e a lenti colpi

Al limitar di vïolate selve

Scender si udiva la novella scure

Sull’odoroso cortice dei pini:

Dall’orlo estremo d’imminente greppo

Tese la bionda capriola il collo

All’incognito suono, e impaurita

Scendeva a balzi; e d’una freccia il volo

Il vol troncava dell’aereo piede.

 

            Significando le segrete cure

Come dettava amor, iva per l’aura

La prima nota di strumento umano. 11

E sui rami venían dei terebinti

I pennuti cantor, maravigliando

Che fosse nata al mondo un’altra voce

Privilegiata di canzon più belle.

Sull’aperte pianure usci l’acuto

Grido di gloria paurosa al primo

Infrenatore di caval selvaggio;

E lungo le natali acque il ribelle

Nitrir del vinto, che sbuffando udia

Battere l’unghia in liberi galoppi

Le consanguinee torme ed invitarlo.

 

            E voi negli ozi de le argentee notti

Traendo il gregge per immensi prati

Errabondi pastor, voi la sagace

Elevaste pupilla ai firmamenti,

Per la zona che il sole annuo discorre

Divisando le stelle; e su la luna

Pingersi l’ombra de la curva terra

Divinando notaste; e all’improvviso

Per le lucenti e placide famiglie

Passar funesta ad attristar gli azzurri

La randaia cometa, e tratto tratto

Strisciar cadenti simulacri d’astri:

E fu de lo spïato anno per voi

Avvertito il fedel rivolgimento. 12

 

            Sfidator di paure un Caïnita

Guarda il deserto, il solitario sole,

L’agitamento de le ardenti sabbie.

E lo coglie il desío dell’avventura;

E col frugal viatico s’affida

Del suo camello pazïente al lombi;

E via pei solchi radïanti anela

A la scoperta di rimote oási.

Ode il bramito de’ sciacali; freme

Al tintinnire di serpenti novi,

E si disseta a limpide fontane

Indelibate ancor e custodite

Dall’odorosa ombría de le siringhe.

Poi quando vecchio al limitar si assise

De la nomade tenda, ai curïosi

Nipoti in cerchio raccontò frequente

Le maraviglie de le corse terre.

 

            Si squarcia il nembo, su l’eccelse vette

Fiocca la nove, su le coste scende

Ruinosa la pioggia; a cento a cento

Balzan torrenti, e ne la lor rapina

L’onda turbata del soggetto lago

Flagellano cogli arbori divelti

A le verdi eminenze. E poi che riede

L’aura pacificata, un Caïnita

Fantastico riguarda a tanto d’acque

Impedimento, che gl’invidia il tócco

De le opposte riviere. E come scorge

Agili i tronchi galleggiar su l’onda,

Con la scïenza del vogante cigno

Sale sovr’essi e naviga. E nell’acre

Voluttà del periglio egli prelude

A le fenicie antenne, all’ardimento

Che di pirata in re mutò il Normanno,

Al sangue reo de la Meloria, al lampo

De la Croce di Rodi, a le animose

Galere innumerabili d’un tempo,

Ora ahi! svanite, di Venezia mia.

 

            Ma dal vello dei talami fecondi

La tribù poveretta, innumerato

Popolo crebbe; e salutati i sacri

Sepolcreti dei padri, un mesto addio

I fratelli mandarono ai fratelli;

E impietosiro le spartite mandrie

Con lunghi mugghi di dolor le valli.

Crudo il Diritto vigilando stette

Sopra una pietra al termine del campo;

E da le labbra, che obblïar l’antico

Bacio de la partenza, uscì l’amara

Parola di — straniero. — Allora il dardo

Pago soltanto a säettar fra i giunchi

L’augel tornato a la natia palude;

E la bipenne infino allor contenta

Ad aspettar tra le silenti macchie

La vittima d’un bufalo silvano

Ruppero il petto dei cognati; e i solchi

Fumâr di colpa e pululò l’acuto

Spino a la pianta del servaggio antica.

 

            Belle e superbe fuor d’ogni misura

Eran le figlie de la terra. Un’ombra

Al cospetto di loro è de le nostre

Fanciulle la beltà ch’or c’innamora.

Di quelle ardenti peccatrici il guardo

Insidïò fin gli Angioli di Dio; 13

Sì che il comando del Signor, men forte

Fu dell’invito de la lor pupilla:

E fûr veduti scender da le sfere

Quei Messaggieri all’ora del tramonto

E raccogliere il vol su le fontane,

Ove solinga vergine bagnava

Gl’ignudi avorii dell’elette forme.

All’insolito lampo i mandrïani

Maravigliati dubitâr vicina

Una stella cadente, e in quella vece

Era un angiol caduto; a cui le penna,

Che tremolar di voluttà, piegârsi

Invalide a tentar la risalita,

E la creta beò di abbracciamenti

Proibiti ai celesti; ed ei l’eterno

Paradiso obbliâr del loro Iddio

Pel paradiso d’una rea fanciulla.

Da quelle nozze vïolente e nove

Novi giganti e vïolenti usciro;

Una catena di peccato avvinse

A la terra le stelle; e Dio fu còlto

Dal pentimento de la sua fattura. 14

 

            E quell’arcano Spirito custode

Su le cime tornò dell’Imalaia

Trepido, e attese la visibil forma,

E la misura che pigliar dovea

La vendetta di Lui che si pentiva.

 

            Ivi dall’alto, donde tanto eliso

Orïentale al mesto occhio s’apría,

Sopra ogni giogo de la terra un nembo

Vide in una prefissa ora adunarsi.

L’acutissimo udì grido d’allarme

Che si inviavan gli Angeli del mare;

E un incalzante flagellar dell’onda

Su le dighe travolte. Allor comprese

Che del supplizio umano era prefisso

Esecutor l’Oceano. 15 Oh! sol potría

Un serafin narrar lo smisurato

Affanno che patì quel solitario

Spirito allora.

                       E l’Oceán saliva.

E laggiù su le ville e le cittadi

Il terrore incombeva. Era una ressa

Di supplicanti all’are, una bestemmia

Scoccata agl’impotenti idoli e ai regi:

Erano amplessi disperati e cari;

E novità di sùbiti perdoni,

E un abbandono d’ogni dolce cosa.

Da Sibille guidati e da profeti

I popoli salíano in lamentoso

Peregrinaggio a la montagna.

                                            Invano;

Chè più di loro l’Oceán saliva;

E i palmeti ascondeva e le marmoree

Punte de le piramidi sferzava;

E la vittorïosa onda picchiando

Al nido alpin dell’aquile, spegnea

Ogni soffio di vita: e più sinistro

Del tumulto che leva una battaglia

Parve il silenzio d’ogni voce umana.

Per l’alta solitudine dell’acque

Più non vedevi se non qualche rara

Nave carca di esangui, che l’acquisto

Si contendeano di un’asciutta rupe

Qualche testa di naufrago ed alcuna

Riga d’augelli, che trattava l’aere

Con ala stanca.

                        E l’Oceán salía:

Salía lambendo le solinghe nevi,

Dove l’afflitto spirito posava,

Ond’ei pensò che l’infelice e rea

Stirpe d’Adamo, senza più ritorno,

Fosse perduta: e già battea le penne

Per risalir col fiero annunzio a Dio.

 

            Allorquando venir maraviglioso

Un palagio 16 mirò su le correnti,

Inoffeso dai fulmini. Nè vela,

Nè remo avea; dei pini di Gofféro

Era contesto, e non tenea sembianza

Di riprovato. Un’iride sorrise;

Ed ei sotto il dipinto arco passava,

Come sotto arco di trionfo il carro

D’un vincitor. Ad un pertugio apparve

Un vecchierel tenendo una colomba,

E a lei concessa libertà dell’ale,

Ne benedisse con la mano il volo.

 

            E quello Spirto allor sopra la onesta

Prua si raccolse, e timonier divino

Per l’infinito pelago condusse

Quelle primizie d’una gente nova.

 

            All’olezzar de le rinate selve,

Lungo le vaste correntíe di biondi

Fiumi svïati da le antiche ripe;

A la recente lampana d’infidi

Vulcani; intorno al glauco arco di laghi

Che lento lento inaridiano assorti

Da vanità di sotterranee chiostre,

L’ala feconda riàperse Amore, 

Così che in breve rivestì l’aspetto

Di giovinezza ed abbondò di vita

Quel d’annegati immenso cimitero,

L’orma segnâr dell’amorose corse

Su la mota le belve; ivan per l’aure

Pacificate a folleggiar gli augelli;

E a piè dei monti, dal gagliardo seno

De le facili madri uscîr l’umane

Stirpi di novo, e riapriro il triste

Libro interrotto de la Istoria. Pure,

Qual del napello se le ree vermene

Schianti sul Baldo un turbine d’agosto,

Ove il pedale al nuovo anno rispunti,

Pei fior sinistri che àn sembianza d’elmo,

Torna a fluir la velenosa essenza; 

Tal ne’ mortali le virtù maligne

Rïapparvero intere, e v’ebber figli

Maledetti dai padri, ed imprecata

La servitù per ultima sciagura; 17

V’ebber superbie tremebonde, e torri

Sórte a sfida di Dio: visser famosi

Cacciatori di popoli, che i dritti 18

Sul papiro vergâr a lor talento

Con la punta del brando; e nel delirio

Dell’orgoglio, spronato il repugnante

Corsier ne’ flutti, su la molle arena

Del mar la sanguinosa asta piantaro,

Come suggello di conquista, E i pochi

Féro piangere i molti; e fu disciolta

L’armonia de le genti, e la parola

Crebbe diversa dal natío linguaggio;

I servi irosi generar battaglie,

E le battaglie generaro i servi;

E, come valle piena di amaranti,

Spesso di sangue rosseggiò la terra.

            I trïonfati, ahi miseri! tra i sassi

Le sordide lasciando ossa fraterne

Imbianchire a le piogge, amaramente

Esularo: sull’ultima collina

Stettero immoti riguardando a lungo

Salir il fumo da le dolci case,

Poi scesero piangendo: erano carchi

D’un tesoro di rabbia ed esularo.

E tu, Spirito arcano, ivi davante

Invisibile guida ai vagabondi.

 

            Vasta e diversa era la terra. Ardenti

V’eran deserti, ove l’imperio soli

Si divideano due signor crudeli,

Il sol nell’etra ed il lïon sui campi.

V’erano sconfinate ispide lande

Senza stelo di fior, ove non altro

Si udía fra il gelo de le notti eterne,

Che il pigro moto di mal vive forme

E il crepitar dei galleggianti ghiacci

Per l’onde irremëabili del polo.

V’erano steppe inospitali e meste

Per contrade di pietra o consolate

Dal profumo dell’erbe, e assiduamente

Visitate dal nembo. Eranvi amene

Curve di golfi, ove piovean dall’alto

L’olezzo e i fior dei ventilati cedri;

Ove farfalle d’iride vestite

Amoreggiavan le bromelie; e biondi

Di mèssi indelibate ondeggiamenti,

E maraviglia d’isole dipinte

Da lo smeraldo di perpetui mirti.

 

            E l’indefesso Spirito traea,

Come in dicembre foglie aride il vento,

Quei mesti germi de l’umane schiatte

Per le nevi e le sabbie e i paradisi

Disseminando. E a lor venía compagno,

Quasi tesoro di famiglia, il puro

Pensier di Dio che i mercadanti astuti

Del Santuario mascherâr tra i veli

Fruttuosi del simbolo.

                                     Ma pria

D’abbandonarli ne le patrie nuove,

Quello Spirto notò sopra le ferree

Tavole del Destin misterïosi

Segni sì come li dettava a lui

Una voce profetica dall’alto. 

Erano i segni dei venturi umani

Commovimenti. Erano i dì fatali

Dell’avvenir, allor che dopo lunghe

Calme ringhiose, o sonnolente paci,

Spinte da nuove idee dovean le genti

Rüinar su le genti, e i figli d’Eva

Sterminare i fratelli; e sovra i campi

De le battaglie rinnovare il lutto

De la morte d’Abel coi fratricidi.

 

            E a quando a quando col girar dei soli

Si maturaro quelle ree giornate.

Con l’asta in pugno, l’ardimento in sella,

Diero al suolo natal, diero ai materni

Abituri di rovere un addio,

E convennero i biechi. E nelle etadi

Meno da noi rimote, un dì la fiera

Ora sonò che la partenza indisse

Al ritrovo in Italia. Allor s’intese

Uno strepito d’arme ir per le nebbie

Del germanico cielo. 19 Ed era il Fato

Che nei ricinti de le selve sacre

Battea gli scudi penduli a le querce,

Significando a le selvagge turbe

Che già l’alba spuntava al dì prefisso

Per discender dall’Alpi.

 

                                      E dopo molti

Secoli bui sull’infedel Soría

Si rovesciò quella bufera umana.

Dai chïoschi d’Iconio e di Nicea

Fûr visti allor dipingersi nell’aere

Folti guerrier su bianchi palafreni:

Avean mantelli del color dell’alba;

Mettean gli usberghi un tremolío di stella;

Come falda di neve una bandiera

Li precedeva, se non che nel mezzo

Da una croce vermiglia era divisa;

Fuor da la tomba di Chi sol fu giusto

Salì una voce: «Iddio lo vuole!» e al colmo

De le notti svegliò Gerusalemme;

Ed era il Fato, che raccolti a stormo

Da le castella d’Occidente i prodi,

Vòlti all’acquisto d’un divino avello,

Li sospingea vêr l’arabe meschite

A far dolenti le rivali Alambre

E l’Italia scegliea repubblicana,

A le battaglie esperta e a le procelle,

Per navalestro fra le due costiere.

Sorto a la fine il più recente sole

Di civiltade che indorò le guelfe

Torri e le ghibelline e le opulente

Itale terre, mentre ancor nell’ombra

Barbara vegetavan le straniere

Che ora in superba signoría saliro

Ingratissime alunne, a sconosciuto

Mondo mai visto da pupilla antica

Toccava in sorte d’ospitar la furia

Di quel congresso su la rena d’oro.

Ma fra quel lido e noi ruggía diffuso

Un subisso di mari, e favolosi

Uragani che fean pur ne la mente

Pallido il volto di ciascun gagliardo;

Chè un segreto dei cieli era la terra

Americana. In ligure casetta

Pure un fanciul crescea cui dentro all’alma

Brillò l’istinto di quel mondo; e vide

Ne la mente fatidica dipinta

L’opposta faccia de la terra, e vòlta

Allegra sfida all’oceán, partía

Con due nocchier securi, il Genio e Dio.

Ultimo dei profeti indi tornava

Incatenato e grande; e a piè del sire

Perfido di Castiglia e di Lëone

Gittava l’agognato oro dei regni

Indovinati, onde fumâr di tanto

Ingenuo sangue le infelici Antille.

 

            Ma prima assai, che i valichi dell’Alpi

Imparasse la rea stirpe d’Odino

Dell’italica pena esecutrice;

Amarissima e lunga era già vòlta

L’Odissea degli umani.

 

                                    Aura, che cingi

Arcanamente, come fascia d’Isi,

Il gemello pianeta, e tu mi narra

Quanto cozzo di spade, e polveroso

Cader di troni, e canti ed eloquente

Suono di lingue ignote a noi, per quella

Lontananza di giorni ài ripetuto.

Schiere di stelle, che passate, eterne

Scòlte del cielo, mi narrate voi

Quante carole mistiche, e convegni

Di congiurati, e svolgimenti occulti

Di terribili drammi; quanti strali

D’occhi lascivi o lagrimosi, in quelle

Antichissime notti illuminaste.

 

            Che se qualche ispirata orfica lira

Raggiò per quella tenebría di tempi

Con la luce del canto, a noi conteso

Moriva in solitudine il poema

Rivelatore. E l’insepolto fusto

Di solinga colonna unica resta

Ricordanza talor d’un Dio caduto,

D’un imperio che fu. Talora un roso

Marmo, segnato di parole strane

Al pellegrino sapïente indarno,

Dice che fuvvi un idïoma arcano,

Onde vennero un di certo vergate

Prose di storia od elegíe d’amore,

E d’antiche battaglie inni perduti.

 

            Tal vive ancor ne la selvaggia villa 20

Di Maïpuri un parrocchetto annoso

Che stride un verso de la spenta lingua

D’un popolo che sparve. A chi vïaggia

Per le infocate regïon che irrora

Lo spumante Orenoco, e giunge in parte,

Dove per mille attraversate rupi

L’onda perpetua muggendo si frange;

A lui dinanzi sterminata e bruna

Una muraglia di granito occorre.

Di lassù l’ammirato occhio vagheggia

Quella vergine terra, quelle cento

Isolette cresciute in mezzo al fiume,

Come conche di fiori; e l’avoltoio

Che manda l’ombra de le larghe ruote

Sopra le immense prateríe del Meta

E scorge di lontan sull’orizzonte

Qual nube scura disegnarsi in cielo

Il monte d’Unïana. Il caprimulgo

Crocida invan col verso de la fame,

Chè sopra tutto, via, per la campagna

Lontanamente mugghia la profonda

Voce dell’Orenoco. Ivi sull’alto

È un pianoro, una selva, e la caverna

D’Ataruipe. Se cacciando passa

Giù per le valli il nomade dipinto,

Il più mesto le invía de’ suoi saluti;

E l’indïana raccomanda il caro

Lattante, che si trae dopo le spalle,

A le virtù dei nobili defunti;

Poi che lassuso un consanguineo dorme

Popol di forti. Al limitar di pietra,

Spiega la benisteria i suoi corimbi

Tinti di croco; ed agita le foglie

Del candor de la luna una mimosa

E il sacro asilo di soavi essenze

La vaniglia profuma. Una severa

Malinconia possiede il sepolcreto.

Volgono già più di cent’anni, e dopo

Stragi ed esigli, e disuguali pugne,

Qui, perseguite da una gente atroce,

Si ricovraron le reliquie afflitte

Dei magnanimi Aturi; e quivi or tutti

Posano ne le loro urne di palma.

Per l’ampia soglia orïental che allegra

D’aure vivaci la città funèbre,

La cortesia de le nascenti stelle

Manda un raggio, sottil lampada eterna,

A consolarne le deserte chiostre;

E l’Orenoco rugge ai trapassati

Le selvaggie armoníe. Ma quando il capo

Sotto la moribonda ala riposi

Quel domestico augello, allor col suo

Canto supremo sarà spenta in terra

D’una lingua di eroi l’ultima voce.

 

            Quanti popoli fûro? Ove la stampa

Dei loro passi? Ove i funerei campi

Del lor riposo? Va’, chiedi alle nubi

Quante saëtte a lor maturi il grembo:

E quando fia che le dardeggin, chiedi

Qual via per lo insolcato aere terranno.

Eglino fûro. Come il fato oscuri,

Sempre da una segreta ansia agitati,

Sempre in attesa di promesse arcane,

Insci del Dio che li premea, rivolti 

A qualche stella liberal di guida,

L’onda solcâr d’incognite marine,

Sfidâr nuotando le corsie di fiumi

Innominati; scrissero con l’orma

Del piè fugace su le intatte nevi

Il passaggio dei monti; impazïenti

Di requie sempre da Babele a Menfi,

Dall’Acropoli a Roma eglino fûro.

E insiem con essi givano consorti

I Penati custodi, e la fedele

Sapïenza degli avi, e le sementi

Nel chiuso dei materni orti raccolte,

Mèssi feconde di venturi campi;

E l’ordine de’ passi accompagnando

Lungo il vïaggio, ripetean le sacre

Cadenze e i cori di natie canzoni;

E a la porta de gli ospiti seduti

Dissero i fasti di città rimote.

 

            Ma non tutti durâr quel turbinoso

Indefesso andamento; e non a tutti

Arrise il ciel perennità di vita

Rinverginata con fedel vicenda;

Ma come egli ebbe l’opera compita

Onde l’avea predestinato Iddio,

Qualche popolo stette, e solitario

Si riposò, come stanca persona,

Le nude ossa lasciando entro una valle

D’espiazïone, e dileguò silente,

Quasi vapor che nevica sul mare.

 

            Così talora un’araba famiglia

Solca il deserto, e dopo giorni e notti

Misera! avverte disperatamente

Che à fallita la via. Per ogni verso

Del Sabbioso orizzonte agita i passi;

Ma non è loco dove spunti un gramo

Cespo di palma; ma non è fontana

Che ne tempri la sete. È consumato

Il sottile vïatico dell’onda;

E batte a piombo sugli afflitti capi

L’implacabile sole. I moribondi

Si raccolgono allor; senton la tetra

Ora del fato; e assisi in cerchio, avvolti

Nei candidi mantelli, alzano un roco

Canto di esequie e spirano. L’immonda

Iena fiutando accorre all’esecrato

Banchetto; il vento ne dibatte e frange

Gli scheletri lucenti, e alfine il nembo

Mesce a la vecchia la novella polve.

Così sparîro antiche stirpi, niuna

Lasciando ai vivi ereditate; e spesso

Con loro iva in dileguo il benedetto

Lume d’alcuna verità scoverta;

Sì che per molto secolo i venturi

Brancolarono al buio a ricercarla,

E brancolano ancor. Però che ancora

Sotto il nobile ciel de la Scïenza

Splendono pochi Veri: e tal che parve

Per lungo tempo astro sicuro, ad una

Nuvoletta di dubbio è dileguato.

Tumultuando poi discende e sale

Per le zone serene un’incessante

Fatuità di fuggitive stelle

Che la pupilla abbagliano, create

Da la mortale fantasia superba.

 

            E un grande buio per quel ciel si stese

Il dì che in Alessandria un Saracino

Arse i papiri dell’antico senno.

Il plenilunio illuminò sei volte

Dei Faräoni i lidi, inargentando

Il canopico Nilo: e sempre ei vide

Per la città dal Semidio costrutta

Fra dense nubi divampar i roghi

Che consunsero tanta arte e pensiero

Venerato dai padri. E ne le notti

Quando più vivo di que’ fuochi il lampo

Su la mediterranea onda guizzava,

In fra que’ guizzi fu veduto in ridde

Un tumulto di demoni irrisori

Col piè di capro festeggiar sull’acque

Quel plebeo saturnal dell’ignoranza.

 

            Ma a ristoro del danno Iddio largíva

All’Italica terra una scintilla

Di virtù crëatrice; onde agli egregi

Che n’ebber parte penetrar fu dato

Dentro gli abissi de la Mente arcana

Che agita l’universo. E quindi uscîro

Alteri e belli di sorprese leggi,

Di saper conquistato. E dal toscano

Veglio, che offeso da la terra, ai buoni

Cieli si volse e viaggiò, scortato

Dai sapïenti numeri, per mondi

Ove non v’àn catene; insino a quello

Splendor recente d’anima comasca,

Che trattò il fulmin come cosa sua; 21 

Una schiera gentil di trovatori

Di reconditi veri, al mondo porse 

Il tesor degli antichi avi perduto,

E il crebbe. Ed ahi! sovente a le tragedie

De la sua terra l’italo scorato,

Com’ebbe ai campi del pensier commessa

La trovata semenza, ivi sedette

Indifferente, e a lo straniero ingrato

De le raccolte abbandonò la gloria.

 

            Musa d’un vecchio popolo, nei giorni

Stanchi di lunga servitude io nacqui 

D’una progenie ch’espïato à molto

E molto pianto. E a me l’ambrosio dito

Non tessea de le Grazie una ghirlanda

Di lauro; ma col fior di passïone

Sino dai giovanili anni la fronte

M’ombreggiaron le Parche, e vissi ignota

A la dolce mia terra. Oh! fortunate

Le mie sorelle, che cantâr sull’alba

Eroica d’una gente! A lor in sorte

Toccaron gli estri vergini e la casta

Ingenuità de la natía favella;

E riverito usciva il facil carme

Da le valide corde. A me speranze

Torbide d’ira e fremiti senili;

A me fucate fantasíe vestite

D’arte caduca. Onde or che a vol pel fiume

De la Storia risalgo, invan dell’estro

Mando i pallidi lampi a illuminarmi

Quelle funebri valli, e a ricomporsi

Invan le inaridite ossa scongiuro;

Poi che queste del dubbio età beffarde

Ànno spenta la fede, e nel pöeta

Il profeta morì. Pure a me giovi

Questa ingenita brama ed indomata

Non d’allettare ingenerosi sonni,

Ma di pugnar anch’io le mie battaglie

Con la spada del canto. Oh! mi sia dato

Tanto di vita e di quest’arte mia,

Che un dì si possa dir sul mio ferètro:

”Ella fe’ batter nobilmente il core

Di santi sdegni, e confortò di speme

La mesta gioventù de la sua terra.”

 

            Rapir mi sento ne lo incerto e fresco

Mattin del tempo; e vedo intra la verde

Primavera del mondo assüefatto

A gli Angeli, sorridere l’idillio

Patrïarcale; e sotto l’ampia quercia

D’ombra a le tende liberal, sedersi

I vïator del paradiso, e all’uomo,

Come ad amico porgere la mano,

Che avea pugnato ne’ remoti giorni

Contra Sàtana, e vinto: e su la sera

Movere gruppi di fanciulle uscite

A coglier acqua da le fonti, dove

I primi udian propositi di nozze

Da pastori stranier, ch’ivi le mandre

Traeano a beverar. Veggo una furia

Di cacciatori, l’inguine coperti

D’ispide pelli, scorrazzar pel fitto

De le vergini selve, e scoter l’eco

Con fiere urla e col suon de la faretra,

Sfidatori di Dio. Ma se ruina

La folgore improvvisa, esterrefatti

Ire per gli antri a consultar le scarne

Incantatrici ed intristir di rozze

Are i poggi eminenti, ove talora,

Vittima sacra a paurosi Numi,

Una scannata vergine giaceva,

Delitto novo ad espïar delitti.

 

            Ma fra l’ombre spiccar di quelle selve

Veggo pur anco splendide persone

Di magnanimi vati. Il brando al fianco,

La cetra in man, l’astro del genio in fronte,

E un Dio nel core, e gían peregrinando

A impietosir quelle selvaggie turme

Di repugnanti, e süaderle a forti

Cittadinanze, a diboscar le tetre

Piaggie; e coi blandi riti e con la pia

Carità de le tombe ingentilirle,

E col nobile canto. Ahi sventurati!

E non sapean che un Dio col legno istesso

De la croce de’ martiri composta

Volle la cetra del civil poeta!

E tu il sapesti in pria, tu venerando,

Tu bellissimo Orfeo. Scendea la notte

Sul ciel di Tracia, e tintinníano i sistri

Dell’orgia sacra; quando una congiura

Di furenti fanciulle, a cui fu tolta

La vagabonda Venere, s’avventa

Sull’egregio pudico. I lacerati

Brani celando sotto il peplo infame

Seminaron pei solchi; e poi che il tronco

Capo baciâr voluttuose, in mezzo

Lo scagliaron dell’Ebro a le correnti,

Ove nuotando a lungo, semivivo

Navigò per l’Egeo, finch’ebbe posa

Nei mirteti di Lesbo. 22 Ivi lo spiro

Lasciò immortale; e quello spiro forse

Dopo mille animando anni le forme

Non amate di Saffo, a Mitilene

Tanta fruttò malinconía di carmi.

Ma la vendetta vigile dei Numi

Perseguì quella gente, in sin che il grembo

De la terra natal la sacra testa

Del poeta non ebbe. E corse fama,

Che gli usignoli che mettean lor nido

Sul gruppo d’olmi a quell’avel custodi,

Strano canto mandassero per l’erte

Selve dell’Emo, eccitator di forti

Proponimenti, ed ai tiranni amaro.

 

            Veggo la forza rotear la clava

Sopra i popoli curvi; e la feconda

Lotta immortal fra la sudante plebe

E il patrizio guerriero. Antiche genti

Arano serve i campi dei lor padri,

Mentre le mèssi ne raccolgon poche

Famiglie nove di stranier rapaci.

Non v’à burrone ove non sorga un grigio

Castel difeso da sinistre torri,

Dove sventola ai merli il vïolento

Vessil de la conquista; e a far temuto

Il diritto crudel, dai circostanti

Alberi al vento oscillano deformi

Salme di appesi, Nei soggetti piani

Nasce al dolor, vive agli stenti, e muore

Uno squallido volgo irrequïeto

Sempre ed irriso, che talor sui solchi

Nell’ira inseminati agita i macri

Tendini a sfida, e col selvaggio erompe

Ruggito del ribelle. Un’armonia

Di catene perpetua si leva

Al sordo Olimpo; gli oppressor mendace

Dettan l’istoria degli oppressi; ed archi

Memori alzando e moli effigïate,

Fanno immortal la scellerata gloria

De’ lor trionfi; e nel timor che il tempo,

I turbini, e la insorta ira dei vinti

Non cancellino un dì quei monumenti

Da le memorie de la terra; al cielo

Affidan le lor geste, e le sventure

Inclite, e il pianto, e i favolosi amori.

Onde fu il costellato etere pieno 23

D’infelici regine, e di Meduse

Crinite d’angui; di fanciulle avvinte

A scogli inospitali, di votive

Chiome, di belve e di guerrier. Le stirpi

Scettrate qual domestico retaggio

Spartîr l’azzurro firmamento; i forti

Possedetter le stelle; e a le venture

Età con segni di siderea luce

Narrâr gli annali. di travolti imperi.

 

            Ma incompreso è il pensier che maturava

Di que’ popoli il senno; ed or di tanti

Odi ed amori, e deitadi, e meste

Magnificenze di corona e ree

Pompe spiegate col sudor dei servi,

Resta una cifra che contende il suo

Lungo segreto, fredda e trista, come

La granitica sfinge ov’è scolpita

Resta il lacero carme, onde i responsi

Ululando rendea da le sue grotte

La rapita Sibilla; il grido resta

Misterïoso d’una fama antica,

Che i figli assenna ripetendo, come

Sovra i padri passò severamente

Il giudizio di Dio.

                          E l’uomo intanto

Peregrino immortal corre anelando

La via fatale col fardel di gloria

E di dolori; e par che il suo governi

Sul vïaggio del sol. In Orïente

Nato, adulto ristè su le latine

E le celtiche terre; e forse accenna

Vecchio, sull’ala di fumanti prue

Di valicare un giorno il mansueto

Atlantico, e posar su le novelle

Care al tramonto piaggie americane.

Misero! e ignora quando fia che vegga

Fumar i tetti dell’asil promesso

Dai vaticinii, e arridere i clementi

Astri su la sperata Itaca sua.

 

            E intanto l’indefessa onda di novi

Popoli, quasi inconsapevol, passa

Sovra le tombe degli antichi.

                                           Tale

Da quattrocento e mille anni passando

Va l’acqua del Bussento in sul celato

Sepolcro d’Alarico. 24 A lui non valse

I calvi monti della Scizia, e il margo

Flessüoso dell’Elba irrigidito

Da perpetue pruïne, aver mutato

Con la terra dei cedri; e non di Numa

La città vïolata; e non i biondi

Suoi cavalieri. Perocchè la Parca

Sedea con lui su la fuggente biga

De’ suoi trionfi; ed a gli obliqui giorni

Il canape troncò, quand’ei più crudo

Flagellava i corsier de la fortuna.

I dolenti campion lo scellerato

Sire onorar di scellerate esequie.

E discavando con l’opra di mille

Itali servi nel petroso letto,

Asciutto per la devia onda del fiume,

Una sala regale; ivi l’estinto

Posero. E poi che ne le antiche sponde

Il Bussento ricorse, a fin che niuna

Del loco orma restasse, i miserandi

Servi svenâro. Ed echeggiò lo scuro

Bosco di Sila 25 ai flebili nitriti

Del corsier d’Alarico, a la piangente

Nota dei corni, al disperato grido

Dei morenti, a le danze, a la sinistra

Malinconia de le canzon dell’Elba.

 

            Ma pria che de gli umani il vïatore

Spirto le terre del!’ occaso allegri,

Sento un Dio che mel dice, Ausonia mia

Rifiorirai di generosa e forte

Vita. E tu, degli alati inni il più bello

Mio pöeta, prepara. La Speranza,

La Carità, la Fede, austere Muse

Dal Golgota discese, a te nel core

Ardono. E al tócco del divin tricordo

Presso gli olmi dell’Adige materno

Le sante ossa dei padri esulteranno.

 




1 Atanasio Riga di Tessaglia, creatore della prima Eteria, il Tirteo della moderna Grecia, ebbe il capo reciso a Costantinopoli; altri lo dicono impalato, altri affogato nel Danubio; a ogni modo, egli morì in una di queste fiere guise. Io m’attengo alla prima, che è l’opinione di Luigi Ciampolini nella sua Storia del Risorgimento della Grecia.



* Vedi le Note in fine del Canto.



2 Sull’ultimo fatto di Marco Bozzari a Carpenisi la notte del 20 agosto 1823, che costò la vita a questo grande Sullioto, vedi Luigi Ciampolini, Storia citata, pag. 250.



3 Lord Byron morì, come ognun sa, a Missolungi il 10 gennaio 1824.



4 Nell’isola di Sfacteria, dinanzi a Navarino, al limitare di una grotta, il colonnello Fabrier alzava un monumento sepolcrale di tre rozze pietre alla memoria del conte Santorre Santa Rosa piemontese, ivi caduto, dopo molto esiglio, combattendo contro gli Egiziani d’Ibrahim da semplice soldato, il 9 maggio 1825. Animoso, e dotto e infelice italiano! Ciampolini, Storia, pag, 673.



5 Pane, dio de’ cacciatori e de’ pastori, cui, per cagione di ninfe amate e morte, eran sacri il pino e le canne; era divinità tutta arcade.



6 Prodezze degne di canto fecer le donne greche nella guerra contro i Turchi. — Su questo argomento delle donne d’Arcadia vedi Cantù, vol. VI del Racconto, pag, 815.



7 L’angelo o il demone custode della schiatta umana.



8 Voglio intendere del Nelumbio Magnifico (del genere delle Ninfe, della tribù delle Nelumbonee). Quasi tutto l’Oriente da tempi antichissimi dedicò a’ proprii iddii questa pianta di bellezza impareggiabile. Lo trovi continuamente rappresentato nei monumenti geroglifici dell’Egitto. Fu detto che al cader del sole esso si tuffava nelle onde, poi lento lento risaliva, finchè allo spuntar dell’aurora emergeva di nuovo: fu però creduto che passassero fra lui e il sole misteriose corrispondenze. Nasce nelle acque tranquille e lievemente correnti, e specialmente accanto il mare.



9 L’Imalaia è la catena di montagne più vaste che abbia l’Asia centrale. In essa si contano le più alte cime del globo. I suoi acrocari si tengono per la culla dell’umana famiglia.  — Himalaia in indiano vuol dire Montagna delle nevi, soggiorno delle briine. È l’Imaus degli antichi. Nella mitologia indiana l’Himalaia o Himarat è personificato come sposo di Mena, e padre di Ganga dea del Gange, e di Darga sposa del dio Siva. — Vedi Ramajana, lib. I, cap. 36.



10 «Tubalcain, qui fuit malleator et faber in cuncta opera æris et ferri.»
Genesi, IV, 22.



11  «Et nomen fratris ejus (Jabel) Jubal: ipse fuit pater canentium cithara et organo.»
Genesi, IV, 21.



12 Tutte le storie dell’Astronomia accennano a queste osservazioni e scoperte de’ primi pastori, raccolte poi dai sacerdoti.



13 «Videntes filii Dei filias hominum, quod essent pulchræ, acceperunt sibi uxores ex omnibus, quas elegerant. »
Genesi, VI, 2.
Se anche altra interpretazione si dà di questo passo, non mi si apponga a colpa l’averlo inteso con questi pochi versi, nel modo col quale volle in un poema intenderlo il cattolico Tommaso Moore. « Gigantes autem erant super terram in diebus illis: postquam enim ingressi sunt filii Dei ad filias hominum, illæque genuerunt, isti sunt potentes a sæculo viri famosi. »
Genesi, VI, 4.



14 « Poenituit eum, quod hominem fecisset in terra. » — Genesi, VI, 6 — che il buon abate Bartolommeo Lorenzi traducea nella sua Coltivazione dei monti: « Pentito il gran Fattor di sua fattura. »
(Canto I, ott. 127.)



15 « Ecce ego adducam aquas diluvii super terram. » — Genesi, VI, 17. — Le antichissime tradizioni dell’Oriente, oltre a ciò che ne reca Mosè, acceennan tutte a questo cataclisma. Nelle leggende de’ sacerdoti caldei, Noè si scambia in Xisutro: trasfigurato con istrani racconti lo trovi nelle tradizioni egiziane. Per  gl’Indiani quegli che si salva nell’Arca è Satyavrata. Iao, in China, il primo re, comincia coll’opera di scolare le acque diluviane, che erano giunte fino alle più alte montagne. I Greci, quantunque meno rimote, pur ne serbano tracce.



16 Ò ardito la parola Palagio, perchè dalla Bibbia, che parlando della fabbricazione dell’Arca, usa l’espressione di porta, stanza, comignolo, si deriva più facilmente l’idea di palagio, che di vascello.

 



17 «Maledictus Chanaam: servus servorum erit fratribus suis.»
Genesi, IX, 25.



18 « Porro Chus genuit Nemrod; ipse coepit esse potens in terra, et erat robustus venator. »
Genesi, X, 8, 9.



19 « Armorum sonitum toto Germania coelo
                          Audiit….. »
VIRG., Geor., I.



20 Alessandro de Humboldt, nella sua opera intitolata Ansichten der Natur, racconta che sopra una sponda dell’Orenoco, dove più spesse e fragorose sono le cateratte, vicino alle incommensurabili praterie del Meta, gli fu mostrata la grotta di Ataruipe, famosa presso gl’Indiani per essere la necropoli del popolo valoroso degli Aturi, che perseguitato dagli antropofagi Caraibi, qui si riparò e morì. E termina il racconto con queste parole: « Vive ancora, cosa singolare! a Maipuri (villaggio di là non lontano) un vecchio parrocchetto, ehe gl’indigeni non arrivano a capire, perchè parla, secondo loro, il linguaggio degli Aturi.»



21 Si allude a Galileo e a Volta, e agli altri molti grandi Italiani scopritori di verità.



22 Vedi Ovidio, Metam. II.
Sul conto d’Orfeo, vedi Dizionario d’ogni Mitologia.



23 Qui si allude alle Andromede, agli Orioni, alle chiome di Berenice, e a cento altri nomi nell’antichità illustri, onde vengono nominate molte costellazioni.



24 Alarico fu sepolto nel 410 da’ suoi soldati in questa guisa in un luogo detto Vallo di Crati, dove si congiunge al fiume di questo nome il Bussento, che divide per mezzo la città di Cosenza sul napolitano.



25 Non lunge dalla città di Cosenza è la grande foresta di Sila.




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