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Aleardo Aleardi Canti IntraText CT - Lettura del testo |
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LE PRIME STORIE.
CANTO.
ALLA SANTA MEMORIA DI GIORGIO MIO PADRE LE PRIME STORIE
CANTO
Itale genti, che per via passate, Deh! vi punga pietà; siate cortesi Al poeta che mèndica; un severo Iddio m’impone sotto questi pioppi Di piangare e pregar. Io non il vostro Oro dimando. I rapidi puledri Che il mercadante d’Albïon stemmato Per i prati diffusi e per le siepi Educava a le corse, abbian quell’oro: La melodía che da le molli scene Spande l’oblio sugli animosi sensi; La sapïenza d’arrischiati salti Procaci, e i piè di piuma, e i flessuosi Ondeggiamenti di venali forme Pubblicate sul palco, abbian quell’oro; Abbian cantici e plauso, abbian corone, Le corone di Italia, o verecondi; Chè di lauri ferace è questa terra. Limosinante insolito e sdegnoso, Non chieggo a voi che un obolo d’amore Per la povera Madre. Itale genti, Che passate per via, siate cortesi Al mendico poeta. Indifferente Passa e non bada quella folla morta; Ahimè! tutti passâr. Ài tu veduto Ne la convalle di Siddim profonda, Sotto il nitido ciel di Palestina, Ài veduto brillar sinistramente La laguna. d’Asfalte? Oh! quelle coste Di maledetto cener seminate, Sempre avversarie d’ogni cosa. viva; Quell’afflitto stridir de la. cicogna, Che agli orli de la perfida marina. Muor sitibonda; quel sepolcro d’acque De le cinque città di peccatori, Dove persin quando veleggia il nembo, Tacito passa e folgore non vibra; Mostran con la implacata ira. del cielo Una miseria che ti stringe il core Amarissimamente. E pure è in terra Una. miseria ancor più luttüosa, Uno spettacol, dove più ti pare La vendetta di Dio significata. È un vanitoso popolo d’imbelli Che non à patria, ed all’ombría d’illustri Ruine, da trecento anni riposa Sognatore perpetüo: e ravvolto Ne la sdruscita porpora degli avi, Al patrio sole liberal le membra Scalda, e beve le molli aure d’autunno, Immemore sui campi ove pugnaro Da lïoni i suoi padri…. A piene mani D’elleboro spargiamo e d’infingardi Papaveri la via.
Tutti passaro! Musa, ove sei? Dove se’ tu, segreto Spasimo e orgoglio mio? Forse e tu pure, Fedelissima ieri, oggi l’amara Del tuo cantore povertà rifuggi E l’iroso abbandono? Oh! non a questo Educata io t’avea, Musa dei forti Afflitti amica. Vedila che siede, Schiva del rombo de le vie frequenti, Colà sul prato, ed a corona intreccia Ramoscelli di quercia e di cipresso; E al firmamento che si va stellando Col tremolo di pianto occhio dimanda Quando torni l’antico astro d’Ausonia.
Cessa il pianto, o dolente; a me t’appressa, E del tuo serto, simbolo severo Di fortezza e di morte, il crin mi cingi. Non sono il primo, e non sarò l’estremo Coronato che mèndica. Conforto Chiediamo agl’inni: una gentile, arcana Corrispondenza fra il dolore e il canto I celesti ponean, però che tutti Gli sventurati cantano. Ma lunge, Lunge da noi le nebulose e viete Favole d’un Olimpo inverecondo, Che sotto il vel d’insuperate forme La greca arte serbò. Non è più tempo D’ardere incensi a Dëità defunte. Di sotto a cespi d’odorosa menta, Son le Driadi sepolte; e più non guida Dïana al colmo de le quete notti Le cerve invulnerabili e la biga Di madreperla a far beati i sonni Del pastore di Caria. E la convalle Più non risponde a lo scoccar dei baci Furtivi, od al sonante arco; dei veltri Immortali al latrato, o a le plebee Risa dei Fauni. Degli aurati lembi De la conchiglia rorida di perle Precipitò nei fondi oceänini Già la nivea beltà di Galatea; E dormono con lei l’eterno sonno Nei loro avelli di corallo in pace Le Nereidi obbliate. In noi ben altro Iddio favella. Vergine, ricordi Quand’io varcava. con giocondo piede Dell’infanzia la soglia? Allor non era L’insurta Ellenia di leggiadre fole Più novelliera, ma bensì tremende Storie tesseva di battaglie al mondo Plaudente. Allor d’Anacreonte il roseo Carme, sbocciato sotto il guardo ardente De le ionie fanciulle, abbandonato Tacea. Ma non tacean ne le animose Veglie d’Epiro, e per le vie d’Atene Gli agitatori cantici di Riga. 1 * Misero! il teschio del gentil tradito, Cura e sospir di tessale donzelle, Avea le porte decorato un tempo De lo infermo Serraglio. Allor dal colle Di Carpenísi al lume de la luna Il martire di Suli intemerato 2 Vide le tende biancheggiar dell’oste; Nè le contò il. magnanimo; la morte Vide aspettarlo ne la valle, e scese Tremendo e lieto ad incontrarla: i fieri Suoi convitò ducento Palicari A banchettar dopo la strage in cielo; E tennero l’invito. Allor, fra il lutto Di Missolungi, dall’estremo amplesso De la tua sospirata Ada diviso Per tanta onda di mar, l’alma due volte Immortale spiravi, addolorata Del dolor di due popoli, cantore D’Aroldo, all’urna d’Albïon lasciando L’ossa e i poemi al mondo. 3 E tu cadevi Povero, ignoto e solo, inclito fiore D’Allobrogi, Santorre; e la caverna D’un’isoletta di Messenia bevve Il sangue tuo. Piangete, itale Muse! Egli, bandito dal nativo ostello, Ramingo illustre invidïò sovente Al pan del mandrïano, ed or tre sassi, Romiti, da straniera onda corrosi, Copron quel core, che sofferse tanto. E tanto amò. Piangete, itale Muse! 4 Allor non già sugli odorati paschi Dai sacri rivi dell’Alfeo lambiti, Ricinte di conifero la negra ù Chioma, danzando al suon della siringa, Al simulacro dell’agreste Pane 5 Vesti e voti offerian l’arcadi donne: Ma all’are di Maria vezzi ed anelli Nuzïali appendeano, e la bandiera Dell’egra patria: e si giurâro eterne Spose ai mariti che perian da forti; Vedove a quelli che reddian dal campo Codardi. 6 E in noi l’Iddio stesso favella.
Dal sangue de la Górgone l’alato Pegaso nacque, e calpestando il monte Fe’ l’Ippocrene zampillar. Dal sangue Versato per le nostre ire fraterne Usciro squadre di destrier guidati Da lo straniero, che squarciar con l’ugna Il sen d’Ausonia, onde sgorgaron fonti D’odi profondi e di sdegnose angosce Di amara e forte poesia. Per noi Dolorosa, ma splendida, ma sacra Ippocrene, la patria. Or tu m’allegra, Fidanzata immortal, le faticose Malinconíe. Se rinnegasti un giorno La sonnolenta eredità di carmi Che i molli ne lasciaro arcadi padri, Cantami un inno vero; e te non turbi Questa tenebra folta. Allor che buia Sopra una terra più s’addensa e fuma Una nebbia di colpe, Iddio le invía Il turbine che monda. Attendi e spera Chè questa. patria assai per le altrui colpe E per le sue sofferse. Attendi e canta. E se mai qualche impura ala di strige Ti striscia il crine, e sventola sull’arpa; Se col lamento di sue tristi note Vola per gli olmi il cuculo e ti beffa; L’inno prosegui. Dai patenti prati Le farfallette luminose a nembi Accorreranno a rischiararti il corso De le armoniche dita. E la divina Così cantò: Con immortal vicenda Uno Spirito arcano agita e caccia 7 Via per le terre e il cerchio ampio dei mari La irrequïeta umanitade. Ed ella Giovine di seimila anni s’avvia Ancor, come feconda arca di vita, Sovra il mare dei tempi a una beata Terra promessa che non giunge mai. All’alba del creato uno dei primi Soli sorgeva a illuminar l’umana Pupilla, che conosce, unica, il pianto, Quando in pria cominciò l’avventuroso Pellegrinaggio. Un giovinetto ai lembi Mestamente sedea del paradiso Da sua madre perduto; era solingo D’accanto un’ara, e Abele era il suo nome; Di lontano ei vedea l’ultime cime Dei felici palmeti, ed al passaggio De le penne d’un angelo agitarsi I padiglioni di conserte liane, E in mezzo dominar superbamente Il pomo reo con la fatal bellezza. L’aura che sui vietati orli moria, Gli recava l’odore alle celesti Lonicere rapito, e da le valli D’asfodillo sorrise evaporato; Scendere a balzi per le conche d’ambra Sentía l’onda beata, e con l’eterna Pioggia di perle accarezzar le ottonie Immortali, e le cerule corolle Del simbolico loto. E dal ricinto 8 Per l’esterne vallee si propagava Molle tenor di melodia, siccome Entro ad ogni sbocciante urna di fiore Germinasse una dolce arpa di cielo.
E il reietto piangeva. Imperversando Contro il sudor che gli piovea nei solchi, Bieco il fratel dall’opera riedea; E al mansüeto si levò di contro, E lo percosse a morte. Era il tramonto, E ruppe l’aure il grido d’una madre; Chè presso la travolta ara giacea Il cadavero primo. Ahi! quella striscia Nova di sangue, che bruttò la terra, Le domestiche rabbie, e i pertinaci Combattimenti cittadini, e i nappi Avvelenati, e sovra i palchi il lampo De le bipenni e il lutto de le bare A le schiatte venture inaugurava. E con quel pio che discendeva il primo Nell’ignoto sepolcro, iva perduta La tanto invano lagrimata in terra Genitura dei giusti. Il fratricida Mirò quel sangue ed impietrò; dall’alto Udì voce tonar misterïosa A maledirlo; e in mezzo de la fronte Si senti fulminato. Allor dal core, Schiuso a la colpa, la codarda emerse Religion dei pallidi terrori; Commosso allora, come cosa viva, L’albero del peccato orribilmente Su terre ed acque dilatò le fronde Con la sua velenosa ombra inseguendo Dei Caini le fughe, Allor da gli alti Balzi deserti, ove attendea la preda, Si spiccò de’ rimorsi il Cherubino, E per caverne assiduo e per capanne, Presso il guanciale a tormentar si assise Dei Caini le notti. E chi primiero Per l’ardue solitudini, pei gioghi E i labirinti de la vergin terra Questa raminga Umanità condusse, Fu un maledetto. O vertici solenni Dell’Imalaia, a voi, la più superba De le altezze di creta, ora il mio canto 9 O vastità di lande e di boscaglie, Dove l’Eterno seminava i mesti Licheni al renne, e citiso a le cerve; O pelaghi segreti entro le fresche Cavità di granito alimentati Dal gemitío de le muscose linfe, Onde perpetue balzano le sacre Gangetiche fontane, e i rivoletti De le valli divine; o tra i zaffiri Intemerate cupole di neve Vicine più d’ogni creata cosa Al non velato mai riso de gli astri; A le vostre pendici e voi le prime Are vedeste, e guardïani al campo I termini, e le tombe e ne le tende Concordi i riti de le caste nozze.
E quell’arcano Spirito sui vostri Pinnacoli sublimi, esercitati Dal lento fiocco di perpetue nevi, Sedea custode a la mortal famiglia.
Un murmure d’umane opere ascese Da le pianure, ed iterâr le grotte Il picchio dei martelli, 10 onde svelossi Da le feconde viscere dei monti Il ferro, e il disonesto oro col raggio Fascinatore. E ripetean le rupi La cadenza d’un maglio, ed il perenne Salto dell’onda su le adunche pale Di volubile ruota; e a lenti colpi Al limitar di vïolate selve Scender si udiva la novella scure Sull’odoroso cortice dei pini: Dall’orlo estremo d’imminente greppo Tese la bionda capriola il collo All’incognito suono, e impaurita Scendeva a balzi; e d’una freccia il volo Il vol troncava dell’aereo piede.
Significando le segrete cure Come dettava amor, iva per l’aura La prima nota di strumento umano. 11 E sui rami venían dei terebinti I pennuti cantor, maravigliando Che fosse nata al mondo un’altra voce Privilegiata di canzon più belle. Sull’aperte pianure usci l’acuto Grido di gloria paurosa al primo Infrenatore di caval selvaggio; E lungo le natali acque il ribelle Nitrir del vinto, che sbuffando udia Battere l’unghia in liberi galoppi Le consanguinee torme ed invitarlo.
E voi negli ozi de le argentee notti Traendo il gregge per immensi prati Errabondi pastor, voi la sagace Elevaste pupilla ai firmamenti, Per la zona che il sole annuo discorre Divisando le stelle; e su la luna Pingersi l’ombra de la curva terra Divinando notaste; e all’improvviso Per le lucenti e placide famiglie Passar funesta ad attristar gli azzurri La randaia cometa, e tratto tratto Strisciar cadenti simulacri d’astri: E fu de lo spïato anno per voi Avvertito il fedel rivolgimento. 12
Sfidator di paure un Caïnita Guarda il deserto, il solitario sole, L’agitamento de le ardenti sabbie. E lo coglie il desío dell’avventura; E col frugal viatico s’affida Del suo camello pazïente al lombi; E via pei solchi radïanti anela A la scoperta di rimote oási. Ode il bramito de’ sciacali; freme Al tintinnire di serpenti novi, E si disseta a limpide fontane Indelibate ancor e custodite Dall’odorosa ombría de le siringhe. Poi quando vecchio al limitar si assise De la nomade tenda, ai curïosi Nipoti in cerchio raccontò frequente Le maraviglie de le corse terre.
Si squarcia il nembo, su l’eccelse vette Fiocca la nove, su le coste scende Ruinosa la pioggia; a cento a cento Balzan torrenti, e ne la lor rapina L’onda turbata del soggetto lago Flagellano cogli arbori divelti A le verdi eminenze. E poi che riede L’aura pacificata, un Caïnita Fantastico riguarda a tanto d’acque Impedimento, che gl’invidia il tócco De le opposte riviere. E come scorge Agili i tronchi galleggiar su l’onda, Con la scïenza del vogante cigno Sale sovr’essi e naviga. E nell’acre Voluttà del periglio egli prelude A le fenicie antenne, all’ardimento Che di pirata in re mutò il Normanno, Al sangue reo de la Meloria, al lampo De la Croce di Rodi, a le animose Galere innumerabili d’un tempo, Ora ahi! svanite, di Venezia mia.
Ma dal vello dei talami fecondi La tribù poveretta, innumerato Popolo crebbe; e salutati i sacri Sepolcreti dei padri, un mesto addio I fratelli mandarono ai fratelli; E impietosiro le spartite mandrie Con lunghi mugghi di dolor le valli. Crudo il Diritto vigilando stette Sopra una pietra al termine del campo; E da le labbra, che obblïar l’antico Bacio de la partenza, uscì l’amara Parola di — straniero. — Allora il dardo Pago soltanto a säettar fra i giunchi L’augel tornato a la natia palude; E la bipenne infino allor contenta Ad aspettar tra le silenti macchie La vittima d’un bufalo silvano Ruppero il petto dei cognati; e i solchi Fumâr di colpa e pululò l’acuto Spino a la pianta del servaggio antica.
Belle e superbe fuor d’ogni misura Eran le figlie de la terra. Un’ombra Al cospetto di loro è de le nostre Fanciulle la beltà ch’or c’innamora. Di quelle ardenti peccatrici il guardo Insidïò fin gli Angioli di Dio; 13 Sì che il comando del Signor, men forte Fu dell’invito de la lor pupilla: E fûr veduti scender da le sfere Quei Messaggieri all’ora del tramonto E raccogliere il vol su le fontane, Ove solinga vergine bagnava Gl’ignudi avorii dell’elette forme. All’insolito lampo i mandrïani Maravigliati dubitâr vicina Una stella cadente, e in quella vece Era un angiol caduto; a cui le penna, Che tremolar di voluttà, piegârsi Invalide a tentar la risalita, E la creta beò di abbracciamenti Proibiti ai celesti; ed ei l’eterno Paradiso obbliâr del loro Iddio Pel paradiso d’una rea fanciulla. Da quelle nozze vïolente e nove Novi giganti e vïolenti usciro; Una catena di peccato avvinse A la terra le stelle; e Dio fu còlto Dal pentimento de la sua fattura. 14
E quell’arcano Spirito custode Su le cime tornò dell’Imalaia Trepido, e attese la visibil forma, E la misura che pigliar dovea La vendetta di Lui che si pentiva.
Ivi dall’alto, donde tanto eliso Orïentale al mesto occhio s’apría, Sopra ogni giogo de la terra un nembo Vide in una prefissa ora adunarsi. L’acutissimo udì grido d’allarme Che si inviavan gli Angeli del mare; E un incalzante flagellar dell’onda Su le dighe travolte. Allor comprese Che del supplizio umano era prefisso Esecutor l’Oceano. 15 Oh! sol potría Un serafin narrar lo smisurato Affanno che patì quel solitario Spirito allora. E l’Oceán saliva. E laggiù su le ville e le cittadi Il terrore incombeva. Era una ressa Di supplicanti all’are, una bestemmia Scoccata agl’impotenti idoli e ai regi: Erano amplessi disperati e cari; E novità di sùbiti perdoni, E un abbandono d’ogni dolce cosa. Da Sibille guidati e da profeti I popoli salíano in lamentoso Peregrinaggio a la montagna. Invano; Chè più di loro l’Oceán saliva; E i palmeti ascondeva e le marmoree Punte de le piramidi sferzava; E la vittorïosa onda picchiando Al nido alpin dell’aquile, spegnea Ogni soffio di vita: e più sinistro Del tumulto che leva una battaglia Parve il silenzio d’ogni voce umana. Per l’alta solitudine dell’acque Più non vedevi se non qualche rara Nave carca di esangui, che l’acquisto Si contendeano di un’asciutta rupe Qualche testa di naufrago ed alcuna Riga d’augelli, che trattava l’aere Con ala stanca. E l’Oceán salía: Salía lambendo le solinghe nevi, Dove l’afflitto spirito posava, Ond’ei pensò che l’infelice e rea Stirpe d’Adamo, senza più ritorno, Fosse perduta: e già battea le penne Per risalir col fiero annunzio a Dio.
Allorquando venir maraviglioso Un palagio 16 mirò su le correnti, Inoffeso dai fulmini. Nè vela, Nè remo avea; dei pini di Gofféro Era contesto, e non tenea sembianza Di riprovato. Un’iride sorrise; Ed ei sotto il dipinto arco passava, Come sotto arco di trionfo il carro D’un vincitor. Ad un pertugio apparve Un vecchierel tenendo una colomba, E a lei concessa libertà dell’ale, Ne benedisse con la mano il volo.
E quello Spirto allor sopra la onesta Prua si raccolse, e timonier divino Per l’infinito pelago condusse Quelle primizie d’una gente nova.
All’olezzar de le rinate selve, Lungo le vaste correntíe di biondi Fiumi svïati da le antiche ripe; A la recente lampana d’infidi Vulcani; intorno al glauco arco di laghi Che lento lento inaridiano assorti Da vanità di sotterranee chiostre, L’ala feconda riàperse Amore, Così che in breve rivestì l’aspetto Di giovinezza ed abbondò di vita Quel d’annegati immenso cimitero, L’orma segnâr dell’amorose corse Su la mota le belve; ivan per l’aure Pacificate a folleggiar gli augelli; E a piè dei monti, dal gagliardo seno De le facili madri uscîr l’umane Stirpi di novo, e riapriro il triste Libro interrotto de la Istoria. Pure, Qual del napello se le ree vermene Schianti sul Baldo un turbine d’agosto, Ove il pedale al nuovo anno rispunti, Pei fior sinistri che àn sembianza d’elmo, Torna a fluir la velenosa essenza; Tal ne’ mortali le virtù maligne Rïapparvero intere, e v’ebber figli Maledetti dai padri, ed imprecata La servitù per ultima sciagura; 17 V’ebber superbie tremebonde, e torri Sórte a sfida di Dio: visser famosi Cacciatori di popoli, che i dritti 18 Sul papiro vergâr a lor talento Con la punta del brando; e nel delirio Dell’orgoglio, spronato il repugnante Corsier ne’ flutti, su la molle arena Del mar la sanguinosa asta piantaro, Come suggello di conquista, E i pochi Féro piangere i molti; e fu disciolta L’armonia de le genti, e la parola Crebbe diversa dal natío linguaggio; I servi irosi generar battaglie, E le battaglie generaro i servi; E, come valle piena di amaranti, Spesso di sangue rosseggiò la terra. I trïonfati, ahi miseri! tra i sassi Le sordide lasciando ossa fraterne Imbianchire a le piogge, amaramente Esularo: sull’ultima collina Stettero immoti riguardando a lungo Salir il fumo da le dolci case, Poi scesero piangendo: erano carchi D’un tesoro di rabbia ed esularo. E tu, Spirito arcano, ivi davante Invisibile guida ai vagabondi.
Vasta e diversa era la terra. Ardenti V’eran deserti, ove l’imperio soli Si divideano due signor crudeli, Il sol nell’etra ed il lïon sui campi. V’erano sconfinate ispide lande Senza stelo di fior, ove non altro Si udía fra il gelo de le notti eterne, Che il pigro moto di mal vive forme E il crepitar dei galleggianti ghiacci Per l’onde irremëabili del polo. V’erano steppe inospitali e meste Per contrade di pietra o consolate Dal profumo dell’erbe, e assiduamente Visitate dal nembo. Eranvi amene Curve di golfi, ove piovean dall’alto L’olezzo e i fior dei ventilati cedri; Ove farfalle d’iride vestite Amoreggiavan le bromelie; e biondi Di mèssi indelibate ondeggiamenti, E maraviglia d’isole dipinte Da lo smeraldo di perpetui mirti.
E l’indefesso Spirito traea, Come in dicembre foglie aride il vento, Quei mesti germi de l’umane schiatte Per le nevi e le sabbie e i paradisi Disseminando. E a lor venía compagno, Quasi tesoro di famiglia, il puro Pensier di Dio che i mercadanti astuti Del Santuario mascherâr tra i veli Fruttuosi del simbolo. Ma pria D’abbandonarli ne le patrie nuove, Quello Spirto notò sopra le ferree Tavole del Destin misterïosi Segni sì come li dettava a lui Una voce profetica dall’alto. Erano i segni dei venturi umani Commovimenti. Erano i dì fatali Dell’avvenir, allor che dopo lunghe Calme ringhiose, o sonnolente paci, Spinte da nuove idee dovean le genti Rüinar su le genti, e i figli d’Eva Sterminare i fratelli; e sovra i campi De le battaglie rinnovare il lutto De la morte d’Abel coi fratricidi.
E a quando a quando col girar dei soli Si maturaro quelle ree giornate. Con l’asta in pugno, l’ardimento in sella, Diero al suolo natal, diero ai materni Abituri di rovere un addio, E convennero i biechi. E nelle etadi Meno da noi rimote, un dì la fiera Ora sonò che la partenza indisse Al ritrovo in Italia. Allor s’intese Uno strepito d’arme ir per le nebbie Del germanico cielo. 19 Ed era il Fato Che nei ricinti de le selve sacre Battea gli scudi penduli a le querce, Significando a le selvagge turbe Che già l’alba spuntava al dì prefisso Per discender dall’Alpi.
E dopo molti Secoli bui sull’infedel Soría Si rovesciò quella bufera umana. Dai chïoschi d’Iconio e di Nicea Fûr visti allor dipingersi nell’aere Folti guerrier su bianchi palafreni: Avean mantelli del color dell’alba; Mettean gli usberghi un tremolío di stella; Come falda di neve una bandiera Li precedeva, se non che nel mezzo Da una croce vermiglia era divisa; Fuor da la tomba di Chi sol fu giusto Salì una voce: «Iddio lo vuole!» e al colmo De le notti svegliò Gerusalemme; Ed era il Fato, che raccolti a stormo Da le castella d’Occidente i prodi, Vòlti all’acquisto d’un divino avello, Li sospingea vêr l’arabe meschite A far dolenti le rivali Alambre E l’Italia scegliea repubblicana, A le battaglie esperta e a le procelle, Per navalestro fra le due costiere. Sorto a la fine il più recente sole Di civiltade che indorò le guelfe Torri e le ghibelline e le opulente Itale terre, mentre ancor nell’ombra Barbara vegetavan le straniere Che ora in superba signoría saliro Ingratissime alunne, a sconosciuto Mondo mai visto da pupilla antica Toccava in sorte d’ospitar la furia Di quel congresso su la rena d’oro. Ma fra quel lido e noi ruggía diffuso Un subisso di mari, e favolosi Uragani che fean pur ne la mente Pallido il volto di ciascun gagliardo; Chè un segreto dei cieli era la terra Americana. In ligure casetta Pure un fanciul crescea cui dentro all’alma Brillò l’istinto di quel mondo; e vide Ne la mente fatidica dipinta L’opposta faccia de la terra, e vòlta Allegra sfida all’oceán, partía Con due nocchier securi, il Genio e Dio. Ultimo dei profeti indi tornava Incatenato e grande; e a piè del sire Perfido di Castiglia e di Lëone Gittava l’agognato oro dei regni Indovinati, onde fumâr di tanto Ingenuo sangue le infelici Antille.
Ma prima assai, che i valichi dell’Alpi Imparasse la rea stirpe d’Odino Dell’italica pena esecutrice; Amarissima e lunga era già vòlta L’Odissea degli umani.
Aura, che cingi Arcanamente, come fascia d’Isi, Il gemello pianeta, e tu mi narra Quanto cozzo di spade, e polveroso Cader di troni, e canti ed eloquente Suono di lingue ignote a noi, per quella Lontananza di giorni ài ripetuto. Schiere di stelle, che passate, eterne Scòlte del cielo, mi narrate voi Quante carole mistiche, e convegni Di congiurati, e svolgimenti occulti Di terribili drammi; quanti strali D’occhi lascivi o lagrimosi, in quelle Antichissime notti illuminaste.
Che se qualche ispirata orfica lira Raggiò per quella tenebría di tempi Con la luce del canto, a noi conteso Moriva in solitudine il poema Rivelatore. E l’insepolto fusto Di solinga colonna unica resta Ricordanza talor d’un Dio caduto, D’un imperio che fu. Talora un roso Marmo, segnato di parole strane Al pellegrino sapïente indarno, Dice che fuvvi un idïoma arcano, Onde vennero un di certo vergate Prose di storia od elegíe d’amore, E d’antiche battaglie inni perduti.
Tal vive ancor ne la selvaggia villa 20 Di Maïpuri un parrocchetto annoso Che stride un verso de la spenta lingua D’un popolo che sparve. A chi vïaggia Per le infocate regïon che irrora Lo spumante Orenoco, e giunge in parte, Dove per mille attraversate rupi L’onda perpetua muggendo si frange; A lui dinanzi sterminata e bruna Una muraglia di granito occorre. Di lassù l’ammirato occhio vagheggia Quella vergine terra, quelle cento Isolette cresciute in mezzo al fiume, Come conche di fiori; e l’avoltoio Che manda l’ombra de le larghe ruote Sopra le immense prateríe del Meta E scorge di lontan sull’orizzonte Qual nube scura disegnarsi in cielo Il monte d’Unïana. Il caprimulgo Crocida invan col verso de la fame, Chè sopra tutto, via, per la campagna Lontanamente mugghia la profonda Voce dell’Orenoco. Ivi sull’alto È un pianoro, una selva, e la caverna D’Ataruipe. Se cacciando passa Giù per le valli il nomade dipinto, Il più mesto le invía de’ suoi saluti; E l’indïana raccomanda il caro Lattante, che si trae dopo le spalle, A le virtù dei nobili defunti; Poi che lassuso un consanguineo dorme Popol di forti. Al limitar di pietra, Spiega la benisteria i suoi corimbi Tinti di croco; ed agita le foglie Del candor de la luna una mimosa E il sacro asilo di soavi essenze La vaniglia profuma. Una severa Malinconia possiede il sepolcreto. Volgono già più di cent’anni, e dopo Stragi ed esigli, e disuguali pugne, Qui, perseguite da una gente atroce, Si ricovraron le reliquie afflitte Dei magnanimi Aturi; e quivi or tutti Posano ne le loro urne di palma. Per l’ampia soglia orïental che allegra D’aure vivaci la città funèbre, La cortesia de le nascenti stelle Manda un raggio, sottil lampada eterna, A consolarne le deserte chiostre; E l’Orenoco rugge ai trapassati Le selvaggie armoníe. Ma quando il capo Sotto la moribonda ala riposi Quel domestico augello, allor col suo Canto supremo sarà spenta in terra D’una lingua di eroi l’ultima voce.
Quanti popoli fûro? Ove la stampa Dei loro passi? Ove i funerei campi Del lor riposo? Va’, chiedi alle nubi Quante saëtte a lor maturi il grembo: E quando fia che le dardeggin, chiedi Qual via per lo insolcato aere terranno. Eglino fûro. Come il fato oscuri, Sempre da una segreta ansia agitati, Sempre in attesa di promesse arcane, Insci del Dio che li premea, rivolti A qualche stella liberal di guida, L’onda solcâr d’incognite marine, Sfidâr nuotando le corsie di fiumi Innominati; scrissero con l’orma Del piè fugace su le intatte nevi Il passaggio dei monti; impazïenti Di requie sempre da Babele a Menfi, Dall’Acropoli a Roma eglino fûro. E insiem con essi givano consorti I Penati custodi, e la fedele Sapïenza degli avi, e le sementi Nel chiuso dei materni orti raccolte, Mèssi feconde di venturi campi; E l’ordine de’ passi accompagnando Lungo il vïaggio, ripetean le sacre Cadenze e i cori di natie canzoni; E a la porta de gli ospiti seduti Dissero i fasti di città rimote.
Ma non tutti durâr quel turbinoso Indefesso andamento; e non a tutti Arrise il ciel perennità di vita Rinverginata con fedel vicenda; Ma come egli ebbe l’opera compita Onde l’avea predestinato Iddio, Qualche popolo stette, e solitario Si riposò, come stanca persona, Le nude ossa lasciando entro una valle D’espiazïone, e dileguò silente, Quasi vapor che nevica sul mare.
Così talora un’araba famiglia Solca il deserto, e dopo giorni e notti Misera! avverte disperatamente Che à fallita la via. Per ogni verso Del Sabbioso orizzonte agita i passi; Ma non è loco dove spunti un gramo Cespo di palma; ma non è fontana Che ne tempri la sete. È consumato Il sottile vïatico dell’onda; E batte a piombo sugli afflitti capi L’implacabile sole. I moribondi Si raccolgono allor; senton la tetra Ora del fato; e assisi in cerchio, avvolti Nei candidi mantelli, alzano un roco Canto di esequie e spirano. L’immonda Iena fiutando accorre all’esecrato Banchetto; il vento ne dibatte e frange Gli scheletri lucenti, e alfine il nembo Mesce a la vecchia la novella polve. Così sparîro antiche stirpi, niuna Lasciando ai vivi ereditate; e spesso Con loro iva in dileguo il benedetto Lume d’alcuna verità scoverta; Sì che per molto secolo i venturi Brancolarono al buio a ricercarla, E brancolano ancor. Però che ancora Sotto il nobile ciel de la Scïenza Splendono pochi Veri: e tal che parve Per lungo tempo astro sicuro, ad una Nuvoletta di dubbio è dileguato. Tumultuando poi discende e sale Per le zone serene un’incessante Fatuità di fuggitive stelle Che la pupilla abbagliano, create Da la mortale fantasia superba.
E un grande buio per quel ciel si stese Il dì che in Alessandria un Saracino Arse i papiri dell’antico senno. Il plenilunio illuminò sei volte Dei Faräoni i lidi, inargentando Il canopico Nilo: e sempre ei vide Per la città dal Semidio costrutta Fra dense nubi divampar i roghi Che consunsero tanta arte e pensiero Venerato dai padri. E ne le notti Quando più vivo di que’ fuochi il lampo Su la mediterranea onda guizzava, In fra que’ guizzi fu veduto in ridde Un tumulto di demoni irrisori Col piè di capro festeggiar sull’acque Quel plebeo saturnal dell’ignoranza.
Ma a ristoro del danno Iddio largíva All’Italica terra una scintilla Di virtù crëatrice; onde agli egregi Che n’ebber parte penetrar fu dato Dentro gli abissi de la Mente arcana Che agita l’universo. E quindi uscîro Alteri e belli di sorprese leggi, Di saper conquistato. E dal toscano Veglio, che offeso da la terra, ai buoni Cieli si volse e viaggiò, scortato Dai sapïenti numeri, per mondi Ove non v’àn catene; insino a quello Splendor recente d’anima comasca, Che trattò il fulmin come cosa sua; 21 Una schiera gentil di trovatori Di reconditi veri, al mondo porse Il tesor degli antichi avi perduto, E il crebbe. Ed ahi! sovente a le tragedie De la sua terra l’italo scorato, Com’ebbe ai campi del pensier commessa La trovata semenza, ivi sedette Indifferente, e a lo straniero ingrato De le raccolte abbandonò la gloria.
Musa d’un vecchio popolo, nei giorni Stanchi di lunga servitude io nacqui D’una progenie ch’espïato à molto E molto pianto. E a me l’ambrosio dito Non tessea de le Grazie una ghirlanda Di lauro; ma col fior di passïone Sino dai giovanili anni la fronte M’ombreggiaron le Parche, e vissi ignota A la dolce mia terra. Oh! fortunate Le mie sorelle, che cantâr sull’alba Eroica d’una gente! A lor in sorte Toccaron gli estri vergini e la casta Ingenuità de la natía favella; E riverito usciva il facil carme Da le valide corde. A me speranze Torbide d’ira e fremiti senili; A me fucate fantasíe vestite D’arte caduca. Onde or che a vol pel fiume De la Storia risalgo, invan dell’estro Mando i pallidi lampi a illuminarmi Quelle funebri valli, e a ricomporsi Invan le inaridite ossa scongiuro; Poi che queste del dubbio età beffarde Ànno spenta la fede, e nel pöeta Il profeta morì. Pure a me giovi Questa ingenita brama ed indomata Non d’allettare ingenerosi sonni, Ma di pugnar anch’io le mie battaglie Con la spada del canto. Oh! mi sia dato Tanto di vita e di quest’arte mia, Che un dì si possa dir sul mio ferètro: ”Ella fe’ batter nobilmente il core Di santi sdegni, e confortò di speme La mesta gioventù de la sua terra.”
Rapir mi sento ne lo incerto e fresco Mattin del tempo; e vedo intra la verde Primavera del mondo assüefatto A gli Angeli, sorridere l’idillio Patrïarcale; e sotto l’ampia quercia D’ombra a le tende liberal, sedersi I vïator del paradiso, e all’uomo, Come ad amico porgere la mano, Che avea pugnato ne’ remoti giorni Contra Sàtana, e vinto: e su la sera Movere gruppi di fanciulle uscite A coglier acqua da le fonti, dove I primi udian propositi di nozze Da pastori stranier, ch’ivi le mandre Traeano a beverar. Veggo una furia Di cacciatori, l’inguine coperti D’ispide pelli, scorrazzar pel fitto De le vergini selve, e scoter l’eco Con fiere urla e col suon de la faretra, Sfidatori di Dio. Ma se ruina La folgore improvvisa, esterrefatti Ire per gli antri a consultar le scarne Incantatrici ed intristir di rozze Are i poggi eminenti, ove talora, Vittima sacra a paurosi Numi, Una scannata vergine giaceva, Delitto novo ad espïar delitti.
Ma fra l’ombre spiccar di quelle selve Veggo pur anco splendide persone Di magnanimi vati. Il brando al fianco, La cetra in man, l’astro del genio in fronte, E un Dio nel core, e gían peregrinando A impietosir quelle selvaggie turme Di repugnanti, e süaderle a forti Cittadinanze, a diboscar le tetre Piaggie; e coi blandi riti e con la pia Carità de le tombe ingentilirle, E col nobile canto. Ahi sventurati! E non sapean che un Dio col legno istesso De la croce de’ martiri composta Volle la cetra del civil poeta! E tu il sapesti in pria, tu venerando, Tu bellissimo Orfeo. Scendea la notte Sul ciel di Tracia, e tintinníano i sistri Dell’orgia sacra; quando una congiura Di furenti fanciulle, a cui fu tolta La vagabonda Venere, s’avventa Sull’egregio pudico. I lacerati Brani celando sotto il peplo infame Seminaron pei solchi; e poi che il tronco Capo baciâr voluttuose, in mezzo Lo scagliaron dell’Ebro a le correnti, Ove nuotando a lungo, semivivo Navigò per l’Egeo, finch’ebbe posa Nei mirteti di Lesbo. 22 Ivi lo spiro Lasciò immortale; e quello spiro forse Dopo mille animando anni le forme Non amate di Saffo, a Mitilene Tanta fruttò malinconía di carmi. Ma la vendetta vigile dei Numi Perseguì quella gente, in sin che il grembo De la terra natal la sacra testa Del poeta non ebbe. E corse fama, Che gli usignoli che mettean lor nido Sul gruppo d’olmi a quell’avel custodi, Strano canto mandassero per l’erte Selve dell’Emo, eccitator di forti Proponimenti, ed ai tiranni amaro.
Veggo la forza rotear la clava Sopra i popoli curvi; e la feconda Lotta immortal fra la sudante plebe E il patrizio guerriero. Antiche genti Arano serve i campi dei lor padri, Mentre le mèssi ne raccolgon poche Famiglie nove di stranier rapaci. Non v’à burrone ove non sorga un grigio Castel difeso da sinistre torri, Dove sventola ai merli il vïolento Vessil de la conquista; e a far temuto Il diritto crudel, dai circostanti Alberi al vento oscillano deformi Salme di appesi, Nei soggetti piani Nasce al dolor, vive agli stenti, e muore Uno squallido volgo irrequïeto Sempre ed irriso, che talor sui solchi Nell’ira inseminati agita i macri Tendini a sfida, e col selvaggio erompe Ruggito del ribelle. Un’armonia Di catene perpetua si leva Al sordo Olimpo; gli oppressor mendace Dettan l’istoria degli oppressi; ed archi Memori alzando e moli effigïate, Fanno immortal la scellerata gloria De’ lor trionfi; e nel timor che il tempo, I turbini, e la insorta ira dei vinti Non cancellino un dì quei monumenti Da le memorie de la terra; al cielo Affidan le lor geste, e le sventure Inclite, e il pianto, e i favolosi amori. Onde fu il costellato etere pieno 23 D’infelici regine, e di Meduse Crinite d’angui; di fanciulle avvinte A scogli inospitali, di votive Chiome, di belve e di guerrier. Le stirpi Scettrate qual domestico retaggio Spartîr l’azzurro firmamento; i forti Possedetter le stelle; e a le venture Età con segni di siderea luce Narrâr gli annali. di travolti imperi.
Ma incompreso è il pensier che maturava Di que’ popoli il senno; ed or di tanti Odi ed amori, e deitadi, e meste Magnificenze di corona e ree Pompe spiegate col sudor dei servi, Resta una cifra che contende il suo Lungo segreto, fredda e trista, come La granitica sfinge ov’è scolpita Resta il lacero carme, onde i responsi Ululando rendea da le sue grotte La rapita Sibilla; il grido resta Misterïoso d’una fama antica, Che i figli assenna ripetendo, come Sovra i padri passò severamente Il giudizio di Dio. E l’uomo intanto Peregrino immortal corre anelando La via fatale col fardel di gloria E di dolori; e par che il suo governi Sul vïaggio del sol. In Orïente Nato, adulto ristè su le latine E le celtiche terre; e forse accenna Vecchio, sull’ala di fumanti prue Di valicare un giorno il mansueto Atlantico, e posar su le novelle Care al tramonto piaggie americane. Misero! e ignora quando fia che vegga Fumar i tetti dell’asil promesso Dai vaticinii, e arridere i clementi Astri su la sperata Itaca sua.
E intanto l’indefessa onda di novi Popoli, quasi inconsapevol, passa Sovra le tombe degli antichi. Tale Da quattrocento e mille anni passando Va l’acqua del Bussento in sul celato Sepolcro d’Alarico. 24 A lui non valse I calvi monti della Scizia, e il margo Flessüoso dell’Elba irrigidito Da perpetue pruïne, aver mutato Con la terra dei cedri; e non di Numa La città vïolata; e non i biondi Suoi cavalieri. Perocchè la Parca Sedea con lui su la fuggente biga De’ suoi trionfi; ed a gli obliqui giorni Il canape troncò, quand’ei più crudo Flagellava i corsier de la fortuna. I dolenti campion lo scellerato Sire onorar di scellerate esequie. E discavando con l’opra di mille Itali servi nel petroso letto, Asciutto per la devia onda del fiume, Una sala regale; ivi l’estinto Posero. E poi che ne le antiche sponde Il Bussento ricorse, a fin che niuna Del loco orma restasse, i miserandi Servi svenâro. Ed echeggiò lo scuro Bosco di Sila 25 ai flebili nitriti Del corsier d’Alarico, a la piangente Nota dei corni, al disperato grido Dei morenti, a le danze, a la sinistra Malinconia de le canzon dell’Elba.
Ma pria che de gli umani il vïatore Spirto le terre del!’ occaso allegri, Sento un Dio che mel dice, Ausonia mia Rifiorirai di generosa e forte Vita. E tu, degli alati inni il più bello Mio pöeta, prepara. La Speranza, La Carità, la Fede, austere Muse Dal Golgota discese, a te nel core Ardono. E al tócco del divin tricordo Presso gli olmi dell’Adige materno Le sante ossa dei padri esulteranno.
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1 Atanasio Riga di Tessaglia, creatore della prima Eteria, il Tirteo della moderna Grecia, ebbe il capo reciso a Costantinopoli; altri lo dicono impalato, altri affogato nel Danubio; a ogni modo, egli morì in una di queste fiere guise. Io m’attengo alla prima, che è l’opinione di Luigi Ciampolini nella sua Storia del Risorgimento della Grecia. * Vedi le Note in fine del Canto. 2 Sull’ultimo fatto di Marco Bozzari a Carpenisi la notte del 20 agosto 1823, che costò la vita a questo grande Sullioto, vedi Luigi Ciampolini, Storia citata, pag. 250. 3 Lord Byron morì, come ognun sa, a Missolungi il 10 gennaio 1824. 4 Nell’isola di Sfacteria, dinanzi a Navarino, al limitare di una grotta, il colonnello Fabrier alzava un monumento sepolcrale di tre rozze pietre alla memoria del conte Santorre Santa Rosa piemontese, ivi caduto, dopo molto esiglio, combattendo contro gli Egiziani d’Ibrahim da semplice soldato, il 9 maggio 1825. Animoso, e dotto e infelice italiano! Ciampolini, Storia, pag, 673. 5 Pane, dio de’ cacciatori e de’ pastori, cui, per cagione di ninfe amate e morte, eran sacri il pino e le canne; era divinità tutta arcade. 6 Prodezze degne di canto fecer le donne greche nella guerra contro i Turchi. — Su questo argomento delle donne d’Arcadia vedi Cantù, vol. VI del Racconto, pag, 815. 7 L’angelo o il demone custode della schiatta umana. 8 Voglio intendere del Nelumbio Magnifico (del genere delle Ninfe, della tribù delle Nelumbonee). Quasi tutto l’Oriente da tempi antichissimi dedicò a’ proprii iddii questa pianta di bellezza impareggiabile. Lo trovi continuamente rappresentato nei monumenti geroglifici dell’Egitto. Fu detto che al cader del sole esso si tuffava nelle onde, poi lento lento risaliva, finchè allo spuntar dell’aurora emergeva di nuovo: fu però creduto che passassero fra lui e il sole misteriose corrispondenze. Nasce nelle acque tranquille e lievemente correnti, e specialmente accanto il mare. 9 L’Imalaia è la catena di montagne più vaste che abbia l’Asia centrale. In essa si contano le più alte cime del globo. I suoi acrocari si tengono per la culla dell’umana famiglia. — Himalaia in indiano vuol dire Montagna delle nevi, soggiorno delle briine. È l’Imaus degli antichi. Nella mitologia indiana l’Himalaia o Himarat è personificato come sposo di Mena, e padre di Ganga dea del Gange, e di Darga sposa del dio Siva. — Vedi Ramajana, lib. I, cap. 36. 10 «Tubalcain, qui fuit malleator et faber in cuncta opera æris et ferri.» Genesi, IV, 22. 11 «Et nomen fratris ejus (Jabel) Jubal: ipse fuit pater canentium cithara et organo.» Genesi, IV, 21. 12 Tutte le storie dell’Astronomia accennano a queste osservazioni e scoperte de’ primi pastori, raccolte poi dai sacerdoti. 13 «Videntes filii Dei filias hominum, quod essent pulchræ, acceperunt sibi uxores ex omnibus, quas elegerant. » Genesi, VI, 2. Se anche altra interpretazione si dà di questo passo, non mi si apponga a colpa l’averlo inteso con questi pochi versi, nel modo col quale volle in un poema intenderlo il cattolico Tommaso Moore. « Gigantes autem erant super terram in diebus illis: postquam enim ingressi sunt filii Dei ad filias hominum, illæque genuerunt, isti sunt potentes a sæculo viri famosi. » Genesi, VI, 4. 14 « Poenituit eum, quod hominem fecisset in terra. » — Genesi, VI, 6 — che il buon abate Bartolommeo Lorenzi traducea nella sua Coltivazione dei monti: « Pentito il gran Fattor di sua fattura. » (Canto I, ott. 127.) 15 « Ecce ego adducam aquas diluvii super terram. » — Genesi, VI, 17. — Le antichissime tradizioni dell’Oriente, oltre a ciò che ne reca Mosè, acceennan tutte a questo cataclisma. Nelle leggende de’ sacerdoti caldei, Noè si scambia in Xisutro: trasfigurato con istrani racconti lo trovi nelle tradizioni egiziane. Per gl’Indiani quegli che si salva nell’Arca è Satyavrata. Iao, in China, il primo re, comincia coll’opera di scolare le acque diluviane, che erano giunte fino alle più alte montagne. I Greci, quantunque meno rimote, pur ne serbano tracce. 16 Ò ardito la parola Palagio, perchè dalla Bibbia, che parlando della fabbricazione dell’Arca, usa l’espressione di porta, stanza, comignolo, si deriva più facilmente l’idea di palagio, che di vascello.
17 «Maledictus Chanaam: servus servorum erit fratribus suis.» Genesi, IX, 25. 18 « Porro Chus genuit Nemrod; ipse coepit esse potens in terra, et erat robustus venator. » Genesi, X, 8, 9. 19 « Armorum sonitum toto Germania coelo Audiit….. » VIRG., Geor., I. 20 Alessandro de Humboldt, nella sua opera intitolata Ansichten der Natur, racconta che sopra una sponda dell’Orenoco, dove più spesse e fragorose sono le cateratte, vicino alle incommensurabili praterie del Meta, gli fu mostrata la grotta di Ataruipe, famosa presso gl’Indiani per essere la necropoli del popolo valoroso degli Aturi, che perseguitato dagli antropofagi Caraibi, qui si riparò e morì. E termina il racconto con queste parole: « Vive ancora, cosa singolare! a Maipuri (villaggio di là non lontano) un vecchio parrocchetto, ehe gl’indigeni non arrivano a capire, perchè parla, secondo loro, il linguaggio degli Aturi.» 21 Si allude a Galileo e a Volta, e agli altri molti grandi Italiani scopritori di verità. 22 Vedi Ovidio, Metam. II. Sul conto d’Orfeo, vedi Dizionario d’ogni Mitologia. 23 Qui si allude alle Andromede, agli Orioni, alle chiome di Berenice, e a cento altri nomi nell’antichità illustri, onde vengono nominate molte costellazioni. 24 Alarico fu sepolto nel 410 da’ suoi soldati in questa guisa in un luogo detto Vallo di Crati, dove si congiunge al fiume di questo nome il Bussento, che divide per mezzo la città di Cosenza sul napolitano. 25 Non lunge dalla città di Cosenza è la grande foresta di Sila. |
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