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Aleardo Aleardi Canti IntraText CT - Lettura del testo |
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IL MONTE CIRCELLO CANTO
PONGO SUL SEPOLCRO DI CARLO TROIA QUESTO CANTO CHE VIVENDO EBBE CARO IL MONTE CIRCELLO
CANTO
Alfine il tormentato aere si calma, E in un rimoto lampeggío dilegua La congiura dei nembi. Irrequïeto Tergendo de la molle ala le piume, Scuote i fogliami che gli fêro ombrello L’augelletto, e giocondo vola via: Manda il ramo una stilla, e par che pianga Dell’ospite cantor la dipartita. Nuvole d’oro di fugaci insetti, Nati il mattino e al vespero già vecchi, Quasi vispa e sottil polvere alata Riedono ai balli vorticosi; e il capo Mortificato dal flagel dei venti Rïalzando, le candide ninfee Tornan regine de la lor palude. L’aura che novamente s’inzaffira, Odorosa pei dittami percossi E dai lavacri turbinosi astersa, Ne le purpuree lontananze al guardo Ogni rimoto päesel consente. È quell’ora gentil, che rassomiglia Ad un bacio di pace; a quel soave Bacio di pace, che talor ponesti Sul mio fronte sdegnoso, Itala mia.
Questo speco lasciam, che ne protesse Da la súbita pioggia, e del Circello 1* Or meco ascendi su la nuda vetta, Là, da recenti folgori solcata.
Addio, nata dal sole e da la bionda 2 Ocëanide! simbolo vezzoso Di ver tremendi, addio, sarmata Circe, Adorabile e rea fascinatrice. Più non germoglia su le tue scogliere L’argentina alberella, onde spiccavi Le magiche vermene: e da la pietra Litorana sparîr le portentose Cifre negli aurei plenilunî incise Tra una cerchia di fatüe fiammelle, Onde i gorghi profondi e le vaganti Rëíne de lo spazio interrogavi Lontanissime stelle; e scongiurate Da la virtù di quelle cifre arcane Con un balen ti rispondean dal cielo. Dal tuo colle d’esilio i scellerati Fiori sparîro, e i pòllini maligni Che fuggendo rapivi a le montagne De la tua Colco di veleni ricca E di tragedie; donde poi stillavi L’egre bevande di virtù nimiche, Che imperituro meritâro un carme Quando assopîr la regia Itaca volpe: Sparîr le porte di piropo; gli ampi Di gemme tempestati appartamenti, E l’alte sale di cristallo, ov’era Dal riflesso fedel centuplicata Di tue convulse voluttà la scena. Ogn’incanto svanì, tranne quest’uno Paradiso di terre e di marine Che si nomina Italia, e malïardo Vince il desío d’ogni pupilla umana.
Ieri su la raccolta ora de’ vespri Del Circello volgendo a le nembose Cime lo sguardo, vidi il laureato Fantasima d’un veglio ire baciando Le antiche are del sol, qual chi commosso Torna a dimore per ricordi care. Di rapito era il volto; era l’intonsa Canizie cinta da la benda greca, Era di poveretto il vestimento. Ei procedea, come fa il cieco; innanzi Tentando l’aura con un’arpa argiva, Che luminose avea le corde, e il suono Pari a quell’arpe, onde si udîro, a giorni Ben divisi da noi, soavemente Di Lipari i giardini armonizzati, E di musica piene eran le brezze Che gonfiavan la vela ai pescadori. Com’ei s’assise in faccia a la marina, Toccò le corde, e per virtude arcana Visibilmente uscivano le note In mille forme di scintille d’oro Che volando salieno ai firmamenti. Lo riconobbi tosto. Era l’Antico Che alla Terra narrò l’ira d’Achille E il generoso Prïamide avvinto A la biga selvaggia e strascinato Ne la fuga dei tessali cavalli Per i funebri campi invan difesi: Quei che sedè sull’errabonda prua Dell’Itaco a ridirne i fortunosi Veleggiamenti, e le vendette e il senno; Che nei silenzi de la giovin terra Fu solitario imperador del canto; Cui fu spento il poter de la pupilla, Forse perchè da le superbe altezze, Dove il genio si leva, avea mirato In troppo audace vicinanza Iddio. Surse quel Greco, e la serena fronte Reclinò sull’abisso, e con l’acuto Fischio de’ venti, e col muggir dell’onde Parve la glorïosa arpa accordasse: Poi da le labbra gli sgorgaron inni Inconcessi ai mortali; ed ogni sua Malinconica nota era pöema: Ma questi sol de lo ispirato carme A me l’invidiosa aura assentiva Nobili accenti: 3 ”Vaghe anime umane, Povere navicelle avventurose Che navigate su l’arcano e amaro Oceano di speranze e di desiri Che appellan vita; oh! non vi punga mai Cupidità di perigliarvi in questo Paradiso di Circe ammalïate. È voluttade un pauroso scoglio Fascinatore, a cui naufraghe vanno Le più ferventi creature e belle; Nè le costiere sicule, o le cento Isole illustri che l’Egeo flagella, Han più torbido mare e più sinistro Di quel del core, allor che la tempesta Rugge dei sensi a togliere le ingenue Serenitadi; e l’intelletto langue; E dall’anima vinta esce la belva Crudele, insazïabile, codarda: Onde poscia del solo oro la turpe Onnipotenza; e su le tombe l’atea Irrisïone a la seconda vita: Onde l’ignavia cittadina, e il vile Compatimento d’ogni rea catena; E afflitta la virtude; e dei gagliardi Le congiure impotenti, ed incompresa Del pöeta la franca alma e la bile.”
Non trepidare, Itala mia; da quelle Vette di pietra l’incantesmo omai È sparito. Sparì quel re mendico, La cui stracciata tunica valea Cento stemmate porpore: non altro Resta di lui, che un ramoscel d’alloro, Surto improvviso là dov’ei sedea, E quell’allôr si curverà in corona Quando in Italia sfolgori un pöeta.
Vieni, allegrezza mia. Lassù di questa Nobile terra e del tuo ciel nativo Favelleremo, e in un pensier rapite, Quali due frecce rapide ad un modo Saliranno le nostre anime a Dio, Come nel giorno che ne vinse amore. Vedi là quella valle interminata Che lungo la toscana onda si spiega, Quasi tappeto di smeraldi adorno, Che de le molli deità marine L’orma attenda odorosa? Essa è di venti Oblïate cittadi il cimitero; È la palude, che dal Ponto à nome. 4 Sì placida s’allunga., e da sì dense Famiglie di vivaci erbe sorrisa, Che ti pare una Tempe, a cui sol manchi Il venturoso abitatore. E pure Tra i solchi rei do la Saturnia terra Cresce perenne una virtù funesta Che si chiama la Morte. — — Allor che ne le Meste per tanta luce ore d’estate Il sole incombe assiduamente ai campi, Traggono a mille qui, come la dura Fame ne li consiglia, i mietitori; Ed àn figura di color che vanno Dolorosi all’esiglio; e già le brune Pupille il velenato aëre contrista. Qui non la nota d’amoroso augello Quell’anime consola, e non allegra Niuna canzone dei natali Abruzzi Le patetiche bande. Taciturni Falcian le mèssi di signori ignoti; E quando la sudata opra è compita, Riedono taciturni; e sol talora La passïone dei ritorni addoppia Col domestico suon la cornamusa. Ahi! ma non riedon tutti; e v’à chi siede Moribondo in un solco; e col supremo Sguardo ricerca d’un fedel parente Che la mercè de la sua vita arrechi A la tremula madre, e la parola Del figliuol che non torna. E mentre muore Così solo e deserto, ode lontano I vïatori, cui misura i passi Col domestico suon la cornamusa. E allor che nei venturi anni discende A côr le mèssi un orfanello, e sente Tremar sotto un manipolo la falce, Lagrima e pensa: Questa spiga forse Crebbe su le insepolte ossa paterne.
Mutiam dolore. Sull’estremo lembo De la cerula baia, ove i fastosi Avi ozïâr nei placidi manieri, Ermo, bruno, sinistro èvvi un castello. Quando il corsaro fe’ quest’ acque infami, La päura lo eresse. Ivi da lunghi Anni una fila d’augurosi corvi È condannata a cingere volando Ogni mattin le torri: ivi sui merli, Fingendo il suono di cadente scure, La più flebile fischia ala di vento: Ivi pare di sangue incolorata L’onda che sempre ne corrode il fondo: Poi che una sera sul perfido ponte, A consumare un’opera di sangue, In sembianza di blando ospite stette Il Tradimento. 5 Vuoi saperne il nome? O fida come il sol, tu che non sai Che sia tradire, deh! ségnati in prima Col segno de la croce, Itala mia. È il castello d’Astura. Un giovinetto Pallido, e bello, con la chioma d’oro, Con la pupilla del color del mare, Con un viso gentil da sventurato, Toccò la sponda dopo il lungo e mesto Remigar de la fuga. Avea la sveva Stella d’argento sul cimiero azzurro, Avea l’aquila sveva in sul mantello; E quantunque affidar non lo dovesse, Corradino di Svevia era il suo nome. Il nipote a’ superbi imperatori Perseguito venia limosinando Una sola di sonno ora quïeta. E qui nel sonno ci fu tradito; e quivi Per quanto affaticato occhio si posi, Non trova mai da quella notte il sonno. La più bella città de le marine Vide fremendo fluttuar un velo Funereo su la piazza: e una bipenne Calar sul ceppo, ove posava un capo Con la pupilla del color del mare, Pallido, altero, e con la chioma d’oro. E vide un guanto trasvolar dal palco Sulla livida folla; e non fu scorto Chi ’l raccogliesse. Ma nel dì segnato Che da le torri sicule tonâro Come Arcangeli i Vespri; ei fu veduto Allor quel guanto, quasi mano viva, Ghermir la fune che sonò l’appello Dei beffardi Angioíni innanzi a Dio. Come dilegua una cadente stella, Mutò zona lo svevo astro e disparve. E gemendo l’avita aquila volse Per morire al natío Reno le piume; Ma sul Reno natío era un castello, E sul freddo verone era una madre, Che lagrimava nell’attesa amara: ”Nobile augello che volando vai, Se vieni da la dolce itala terra, Dimmi, ài veduto il figlio mio?” ”Lo vidi; Era biondo, era bianco, era bëato, Sotto l’arco d’un tempio era sepolto.”
E tu, bella del carme ascoltatrice, S’io ti contristo, a me perdona, eterno Novellier di sventure. Apresi ad una Lagrima di rugiada il vedovile Fior del giacinto; e per sbocciar dal core, Necessità di pianto à l’inno mio. Ma di’: sull’ampia terra una conosci Valle felice, ove giammai non sia L’eco sonata d’un lamento umano? Dimmi, conosci una beata aiuola, Sovra cui non cadesse una dolente Stilla di queste crëature stanche? Pure ne’ tuoi fissando occhi sereni Combatterò contro le innate e pronte Malinconie, si che men lento voli Per la mia terra, e meno afflitto, il carme.
Ultima, vêr lo ciel de le sultane, 6 Mira là in fondo Terracina. Quale A’ dì festivi di Muran le belle D’una piumetta tremula di vetro Ornan le nere chiome, ella si pose Un boschetto di palme in su la testa; Siede su rupe candida; lavacro Fa del Tirreno ai piedi; il guardo tende Lontanamente al curvo mare, e prega Perchè Sant’Elmo vigili le mille Reti e le vele ai pescadori; e quando Spunta una nube che a tempesta accenni, Con le sue cento campanelle affretta Al domestico lido i vagabondi.
Ultima appare sopra argenteo golfo Da quella banda ove ti batte il core, L’antica navigante Anzio, che vinta Patì la gloria dei rapiti rostri. 7 Ma di tarde vendette a rallegrarla Da’ fatali suoi scogli usciron due Coronati avvoltoi che tra i fumanti Balsami de le terme e dei tëatri Con altri rostri diguazzâr nel sangue Dell’antica rival. E in quella notte, Che imperiale fiaccola destava Il Palatin con le voraci fiamme, Anzio gioì dal crudo letto; e intese Sull’erma solitudine del golfo Strider le Furie ed iterar gli spechi Come uno scoppio di maniache risa.
Dovunque il guardo tu raccogli in questa Faticata di glorie e di sventure Terra latina, se dei padri care A te negli anni floridi l’eterne Pagine füro, e l’idïoma, e l’arte, Sorge un ricordo: chè per noi l’istoria È sapïenza ambizïosa e mesta; È come stemma d’inclita progenie Dai nepoti serbato ai dì pensosi De la miseria; testimon crudele D’una superba nobiltà scaduta. Su que’ lividi stagni, ove ora un lento Bufalo sfanga e guata a la ventura, Volâro un gïorno cavalieri a nembi Sovra destrier che non conobber mai Le corse de la fuga, esercitati Sol dei trïonfi a respirar la polve. Ma quei potenti scesero nell’urne Tutti; e coprì le stesse urne la terra Con le sue canne; e i brandi seminati Per entro i solchi non fruttaron spade. Veggo la querce ancor tendere i rami, Ma non veggo la man che ne spiccava Aste da guerra. Su la via che cento 8 Miglia correa tra i monumenti, bruna S’alza una croce, e con le braccia afflitte Di preci al passeggier si raccomanda Per qualche ucciso. Poi che qui la Croce Di chi sofferse, all’aquila successe Di chi fece soffrir. Volse di molto Secolo, e usci da quella eroica stirpe Una stirpe viril di mandrïani: E chi può dir che al mandrïano un giorno Non rinascano eroi? E la. vicenda De le cose quaggiù. L’orbe si gira Intorno al Sole, e infaticabil Giano À di tenebre un volto, uno di luce. Si gira l’orbe di ciascuna gente Intorno al sole de la gloria, e quando Compì la pompa de la sua giornata, Dechina a sera. Luce per due volte Di civiltà maravigliosa, e quale A nessuno fu dato, avemmo in sorte Noi d’inviar su la progenie umana A illuminarla. Diuturno buio Or ne possiede. Ad altre genti il raggio Meridiano or brilla. Oh! sappian esse, Senza macchiarsi di guadagni iniqui O di superbe vïolenze, il lieto Tempo goder de la stagion fugace Magnanime. E al mio cor tu sei più cara Dolce mia terra, ancor ne la tua notte. Per l’oscuro tuo ciel tremoli veggo Di qualche aurora boreale i lampi, E risplendere d’Orse e di coruschi Arturi, e di nembose Iadi le faci; Sottile, in vero, e piccoletta luce: Ma verrà la feconda ora che Dio Al pöeta dirà: ”Sali quel monte ù E grida: Sorge l’alba.” Incontanente Suso per l’erta salirà il pöeta; Vedrà frattanto gli stranier la forca Preparargli, e il capestro a le pendici Indifferente; e griderà dall’alto: “Italïani, sorge l’alba.” Asceso Veggente, scenderà martire. Tale, Mallevador d’un’altra alba promessa Da la Sibilla e dai profeti; un giorno Un Divino movea là, vêr Pomezia, Quella cittade che ci sta di fronte. Bëato allor di ville era quel piano Che or s’impaluda. Giovinette in danza Ivano al suon dei crotali, offerendo Ghirlande all’are qua e là votate Sotto una querce, o accanto una fontana, A le propizie deïtà campestri. La voluttade meriggiava all’ombra Dei mirti dati a Venere, fra l’alte Erbe adagiata, e l’usignol dal fresco Ramo tessea sul bel capo ai felici, Senza saperlo, molli epitalami; Appresso i plaustri, che reddíen la sera Carchi di spighe e d’olezzanti fieni, Seguíen drappelli di sudati schiavi, Che a le latine aure apprendean gli strani Versi del suol natio: sì che a le Slave Melodíe de la Dacia udivi a quando A quando i figli replicar d’Arminio Con le severe melodie del Reno. E per un poco ne’ lor petti il chiuso Affanno si molcea, poi che soave Consolator ne le miserie è il canto. Ma niuno allor certo sapea che a quello Ebreo tapino che laggiù passava Sollecito, la tunica succinta, I calzari di polvere bruttati, Ardea nel core d’abolir quell’are, Quelle catene, e quei vaganti amori; Ardea nel core di lottar con Giove Fulminator, e di piantar sull’atrio Del Campidoglio la derisa croce. Folta la barba, folto il crine; il guardo D’aquila; il volto macero, ritinto Dal sol di Spagna, egli venía reggendo Le brevi membra su baston ferrato, E mormorando di non so qual Dio Defunto. Paolo lo dicean le genti Già trïonfate da la sua parola. Lui attendeva un popolo segreto Di viventi sotterra, a fioco lume, Fra un avello e un altar; o trascinato Nei densi circhi a sazïar le tigri D’Affrica, ad allegrar l’inclite noie De le tigri di Roma, Egli venía D’opere ricco desïando il forte Riposo del martirio. E un giorno uscito Da la porta Trigemina, il raggiante Capo reciso abbandonò sul verde D’un prato malinconico del Tebro. Or per il fango di quegli egri campi Non vedi più che qualche abbandonato Palagio degli splendidi nipoti Del santuario. Le cadenti imposte Sbatte, e le gronde l’affannoso vento Marino; e dentro le dorate sale Liberamente vagola col volo Tremolante la nottola a le stelle. Or di Pomezia per le vie deserte Sole, vestigia dell’antico fiore, Escon dall’erbe i ruderi d’un tempio Sacro a Saturno Fuggitivo. Oh! i numi Fuggono anch’essi dall’età sospinti! Ma il Dio di Paolo, di mia madre, e mio, Non fuggirà mai da la terra. Bada, O Vaticano, che da te non fugga!
Or presta attento, Itala mia, l’orecchio Ad insolito canto. A te dinanzi 9 Precinto dal solenne arco dei cieli Vedi un ampio teatro, e le montagne In colli umilïarsi, e le colline Morir ne la pianura; e fra le dense Macchie dei cerri e le pinete brune Il bianco uscir de le romite ville, Pari di cigni a candida famiglia, Quando raccoglie il vol ne la vallea. E fuvvi un dì, che umano occhio non vide, Ma sopra un libro d’immortal granito Il sapïente divinando lesse; Nè l’illustre peccato avea commesso, Immemore di Vesta e de la tomba, Anco Silvia a la fonte; e non la molle Velata Etruria, che legò ai venturi Fin ne la lingua eredità d’arcani, Negli ipogei funèbri era discesa; E non ancor dalle paterne rive Maledette ramingo iva il Pelasgo Con le rancure dell’errante Ebreo Tragicamente patria altra cercando: Misterïoso popolo che passa, Siccome lamentosa ombra coi dolci Penati in su le spalle entro le scure Nebbie dei tempi. Allora il Lazio a tanta Ed unica sortito èra di gloria, Che i muti e sonnolenti ora patisce Anni di solitudine, giacea Sepolto ancor ne l’onde prime. Italia, Questo mio paradiso, altro non era Che un ordin lungo di selvaggi coni Incoronati da perpetuo lampo, Onde il mite Appennin s’ingenerava, Un mare negro che giammai dal canto Allegrato non fu del remigante, Malinconicamente circonfuso Tormentava le vergini scogliere, L’aura bagnata di mortal rugiada Con le tepide nubi invidïava A la giovine terra il blando riso De le giovani stelle. Ardea talora, Come d’antico cimiterio i solchi, L’onda d’erranti fiaccole azzurrine: Talora in numerati anni bollía Per reconditi ardori, e lento lento Emergeva una molle isola calva; E sur essa appariva a la sinistra Lampana dei vulcani una infinita Deformità di creature morte: Mistico germe di venture pietre E maraviglie. Intorno ala solinga Primogenita usciano inaspettate Altre sospinte da virtù segreta Isolette sorelle, onde le dolci Nostre pendici, e l’odorose curve De le nostre convalli. Ivi un zampillo Che ignoto allor non prevedea la gloria Insuperata d’esser detto il Tebro, Ai recenti dirupi era lavacro, E sulla genitrice onda piovea Con le pallide spume. Oh! mesta assai Del mattin del creato era quest’ora! Pupilla umana seminar non vide Quelle tepenti ceneri flegree; E pure al bacio dei novelli soli Fresche, vivaci rispondean le selve Impetüose. Ed erano superbe Tribù di felci, che coprian le fredde Pomici con le foglie arabescate, E d’altezza vincean le nasciture Querce vocali. L’equiseto umíle Che or l’egro degli stagni aere vagheggia, Calamo poveretto, e si reclina Al saltar greve de la gracidosa Profetessa di pioggie, allor sublime Sparso in vïali di colonne verdi Popolava le ripe; ove giganti Con lo squallido cespo i licopodi Cresceano il mesto degl’intonsi prati Nell’ampia solitudine. Natura Tal per innumerati anni sedea Vigorosa mendica; e ignota ancora Per le selvagge primavere il riso Era d’un fior, che ai pronubi favonî Raccomandasse i vagabondi amori, O il vaporar de le fragranze. Al lembo Di qualche piano desolato alfine Pullulava una palma, e fin d’allora Forse dai cieli meritò la sorte D’allegrare i deserti. Entro le valli, Che a tante creature erano tomba, Pullulava un cipresso; e quinci ei tolse Forse il desío di custodir gli avelli. L’eco ignorava ancor come piangesse La notturna elegía dell’usignolo; Al limitar di nuzïal caverna Non era apparsa ancor la lïonessa. Salutando le selve col ruggito Da imperadrice; per le fresche lande Un segno di gemelle orme non anco Il galoppo tradía d’una puledra; E pur grande e fantastica, siccome Visïon di profeta, era la vita Che si agitava in su la terra. Ai miti Crepuscoli dei languidi mattini Predestinata a veleggiar sui mari La progenie dei nautili tendea La vela vaporosa, onde fe’ liete Quelle viventi navicelle Iddio; E cullata dai fiotti iva girando Per mezzo all’isolette di corallo Come flottiglia che si vede in sogno Movere in traccia di novelli mondi. Di sotto ai muschi pallidi celato, Molta col verde de le immani membra. Striscia di lito misurando, stava Perfido pescatore un coccodrillo; E fiso con l’immoto occhio su l’acqua L’avo gigante degl’Iddii del Nilo D’un improvvido squalo iva spïando Gli ultimi guizzi. Perocchè Natura Con perenne di stragi e di battaglie Alternarsi preluse al nascimento Del suo re doloroso. E allor che un fiato Di paradiso fe’ sbocciar quel fiore, Caro elitropio che si gira a Dio, Che per corolla à la beltade, e spande Per effluvio mollissimo l’amore, Quel fior gentil che si nomò la donna; Un immenso sepolcro era la faccia Arida de la terra, ove confusa Giacea d’alberi folla e d’animali, Che un tempo fûr, nè torneran più mai; Però che sul fecondo orbe regnava, Inesorabil vergine, la Morte, Mietitrice indefessa, ed indefessa Seminatrice di novelle vite In nuove forme. Ai tremuli sedotta Riverberi di luce, onde un vulcano Imporporava le sinistre baie, Remigando pel grigio aere veniva Una nube crudel di volatori. Valido d’Idra e flessüoso il collo, Siepe acuta di denti, ale di pelle, Onde le pronte fantasíe d’Atene Divinarono il Drago. Allor che a volo Passavan, come funebri bandiere, Päuroso clamor si diffondea Sopra i paludi, e rispondean dai torbi Guadi con tristo sibilar le serpi. E sovente quel gemito in acute Strida mutava di duello, e forse Fervean non viste aëree battaglie; E forse allora vorticosamente Scendea ferito a sbattere sul loto Il fantastico augello; e quella lieve Orma del piè, quella fugace posa Dell’ale stanche diventâr di marmo; E dopo mille e mille anni avvertite Fûr testimoni de la sua dimora.
Accompagnato da la bianca ancella Che illuminava quelle notti prime, Bello così di vita il giovinetto Mondo fendea con le prefisse fughe I deserti d’azzurro. Allor che un giorno Scontrò per via come un oceano d’oro, Che lo inondò serenamente, ed era Il vïatore Spirito di Dio. Quale di verginella innamorata Palpita il core, e palpitò la terra. Tremebonde le vaghe ale dei nembi Si composero in pace; e l’Infinito Spazïò su la queta urna de l’acque. E quando al ciglio d’una valle, un fiero Gruppo di sette colli ardere Ei vide, Simili ai sette candelabri accesi Del venturo suo tempio; allora a quella Misterïosa pleiade di fiamme Volse uno spiro luminoso e disse: “ Tu sarai la mia Roma. “ E l’armonia Di quelle note infino alla suprema Nebulosa che ai lembi è del crëato, Come tocco di mille organi salse; E tacque, e sparve. L’orbe le diurne Danze riprese e l’immortal vïaggio; Un diffuso i silenzi alti rompea Sollecitar di piume: peregrine Vedeansi in cielo scintillar pupille, Ed era de’ seguaci angeli il coro.
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1 Il monte Circello, roccia calcare in massima parte, onde si trae marmo ed alabastro, è collocato all’estremità occidentale delle Paludi Pontine. È l’antico Capo di Circe; e serba ancora sull’alto gli avanzi d’un tempio del Sole; e in una delle sue vaste caverne, il nome di Grotta della Maga, la quale; come osserva Bernardino di Saint-Pierre, fu la più antica botanica del mondo. Onde Ovidio nel Remedia amoris le volgea quel verso: « Quid tibi profuerunt, Circe, Parseides herbæ? » L’antiquario, il mineralogo, il botanico trovan tutti su quel monte argomento di studio. * Vedi le Note in fine del Canto 2 Circe possente Maga, figlia del Sole e di Perseide, una delle ninfe oceanine, era una seduttrice straniera di cui Omero canta a lungo nella Odissea. 3 Ognun sa che il mito di Circe, con quel suo mutare in bestie immonde i meschini amatori, allude alle conseguenze delle brutali voluttà. Sarà forse perdonato all’autore, se osando mettere in bocca di Omero qualche verso milleottocentocinquanta e tanti anni dopo Cristo, gli fece dire quello che il pagano adulator dei vincitori non avrebbe ai suoi tempi detto di certo. 4 Le Paludi Pontine compongono buona parte dell’Agro Romano; lunghe circa trenta miglia da Cisterna a Terracina; larghe meglio che venticinque da Sezza a Monte Circello, Secondo Plinio, ivi erano ventitrè città, oltre a innumerevoli ville. Ora la mal’aria tiene spopolata quella vasta pianura, la quale in molte parti è feracissima. I soli Sabini e gli Abruzzesi, sfidandone le febbri mortali, ardiscono scendere dai loro rnonti per guadagnarsi un pane colà al tempo della mietitura. La miserabile condizione di que’ mietitori è dipinta energicamente dalla risposta, che mentre io ero a Terracina, mi dicevan data a un viaggiatore. «Come si vive costì?» chiese questi passando. A cui l’Abruzzese: «Signore, si muore.» 5 Corradino di Svevia, figlio del quarto Corrado e di Elisabetta di Baviera, sceso in Italia di sedici anni a riconquistare lo splendido retaggio della Sicilia caduto in mano di Carlo d’Angiò, fu sconfitto nell’agosto del 1268 a Tagliacozzo. Sfuggendo alla strage, riparò al castello di Astura; ma Giovanni Frangipane, signor di quello, consegnò per denaro l’ospite al vincitore. Giudicato lo Svevo a Napoli e condannato, gli fu mozza la testa nel 29 ottobre 1268 nella piazza del Mercato, dove gli venne eretta una cappella mortuaria, che non è più, Il racconto poi del guanto che dicono gittasse Corradino dal palco, acciò fosse consegnato a Pietro d’Aragona, non è bene accettato dalla storia. 6 Terracina è l’antica Anxur. La sua collina offre tuttavia il vago aspetto che sorrideva a Flacco: «Impositum saxis late candentibus Anxur.» 7 Anxio, fiorente città un tempo, ora piccolo porto. I Romani come l’ebbero vinta, ornarono il suggesto, donde parlavano gli oratori nel Fòro, coi rostri delle sue navi. «Naves Antiatum partim in Navalia Romæ subductæ, partim incensæ, rostrisque earum suggestum in Fòro extructum adornari placuit. Rostraque id templum appellatum.» (Liv. cap. 12, lib. 8.) — Ad Anzio nacquero Caio Caligola e Nerone imperatori. Incerta era la patria di Caio: alcuni a Tivoli, alcuni a Treveri, lo facevan nato; ma Svetonio, nella vita di lui, toglie ogni dubbio scrivendo: «Ego in actis Antii ipsum invenio editum.» Quanto poi a Nerone, lo stesso Svetonio lo assicura con queste parole: «Nero natus est Antii post novem menses quam Tiberius excessit.» Strana corrispondenza di date! Forse i pasquini della Via Sacra e della Suburra avran detto, che l’anima di Tiberio, rifiutata perfino dallo Stige, s’era rifugiata nelle inique viscere di Agrippina, per rinascere rinsudiciata dentro alle forme di Nerone. 8 La Via Appia da principio fino a Capua, poscia fino a Brindisi condotta, era costeggiata per modo da templi, da archi di trionfo, da mausolei, che la chiamavano la regina delle vie. 9 Ad intelligenza dei seguenti versi, in cui l’autore tentò di vestire di poesia, come potè, alcuni fatti geologici, occorrerebbe qualche largo cenno sulla geologia: ma troppo lunga cosa riuscirebbe e noiosa. E forse questi versi non ne meritano la fatica. Non gli rimane però a fare che una preghiera, quella cioè di non essere troppo frettolosamente giudicato oscuro o strano da chi non conosca un poco questa giovine scienza. |
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