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Aleardo Aleardi Canti IntraText CT - Lettura del testo |
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LETTERE A MARIA
I.
L’INVITO
O mia povera Amica, e tu nascevi Tra i felici del mondo! Or va’, ti fida Ne le impromesse d’una culla d’oro! O mia povera Amica, allor chi mai Detto l’avría, che dopo lunghe e acute Amarezze di giorni immeritati, Fiumi e dirupi valicando e valli, Qui voleresti a confidente nido Colomba malinconica? L’olivo Sia teco eternamente, o mia colomba. Chi l’avría detto mai, che l’uno all’altro Così incogniti pria, poi tanto cari, D’una robinia americana al piede, Stranieri all’ombra d’arbore straniero Qui ci uniremmo per versar del pianto? Le son fila d’Iddio. Ecco venimmo Simili a due romei, per sciorre il santo Voto d’insieme consolarci; e invero Qualche cosa di blando ebbe quell’ora Che lagrimai su la tua testa bionda! Taci, o Maria; non mi ridir le tue Faticose venture; io le so tutte, Tutte, anche quelle che non m’ài narrate; Però che quando molto ama, è talora Di quel che passa a’ suoi diletti in core Profetessa fedel l’anima mia.
Oh! quel dir: sono sola, e a me le feste Fûr de la madre incognite, nè mai Un giovinetto mi chiamò sorella; E crebbi, e piansi, e a pianger mi nascosi Perch’ero cinta da persone ignote: E non possiedo altro che qualche sacro Tumulo qua e là disseminato Per i campi d’Italia; e un sentimento Sempre patisco di paura, a starmi Come perduta sovra l’ampia terra…. Oh! quel dir: son così, povera donna, Sola soletta…. è pur un gran dolore!
Oh sì, piangi, o Maria, chè questo fumo Di progenie superba altro di suo Che il dolore non à. Nell’agitarsi De le pro celle l’oceàn feconda La perla a le conchiglie; e ne lo scuro De le secrete sue battaglie il core La perla de le lagrime matura. E queste tue, Maria, le troverai, Credilo a me, da un serafin riposte Ne la corona che t’aspetta in cielo.
Anch’io, vedi, son triste; e in fastidita Solitudine vivo; ed era, un tempo, Come allegria d’allodole pel cielo, Giocondo il volo de le mie giornate. Una fronda d’ulivo benedetto Pendea custode a’ miei placidi sonni, Chè ne la festa de le palme allora Io pregava! Una vispa rondinella, Lasciate le sue case in Orïente, Santificava l’ospital mia trave; E co’ suoi rondinini io m’addormía. Quando pei lembi de le sceme imposte Il primo albor del ciel s’intromettea, Sentiva un bacio intiepidirmi il viso; Era mio padre che venia per uso Con quella sua carezza a ridestarmi Soavemente, si che amore e luce Fûr le primizie de le mie mattine. Non piangere, o Maria! Cantando allora Scendea nell’Orto rorido di stille, L’alba negli occhi, e l’avvenir davanti; Ed aspirava da per tutto Iddio. Poscia un fiore coglieva, il più soave Abitator de le modeste aiuole, E sul guanciale de la madre mia Lo posava, però che quella santa Dopo i suoi figli e il padre dei suoi figli Amava molto i poverelli e i fiori: E il bacio avuto deponea sul fronte Purissimo di lei. Quegli eran giorni! E la vita mi parve una catena Di carezze, di fior, d’inni, di raggi, Di cui le anella si perdeano in cielo…. Oh! basta, basta! Piangi ora, Maria; Chè que’ due benedetti io li ò perduti, E non è mia neppur, là, in riva al fiume La casa ove son morti.
Ahi! dopo tanta Serenitade irruppero qui dentro Le cento febbri dei vent’anni. Il baldo Desio d’un nome, i rotti studi, il folle Vaneggiare in canzoni confidate, Siccome foglie di sibilla, al vento, E ai delatori. Incominciâr le audaci Idee, le notti vagabonde e i forti Proponimenti ne le calde cene; Ma più che spuma sul bicchier fugaci: E al quetar dei tumulti uno scorato Precipitar da le sognate altezze, E ne la intiepidita anima il duro D’una patria perduta accorgimento: Incominciâr le ardenti ansie nei sogni Letificati da una bella rea; E per un breve piè, per una ciocca Nera su i gigli d’una spalla nuda, Quel prodigar del cor le nove e sante Esuberanze; e l’agile vicenda De le fedi tradite, e il pentimento. Ahi! che allora, o Maria, nel fior del campo, Ne l’andamento de le liete stelle, Nel rossor dei tramonti meditati, Ne l’eterna d’un fiume onda che passa., Ne la eterna che sorge alba dal colle, Svïato il core non trovò più Dio.
Ma una pia ricordanza, un delicato Rimpianto un dì mi trasse ad un romito Cimitero di villa. Ivi due croci, Smosse dal tempo, ti parean chinate Ad abbracciarsi: un vivo caprifoglio Con la salita de le verdi spire Unite le stringea, quasi che avesse Discernimento. Ivi trovai la calma D’uno che prega: e risentii presente, Tra mezzo i solchi della morte, Iddio…. Grazie, grazie, miei padri!!
Odi, o Maria: Noi siam qui soli, poveri, sdegnosi De le fatue cittadi, e a le serene Gioie anelanti, che non dona in terra Che la casa materna e la diletta Famiglia d’ogni giorno. Or bene: in questa Via che ne avanza dell’esilio amaro, Se mel concedi, io ti verrò secondo. Ti fascerò di bende il faticato Piede, perchè non sanguini: coi molli Muschi raccolti su l’ombrose ripe Farò sponda a la tua splendida testa D’Italïana: a süaderti il sonno Ti canterò la mia canzon più bella. Quando il sol brucerà per la campagna, Ricovreremo all’odorosa tenda Di mite acacia; chè potrebbe il raggio Tingerti in bruno: ove dall’erte rupi Traditore ne incolga il tempo nero, Di fresco alloro ti farò ghirlanda; Così reina o poetessa andrai Rispettata dai fulmini le chiome: Sovra un desco di rose o di vïole Ti frangerò il mio pane; e quando lassa Sotto l’arsure mi dirai: ”Fratello, Ardo di sete“ io cercherò le lande In traccia d’acque vive: e se la terra Non le consente, ti corrò pei solchi L’onda del ciel nel calice dei fiori. Che Dio prepara all’augellin che migra. Sarà giorno di festa il di che ridi; E se tu piangi, contemplando afflitto Su le tue guance vereconde il pianto, Mi scosterò tacendo, e in rispettosa Lontananza sul campo inginocchiato Pregherò Dio, che il tuo fardel d’affanni A le mie spalle imponga. Oh tu non anco Sai quanta invidia delicata io porti Alla gentil virtù del Cireneo!
Ma perchè il casto e azzurro occhio reclini E vai celando con la man di neve L’esitanza che in porpora ti pinge? Ti comprendo, o Maria. Per farti lieta, Rea non sarai; però che sempre è mesta Quella letizia che di colpa odora. Profondo abisso dagli umani aperto Ne divide, lo so. Miseri e stolti! Questa progenie d’esuli che fugge Verso il sepolcro, quasi scarso in terra Fosse il dolore, à meditato molto E in sapïenti veglie à impallidito, Per comporsi altri affanni. E ai capricciosi Moti del suo pensier, spesso discordi Dal pensiero di Dio, diede il superbo Nome di legge, e fe’ languire in tetra Prigion coi piè dal ferro illividiti Chi la frangea. Si dolsero i Celesti, Antiveggendo le catene e il danno Che il morta! si tesseva imprevidente. Ma intanto i figli a questa del passato Non consentita tirannía ribelli Coi codici degli avi ereditâro La scala dei patiboli e l’infamia.
Mia non sarai. Ti chiamerò col nome Placido di sorella; e mi parrai Fiore di cielo; simile alla rosa De la mistica val di Casimira, All’amoroso rosignol contesa. E pèra il dì, che volta all’orïente, Quando nasce il più vago astro dei cieli, Tu non gli possa dir: ”Stella Dïana, Al par di te purissima mi levo.” Fidati a me. Vedi laggiù sul terso Orizzonte del mar quelle due verdi Isolette vicine? Elle divise Per grande abisso, fin dall’ore prime Del creato son là. Sempre alle stesse Avventure consorti, il sol le scalda, L’onda le bacia, le flagella il vento, E la pioggia le bagna: e l’una all’altra Sorridon liete, e l’una all’altra invia Un saluto di balsami e di canti…. Si guardan sempre, e non si toccan mai. Vedi lassù nel ciel romitamente La luna andar, come una mesta? Ed ella, Da che volò la prima ala del tempo, Con la terra amoreggia. Un’infinita Lontananza di freddo aere le parte; Pur fra i silenzi del vïaggio arcano Si seguon sempre e si verran compagne Il Signor lo sa quando. E ne le notti Si scambiano un saluto: alternamente Con favella di luce; ed ogni giorno S’intendono coi palpiti del mare…. Si guardan sempre, e non si toccan mai. Così noi due soletti pellegrini In vicinanza coraggiosa e monda Malinconicamente esuleremo.
II
L’IMMORTALITÀ DELL’ANIMA
Uns filosofes si parloit A s’ame, et si l’amonestoit: La moie ame, n’oblie pas Dont tu venis, et où iras. Custoiment d’un père à son fils. FABLIAUX.
Dunque m’assenti di venirti a fianco Nell’esilio, o Maria? Oh, senza fine Sii benedetta. Ecco partiam, siccome Svelte a la riva da Aquilon notturno Due navicelle fragili. Ma dimmi, Ài conoscenza delle ree marine? Dimni, sai tu la rada, ove la punta Volger si debba de le meste prue? E credi che pel buio aere raminghi Sempre dato ne fia veder la stella Benefica del polo, a cui si volge, Come ad avviso che gli manda il cielo, L’incerto timoniere? O mia sorella, Non paventar di salvamento: sei Buona; m’ascolta. Abisso inesplorato Senza termine è il core. Ivi raccolte Del lïone le febbri; ivi celate Le viltà de la iena; è uno scompiglio; È il più superbo dei vulcani, quando Lo sommovon gli affetti. E pur nel fondo, O irrevocata, o maledetta, o cara, Abita guardïana una virtude; E cui l’intende, arcanamente parla Una santa parola; ed Eva prima La chiamò Coscïenza, ed è flagello Muto agl’iniqui, e allegra le gagliarde Malinconíe del giusto. Ella ne fia Stella del polo. Fra quell’onda ignota Che varcheremo del futuro, siede Squallida una riviera. All’appressarsi Sente da lunge il navigante acuto Un olir di cipressi, e vede in alto Girar qualche digiun sciame di corvi; E via pel verde un albeggiar di marmi, Strani fior per un campo! Illanguidita Lascia i remi la mano, e da sè stessa Si ripiega la vela. Ivi è fatale Che approdin tutti d’ogni terra; ed ivi Tutti dormono in pace. E noi, Maria, Arriveremo, e soli in appartata Arca, e abbracciati poserem nel sonno, Rimettendo la stanca anima a Dio, Poi che il termine è Dio. Nata all’opaco Seno d’un masso che le ruba i soli, Le rame allunga sottilmente e piega La tremula alberella. Urto di brezza, Che assidua spiri, non la spinge a quelle Curve insolite a lei; ma sì la tira Un istinto di sole, un indefesso Desiderio di luce.
In alto passa Una riga di gru, volta ai diletti Nidi lasciati ne le calde terre: Per tutto il remigato aere colonna Milïaria non è che loro apprenda Per quali monti, per qual mar s’arrivi A le dolci dimore. Uno più assai Sapïente di lor, pose in quell’ali De la, patria l’istinto.
E tal, Maria, Come a la patria de la luce, attrae Un istinto le meste anime al cielo.
Ma tu sorridi come chi sentisse Pietà superba de le mie credenze; Dubiti forse, o bella nazzarena, Dell’avvenire del sepolcro? Porgi Qui la tua mano candida; una bruna Zinganella che il grande occhio di foco In remota schiudea valle boema, Sui rosei solchi de le aperte palme M’apprese. a studïar l’intime fedi Onde un’anima è paga o irrequïeta…. Ohimè, povera amica, io ti compiango, Chè all’avvenir del tumolo non credi!
È ver; come apparía sovra una porta Trista di Tebe un tempo in su la sera Cupa una sfinge, e provocava a sfida Ogni indovino con dimande arcane. Ogni notte, ogni dì si manifesta Cupa sfinge la morte; e per le piazze E per le vie de la città galoppa Misterïosa, e i campanili ascende, Ed ulula per l’alto aere col tocco D’una campana; e d’eco in eco il suono Risponde in cielo: e l’indovino ancora Edippo non trovò. Ma pur qui dentro, Più fedel d’ogni Edippo, è un sentimento Che mi profeta con gentil fermezza Nuovi destini, luminosi, eterni. Con tetre pompe e paurosi riti Perchè funesti, sacerdote, l’ora Che mi risveglio in Dio? — Forse non basta Scorger il pianto dei diletti in vita Stillar tacitamente su le coltri, E il crudele pensier di non vederli Su la terra mai più? — So che in quell’ora Cadranno i ceppi de la fragil creta, E dall’aspro guancial dell’agonia Qualche cosa ch’è in me spiccherà il volo Oltre la luna, oltre le stelle, e indarno Mi seguiran di mille aquile i vanni. Pallida vita! e tu saresti il grande Avvenimento degli umani e il solo? Il passato è una larva, a cui l’oblio Va scancellando i languidi profili; Il presente non altro è che il veloce Avvenire che arriva. Ecco la vita Dell’uom superba. D’una gioia il volo, Il cader d’una lagrima; una lotta Indefessa; uno sterile rimpianto Dei giorni che passâr; forse una colpa Travestita in rimorso, e una speranza Che sfugge e irride, come fatua fiamma A lo smarrito in tenebrosa landa. E il dolor, come re, siede nel mezzo Dell’inospita landa; e da là lunge Fra il turbinio de la commossa polve Sfolgoran gli assi e le cavalle insane De la fortuna. E domina i tumulti Ora un grido di morte, ora un plebeo Scoppio di risa: e l’ansïose turbe Sotto i fuggenti corridor, tra i solchi Maculati di sangue, urta la Dea. Povero e forte, in eminenza assiso, Lagrima il giusto condannato a giorni Inoperosi, e accanto a lui guardando A quella grama commedia d’un’ora, Sveglia da la dolente arpa il poeta Un inno che nel vano aere si perde, E ne la valle giù passan le turbe Salutandoli folli.
Oh! ne la vita Qualche delitto incognito ne pesa; Qualche cosa si espia! Chi a noi d’intorno Segnò questo fatal cerchio di colpe E di sventura? e su la vergin prole Fe’ che per rami di Cain scendesse L’eredità di sangue inconsumata? Chi sovra i balzi permettea le rôcche Vïolente, onde emerse il pauroso Dritto dell’oppressor? Perchè nel mezzo D’un silenzio che medita sull’onte, Quel prepararsi a le supreme sfide Dei popoli ringhiosi? Onde cotanto Fáscino all’oro, e quell’esser delitto La povertade? E nei fastosi prandi L’esultanza dei tristi e quel segreto Patimento di pure anime, sempre Inesperte del mondo? E chi mi trasse A questo ballo mascherato, dove, Se mai per generoso impeto io strappo Il vel bugiardo, e levo alta la fronte, E sillogizzo un franco ver che tutti Ànno nel core, mi deridon tutti? E su gli ungari campi e su i moravi Sorge un castel con una tetra muda Ove starò per orbi anni scontando La santità del temerario vero? E sopra mi verran l’unghie e la rabbia D’aquila immonda a lacerare i lombi All’oscuro Prometeo?… Oh! tal l’idea De’ celesti non era; e pria che nati Fossero i padri de’ miei padri, alcuno À peccato per noi. Forse, Maria, Quella tremola stilla che discorre Giù pel tuo seno come cosa viva, È più che pianto. È un mistico lavacro; E, senza che tu ’l sappia, ella ti monda Pei cieli patrii. Poi che tutti, o cara, Di lassuso venimmo: uno lo disse Che mai non erra: e quanto d’alto e puro E di nobile à il core, è forse un’eco Lontana; un’indistinta ricordanza Che ne lasciava quel divin paese.
Onde questa mi piovve insazïata Ansia d’un bello che non trovo in terra? Ne le forme dell’Itale fanciulle; Ne l’austera armonia de i cesellati Carmi de gli avi; ne le dolci note Che l’usignolo di Catania attinse Dal suo cor che moría; ne le colonne Del Partenone; nei celesti volti Che Raffaello in visïon rapito Vedea la notte, e il giorno ritraea; Nel mar, nei monti, nei deserti, e invano Ne le stelle lo cerco. Oh certamente È più in su che le stelle! Allor che m’arde Turgido il core, e in ogni fibra un vivo Fremito sento di desio che anela A una colpa imminente, onde mi viene Questo poter recondito che insorge Meco a battaglia, e nel misterio estinguo I bollori del sangue, e mi süade Una virtù che dal gioir rifugge? Onde avvien mai, che ai termini sdegnoso Assegnati al mortal, come se avessi Il sentimento di chi fu bandito, Rompo il confine col pensiero, e volo D’un avvenir sui campi interminati? E molto più del minacciato Inferno M’è terribile il nulla? E qui si giura Noi moribondi eternità d’amore, E d’odio eternità noi moribondi?
Se non fosse così, perchè talora Fin nelle braccia de la donna mia Quel subitano fastidir la vita? Dimmi, Maria, perchè nell’abbondante Primavera degli anni, allor che ignota Senti agitarti una virtude quasi Creatrice di mondi, all’improvviso Stanca una voglia di morir ti vince? E nel vol de le danze, e fra i doppieri Multiplicati a lustro de le mense, Muta la noia al fianco tuo s’asside, Non atteso conviva, a dolorarti? Perchè raccolto del giullare il teschio Gittato via dai lepidi becchini, Quel curïoso dimandar d’Amleto La celia antica al dissepolto amico? Onde sì forte maestà deriva Dai quattro palmi d’un’aurèola nuda, Ove posa un estinto? E chi primiero Di benevoli Mani à popolato Le chiese consuete; e via pei campi Al tenue filo de le nuove lune Sognò crucciosi Lèmuri? Chi mai Nutrì nel core ai non ingrati figli La reverente carità ch’espía Dei sepolti le mende? E su le tombe Cosi gentil malinconia profuse, Che, miste ai sicomori, ogni cittade In Orïente se ne fa cintura; Quasi gli estinti con perenne e pia Zona d’amor, di verde e di profumo Abbracciassero i vivi? O mia sorella, Sali quel colle, e giù per la valletta Mira là quell’erboso ultimo lembo Chiuso da bianco muricciolo dove Una selvetta pullula di croci: Quello è il nobile campo, ove ànno i padri De la villa riposo. Essi, Maria, Poco àn goduto, ànno patito molto Per i figli e le mandrie, e per le gemme Dal vigneto promesse. Essi nel tempo Del mietitore benedisser Dio De le biche raccolte, e se dai tetti Lagrimava la neve, essi cantando Reddían col fascio di roveti a spalle All’allegria del focolar loquace. Poscia nei giorni di riposo, al tempio In famiglia traean vestiti a festa A cantare al Signor le lor preghiere. E alcun vi fu che ne la ingenua vita Uniforme non seppe altro del mondo Che quel campo, quel monte, e quella chiesa. Ora taciti là posano, come Se non fossero nati. Ed ivi forse Dorme un occulto Pindaro senz’arpa: Un Ildebrando, cui mancò la stola Venerabile e i tempi: un novo forse Napolëon, che non sortía la spada, Ma l’animo sortiva ai favolosi Combattimenti, e a quella anco maggiore Lotta che nei crudeli anni del bando, Solo, in cospetto de la terra, e nudo Combattè nell’infame isola e vinse. Essi, quasi incompiute opre passâro, Simile a donna sterile, ed arcani Fino a sè stessi; e non vorrai, Maria, Che trovino lassuso il compimento?
Oh! sì, l’avranno. E tu lo rivelavi, Divo d’Atene moribondo: e allora Già non falliva il famigliar tuo genio, Che due volte immortal ti predicea.
Calava il sole un vespero d’autunno Remotissimo a noi: le inseminate Cime all’Imeto si tingean di rosa; Con le ghirlande del ritorno in poppa Un naviglio le azzurre onde spartía Salutando il Pirèo; giocondi gruppi Di verginelle ripetean sul lido Inni de la immortale poveretta Che a Leucade saltò; quando un acuto Grido s’intese correre le vie: «Socrate è morto.» E forse, Attica bella, Quella cicuta fu ’l maggior peccato Che ne la immonda servitù scontasti! E forse dopo un lungo ordin di turpi Secoli di dolor, senza saperlo, Col nobil sangue il martire Bozzari Di quel tradito ti lavò la macchia!
Socrate è morto! Ma a la stirpe d’Eva La più superba eredità lasciava In questo ver: che l’anima non muore.
O sapïente che svelasti a noi Un perpetuo avvenir, forse bramato Con la virtù del sentimento avresti Più che Dio non creò? Che questa dolce Securità di riveder mia madre Fosse un’amara irrisïon del cielo?... Oh no, no, madre mia! veracemente Ci rivedremo, e ancor m’arriderai Col tuo languido e nero occhio d’amore; Ti narrerò di quella nostra e cara Verginella che fu mia dolce cura E come intatto e chiuso orto guardai. Tu che facevi col saper del ciglio Mansüete le nostre ire fanciulle, Novamente accôrrai questo sdegnoso Che partorivi con fatica tanta, O troppo presto o troppo tardi, in mezzo A le viltadi d’una fiacca stirpe. Te che il fango di qui nella secura Semplicità dell’anima sfioravi, Vedrò, raccolta la persona bella, Fra ’l nimbo dei beati, e tuttavia Volonterosa del figliale amplesso.
Oh si, ti rivedrò! Già su le piume Dell’estro infaticabile precorro Al mesto fine de le mie giornate, E mi par di morir. Già sul mio petto, Esercitato da sì lunghe croci, L’ultima croce sta. Niuno di tanti Che su la terra amò, niuno l’estinte Vela pupille al povero poeta. Sento una gente, che non vidi mai, Gemere un vecchio salmo; e in faccia al verde Margo del suburbano Adige mio Calarmi ne la fossa: odo fra i sassi Il badile sonar del taciturno Seppellitore, che mi versa in capo L’ultima gleba, e mi rimango in una Solitudine buia abbandonato.
Quand’ecco un Forte splendido che arriva E mi contende al Re do le tenèbre, E lotta, e vince, e da la oscena. tomba Mi vuol redento. Un aleggiar di brezza Paradisiaca mi blandisce il volto Con frescure olezzanti: e pei sereni, Traversati da spiriti e da stelle, Ascender veggo sull’opposto lembo L’alba che ne impromise il Nazzareno. Attonito mi levo, e da le chiome Scuoto la morte: e sovra il gelid’orlo Del sepolcro chinata un’apparenza D’immortal gioventù mi si presenta, E non sente di terra il suo saluto... Oh! la ravviso. Ella è mia madre. Ed ecco Mi raccoglie nel suo manto odoroso Dei profumi del cielo; e come augello Di paradiso che a la prole insegni Il remigar de le inesperte piume, La mi trae per le vie dei firmamenti. Ne la fidanza del materno seno Lieve lieve mi sento all’indefesso Rapidissimo volo; e via trapasso Saettando pei limpidi zaffiri. Omai s’io miro a la superba e frale Vanità de la terra, altro non odo Che il confuso fiottar dell’oceàno Ne le sponde custodi; altro non vedo Che uno di monti, di deserti e d’acque Vertiginoso rotëar sui poli. Ed Ella intanto la fedel parente Sazïando con semplici parole Quel desio di saper che m’innamora, Il crëato mi svela, e la diversa Indole de le stelle, e ad uno ad uno Mi spiega i cieli come cosa sua; Qual visitando le fragranti aiuole Del tepido verziere, una cortese Giardiniera ti narra i tulipani E le camelie che le edùca il sole.
E senza posa il terso etere solco Con la dolce compagna. E già comprendo Perchè tanta di luce onda si versi Su le altissime corna a le montagne Nel bel mondo di Venere. Più lunge Paghe contemplo d’una danza istessa Pei domestici azzurri ire concordi La tenue Vesta con le sue sorelle; Figlie di madre fulminata un tempo, Solo cognito a Dio. Veggo nell’ampio Giove al confine de le curve lande Il giorno tramontar velocemente, E quattro lune illuminar le fredde Rapidissime notti, e quattro lune Specchiarsi a l’onda de le sue marine. Per andamenti di più vasto giro Privilegiato di maggior seguaci Vedo Saturno dall’anello avvolto Vïaggiar malinconico. Discerno Simile a scòlta sul confine estremo Dell’imperio del sole, irto di geli, Muto di lume il solitario Urano: E via pel taciturno etere in fuga Ire e redir Comete, inipazïenti Visitatrici d’altri ignoti soli Pari a Sibille, che, disciolto il crine, Profetino terrori.
«O Madre mia, Più non ravviso la natal mia terra! Dimmi ove gira, chè tuttor per due Sepolture m’è cara, e per il fido Amor d’alcuna creatura viva?»
E a far pago il desio devía le penne L’angelica mia guida, e da la veste Semina fiocchi di cadenti stelle. Volti di novo vêr le vie del sole, Col dïafano dito Ella mi accenna Lontan lontano un punto bruno.
”Madre, Vedo una cosa piccioletta in fondo Movere là nel vano: è forse quello L’orbe superbo de le nostre patrie Dai mar, dai monti, dai deserti immensi?”
”Sì; quel granel di polvere che vola Là giù, è la Terra. E pari a le funèbri Che fra poco vedrai larve di mondi Qua e là disperse, anch’ella quando fia Piena la cifra de’ suoi dì fatale, Così travolta andrà per lo infinito. Svanirà l’acqua che la bagna; l’aura Che la circonda; nè scintilla alcuna Più nel suo grembo celerà di foco. Vedovata di piante d’ogni forma Vivente, fredda, cavernosa, muta Passerà in cielo come passa in mare Naufraga nave, dove tutto è morto.”
Qui la materna sapïente voce Seguendo adir, l’antica de le cose Notte mi narra, e la profonda requie De la materia informe, e il primo guizzo De la feconda luce; e de la vita Le origini, e il cessato Eden col fallo De la fragile madre; e la vicenda Di servitù, d’affanni e di vittorie Predestinata a le venture stirpi, Con rapita canzon mi vaticina. Nè piango io, no, chè lagrimar pupilla Immortale non può; ma sento un’acre Reminiscenza del versato pianto.
Poi rïaperto il vol esco dai mondi Ove domina il Sole: e lui che immoto Credeva, trascinar miro in arcana Fuga il corteggio de le serve sfere Verso la via dell’Ercole celeste. E nuovo etere passo; e là saluto Le due famiglie de la gelid’Orsa E quel provido e fisso occhio d’amore Che il porto accenna a le raminghe vele. Valico i regni, dove il trino splende Sodalizio dei re: m’accosto al Sirio Che i Sabei d’Orïente affascinava Pastor contemplativi, inclito lume, Il fior più bello dell’april dei cieli. Odo piover dall’alto una dolcezza Di profuse armonie, che manda, tocca Dal suo custode Cherubin, la Lira. Sotto lo sguardo del Signore io vedo Entro a fecondi albóri nebulosi Comporsi giovinetti astri e lanciarsi, Come gazzelle, a le prefisse curve. E tratto tratto sulla via mi scontra Un raggio rapidissimo che cala Da una stella per tanto etra divisa, Che pria mille fien vôlti anni a la terra, Che scenda al tocco di mortal pupilla. E sempre ch’io m’innalzi entro i silenzi Di quegli azzurri spazi interminati, Mi sorride novello un tremolío D’isolette di luce; e qual si pinge Come il giacinto e la vïola, quale Veste le tinte de la cener mesta, Od incolora le seguaci sfere D’un incarnato languido di rosa: Poi che non cresce solamente il giglio Sui costellati campi del Signore, E tutto splende, e tutto danza in quella Festa dei cieli, e tutto fugge a volo; E Dio solo conosce a quale arcano Porto tenda il creato, e quando fia Ch’ivi riposi dal fatal vïaggio.
Oh! potessi io, poscia che avrò veduto Si addentro l’universo, un’ora sola Rinascere a la terra itala, e sciôrre Rivelator di meraviglie un carme Nobile, forte, non caduco, e novo!...
O Maria, dove sono? e chi per tanta A spazïar serenità di cieli Rapiva il nato dall’argilla? E pure Sogno questo non è; non è baldanza Di fantastico volo. Iddio, connessi In un mistico nodo anima e polve, Come cavallo e cavalier, li avvía A le venture d’una corsa istessa. E perenne è la lotta, e le cadute Vituperose, e splendidi i trionfi. Con la valida voce ora i galoppi Domina il sire: con obliqui slanci Ora il cavallo il cavalier trascina. Passan, così congiunti, profumate Curve di colli e selve paurose, Squallidi stagni e fruttuosi piani Fino a quel dì, che estenuato, esangue Cade il corsier; e del nitrito estremo Fa il portico sonar d’un cimitero. Libero allora il cavalier si leva Affacciandosi a Dio che le cadute E le vittorie numera…. Maria, Tu dèi saper, che ne le serve etadi, Mazzeppa avvinto a corridor selvaggio Dagli oppressori, sanguinando passa Il genio, e a la dimora ultima anela.
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