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Aleardo Aleardi
Canti

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  • RAFFAELLO E LA FORNARINA.
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RAFFAELLO E LA FORNARINA.

 

IDILLIO.

 

 

« Ma non potea se non somma bellezza

Accender me, che da lei sola tolgo

A far mie opre eterne lo splendore.

 

Vidi umil nel tuo volto ogni mia altezza;

Rara ti scelsi, e me tolsi dal volgo;

E fia con l’opre eterno anco il mio amore. »

 

              M. BUONARROTI, Sonetto XXXIX.

 

RAFFAELLO E LA FORNARINA.

 

I.

 

            Passâr già meglio di trecento aprili,

E cadeva un april, raccomandando

A la feconda carità del maggio

Le morenti vïole e la giuliva

Infanzia de le rose. Il sol dorava

Gli archi del Coliseo, di porporina

Luce innondando, come è suo costume,

La scintillante aura del ciel latino:

E sola un’ora gli mancava al vale

Cotidïano, ad occultar la fronte

Dietro l’aspra di selve e di vendette

Isola, amar dei vïolenti Corsi:

Itala allora; itala sempre.

                                     Accanto

Al muricciuol d’un breve orto riposto,

Tra le spire sedea d’una vitalba

Voluttüosa un cavalier; la testa

Gli pendea, per natío vezzo, chinata

Sopra la tenue spalla, quasi cedro

Troppo grave al picciuol che lo sostiene.

Ondoleggiando su le vesti elette

In brune anella gli scendea la chioma

Nitida; e l’occhio…. oh! chi ridir volesse

La delicata pöesia, la forte

Pöesia di quell’occhio glorïoso,

Di tutte cose belle innamorato,

Dovria parlar come si parla in Cielo.

 

            Stava qual uom che desïando aspetta

Piacer tardato. E vagabondo intanto

Il suo pensier correa tra le bellezze

De la natura. Ora guardava al flutto

Del Tevere, che sotto gli fuggía

Frangendosi nei ruderi del ponte

Venerando di Cocle, e nelle nasse

Dei pescadori. — Ora guardava al cielo

Lontan lontano, ove una scura, obliqua

Striscia di pioggia visitar pareva

Il laghetto d’Albano, e l’azzurrine

Fonti di Nemi, e monumenti e selve,

Che fanno invidia ai nobili giardini

De lo stranier. La brezza che dal monte

Gianicolo movea, non anco resa

Flebile e sacra dal sospiro estremo

D’un poeta infelice, al taciturno

Giovin molceva l’olivigna fronte;

A lui recando il murmure uniforme

Dei rimoti mulini. Uscía d’un tempio,

Tomba divota di donzelle vive,

Un’armonia di cantici argentini,

Che innanzi sera modulavan quelle

Päurose del mondo: e t’affliggea

Söavemente, quasi fosse un coro

Di martiri che il mesto inno levasse

De’ suoi dolori.

                        All’improvviso ei parve,

Che la sua mente ristringesse il volo,

Pari a colomba altissima che scenda;

E tutta nel vigor de le pupille

Fosse l’anima accolta.

 

                                  Una fanciulla

Vie più del tiglio flessüosa, e bella

Qual essere dovea da giovinetta

La Venere di Milo, assicurata

Ne la fidanza di non esser vista,

Folleggiando venía per il pometo

Domestico con piè di danzatrice.

Nel lieve corso ella spiccava a caso

Il sommolo dell’erbe, e l’odorose

Teste dei fiori: un libero favonio

Le avea disciolto il vel trasteverino,

Tal che simíle a Galatea pei golfi

Siculi spinta dai sospir del mare,

Pareva anch’ella che vagasse a vela

Sull’ondeggiante e folta erba del prato:

E le molli scopría nevi del collo

Intemerato, e il pomo de le spalle

Tinte di giglio. Su l’argentee spille,

Fitte al volume de le trecce nere,

Batteva il sol di Roma irradïando

Quella testa fidiaca, ove era impresso

Un sigillo di ciel, da parer cosa

Nell’angelica cella immaginata

Dal Fiesolano estatico. Cotanto

D’in su la calma de la pura fronte

Si rivelavan le innocenti idee

Al par che de la tersa onda del Garda

L’alghe e i lapilli puoi notar nel fondo

Tutti ricinti d’iridi dorate.

Ella venia dicendo un suo rispetto:

Mesto era il verso, ancorachè gioconda

La cantatrice; e come giunse all’orlo

Del Tevere, sedette, ivi immergendo

Il piè sottil ne la volubil acqua,

Simile a tremolante ala di cigno

Che festevole guazza. In quel momento

Cantava un capinero in su la cima

D’un olëandro; e a lei la giovinezza

Cantava in core.

 

                        Lungamente il guardo

Indagator de la beltade affisse

Il cavaliero in quel novo e gentile

Miracolo: notando la superba

Leggiadría de le forme, e il crine e il labbro

Tumidetto, e le molli ombre e la varia

Ingenuità de le verginee pose,

Ond’ei fu vinto. A rotti balzi il core

Batteagli: il fiume, gli alberi, le mura

Gli giravano intorno in andamento

Vertiginoso: gli fería le orecchie

Un indistinto tintinnire, e l’alma

Tremolando gli ardea, quasi fiammella

Al vento. Alfin si scosse, e involontario

Gli sfuggì questo accento: ”O Fornarina!”

 

            Volse a tal voce rapida la testa,

Ed arrossì la crëatura bella;

Trasse da l’onda il piè tutto stillante,

E l’ombre lunghe de le nere ciglia

Velarono il pudor de le sue gote.

 

            Quel silenzio confuso ei ruppe il primo,

E incominciò: ”Bel fior trasteverino,

Perchè nell’ombra di romite mura

Rimani ad olezzar così racchiuso,

Quasi geranio inavvertito in questa

Perpetua sera de la tua casetta?

Degnissima di luce e dell’aperto,

Vuoi tu meco venir nel grazïoso

Mondo a sentirti mille volte il giorno

Dir che sei bella?”

                            Allor la vereconda:

”Signor, rispose, ho trapiantato anch’io

Talor de’ fiori, e fuor de la lor terra

Tosto appassiro; e mi dicea mia madre,

Che sempre il fior del poveretto è in poco

D’ora obblïato in terra di signori.”

”Apprèssati, ei riprese; io non t’inganno;

Ardo di te. Da lunghi giorni io spio

I tuoi passi, e t’ammiro, e non ho pace,

E mi possiede un tedio impazïente

D’ogni altra cosa. Oh non temer d’obblio!

Tutto che nasce nel mio cor, contiene

Alcun che d’immortal. Vuoi tu donarmi,

O fanciulla, il tuo cor?”

 

                                   ”Ma voi, chi siete?”

Inanimita ripigliò la bella,

Osando alzar il ciglio a quella nova

Eloquenza d’amor che la tentava.

 

            ”Tra le fonti del Foglia e del Metauro,

Il peritoso giovine seguía,

È la cittade dove nato io fui,

Gemma de l’Appennino infra due monti

Sopra la china che vagheggia il mare

Adrïaco: d’allori e di vigneti

Ricca e d’ulivi e più di cortesía.

Indi fanciul discesi e poveretto:

Se non che ne l’ardente alma infinito

Un mondo avea d’immagini, di forme,

D’arte e d’amore; cosicchè per tutta

Italia io seminai le crëature

De la mia mano; e or vo pago di lieto

Censo e del grido di pittor gentile.”

 

            “Chïunque siate, replicò la franca

Verginella, o Signor, saper v’è d’uopo

Una mia fantasia. Se la mia vita

Fidar dovessi ad un pittor, la scelta

È già fatta dal core. Avvi un cortese

Venuto in Roma ch’io giammai non vidi;

Ma ne sentii parlar qual di potente,

Cui la Madonna visita dal cielo

Sol per farsi ritrarre: egli è da Urbino

E col nome d’un angelo si chiama….”

 

            “Io son quel desso, ei l’interruppe, io sono

Raffaello da Urbino.”    

 

                               La fanciulla

Si rifece di porpora, e si tacque.

 

            Veníano in quella vagolando a volo

Festivo e obbliquo due farfalle, e l’una

L’altra inseguiva, petali viventi

Aggirati dal zeffiro. Le vide

L’altissimo pittore, e a lei rivolto

Che si tacea: “Mira, amor mio, le disse:

La nostra vita fia come la vita

Di quelle due felici vagabonde,

Sempre in mezzo all’april. Sarà un perenne

Inseguirsi d’amore; una perenne

Visita ai fiori de la gioia; sempre

Inebrïati e liberi. L’avara

Felicità, perpetua vïatrice,

Scontri talora un solo istante al mondo,

E se ritardi ad afferrarla, sfugge,

Nè per rimpianti più torna. Quaggiuso

Or tutto odora, tutto canta; l’aura

Che tu respiri, ondeggia ai trilli novi

De gli augelli sposati; è tutta piena

Dell’errabondo polline dei fiori;

L’acque e la terra cantano l’eterno

Epitalamio de la vita; tutto

Ama quaggiù: làsciati amare, o bella.”

 

            La man timidamente egli le porse

Dal muricciuolo; ed ella lenta lenta

Alzò la sua: si strinsero; e gli sguardi

Lunghe promesse si scambiâr d’amore.

Cadeva il sole; il mormorio d’un bacio

Parve si udisse: e quell’occulto nodo

Stretto in un solitario angol di Roma,

Un giorno lo saprà tutta la terra.

 

II.

 

            Fornarina, vien qui. Se in questa guisa

Dall’umiltade del mestier paterno

Oso chiamarti, mi perdona. Il vero

Tuo nome il mondo nol conobbe mai;

E io pur l’ignoro, povero pöeta.

Pensa però che infra le genti, noto

Suona il nome gentil di Fornarina

Più che quello di molte imperatrici.

Fammiti accanto; io ti dirò sommesso

Quanto a te non fidava il tuo modesto

Grande.

 

             Egli è un re; ma non di quei che fanno

Tremebondi tremar. Ne lo infinito

Paese de lo Spirito v’à un regno,

Che si appella Pittura: un dei soggiorni

De la Bellezza, ove continua danza

Menan le Grazie in faccia a la Natura:

Ivi l’audace Fantasia pompeggia

Fra un corteggio d’idee, che nei colori

Si tingon di perenne arcobaleno.

Ed ivi egli à possanza incontrastata:

Chè la corona onde gli brilla Il capo

Gli diè spontaneo il mondo. Ivi egli impera

Su multiforme popolo di genii

Che fûro un tempo e in avvenir saranno:

Colà il divino ti addurrà nei vaghi

Dominii suoi, più che reina, musa

Ispiratrice: e tu sarai scintilla

Pria d’esser freddo cenere nell’urna.

Ma la sua gloria invïerà su quella

Urna ignorata il più gentil dei raggi

A consolarla, e vi farà che spunti

Il fiore eterno de la rinomanza.

La terra avrà l’opere sue; l’olimpo

Il potente suo spirito. Tu sola

Possederai l’affettuosa, arcana

Pöesia del suo core.

 

                               Affretta, affretta,

A colmarlo d’amore. Ahimè! non vedi

Come veloci corrono le fusa

De le Parche, o fanciulla?

 

                                       Amalo, e serba

Il santo orgoglio di non mai costargli

Una lagrima sola. Egli talora

A te nel grembo poserà la testa

Placida, in famigliare atto söave:

Ma a’ tuoi risponderà vezzi di foco

Apparenze di gelo, a le tue blande

Carezze in vista indifferente e chiuso

In silenzi ritrosi. Oh non crucciarlo!

Lascialo far. Tu romperesti fila

D’idee che ignori; e a te la terra un giorno

Stretta ragione chiederla d’alcuna

Maraviglia perduta. In quello istante

Sappi, ch’ei t’ama, come donna mai

Non fu amata quaggiù. Da quella fida

Culla bëata de le tue ginocchia,

I fantastici voli esso a l’eliso

Spicca dell’arte: e gl’impeti d’amore

Frenati qui, si mutano in figure

Luminose là suso. Ivi all’eterna

Increata beltà che gli lampeggia,

La fuggitiva tua beltà ritempra,

Sì che tu n’esci qual giammai non fosti

Trasfigurata, e splendida, ed al tocco

Del suo pennello insuperato, il riso

De le tue labbra brillerà nel volto

De le sante del cielo.

 

                                 Affretta, affretta,

A colmarlo d’amore. Ahimè! non vedi

Come veloci corrono le fusa

De le Parche, o fanciulla?

 

                                       Oh! se sdegnoso

E agitato talor ti comparisse,

Nol rampognar; non contristar quel grande

Morituro: egli crea. Una superba

Diva il governa. Or non è tuo; gli è lungi

Da la tua signoria; però che l’Arte

À di tremende gelosíe pur ella.

Ma non temer. Verran l’ore dei casti

Abbracciamenti, Allor che la sua mente

Avrà quïete in una nobil forma,

E spunterà il miracolo del bello

Da la tavola sacra, a le tue braccia

Tornerà radïoso: e allor tu il copri

D’una pioggia di baci, Quando stanco

Al seno tuo riparerà dall’aspre

Lotte del genio, ignote a te, da i lunghi

Fluttüamenti dell’arcano mare,

Ov’ei corse a rapire il vello d’oro

Dell’Ideale, appagalo d’amore;

Fa’ ch’ei vegga nell’arco de le nere

Tue sopracciglia un’iride di pace;

E al molle fiato del tuo labbro, i cieli

De la sua fantasia scintilleranno

D’astri non pria veduti.

 

                                   Affretta, affretta

A colmarlo d’amore. Ahimè! non vedi

Come veloci corrono le fusa

De le Parche, o fanciulla?

 

                                       Egli, Signore

Dell’avvenir, non à quaggiù che pochi

Anni contati: e pure il morïente

Spirerà all’opre un’immortal virtude.

Oh! la breve tua man non à valore

Ad arrestar la infaticabil rota

Del tempo. Mira come la barchetta

De la sua vita naviga sollecita

Verso il mistico porto, ed i tre venti

Dell’arte, de la gloria e dell’amore

Ne gonfiano le vele. Ahimè! su quelle

Pinta una fascia si vedrà tra poco

Di lutto, e innanzi a lei chiuderan l’ale

I zeffiri pietosi in suon di pianto.

Da le torri di Roma una funesta

Ora tra poco sonerà per l’ombre

Notturne: e l’amor tuo, l’amor del mondo

Giacerà freddo e giovane. Una siepe

D’accese faci splenderà sui panni

Funerëi del letto; e le tre Grazie

Veglieranno il bel morto. Afflitte note

Dal non visibil organo la Diva

Cecilia spanderà per quelle vòlte;

E ne la pompa dell’esequie il Cristo

Trasfigurato, suo lavoro e gloria

Ultima, apparirà, come lo stemma

De la più pura nobiltà che crei

A sè stesso un mortale. Ahi! che strappata

A forza da una gente senza core

A quel tuo moribondo che ti cerca,

Povera donna che lo amasti tanto,

Non lo vedrai spirar! E lungamente

Questo mondo crudel che non intende,

D’onta plebea t’insulterà. Diranno,

Che tu, il più bello dei vampiri, il sangue

Dell’angelo suggesti; e di tue braccia

Nodo di morte, e del tuo Ben gli fésti

Sepoltura precoce. Oh sprezza i vili!

Tu l’adorasti, e se per te mistero

Fu il genio suo, non fu il suo cor. L’amasti;

Nè mai fu detto che d’alcun dolore

Quel divino affliggessi. Oh sconsigliata

L’itala donna, cui fu dato in sorte

Stringersi al petto un’amorosa testa

Nata a gli allori, che la cinge invece

Di domestiche spine! A lei di contro

La Penisola sorga, e le domandi

Terribil conto del perchè la inerte

Stella non manda lume.

 

                                    O Fornarina,

Nessun sa il lutto che dipoi confuse

Il tuo vivere in tristi ombre ravvolto.

Forse ogni sera a lo sparir del sole,

Vedovella del genio, tu venivi

Inosservata a la deserta chiesa

De la Rotonda a spargere in secreto

Una lagrima e un fior sul pavimento.

 

            E tu dal cielo arridimi, se questo

Amor che porto a le gentili, afflitte

Da la calunnia, mi consiglia il verso

Che nell’umil tenor siracusano

Dopo trecento aprili oggi t’invio.

 

ORE CATTIVE

 




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