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Aleardo Aleardi
Canti

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  • È MORTA.
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È MORTA.

 

FANTASIA.

 

«Nondum illi flavum Prosærpina vertice crinem

Abstulerat, stygioque caput damnaverat Orco.»

 

I.

 

            Ella morì. Ne la pomposa e lieta

Fioritura de gli anni e de gli amori.

Era bella, e ’l sapeva. Allor che il breve

Piede movea per la cittade, ognuno

Le dava il passo, ognun la rivería

Volgendosi a mirarla! Allor che il nome

N’era annunciato a le festanti sale

D’una veglia patrizia, un curïoso

Breve silenzio succedea per quella

Atmosfera di luce e di fragranze;

Donde pronti accorreano ad incontrarla

Molli desiri e sorridenti invidie,

Tal che qualche labbruccio indi si morse.

Quando talor facevasi a la porta

D’una chiesa gremita, era un profano

Di teste svïamento e di pensieri

Vòlti ad un tratto a la gentil divota,

Bench’ella nel fervor de la preghiera

Tenesse aspetto de le care Sante

Dipinte su gli altar; ma più con quelle

Che avean peccato ne la vita prima,

Fragili figlie d’Eva. — Ella moría.

Subita., e cinta di sinistro arcano

Ne dissero la morte. Era una notte.

Sovra il suo letto d’ebano dormiva

Sorridente. La lampa agonizzava.

Sovra il tappeto orïental caduto

Era un volume da la man che ancora

Si atteggiava a tenerlo. Avea scordato

Quella sera di dir le sue preghiere.

Un altro Iddio le inquïetava i caldi

Rivi del sangue. E sotto il trasparente

Velo azzurrino de le sue palpèbre

Iva ondeggiando immersa in non so quali

Vagabondi desii la sua pupilla.

Ma da canto a la bella peccatrice

Carnefici soavi e inavvertiti

Vegliavano dei fior. Dal levigato

Labbro di conca alabastrina il capo

Sporgeano in giro. Ed era ognun di loro

Dono segreto di segreto amante.

In segreto tradito. Iddio che lega

Tutte le cose di quaggiù con fila

Misterïose, Egli saprà per quale

Corrispondenza incognita si fosse

L’anima di que’ fior comunicata

Con l’anima di quei poveri cuori.

Tutto taceva. Una canzon briaca

Solo si udia, come balzar per l’aura;

E qualche pésta che finia perduta

Dietro le svolte: l’indice del tempo

Segnava il colmo de la notte. Allora

Avvenne un fatto pauroso. Il gambo

Lieve lieve allungando una magnolia

Al labbro s’appressò cupidamente

De la sopita, e vi depose il bacio,

Onde l’aveva il donator pregata.

Ma in quello istante pur non altrimenti

La cardenia movea, movea l’acuta

Tuberosa ed il giglio; e ognun credeva

In quella delicata ora di colpa

D’esser non visto, ognun d’essere il solo.

Chè la divina sognatrice, accesa

Da volubili febbri, il collo e i crini

Acconsentiva e il sen nitido a tutti

Perfidamente con egual misura.

Ma in un balen dall’acre accorgìmento

Ch’ella tradía fûr colti. Una gelosa

Rabbia li vinse, e in tacita congiura

Ne decisero il fato. Allor dal fondo

Dei calici scherniti, ove si accoglie

Tanta virtù d’inesplorate essenze,

Stille dedusser di sottil veleno

E nuvolette d’aliti mortali.

Poscia ravvolti in quei vapor d’affanno

Saettaron le nari all’infedele

Atrocemente. Ella agitò pei lini

Le sue nobili forme; una fatica

Disperata divenne il suo respiro;

Come di cosa che si ferma, il metro

Sempre più lento era del core; volle

Mettere un grido; aprì gli occhi; la lampa

Spegneasi allora con guizzo supremo;

Ed ella vide l’ombra de la morte

Passar su la parete. — Al vïatore

Che vaga per alcuna isola greca,

Mezzo tra i fiori e l’eriche nascosa

Appar talvolta, giovinetta eterna,

Una ninfa di Fidia, E sì lo vince

La leggiadria de le scolpite membra

Da spasimar qual di fanciulla viva.

Le siede presso, la contempla e quasi

Arde, le parla, la desia: ma passa

Pur non di meno il venticel che spira

Da Giacinto o da Scio, senza che un solo

Riccio si mova sul marmoreo fronte

De la bella di Paro. E tal giacevi,

Misera Elisa, in mezzo a lo scompiglio

De le diverse coltri inanimata.

 

II.

 

            Ella morì. Con arte attica avvolto

A le spalle il lenzuol, mandò un addio

A’ suoi diletti, e disdegnosa in vista

Si volse a la lontana e sterminata

Regïon de le larve. Indifferente

Varcò i silenzïosi anditi scuri

Che conducono a Dite. Era il terreno

Molle di pianto dei passati innanzi.

D’infra gli spacchi dei cadenti muri

Si rizzavan in tetro ordin le strigi

Col topazio del tondo occhio fissando

La passeggera, ed incurvando in atto

Di reverenza il capo, Il tenebroso

Aër intorno intorno era inquïeto

Per l’ale floscie di notturni augelli

Che il volto a lei strisciavano e le chiome

Rigide, urtando con l’incerto volo.

Ella seguiva indifferente, e il piede,

Vanto dei balli, scivolar talora

Sentía sul tergo d’un’immonda botta

Saltellante nel buio a la ricerca

Di laide nozze. Quando giunse al varco

Dell’orba solitudine dei morti,

Su la soglia trovò de le sue buone

Opre il fardello e de le sue peccata;

E lesta e franca lo si pose in capo,

A quella foggia che usan sul mattino

Le colligiane olimpiche d’Albano,

Tornando dal social pozzo con l’idria.

Era il loco una sabbia arida e grigia,

Pari a le dune e senza mai confine.

Sull’orizzonte una perpetua zona

D’immutabili nubi. Il suol pungea

Per le reliquie di conchiglie infrante,

Per insepolte e róse ossa. Nel cielo

Ignoto al sole, scolorite, immote

Apparenze di stelle a quando a quando

Lasciavano cader un tetro raggio,

Simile a quel del dïamante nero.

Lontan lontano, a schiere, ivan pel fosco

Crepuscolo fantasimi d’amori,

Vissuti un tempo, su, in la terra bella,

Traendo spente faci arrovesciate:

Eran così consunti, e ne le forme

Dïafani, che sotto il sen vedevi

Pendere immoto il cor; come si vede

Pendere fra le nebbie del gennaio

Un vizzo frutto che obbliò distratta

L’autunno di spiccar la villanella.

E dietro lor, come giunchiglia gialle,

Larve di gelosia, ricinti i lombi

D’aspidi morti, e di trisulchi stili,

Col fronte redimito di pupille

Torbide e fisse, e rase di palpèbra,

Larve seguían di tradimenti, larve

Di rimorsi che un’eco di querele

Mettean vestiti a punte di cilicio,

Qual chi cammina e nell’andare ondeggia,

Veniva in fine sventolando i cenci

D’un abito da maschera, la ignuda

Larva dell’orgia, con in mano un franto

Calice, con un riso ebete ai labbri

Stillanti vino; e a lei dintorno errava

Un tintinnio sottile di sonagli,

Un murmure di baci e d’interrotti

Aneliti. E quell’ordine sinistro

D’incerte ombre terrori al desolato

Piano crescea. Poichè la vïatrice

Si senti così sola, e come immersa

Entro il nulla infinito, ogni splendore

Insolente del guardo, ogni alterezza

Dimise, e affranta si sedè sul fianco

D’una spezzata Sfinge. Ivi appassiti

Giù da la fronte le cascâro i fiori

De la ghirlanda: ivi perdè del magro

Dito l’anello ch’io le avea donato.

E al lembo del profondo occhio le apparve

Una stilla gelata. Io non so quanti

Minuti od anni rimanesse assisa

E diserta così; però che il tempo

Non si conta laggiù. — Per quella via

Venne passando un’amorosa coppia

Di pallidi leggiadri; ed ivan lenti

Come malati. Il giovine cingea

Soavemente con un braccio al fianco

L’adorabil cognata; e con la mano

Posta sul cor le trattenea le nere

Gocce di sangue che gemean tuttora

Dall’antica ferita. Allor ch’ei giunse

A ravvisar la misera seduta,

Disse, appressando il volto a la compagna

Si che col labbro ne lambì l’orecchio:

“Affretta il piè, nè riguardar, Francesca,

Quella crudel che non amò giammai.”

Come fur dileguati, una seconda

Coppia arrivò di creature belle

Che con amore si tenean per mano.

In lui congiunte su la vasta fronte

Parea l’intelligenza e la sventura

Nobilmente patita. Era nel vago

Capo di lei, raso di chiome, e avvolto

In bianchissime bende, una forzata

Serenità che risentía del chiostro:

Ma sotto gli occhi languidi per molto

Implacato desio, notavi il solco,

Che le lagrime ascose avean segnato.

Ella si strinse al suo diletto, e chiese

Nel linguaggio dei semplici trovieri:

“Abelardo, che fa quella romita?” –

“Piange, rispose, perchè amore in terra

Promise a molti, e non amò nessuno.”

E sdegnosi passâr senza la scarsa

Carità d’un saluto. Altra o divisa

Gente od unita seguitò la prima,

Senza degnar nè d’un accento pio

Quell’anima che n’era sitibonda.

Ira e vergogna in rapida vicenda

Volgean le chiavi del superbo core;

Quando giunse una donna incoronata

D’illustri perle il crin di corvo. Avea

Sguardo da impero: la persona svelta

Come palma, e flessibile: le forme

Procaci colorite a la materna

Canicola di Menfi. Un cesellato

Scettro movea che arïeggiava al tirso

Di lasciva baccante. Una cerasta

Mordeale il seno che fu già delizia

D’immortali Quiriti. Avvicinossi

A la seduta, e l’ironia guizzava

Su le sue labbra mentre era per dire;

Ma impetüosa si levò la mesta,

E più regina in quello istante apparve

De la regina, e “Va’, le disse, io nulla

Ò con te di comune. Io non concessi

Agli oppressor de la mia terra un bacio;

Io non fuggii da timida cerbiatta

Al tempestar de la battaglia: vanne.”

Tacque e si assise, e un fremito di motti

Egizïani e sangue uscîr dai morsi

Labbri di quella rea che si partía

Mortificata. Allor, come a sorella,

Avvolse al collo de la Sfinge il braccio;

E a lungo in disperato atto rimase

Quella deserta. Una gentil sedette

Soavemente a lei da canto: “Elisa,”

Disse con voce delicata: “Elisa.”

Si scosse l’altra e la guardò. Dal mesto

Volto scorgevi de la nova apparsa

Superbamente lampeggiar la fiamma

Del Genio: ma le Grazie erano assenti.

Sul petto ansante le cadean le chiome

Roride e tese, come d’annegata;

Stillava anch’esso il niveo manto, egregia ù

Opra d’ancelle ioniche che un tempo

Le fanciulle vestían di Mitilene.

“O tu, che vuoi, che con pietà mi chiami

In questo loco, ove pietade, a quello

Che scerno, è spenta? — Ma se pur m’è dato

Di volgerti, o cortese, una preghiera,

Pria di risponder, ti scongiuro, ascondi

Quella tua cetra che ti pende al fianco.

Quello stromento mi ricorda ardenti

Ore d’amor, e punte di rimorso,

E un poeta infelice.”

                               “E perchè dunque

(Sclamò la Greca) lo tradisti, o donna,

Con crudele viltà? Perchè lasciargli

Nel bruno abisso de le tue pupille,

Sì soavi e sì false, astutamente

Affogare ogni sua felicitade?

Perchè baciarlo con le labbra ancora

Umide d’altri baci? Il ciel negava

Intelletto d’amore a te, leggera

Giocatrice di cuori. E ne la tua

Sterilità dell’anima giammai

Non comprendesti la feconda vita,

Onde soverchia d’un pöeta il core.

Ire bollenti e fuggitive; santa

Ignoranza dell’odio e dell’obblio;

Lunghi silenzi; subite eloquenze;

Baci di foco; gelosie di ghiaccio;

Carità di perdoni; una serena

Purezza di pensier mista a febbrile

Sperïenza di cupide carezze;

Ingenue fedi; desiderii audaci

E insazïati; avidità di arcane

Ebbrezze; del martirio e de la tomba

Uno sprezzo magnanimo; un perenne

Vagheggiamento dell’eterna idea;

Ecco, Elisa, il pöeta, ecco la vita,

Che invan mi chieggo, se le Erinni o i Numi

Concessero agli splendidi infelici

Condannati a la cetra. Io ’l so per prova;

E l’onda che si frange a la scogliera

Di Leucade lo sa. Tu lo tradisti;

Tu lo lasciasti, o donna, offeso e solo:

Là, su la terra forse ei ti negava

Il suo perdono, e tu sarai dannata

Forse per molti secoli soletta

Sempre ed offesa a vïaggiar per l’ermo

Regno dei morti.”

                            Tacque. E l’una l’altra

Guardava: ed una si tergeva il pianto.

 

III.

 

            O sventurata pöetessa, io troppo

Quella donna adorai con le pagane

Bramosie che la tua voluttuosa

Ode cantò, con le profonde e caste

Malinconie dell’anima che il divo

Nazzareno insegnò, perchè negarle

Potessi il mio perdono. Oh se sapessi!

Io nei recessi del mio cor le aveva

Elevato un altar; come d’un nimbo

Cinta le avea la nobile persona

D’ideali bellezze. A la pupilla

Vittorïosa, a la moresca tinta

Di fanciulla andalusa, ella parea

Una Madonna del Marillo. I miei

Pensieri in forma d’angioletti biondi

Con l’occhio di vïola intorno al capo

Le volavano e ai piè: davanti a lei,

Simili a cinque candelabri assidui,

Ardevano i miei sensi. E col più molle

De’ versi miei le rivolgea continuo

Inni eleganti, e cupide preghiere.

Ma un dì, ridendo, da la nicchia scese

La Santa de’ miei sogni, e tramutossi

In volubile femmina. Ridendo

Gittò l’aureola di virtù prestate

E incomode dal fronte, e lo ricinse

D’una corona di farfalle: e mentre

Le dava il passo, attonito, m’infisse

Uno stiletto freddamente in core.

Poscia irruppe all’aperto e da le vesti

Una maschera trasse, una di quelle,

Onde celebre un tempo iva Rïalto;

E ascoso il volto, e dato il braccio a fatui

Giovani ignoti, volò via danzando

Per una china lubrica di fango;

Nè la rividi più. Così ferito

M’inginocchiai pregando a Dio clemente

Che tuttavia quella crudel vegliasse.

Indi rimasi fra la gente lieta,

Come in limpido cielo una sinistra

Nube di grandin carica e di lampi.

 

IV.

 

            Ma tu morivi: e a me covvenne il tempo

Medico, Elisa, tal che la ferita

Non dà più sangue. È ver ch’anco non oso

Sfidar le lastre de la tua contrada;

È ver ch’ogni mattin spontaneo porgo

La mia moneta a una fedel mendica,

Perchè porta il tuo nome. E pur il core,

Despota un giorno, or diventò vassallo,

E su lui regno alfin. Ma dimmi, Elisa:

Che fui per te? Chi t’insegnò sì pronta

Virtù d’obblio? Fosti poi lieta? Dimmi,

Adorabil Chimera, ài tu trovato

Chi indovinasse del tuo cor gli arcani?

Un dì per le sublimi Alpi io movea

Dei nepoti di Tell. Da canto al ponte,

Che da Satana à nome, in giù fissava

La vanità del pauroso abisso,

Dove la Reissa, furibonda naiade

Sbatte l’urne di porfido, e ululando

Fugge non vista. Ivi afferrato un cembro,

Curvo sul ciglio lungamente stetti

Su la morte librato. Io non vedea

Che rupi ed ombra. Un indefesso e freddo

Vento recava sibili d’ignoti

Augelli; un rombo di cose cadenti,

E rimoto pei ciechi antri un perpetuo

Mugghio. L’arcano spirito del loco

A piombargli nel sen con malïarde

Vertigini invitava. Era un terrore

Con voluttà. Non altrimente, Elisa,

Ò sentito quel di, che con lo sguardo

M’affacciai studïoso a le profonde

Vanità del tuo cor. Salvo che note

D’uccelli no, ma canto di sirene

Dolcissimo sorgea dal buio. Vinta

Da ineluttabil fascino, cercando

Non l’obblío, ma l’amor, precipitossi

La desïosa anima mia nel suo

Leucade anch’ella: e non trovò che ambagi

Perfide e gelo. — Or tutto fu. La morte

Pose fra noi l’immensità di quattro

Zolle di terra. Ma se pure un giorno

C’incontrerem, dopo un millennio, Elisa,

Là su nel mar dell’anime; del mio

Spirito la facella incontanente

Scintillerà livida luce. A volo

Pure mi celerò dietro le siepi

De gli alberi immortali, a fin che l’eco

De le memorie e il morso, un’ora sola,

Non abbiano a scemarti il Paradiso.

 

V.

 

            Elisa è viva. Un pellegrin che venne

Da le costiere di lontano mare

Narrò d’averla vista uscir dall’acque

Nuotatrice gioconda. Ed una sera

Nell’ora mesta che la squilla parla

Di ricordi, di patria e di defunti,

La rivide pensosa, in su la rena

Scrivere un nome che non era il mio.

Forse l’Elisa del mio sprezzo ancora

Vivrà; ma quella del mio core è spenta.

Pure è un dolor che passa ogni dolore

Portar il lutto di persona viva.

 

 

 




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