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Aleardo Aleardi Canti IntraText CT - Lettura del testo |
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IL COMUNISMO E FEDERICO BASTIAT.
«La propriété c’est le vol.» Proudhon. «Le Communisme anéantit la Liberté.». Bastiat, Harm. écon. «La Liberté est un acte de foi en Dieu et en son oeuvre. » Bastiat, La Loi.
A UN AMICO
MIO CARO.
In questi giorni agitati per tanta febbre di aspettazione, postomi, per trovare un poco di quiete, allo smesso studio della Economia Politica, rilessi le opere di Federico Bastiat, e quel tuo lavoro che sai, così splendido, in verità, per concetto e per forma: ed ò sentito che anche da questa scienza, come voi due la trattate, esce un calore di profonda poesia. Sicchè non ò potuto resistere alla tentazione di scrivere dei versi; e questi meschini che mi son venuti, te li mando e te li dedico, quantunque sicuro che non varranno a procurarti un millesimo del nobile diletto che il tuo libro mi à dato. Nello scriverli mi tornavano sempre a mente le orrende giornate del giugno 1848, che fecero di Parigi un macello di cristiani. Io c’ero, mio caro, e anzi desiderando vedere come quella gente là, maestra, facesse le barricate, un bel mattino, a una svolta della via Crécy, mi trovai tramezzo alle fucilate, a rischio di farmi ammazzare senza gusto. Che giorni furono quelli! Che angoscia! Non mi sarei mai immaginato che i Francesi fossero così barbari. Il cannone tonava per le strade: le strade correano sangue. Io mi sentivo soffocare; avevo in ira Parigi, e quella Repubblica senza repubblicani. Per raddolcirmi l’anima andai a vedere Lamennais. Il celebre vecchietto era come sepolto in un povero seggiolone, e gli veniva giù una lagrima. Mi sedetti sulla sua branda d’anacoreta, e si stette un pezzo in silenzio. Finalmente con quella sua voce esile che tanto contrastava con la furia di potenti idee che esprimeva, porgendomi quei quattro ossicini della sua mano, mi disse: «Questi cannoni, mio caro, uccidono anche le speranze d’Italia. » — « Quanto a ciò, risposi, essi non mi uccidono nulla, perchè con questa gente e con questo Lamartine al governo, con quell’Oudinot all’esercito, dopo che li ò imparati a conoscere, di speranze non ne ò avuto più ombra. » — E si tacque di nuovo lungamente. Egli aveva gli occhi levati al cielo, e forse pregava per il suo e per il mio paese, per chi moriva e per chi faceva morire. E il cannone seguitava. Ma lasciamo là. Del resto, tornando al Bastiat, non è mica vero, sai, che quando ei morì a Roma gli abbiano deposto nel sepolcro a San Luigi de’ Francesi il suo manoscritto. Quel volume sì bene incominciato, e sì male interrotto dalla morte, l’Italia, a quel che mi dissero, lo inviò a te, acciò ne riempia le moltissime pagine rimaste bianche; e allarghi e svolga, nella mirabil maniera che sai, il fecondo e magnanimo concepimento del defunto basco.
Addio col cuore dal tuo
ALEARDO ALEARDI.
Verona, 15 febbraio 1859
IL COMUNISMO.
I.
Scossa dai piè la polvere Dei castelli sovrani, Che dai lor balzi franano Sui non più servi piani: Scossa dai piè la cenere De le pire ferali Che osaro Iddio far complice D’odii sacerdotali; Stanca d’inique o stolte Battaglie e di rivolte, Fidente sempre e giovine Par che l’Umanità Volga a superbi e rosei Sentier di civiltà.
II.
Col suono accompagnandola De le frante catene, Illusi vati il termine Cantano di sue pene. Ma sempre un’implacabile Necessità la punge; E l’invocata e perfida Felicità non giunge; Pure il dolor dardeggia Sopra l’immensa greggia Dei faticanti miseri; E l’odiato sudor, È pur l’irremissibile Condanna del Signor.
III.
Da le fessure gelide Del muffido abituro Guarda il plebeo con invido Occhio all’opposto muro; E per le allegre e lucide Finestre del potente Vede danzar le pleiadi De la beata gente: Entra con l’aer tetro A provocarlo il metro De la insistente musica Mista dei corridor All’inquïeto scalpito: Ode; e ne rugge in cor.
IV.
Rugge e rammenta il mobile Lastrico de la strada, E la codarda ruggine Che rode la sua spada; Pensa ai convegni, ai lividi Volti de’ suoi compagni; Vede una morte sùbita, O sùbiti guadagni; Nel conturbato rio Dell’alma sua, più Dio Non si riflette. Cùpido Di vendetta un desir, Quasi calpesta vipera, Lo seduce a ferir.
V.
Allor da sotterranee Fucine di congiure All’improvviso erompono Insolite figure, Che sui frequenti trivii Con sospettosa voce Dritti feroci insegnano A la plebe feroce. Forieri de la morte Battono all’erme porte D’ogni miseria; e chiamano Lo scarno abitator A preparar le fiaccole Per l’orgia del Terror.
VI.
E alfin l’inesorabile Indice segna l’ora. Lascian la sega, lasciano L’incudine sonora Que’ furibondi, e sboccano Dal lamentoso tetto. I rei sofismi cambiansi In palle di moschetto: Per le fumanti vie Gemono le agonie; E cento madri in lagrime De le stelle al pallor Cercheran fra i cadaveri Il figliuolo che muor.
VII.
O lo vedran su lugubre Vascello all’indomane Partir di ceppi carico Per isole lontane: Dove non valgon gemiti, Dove pietà non vale, Dove la vita è simile A un lento funerale; Dove lo cinga un lutto Perpetuo come il flutto; Donde il pensiero libero Con penosa virtù Rivóli ad una patria Ch’ei non vedrà mai più.
VIII.
E tu rompesti il fàscino Che tante menti offese, Tu, del Diritto vindice, Magnanimo Francese. Contro il novello barbaro Che spinger si consiglia Verso un tremendo incognito Questa civil famiglia, Che sul campo eredato, Dal mio sudor bagnato, Pone una bieca lapida, Che in nome del Signor Mi scaccia, mi vitupera,
IX.
Contro il mendace aruspice Ch’osa con mano impura Cercar l’umane viscere Profetando sventura; Dei partiti nel torbido Circo di sangue immondo E tu scendesti interprete De la ragion del mondo. Tenevi nella manca Una bandiera bianca, Dove avea scritto l’angelo De la nascente età, Con fulgidi caratteri, ”Iddio, e Libertà;”
X.
Tenevi con la facile Serenità d’un nume Ne la destra la nobile Arma del tuo volume, E combattesti indomito Cavalier d’un’idea Santa. Ed al piede innocua La furia ti cadea Dei dardi avvelenati Dai nemici scagliati; Che ti curvavi a cogliere Pur seguendo a pugnar, Del buon senso spezzandoli Su la pietra angolar.
XI.
Poi ritornato ai patrii Vïali di Baiona, Cui fan da lunge i vertici De’ Pirenei corona; Vagavi solitario Lungo le arene basche Che l’Oceàno accumula Nei dì de le burrasche; E guardando a le stelle Eternamente belle, Chiedevi a Dio, se l’ordine Che domina nel ciel Da innumerati secoli Con armonia fedel,
XII.
Governi pur quest’orbita Che la progenie umana Discorre infaticabile Lungo una spira arcana: Sospinta ognor dal provido Aculeo dei dolori, Superba de’ suoi Genii, Mesta de’ suoi Signori, Che va con larghe ruote Aure cercando ignote, E par che miri assidua Con lunga avidità Verso un sereno e fulgido Sole di libertà.
XIII.
Ma a Te non diede, ahi misero! Il ciel risposta intera, Vela una lenta tenebra La tua pupilla nera, Nè più consente agl’impeti Del tuo pensier veloce E generoso, il languido Filo de la tua voce. E nell’Italia muori Nel suolo degli allori; In questa urna magnifica, Di glorie che perîr, Urna che serba splendidi Fati dell’avvenir. 2
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1 «Chi à diritto di far pagare l’uso della terra, di questa ricchezza che non è il fatto dell’uomo? A chi è dovuto l’affitto della terra? Senza dubbio al produttor della terra. Chi à fatto la terra? Dio. In questo caso, proprietario, ritirati.» PROUDHON. * Vedi le Note, a pag. 232 2 Federico Bastiat nacque a Baiona il giugno del 1801, morì a Roma di tisi tracheale il dicembre 1850, |
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