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Aleardo Aleardi Canti IntraText CT - Lettura del testo |
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PER UN GIUOCO DI PALLA
«Ipse semipaganus Ad sacra vatum carmen affero nostrum» PERSEO, Prol. Alle Satire
AL CONTE GIOVANNI GOZZADINI
I.
Echeggia all’iterato Suon di battute e di respinte palle Con pronto magistero Colte sull’impugnato Disco di tesa pelle, echeggia intorno La vitifera valle. A cui toglie il Pastel, 2 simile a tenda Color de le vïole, Veder siccome tremolo discenda Il sole e l’altre stelle. Al noto suon mi accelero con destro Piede fra i sassi del sentiero alpestro; Le locuste saltellano pesanti Fra i cespi di purpurëi dïanti Al mio passaggio rapido; il ramarro Lesto a la fuga e splendido si posa Guardandomi dal lembo D’un ramoscel di rosa; e il re di macchia, Unico re beato, Or mi svolazza innanti, Or mi svolazza allato, Felice se una morbida falena Dio gli conceda a la solinga cena.
II.
O amabili vittorie, o gentil foco! O di salute rosëa feconde Sudate ore gioconde Della mia giovinezza! Or mi ricordo Que’ bei mattini che ferveva il giuoco Sulla piazza di rustica villetta Romoreggiando; e ai termini segnati Con frasche di nocciòlo Fitta ondeggiava de le palle al volo, Parteggiando la gente; E a far più bella l’innocente festa Dal sommo dell’altana Le fanciulle sporgevano la testa Tra un fior di timo e un fior di maggiorana. E allor quando la squilla Della meridïana ora consiglia Un saluto a Maria, Era bello veder all’improvviso Sostar i giuochi e ’l riso; E della turba pia Che ne facea ghirlanda, Chi il biondo capo e chi la veneranda Canizie discopria; E passato l’istante D’un silenzio che prega e che sublima, Tornava al plauso e al favellío di prima.
III.
A que’ dì invïolate eran le imposte Lasciate aperte del fidato ostello; Allor del camperello Su le patenti coste Maturavan le frutta invïolate; Al colmo de le nere Notti, pei trivii, senza alcun sospetto Mover potea soletto il passeggiere. Securo era il pudore De le fanciulle, e fido Il grembo de le nuore; E riverita come santa cosa La vecchierella annosa; E santo il giuro; e santo De la sventura il pianto; E su la soglia accolto Del povero l’aspetto, Come d’amico che ritorna, il volto. Una palmetta d’intrecciata uliva, Simbolo allor verace Di casalinga pace, Pendeva a capo d’ogni casto letto, E un’aura sana di virtude usciva Dal breve cimiterio benedetto.
IV.
Quanto mutato ormai da quel di pria Veggo il villaggio; e come Fra il palazzo disciolta e l’abituro La benigna armonia! Leggi straniere, e lungo giogo impuro Fumo di studi, ignobili patrizi E cittadini vizi, E la flebile schiera Dei giovani strappati Ai campi inseminati E al lagrimoso amplesso de la madre, Per seguitar non itala bandiera Fra terre estrane, e squadre Estrane, àn spento il lume D’ogni gentil costume. Pergami non esperti Del mondo, e amici trepidi del vero, Ministri avari o inerti, Talor, non già del cielo, Ministri de lo Impero, Che storcono il Vangelo A pro de lo straniero, Àn de la patria dolorosa spento Fra i campi il sentimento E il grido. Àn fatta muta o irreverita La magnanima voce Che parla da la croce.
V.
Ahi! villano, villano! Ahi vecchio seme Degenerato! — Un giorno Questa ti chiederà povera terra, Perchè ne le supreme Ore del suo civil commovimento Tu pur le festi sì codarda guerra. Va’ sciagurato! — E quando di Novara Su la fatal pianura Perderan l’imperizia e la sventura La mal giocata ferrëa corona, E questa irrisa e cara Regina un dì dell’universo, ed ora Regina dei dolori, Ripiomberà da la toccata altezza; Inghirlanda di fiori I volubili altari, Rïempi d’allegrezza Matricida i tuoi lari. Va’ sciagurato! — E quando Di Mantoa sul nefando Vallo una santa fila Di martiri gentili Penderà dal patibolo onorato; E de le nebbie tra la scialba luce Dominerà la truce Figura del carnefice agitato; E tu l’invidïosa Anima fratricida Nutri di gioia ascosa. Va’: — le facili porte Sfonda de’ tuoi Signori; Uccidi e struggi, e de le salme morte Spicca l’insanguinato Capo, e lo vendi ai lividi oppressori. Già non è ad essi ignoto Il funebre mercato. 3
Sant’Ambrogio, il dì 5 dicembre 1857.
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1 Con le seguenti parole io accompagnava questo canto al mio amico V. Baffi:
«Vi mando un lavorino di alcuni anni fa, scritto sotto gli occhi d’Argo dell’Austria; quando nel sospetto continuo di qualche perquisizione in casa, bisognava scrivere venti versi, e poi nasconderli in qualche buco, e poi, come più volte m’è accaduto, non li trovando più, doverli rifare, o gittar il lavoro. Nullameno a scrivere così, coi birri alla porta, col carcere davanti, c’era, come spesso nei pericoli, la sua acre voluttà.» E ò gusto d’averla provata. È canto inedito, e forse meriterebbe rimanervi: è un richiamo a' giuochi giovanili. È tanto salutare rinfrescarsi di quando in quando l’anima entro a quelle innocenti memorie. Non so se voi altri conosciate il giuoco del tamburino. Questo è un arnese di assicciuole di faggio curvate in cerchio, sulle quali vien tesa e assicurata da bullette una pelle di vitello più o meno elastica e sottile secondo serve a battuta o a rimando. Con esso si lanciano palle di sovatto, picciolette e pesanti, colle discipline a un di presso che si usano nel giuoco del pallone. Da noi è comune. Molte ville, la festa, suonano di colpi. Io ero, salvo la modestia, valentissimo; e tuttavia che ne parlo, mi pare di essere sbracciato, sudante sul piazzale, e respiro la sventata aria dei vent’anni. Oh allora ero felice! Ora....ora vi mando questi versi e un saluto di cuore. Il vostro ALEARDI.»
* Vedi le Note, a fine canto 2 II Pastelo è il monte, alle falde del quale si distende al sole, Tempe veronese, la Valpolicella. Povera valle con le sue uve malate, coi bachi malati, cogli austriaci sani. — In un Carme che per ragioni amare non vedrà mai la luce, io dicea: «……… povera valle! Ella che un dì da le feconde chine Là del Pastelo mi rendea sembianza D’Itala Sulamitide, su letto Di fiordalisi e di gaggìe posata; Or mi parea mendica orfana scarna Seduta in solitudine sui nudi Marmi del monte, che chiedesse a Dio La carità d’un grappolo, e d’un filo Di seta. — E Dio gliela negava. — E il turpe Alemanno venía caracollando A rapinarle l’ultimo suo pane.» Il Pastelo guarda a mattina la Valle di Fumane, e forma a sera, da Volargne a Rivoli combattuto, la parte più selvaggia e grandiosa della Chiusa dell’Adige. Dalla vetta a mano a mano scendendo verso mezzogiorno si trovano sul suo fianco il paesello di Monte, e quel di Mazzurega; qui, a forza di cavare strati di pietra pei lastrici delle venete città, v’ànno dei monti perforati in guisa che ti danno immagine di superbi e tenebrosi ipogei con vaste sale divise da enormi pilastri. Quivi nacque Bartolommeo Lorenzi, gentil poeta, che abbandonata la fugace gloria dello improvvisare, cantò in nobili ottave la Coltivazione dei monti.- Onesto prete, ei dorme accanto la sua alpestre chiesetta cinta di prati declivi. — Poi viene San Giorgio, dall’ardua e ingannevole salita chiamato Ingannapoltrone, bello di posto aereo, di lapidi romane, di monumenti longobardici; e giù alle pendici Gargagnago visitato da Dante. — Ma la poesia di questa terricciuola se la condusse via quasi tutta la Contessa Nina Sarego Allighieri il giorno che volse a Bologna, sposa al Gozzadini. — Poscia a occidente il mio bel Sant’Ambrogio; dove villeggiavi, e così presto, poverina, morivi, Musa delicata, Caterina Bon-Brenzoni, salendo a quei Cieli, che così splendidamente avevi cantati: e più discosto Castelrotto del mio illustre e infelice fratello d’anima e di studi, Cesare Betteloni; e più in là ancora Novare così caro al Pindemonti. — Paesetti tutti ricchi di marmi, lieti di vini, di frutta, di fiori; sacri a me per soavi e meste memorie. Questa pare la valle dei poeti.
3 Ognun conosce i selvaggi macelli di Galizia provocati dalla politica iniquamente ipocrita dell’Austria. Il giuoco istesso dello aizzare il villano contro il signore, volea, la scellerata, tentare nelle nostre bande: ma la non bestiale indole de’ nostri campagnoli sventò la trama bestiale. |
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