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Aleardo Aleardi Canti IntraText CT - Lettura del testo |
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TORNERÀ
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A CESARE BETTELONI.
CESARE MIO,
I nostri vecchi latini (dico quelli che sapeano scrivere) aveano costume di mandare nei giorni solenni in regalo agli amici, dei versi, o qualche altro lavoro di Letteratura. Persio inviava a Plozio Macrino, per fargli festa nel giorno natalizio, la seconda delle Satire, che ne rimangono di quel giovinetto incolpabile, vissuto in colpevoli tempi. Calvo, il Salaputium disertum, mandava nella festa dei Saturnali al suo elegantissimo Catullo, per farlo arrovellare, i più ladri versi che gli donavano i suoi clienti. Io, rinfrescando la bella e smessa usanza, t’invio per il Ceppo questo Canto, il quale se di troppo somigli alla roba di Calvo, tu, delicatissimo poeta, giudicherai. Dio ti tenga lontani i tuoi mali di testa. Mi ricordo aver letto che Atene afflitta della morte del poeta Eupili, caduto in un combattimento, non potendo vietare alle frecce di cogliere i poeti, mise fuori un suo decreto, che vietava ai poeti d’avventurarsi in battaglia. La buona madre Natura dovrebbe vincere di cortesia la greca città, mettendone fuori un altro, che proibisse al Dolore di assalire la testa degli egregi poeti, come sei tu. Io seguiterei ad avere il mio. Pazienza! Guardando fuor della finestra, ove sto scrivendo, vedo là, verso Verona, mezzo ascoso dagli alberi, il tuo Castelrotto, dove tu, intimo dell’arte e della natura, tratti con uguale amore sapiente ora una strofa, ora una vite; e su quella collina il mio sguardo si ferma con tenerezza, perchè so che lassù c’è un cuore onesto che mi ama. Seguita dunque ad amarmi, e addio. Il tuo ALEARDI. Sant’Ambrogio; 25 dicembre 1857.
I.
Nell’ora fredda che previen l’albóre, Quando la squilla invita a la preghiera Il vigil cacciatore, Volan le gru pel cielo in bruna schiera, Divinando il cammino Per quel deserto d’aere. Dal silente Campo, dove già suda il contadino, Il rauco addio ne sente; Alza lo sguardo e non le può, vedere, Però che tra le nuvole e le stelle, Altissime s’avvían le passeggere Vêr le povere e belle Isole egee. Ma pria Che il sol d’aprile intepidisca il giorno, Poeta mio, di là rivoleranno Ai deserti paduli Dell’ultimo alemanno, Fedeli nel ritorno.
II.
Una pioggia di foglie Aride, brune, mormorando scende, E a piè del vedovato Albero si raccoglie; Il quale i rami fragili protende, Quasi braccia che implorino mercede A Borea che le fiede; Ma al termin del tiranno Verno, poeta mio, Le foglie torneranno; E con le foglie i fiori, e con i fiori Sotto l’onda, sul monte, a la pianura I rinnovati amori De la Natura, i pòllini scorrenti Per le pregne di vita aure dïurne E le fragranze e l’urne De le eterne sementi.
III.
Veggo le nebbie ascendere dal piano A le pendici, simiglianti a flutti Di candido oceáno. Donde, siccome instabili isolette, Emergono le vette Dei colli a quando a quando illuminate Dal sol che con amor vi si riposa. E spuntano le scure Cime del campanile Di alcuna chiesa ne la valle ascosa, Come tra l’onde estremità d’antenna D’affondato navile. Veggo il sublime dosso Nevicato dei monti Rimoti farsi rosso Di fiamme a le stupende Porpore dei tramonti, o disegnarsi al batter de la luna Sul bruno firmamento Con ondeggiante linea d’argento.
IV.
Ma quelle nebbie e quelle Nevi dilegueranno al tenue fiato De le primaverili aure novelle: Però che Dio ritempera il creato Con immortal vicenda Di vesperi e d’aurore Di gelo e di tepore, Di calme e di tempeste, Di spasimi e di feste, D’annosi corpi infermi E di vivaci germi, D’aridi o verdi lidi, Di sepolcri o di nidi; E quando alcuna vita Terminando s’annulla, o si riposa, Dove Dio sol lo sa, misterïosa, Valicate le porte De la feconda morte, Una florida e nova creatura Rompe dal sen de le scomposte forme, Però che la. Natura Si rinvergina sempre, e mai non dorme.
V.
E che per te soltanto Non tornin più la pia Mitezza e i fior d’un glorïoso aprile, Anima del mio canto, Mio dolente e gentile Amore, Italia mia? Oh! le solenni Primavere dei popoli son lente A rifiorir. Ma eterno E implacabile è il verno Che ti flagella, antica penitente. E, a questi dì per ultima sventura, Vedi siccome cascano dal sacro Albero de la vita, Quasi poma da pianta illanguidita, Su’ tuoi giardini, i rari Che ti restavan grandi cittadini. E ad inasprir l’affanno Non si vede spuntar dai rami avari Nuovi germogli a ripararne il danno.
VI.
Ahi misera! da secoli tu sconti Quell’immortal peccato D’aver manifestato Quanto valevi al mondo. Onde le genti n’ebbero spavento Con crudel gelosia. Però dal fondo De le barbare patrie ad una ad una Corsero all’Alpi, e ti gittò ciascuna La sua pietra sul capo; e t’ àn lasciata, Come adultera antica, lapidata. Era vergogna e rabbia Per i ceppi latini; era un selvaggio Saturnale di servi, Che ne la giovanil forza brutale Passandoti sul grembo e su la testa T’ànno solcata a striscie di sterminio, Come per lunga riga di campagne Fa, lanciata dal vento, la tempesta. Tu fosti allor in prima Una ruina; poscia un monastero; Indi un’arena di battaglie, e un nido D’insuperabil arte: or corre il grido Che tu sia un cimitero. Oh! ma da questi Campi di morte, ignoto Mondo scoprendo e veritadi arcane, Tu non di meno la maggior porgesti Mèsse di genio a le famiglie umane. Ma da queste ruine De le tue varie Ateni, Or di gioia temprato, ora di pianto, Stupendo sempre ascese De’ tuoi poeti il canto. Ma, somigliante al passero solingo Che dai petrosi monti Spande sue note a consolar le valli Tacite e l’ora mesta dei tramonti, Qualche tuo nobil figlio Mandò sì dolci musiche e sì nova Virtù di melodie sopra la terra, Che ne allegrò le lagrime, e il severo Cammino dell’esiglio. E l’infimo straniero, Che ancor ci violenta, Misero! Anch’egli ostenta D’averti uccisa. Quasi La Penisola bella e il Vaticano Fossero diventati Una tomba e un altare, Nell’azzurra locati Solitudin del mare. Pure di quando in quando, Con aria di sospetto taciturna, Egli si affaccia, e trepidando osserva Se qualche cosa si agiti nell’urna De la povera serva.
VII.
Oh guarda pur, chè un alito di vita Par che sollevi il seno De la immortal sopita: Par che le torni a rifluire al core L’antichissimo sangue Che tutte ancor le volge per le vene Le nobiltà terrene. Oh guarda pur ch’ei pare Da un lieve moto de la mano esangue Ch’ella vada cercando Per entro il buio dell’avello il brando. Però che come Stromboli fiammeggia Perenne in una breve isola sua, Tingendo a notte di color di rosa Il lido, la marina Tempestosa e le antenne Di veleggiante prua; Tal arde incorruttibile, perenne De la sua vita il lume Alimentato da un’arcana forza, Che nessun nume di quaggiuso ammorza. E sopra le sue mille Floride ville, e su la Famiglia illustre de le sue cittadi Infaticata la speranza batte Novellamente l’ala tricolore, Col previdente amore Dell’aquila che vola intorno al nido ù De’ suoi giovani figli, Ch’educa al sangue, che prepara al grido De le battaglie, e a splendidi perigli.
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