Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Aleardo Aleardi
Canti

IntraText CT - Lettura del testo

  • I SETTE SOLDATI
Precedente - Successivo

Clicca qui per attivare i link alle concordanze

I SETTE SOLDATI

 

A

GIUSEPPE GARIBALDI

 

ALEARDO ALEARDI

 

I SETTE SOLDATI

 

 

 

CANTO

 

 

«……. tedesco……….

Giusto giudicio dalle stelle caggia

Sovra 'l tuo sangue, e sia nuovo ed aperto.»

DANTE, Purg. canto VI

 

 

I.

 

            Ecco la valle: io la ravviso, tetra

E uniforme; deserto

Passaggio in mezzo a due schiene di monti

Ardui, che sempre ignora

Le rose dell’aurora e dei tramonti.

L’imo ne solca un fiume; astori e nebbie

Ne solcan l’aure. Una turchina spira

Di fumo, ch’esca da abituro umano,

Per quanto l’occhio gira

Tu cercheresti invano.

Pria che vi fosse questa gran miseria

Di servi e di signori,

Di tormentati e di tormentatori;

Questa follìa di popoli devoti

A la bugía di mille sacerdoti,

Trafficatori di paure arcane

De la tomba e di Dio; sotterra un foco

Intimo scosse il loco; e da la china

Giù de’ monti piombâr quelle infinite

Enormi pietre che ti vedi innanti

Bianche, diritte, come

Tumoli di giganti. 

Con piè veloce per sospetto vola,

Se passa tuttavia, la mandrïana

Che, tratto tratto, a salti,

Ode fischiando ruinar la frana

Dei lividi basalti;

Ode e asseconda con tremante voce

Il segno de la croce.

Ogni eminenza dopo la procella

Versa per cento conche I

In curve e fuggitive

Cascatelle il soverchio de la piova:

Suonano le spelonche

A la cadenza di frequenti stille:

Brilla l’immenso verde,

E tutta di vaganti iridi piena

È la silvestre scena.

 

II.

 

            Pur quando all’aure pronube d’aprile

Di requie impazienti

Fremono i germi in grembo a la Natura

Che in pompa si riveste

Per le nozze imminenti;

E per la terra, e per il cielo spira

Quello indistinto fáscino d’amore

Che scorre per le fibre a le fanciulle,

Pei calami del fiore,

E forse per le stelle:

Anche quest’erma valle e queste brulle

Rocce si fanno belle

D’un lor riso severo.

Lungh’esso il fiume in su la tersa ghiaia

Manda il pivier la gaia

Nota di sposo. Ai piedi de le selci,

Coronate di felci, esce il ciclame

Profumando; e la vite

Selvatica diffonde

Lontanamente i balsami rapiti

Dal venticello ch’alita sull’onde.

Nasce, amoreggia, e muor tra le dorate

Selvette tenüissime dei muschi

Un mondo di viventi atomi, a cui

Sembra una stilla di rugiada un lago

E per girare intorno

All’orbe immenso d’una margarita

Consumano la vita.

Fino ai colubri appigliasi l’arcano

Assillo dell’amor. Sbucan dai covi

Cinti di rovi al sol meridïano,

Avviandosi ardenti al consueto

Loco dei cento talami. Costretti

Ivi in beata voluttà di spire

Mettono un fischio languido; ed il sole

Coi raggi indifferenti

Feconda a un tempo il tossico ai serpenti,

L’olezzo a le vïole.

 

III.

 

            E un dì passai per questa valle. L’alba

Illuminava d’una luce scialba

Le declivi boscaglie; e in ciel languía

Il curvo filo de la stanca luna.

Quivi a lungo, poc’anzi avea ruggito

Una battaglia disperata e santa

Tra i figliuoli d’Italia

E lo stranier: una vendetta allegra

De la schiatta latina.

In vetta a una collina

Guardai giù basso, e a la crescente luce

Mi parve innanzi rinnovato il truce

Spettacolo di Flegra.

Oh quante genti fulminate! quante

Agonie disperate

Ne la giovine etade

De le speranze! quanti fior di vita

Ricisi da le spade!

Che amor, che generosi impeti, e arditi

Proponimenti e lampi

Di poesia spariti

Là con quei cor, con quelle bionde teste

Ne la fuga dei carri e dei cavalli

Orribilmente péste!

E quanta folla d’anime immortali

Che varcano le soglie de la morte

Dai lor cari defunti inaspettate!

Simili a nembo di sinistri augelli

Che ratto migri ai nidi oltramontani,

Volaron le novelle

Crudeli, e dai moravi

Ai campi transilvani

Sorse un gemito d’avi,

Un singhiozzo di madri e di sorelle

Diserte. E cento acuti

Archi di stranie chiese

Brillâr di torce funerali, accese

Per la pietà dei poveri caduti.

Quivi frattanto, senza onor di tombe

Ai venti abbandonata e a la rugiada,

Giacea questa ecatombe

Di servi de la spada.

Essi eran morti udendo il trïonfale

Suon dell’itale trombe,

Beffardo ultimo vale:

Quando che sia risorgeranno al tócco

De le angeliche squille, e forse ancora

A quel subito suono

Dubiteranno d’essere inseguiti

Dall’itala vendetta

Lungo gli eterni liti.

Poi che nè pur la pace de la fossa

A spegnere non val l’odio compresso

Che contro l’oppressor nutrì l’oppresso.

 

IV.

 

            Dentro al mio core s’era fatto un grande

Buio. Il più triste spirito dei carmi

Agitava il poëta:

L’italiano esultava, e l’uom piangea.

Pure all’idea de le recenti e antiche

Catene, e degl’insulti

Da tre secoli inulti: all’empia vista

Di quel popol di morti, affascinato

Alzai la destra in guisa

Di chi vuol maledir: ma a mezzo l’arco

Ella mutossi in man che benedice:

E come ebro discesi

Da la pendice al campo insanguinato.

Colà in disparte parvemi la salma

D’un caduto su l’orlo de la riva.

Pendea nel fiume la sinistra palma

Che sospinta dall’onde

Iva e rediva come cosa viva.

Tenea con l’altra al core

Un suo strumento nitido di bosso,

Donde ei ritrasse in vita

Pane e sorrisi, e note

Di gentil melodia col sapïente

Alternar de le dita. 1*

«Povero onesto, io dissi, e chi di noi

Offese i padri tuoi?

Chi ti spinse a lasciar l’esile aratro

Sovra i piani dell’Elba? E non ti afflisse

Abbandonar l’immenso anfiteatro

De la patria boema, a cui fan cinta

La famosa foresta e le brillanti

Montagne dei Giganti? O perchè non seguìvi

Ad animar con gli eredati suoni

De le natie canzoni

I convegni giulivi

Del villaggio domestico; e la vaga

Danza che folta ti attendea, la festa,

Tra mezzo a le fiorite

Collinette di Praga?

Come nel pianto abbandonar potesti

La tua fanciulla, a cui dall’arpa ebrea

Derivare apprendesti

Nobili accordi con la man plebea?

Povera bionda! Intanto

Ella di speme l’avvenir ricama;

E per l’amor d’un pane

Va trascinando lietamente il santo

Strumento dei profeti

Per gli anditi indiscreti

Di taverne profane.

Ma poi che giunto all’Elba il picciol grido

Sia del tuo fato, la vedranno a poco

A poco dileguar; cosi che in breve

L’immondo ragno tenderà le reti

Fra le disciolte corde;

L’arpeggiatrice dormirà nel prato

Inugual del sagrato.»

 

V.

 

            Io gía come l’afflitto che cammina

Favellando da sè. Quando lontano

Appena un trar di sasso

Contenni il piè dinanzi

Un inclinato masso.

Simile al gufo che il villano inchioda

Là crocefisso al legno de le porte

Per divertir non so che malefíci

Temuti de la sorte;

Tal qui giacersi con aperte braccia

Vidi un supino fulminato al core.

Al fosco lividore

Del poco fronte e dell’obliqua faccia,

Al crine irto, ai nodosi

Lacerti disegnati

Dai panni luttuosi,

Io riconobbi un nato

All’ardor di selvaggi abbracciamenti

Sul giaciglio croato. Anime prave

Che ricevono al fonte un odïoso

Battesimo di schiave;

Intelligenze pigre

Là giù nei lor materni antri alla caccia

Degl’Itali educate ne le atroci

Scaltrezze de la tigre:

A cui ne la ferina

Tragedia de le pugne unica Musa

È la rapina. Ahi miseri, e non sanno

Che insieme un dì ci leverem fratelli

D’ire e d’affanno! — A lui

Insuperato nuotator non valse

Fortificar i nervi incontra ai flutti

Rapaci de la Kulpa; 2

O pareggiar nel corso

Anelante i selvatici bidetti

Aborrenti di morso;

Ch’or non di meno, come inerte cosa,

Ne la perpetua calma

De la morte riposa. —

Lungo un’erbosa riva che si perde

Col pallido suo verde

Nell’adriaca marina,

Mena solinga a pascere la vacca,

Util compagna e cara

De la sua vita amara,

Una gentil Morlacca.

Quivi seduta senza trovar pace

Riguarda al sol che tramontare accenna

Oltra quel mar, da quella banda, dove

Ne la deserta antichità si giace

La nobile Ravenna.

Poi s’alza ratta e un súbito sgomento

Le stringe il core, perocchè le parve

Sentir passar col vento

Caldo, che soffia dal lombardo lito,

Mista al lamento di cognate larve

La larva del marito.

Leva lenta le nari, e l’aure anch’ella

La vaccherella fiuta,

E con lungo muggito

Il tramonto saluta. —

Oh va’, infelice! gitta in mar l’infausto

Anel di sposa: la tua terra è omai

La patria de le vedove. Levate,

O donne, a schiere la canzon dei morti

Per le serbe vallate.

Misere! e a voi non fia

Nè pur concesso lagrimar sull’erba

Sorta dal sangue dei mariti estinti;

Però che tutti maledetti e vinti

Giacquero sui pugnati

Campi de lo straniero;

E il lor cenere è sparso ai quattro lati

Del moribondo impero.

Ite, o donne, coi macri orfani in collo

Dinanzi a voi spiegando,

Simbol d’immenso lutto, il funerale

Stendardo giallo e nero: ite, e levate

A mille a mille la canzon dei morti

Per le serbe vallate.

VI.

 

            Con tal procella di pensier che invano

Significar con l’impotenti rime

Si trova la pittrice arte dei carmi,

Io m’innoltrai nel piano

Vie più di membra mutile, di rotti

Carriaggi sparso e d’armi.

Era un silenzio pauroso. In questa

Campagna dei sospiri

Non sentivi un sospir. Pure un momento,

Quasi ronzío d’insetto vagabondo,

Mi parve udir maravigliando il lento

Mormorare d’un salmo. L’inquïeto

Sguardo girai d’intorno, e vidi in mezzo

A un denso rovereto

Starsi un mesto, diritto in fra due morti.

Le lunghe pieghe de la veste nera,

L’onda fluente dell’intonso crine,

I severi conforti

De le voci latine

Mi palesâr che gli era

Un ministro dell’ara.

Ei non piangea: ma più del pianto amara

Era l’angoscia de lo scarno volto.

Io m’appressai. Non fece

Motto, e finì la prece.

Poi senza pur guardarmi: “Tu chi sei?

Disse; che cerchi?”  — “Io mi son un, risposi,

Che piange e canta; e vengo

A contemplar un’itala vendetta.”

- “Or ben, soggiunse sospirando, nota

Que’ due caduti che mi fûr si cari;

E se a nemico generoso io parlo,

Ricorditi di lor, te ne scongiuro,

Canta di lor che fûro

Grandemente infelici.” — Ed io guardai.

Uno era biondo e bianco; avea la morte

Dimenticato di coprirgli il fisso

Orbe de le pupille,

Picciole e brune, come due granate

De’ suoi natii Carpazi

Da un alito appannate.

I mal contesti rami

Dei crocëi ricami

Sui rozzi panni dell’azzurra veste

Facean contrasto col candor di neve

Dei lini, e de la breve

Sua mano, e con la gemma

Effigïata di non so che stemma

Ond’era ornata. Avea per origliero

Il fianco ancora tepido del suo

Moribondo destriero,

Tutto di spume livide e vermiglie

Bruttato il crine, il largo

Petto e l’inerti briglie.

Agonizzando il nobile leardo

Al trafitto soldato

Volgea lo sguardo, quasichè volesse

Chieder perdon di non lo aver salvato.

 

VII.

 

            «Censo di boschi, seguitò quel pio,

Censo di ville e vastità di prati,

Dai rivoli fecondi

Dell’Ipoli solcati, 3

Ereditò quel misero nascendo.

Gioia di cacce, turbine di balli,

Squittir di veltri, volo di cavalli

L’accompagnaro al novo

Affacciarsi nel mondo; ove a tardarne

Le facili procelle

Guidavanlo i materni occhi, siccome

Due domestiche stelle.

Ma poi che con insoliti rintocchi

A libertà sonò la vaticana

Mentitrice campana,

E dall’Ionio al Baltico, dal Ponto

Al mar d’Atlante un grido

Di súbita rivolta

Salì da venti popoli, comparsi

In fantastica mostra

Con armi antiche e con vessilli novi

A la fervida giostra;

Quando fûr visti rodersi ne’ passi

Scorati de la fuga

Pallidi coronati impenitenti,

E de le reggie per le invalse sale

Tonò la liberale

Canzone dei redenti;

Quando i colli vitiferi, e le lande

Dell’ungarica terra

Arser d’inclita guerra; ei ne le vene

Sentì l’orgoglio d’esser nato in grembo

A la patria de gli Ussari. De gli avi

La sciabola brandì: pose sul core

Il nastro tricolore:

Su le spalle il dolman: balzò in arcioni:

Verso il Tibisco insanguinò gli sproni. 4

Là del castel su la ventosa altana

Stette a lungo la madre a benedirlo,

Fintanto che cavallo e cavaliero

Parvero un punto nero

Ne la campagna. E da le interne corti

Inquïeti echeggiavano e lontani

I latrati dei cani

Che facean vïolenza a la catena. –

Ei combattè. Ne la notturna pugna

Al fiero passo di Branisco, i crini 5

Del suo corsiero, e l’ugna

Stillâr del sangue dei nemici estinti.

Tra le carpazie rupi

In galoppi silenti

Volò su le recenti

Nevi a inseguirne le fuggenti schiere;

E dei roveti a le conserte spine

Vide pendere a cenci le bandiere

Dell’aquile assassine.

In quelle notti che l’assiduo lampo

De le infuocate palle

Illuminava di baglior sinistro

I colli, i forti, il campo

Ungarico, e la valle

Benedetta dall’Istro,

Notti selvagge onde tuttor si offende

L’aspra beltà de la ritrosa Buda,

Ei, lasciate le tende

Ozïose, e le indocili cavalle

A scalpitar la paglia

Fangosa de le stalle,

Impugnato il moschetto,

Nel più fitto salía de la battaglia,

Demone giovinetto.

L’ultimo dì s’inerpicò tra i varchi

De le cadenti mura, in ogni canto,

Per le vie, ne le chiese, e per le piazze

Pugnando: e allor soltanto

Posò, che vide il tricolor vessillo,

Iride di vittoria,

Brillar su le ruine

De le squarciate case palatine:

Allor si assise tra il tumulto e il pianto

Sui ruderi tranquillo.

Quivi deposto il volto in fra le palme,

A la patria pensò: pensò all’amara

Gloria de’ morti; e all’acre

Ebbrezza degl’infranti

Ceppi, in que’ giorni di battaglie sacre.

Sopra la rupe del castel di Buda

Veder gli parve ritta in fra le cupe

Nuvole degl’incendi

Una cristiana Pallade magiara,

Che, proteso lo scudo ampio, copría

La vergine Ungheria.

E dopo molte lune,

La prima volta ei rise. —

Pensò a la madre. Ahi! sventurata. Invase

Fûr le sue case; e apparve in su la soglia

Il giustiziero. La gentil ribelle

Senti infamarsi le patrizie terga 6

Dal vituperio dell’austriaca verga:

E odiò la vita. E dato

L’ultimo bacio a le atterrite ancelle,

Sotto la pietra del sepolcro ascose

Le membra vergognose.

E dopo molte lune,

La prima volta ei pianse.

 

VIII.

 

» Fra le ruine a lo improvviso, acuto

Un accento sonò: “Sia maladetto

L’imperadore!” – “E sia!”

Interruppe il seduto.

E vôlto il guardo, scôrse un giovinetto

Con sanguinosa mano

Una lancia d’Ulano,

Che genuflesso in atto

Di giubbilo, di rabbia e di preghiera,

La glorïosa antenna

Baciava dell’ungarica bandiera.

Come sospinti da virtù segreta,

Levârsi a un tratto e si abbracciâr. Vent’anni

Di feste insiem gioite,

D’insiem patiti affanni,

Come quel punto non avríeno avvinte

Di tanto amor le vite

Di que’ due che giammai non s’eran visti.

V’à de’ momenti in questo

Tenebroso passaggio de la terra,

Che in mezzo al turbinío dei sentimenti

L’anima splende, e illumina gli arcani

D’un’alma ignota che s’affaccia; e a un punto

La comprende, l’attrae, l’ama, e contesse

In un balen lo stame

D’un immortal legame.

Al patrio Dio rivolti 7

Giurâr d’esser fratelli

Uniti in vita, uniti

Fin ne la tomba istessa:

E come vedi, tenner l’impromessa.» —

Ei tacque. E quel secondo

Infelice guardai. Come era bello

Il volto de la morta creatura,

Ritoccato così da la sventura!

Un non so che di femminile uscía

Dal languido sembiante, e da le brevi

Onde del crine di cotale un biondo

Che nel color di cenere moría.

Quasi cercasse un ultimo saluto,

Verso il fratel tendea la man che sola

Gli rimanea già tinta

Di sepolcral vïola.

Poco da lui lontano

Ancor da una vulgare elsa indivisa

Giacea soletta un’altra man ricisa,

E forse era la sua. — “Questi che guardi”

Seguì quel mesto con rotte parole

Qual di chi sta per piangere, e non vuole,

“Questi a Tarnovo, la città funèbre,

Da antichi di Polonia avi gagliardi

La sfortuna sortía del nascimento:

E pur sin da la cuna

Una corona gli arridea di conte.

Ma non appena incominciò per lui

Il giovanil festino,

In cui novizia audace

La pubertà si piace;

Truce conviva gli sedè di fronte

Lo spettro di Caino.

A que’ dì da la Vistula a la Sava 8

S’era diffuso il fremito d’un verbo

Eccitator, compreso

Tra le famiglie de la gente slava.

E nel lor cielo, che parea sereno,

Di qua di là splendea

Qualche improvviso liberal baleno.

Come di notte stando a la pianura

Vedi talor del monte

Sopra la faccia oscura

Di loco in loco vagolar dei lumi

Che son portati, e par che vadan soli;

Non altrimente là per quella immensa

Vastità di contrade tenebrose

Scorrevano facelle

Di libertà, recate

Attraverso reconditi sentieri

Da non visti corrieri.

Un’aura nova e calda di congiura

Gonfiava a un tempo i veleggianti lini

Del pescador finlandico. e battea

Sopra gl’irsuti crini

Del Cosacco selvaggio

Lungo la riva, ove peccò Medea;

Traendo in suo passaggio

Ribelli mormorii da le campane

Dei villaggi boemi,

Note di sdegno in liberi poemi

Dall’arpe lituane.

E, magnanimo alfiere,

Già uscía con lo spiegato

Vessil de la risorta aquila bianca

Il patrizio gemmato cavaliere:

E apertamente con fraterna voce

Intorno a sè da gli ampi

Predii invitava la mutabil plebe

Curvata in su la croce

Ereditaria dei sudati campi.

Ma un livido canuto, 9

D’oro carico e d’anni e più di colpe,

Con pupilla di volpe

Vigilando scrivea ne la ferale

Reggia de la tedesca

Sodoma imperïale.

Nè de la penna intinta

Nel sangue de la gente

Posava mai insidïoso moto.

Ed era l’alma sua quasi morente

Faro che guizza da un infausto porto

In riva a un mare morto.

Egli credeva, ghibellin fatale,

D’aver sepolta viva,

Come antica vestale,

La libertà dei popoli, nel fondo

D’un sotterraneo feodal di Vienna,

Perch’ella in un immondo

Dì fornicato avea con gli eloquenti

Carnefici di Francia in su la Senna.

E non contento all’aulico mercato

Ch’ei fece in vita de le stirpi umano

Rivendute a le Corti;

Prima di scender, celebre esecrato,

Carcerier de le menti, in mezzo ai morti;

Pria d’affacciarsi al giudice divino,

Volle sul fronte suggellarsi il turpe

Marchio dell’assassino.

Sottil velen di perfide promesse

Stillò nel vulgo, il pravo

Fango eccitando dei ribaldi istinti;

E patteggiato con lo scalzo slavo

Il fiorin de la colpa, entro i palagi

De’ lor signori, con l’acuta falce

Scagliò i sedotti mietitori a infami

Saturnali di stragi.

Poscia seduto in su la piazza, in mezzo

A lo sfilar de le funeree ceste,

Con scellerata calma

Ei numerò sopra la sporta palma

Dei parricidi il piccoletto prezzo

De le recise teste.

E l’infelice che tu miri estinto

Vide a que’ giorni ladre

Marre villane trucidargli il padre.

Il sacro capo, simile ad un frutto

Dall’arbore sbattuto,

Rotolò su la terra, e fu venduto.

E forse il cane, al lume de le tetre

Stelle, affannato vagando lambiva

Su le rigate pietre

Il sangue di colui che lo nutriva.»

 

IX.

 

            Queste parole di ricordo atroce

Quel delicato pronunciò sommesse,

Quasi temendo di svïar col grido

De le memorie e l’ira de la voce

Al limitar mal fido

De la seconda vita

Quell’anima di fresco dipartita.

E vòlto in mesta illusïone al cielo,

Come chi guardi e segua

Cosa che sale e nel salir dilegua,

In un sospir si tacque;

Nè più si udì per la funerea valle

Che il frangere dell’acque.

Poi seguitò“: «Congiunti

Sempre pugnâro i due

Bei cavalieri dove più rïarse

La titanica guerra. In su le sponde

De la Vaaga montana 10

Ambi trovârsi in quel crudel cimento,

Quando fûr visti rovesciar nell’onde

I nemici, travolti

In disperata frana. Oh! lo rammento.

Dopo quel truce giorno a quando a quando

Pei flutti sanguinosi

Scendevano pietosi

Viluppi di cadaveri. Posato

Su qualche testa lacerata un corvo

Crocidando talor parea guidarla,

Abborrito nocchier: mentre le polle

Che una virtù di sotterraneo foco

Calde dall’imo di quel fiume estolle,

Spinte a fior d’acqua si scioglieano in bianche

Colonnette volubili di fumo.

A quella vista, involontarie il passo

Fermavano le schiere

Del vincitore: e da le ripe muto

Con l’arme e le bandiere

Porgevano un saluto

Religïoso e pio:

Chè lor pareva in que’ vapori erranti

Gli spiriti veder dei trucidati

Che salissero a Dio.

Poi li trovai nell’ispida foresta

D’Acse pugnare a lato 11

Fra tronco e tronco per angusto calle.

Un’indefessa grandine di palle

Mietea le vite al pari de le foglie:

Tal che poscia al mattino uscía dal molle

Suolo il rapido fungo,

Tinto d’arcane lettere di sangue.

E ne le sere, quando

Era spento il fragor de la battaglia,

Spesso li vidi scendere d’un salto

Dai fumanti destrieri; e a somiglianza

Dei combattenti d’Attila, scagliarsi

In un giocondo turbine di danza.

Urlavan le canzoni;

Sonavano gli sproni;

Eran tappeto l’aquile di seta

Vinte e calpeste; lampe

I casolari in vampe;

E testimoni a quel festin di forti

Qua e là pel campo i cumuli dei morti.

 

X.

 

            » Ma contro il dritto, la virtude, e il Dio

Ungarico, la vile onnipotenza

Del numero prevalse e il tradimento.

Mendico imperïale,

Lagrimando, la man perfida tese

Il fanciul Lorenese,

Chiedendo al boreale

Sire la pronta carità di cento

Mila Cosacchi, e l’onta.

Solcâr le nevi, scesero dai monti,

Lande varcâro e valli,

Fêr su le travi dei deserti ponti

L’unghia sonar dei sarmati cavalli

Quei tetri servi; e il cuspide piantâro

De le lor lance freddamente in core

Al moribondo popolo magiaro. –

Saliva per la terza

Decima volta il sol d’agosto al sommo

Arco dei cieli, e con ardente sferza

Batteva le profonde

Fratte e i burroni del fatal Vilago; 12

I grappoli di menes, e il Mariso

Che travolgea nell’onde

Sabbie dorate e lagrime di prodi;

Battea sull’uniforme

Sconfinata pianura ondoleggiante

Di mèssi, al par d’un oceano biondo;

Battea per la suprema

Volta su le infelici

Sciabole, e su le illustri cicatrici

D’un esercito muto. Era il nefando

Giorno del gran rifiuto. Era scoccata

L’ora dell’onta, quando

Patria, vessillo e brando

Dovean cadere ai piè d’uno straniero.

Pöeta! oh non fu mai giorno più truce

Di quello così fulgido di luce.

Passavano con plumbea ala gl’istanti,

Siccome anni pesanti

Sull’anima. Da mille

Volti grondava a grosse e lente stille

Pianto e sudore. Ognuno

Sentia scavata sotto i piè la tomba

Del proprio onore. Ognuno avria voluto

Morir. In mezzo al funebre silenzio

Uno scoppio improvviso

Tratto tratto s’udiva. Era un soldato

Che taciturno con l’ultima palla

De la sua carabina

Fendeva il cranio de la sua cavalla.

Talor per l’aura nitida saliva

Una riga di fumo:

Era un drappello, che baciata in giro

Pïamente la santa

Patria bandiera, lacera in ottanta 13

Combattimenti, la fidava al foco.

Al pro’ che l’asta ne tenea, tremava

La man che non avea

Giammai tremato; e gli altri intorno intorno,

In circolo fremente,

Con l’occhio fisso e con la guancia smorta,

Seguíano i guizzi e il cenere cadente

Di quella nova morta.

Fu chi rivolto a la vicina selva,

A un rovere le sciolte

Briglie, gli arcion, le offese

Armi, l’assisa, e la speranza appese;

E seminudo su le ignude groppe,

Col cibo d’una ghianda,

Con la sua frusta glorïosa in pugno 14

Tornò libero figlio de la landa.

Fu chi dell’onta impazïente, al petto

Drizzò la bocca del fedel moschetto;

E, dato col pensiero a la lontana

Madre, che l’attendea, l’ultimo addio,

Tornò libero a Dio.

E al traditor, che torbido le file

Cavalcando radea, spruzzò sul fronte

Una goccia di sangue del tradito.

O Arturo, Arturo! tutta 15

La rapida ed eterna onda dell’Istro

Da quel segno sinistro

A lavarti non vale;

Poi che l’infamia ormai su lo aborrito

Campo di Ieno a te pose nel dito

Il suo vipereo anello nuzïale. —

Tramontò il sole, e l’Ungheria. Sul piano

Solingo, su la bruna

Selva, e le ville, tutta notte rise,

Come beffarda maschera, la luna.

 

XI.

 

            » E il tradimento rinverdì la pianta

Selvaggia del patibolo che cresce

Nei giardini d’Asborgo. Era nel tempo

Dei novi geli, quando

Da la mia terra a schiere

Repubblicane parton le cicogne

Abbandonando il culmine dei tetti

Ospitali, dal fido

Lor nido benedetti. Era un mattino:

E a me che un colle discendea sui primi

Albór, già si pingeano in lontananza

D’Arad le torri, il vallo, il rivellino,

E lungo il vallo non so qual sembianza

Di palchi eretti, e di scavate fosse.

Ma poscia che il crescente

Raggio si tinse d’un color di rame,

Tutta m’apparve all’atterrita mente

Scoverta l’opra de la notte infame.

Eran tredici tombe: era un filare

Di nove forche. Il frale 16

D’otto martiri, ormai livido e nero,

Pendea dal trave. Un’ultima figura

Lenta salir le desolate scale

Vidi, e una corda, e un fiero

Dibattimento di convulse forme.

Gli altri dal piombo fulminati, in terra

Giacean come chi dorme.

Qual dïanzi sparite

Eran dall’orizzonte

Scintillando le Pleiadi consorti,

Tale passava splendida e col fronte

Sereno quella Pleiade di forti

Vincitor di battaglie.

E da due lustri un popolo tradito

Ne veste le gramaglie.

Ora in quella silvestre

Santa Croce là giù dell’Ungheria

Posano sotto un campo di ginestre,

Senza pietra, confusi

In una gloria, e senza accanto il brando,

Il giudizio di Dio sul coronato

Carnefice aspettando.” —

Qui l’evocata visïon feroce

Gli soffocò la voce. Indi sui due

Dolci defunti raccogliendo il guardo:

“Questi, soggiunse, il nome

Non anco illustre, e la novella etade

Da la fune salvâr; ma fûr dannati

A perpetui soldati.”

Poi, quasi un novo e splendido ricordo

Passasse a vol per quella anima offesa,

Seguì sclamando con parola accesa:

“E tu, Sandor, perivi, 17

Dei carmi favorito e de la spada,

Mentre l’arco de gli anni e di fortuna

Poetando salivi.

Verga gentile d’albero plebeo,

Tu la natía favella,

Che non à madre, che non à sorella, 18

Ai virili educasti

Metri di guerra, rustico Tirteo.

Ove n’andasti che non torni? Siede

Sul letto nuzïal la giovinetta

Tua vedova che attende;

Tra le candide bende

De la cuna bisbiglia

L’angiol recente de la tua famiglia.

Vieni. Per te le belle

Figlie de la tua landa

Sfidando i delatori

T’intrecciâro ciascuna una ghirlanda

Di tre colori. — Ahimè, la patria, ignora

Perfin la zolla, dove

Inginocchiarsi a piangerlo! Cadea

Forse in battaglia. Forse

Ne le notturno insidïate corse

De la sconfitta sanguinando, immerso

Dentro un padule transilvano, ai venti

Diede il suo desolato ultimo verso.

Forse un Cosacco, cacciator di vite,

Incontrato lo stanco

Là per quelle romite

Vie, con la picca ne trafisse il fianco:

E oltra passando il tartaro corsiero

Col piè ferrato lacerò la santa

Testa che tanto contenea tesoro

D’inni venturi e tanta

Carità di pensiero.

Forse smarrito in una fonda gola

Tra i sàssoni dirupi, anima sola,

Quando quei truci abitator dell’alte

Vette spïando del nemico i passi,

Sui fuggitivi dirigean la furia

Dei rotolati massi

Quivi periva. A immagine del forte

Paladino ferito in su le arene

Fatali di Pirene,

Forse egli pria de la solinga morte

Chiedendo aita, il corno

Disperato sonò: ma non l’udia

La esanime Ungheria.”

Quel doloroso fe’ silenzio, e al suolo

Cadde pregando genuflesso: e forse

La sua gentil preghiera

Spiccando il vol, come divina cosa,

Là giù in terra straniera

Scoperse la segreta

Aiuola, ove si posa

L’afflitta fronte del civil pöeta.

 

XII.

 

            Senza saperlo io stesso

Mi trovai genuflesso. E quando il vidi

Già ritornato in terra col pensiere

Dal vïaggio del ciel fatto sereno,

“Ma chi se' tu, gli chiesi,

Che così onesto lagrimando parli?»

Ei mi rispose“: «Piccioletta istoria,

O poeta, è la mia. Io son Rumeno

De la tua stirpe. Da latina gente

Messa a vegliar con l’aquile sull’Istro

Il torbido Orïente,

Per mille e settecento anni oblïata,

Usciron gli avi miei. Fra i sette monti

Dei cavalieri Sécleri io nascea,

Dove Sandor cadea. Quivi pei boschi 19

Bruni di pini, e i nobili castelli,

Sin da fanciullo l’odio

Vêr lo stranier m’appreser le ribelli

Melodie del magnanimo Racoschi. 20

Dentro il cristal d’un lago

Montano, azzurro, placido, profondo,

Ch’era tutto il mio mondo, ove le stanche

Onde riposa la spumante Aluta,

Si riflettea con le pareti bianche

La mia casa paterna.

In mezzo a un prato i ruderi di un campo

Del Dacico Traiano eran ricordi

De la Cittade eterna:

A’ piè d’un colle l’arabo sorgea

Cippo d’un ottomano

Col verso arcano e la falcata luna,

Reliquie di quei dì, che al transilvano

Brando ridea fortuna.

Or da due lustri in quella onda turchina

Si specchia la ruina

Del mio nido natío. Poi ch’una sera

Del Lorenese le fuggenti squadre

Giunser là su, nè paghe a la rapina,

M’arser la casa, e il padre.

Ahi! sventurato! Ed io,

Come ogni cosa mi fu tolto in terra,

Mi son rivolto a Dio.»

Disse, e movendo i passi

Guardinghi in fra i cadaveri, cennava

Con l’addio de la man ch’io me ne andassi.

 

XIII.

 

            Affrettando la via, come sospinto

Da non so qual paura, abbandonai

Quel campo seminato di sventura.

E per novo sentier, che più veloce

S’inerpicava al colle,

Salendo mi pareva

A quando a quando scorgere un feroce

Lampo di riso balenar sui volti

Dei barbari insepolti;

E qualche man che livida sporgesse

Con brancolanti gesti

Tentando al mio passaggio

D’afferrarmi le vesti.

Quivi sull’erba ravvisai caduti

A drappelli i devoti

Cacciatori del Brénnero; cui meglio

Era inseguire col sagace veltro,

Col mazzolino sul cappel di feltro,

Pei nevicati vertici remoti

Le retiche camozze; e sull’aperto

Verde dei prati fulminar le lepri

Fuggendo uscite dai tentati vepri.

Quivi giaceano con gli ambrosii crini

Eruttati, ahimè! di polvere i divini

Battaglieri dell’Enno; a cui fu gloria 21

Sul passeggiato lastrico sonoro

Di fremente cittade

Sbatter l’acciar de le innocenti spade.

Nè li guardai. Ma in vetta

Giunto del colle, mi rivolsi indietro

Vêr quella forra che rendea sembianza

D’un immenso ferètro.

 

XIV.

 

            Ormai si affretta al fine

La maledetta secolar tragedia

Fra le alemanne genti

E le genti latine.

Da le molte favelle, a cui l’astuto

Sire insegnò con dïuturna insidia

A ricambiarsi accenti

D’odio e d’invidia, è per uscire alfine

La parola d’amore.

Iddio con immortali

Caratteri di monti e di marine

À segnate le patrie. All’opra sua

Già troppo contrastarono gli avari

Discernimenti, l’ámbito, e la fame

De’ figliuoli d’Arminio. Ognun possieda

Le sue tombe, e i suoi lari. Omai son vòlte

Le settimane del divin decreto

Che per trecento afflitti anni dannava

L’Itala stirpe a schiava.

Ora è fatal, che per la terza volta

Essa la sacra fiaccola raccolga

Di civiltà fra i ruderi di Roma

Sacerdotal sepolta;

E il suo seguendo nobile destino,

Per ispirate vie,

Maestra eterna, a le sorelle apprenda

Libere, oneste, e nove

Socïali armonie.

È ver che ancora scalpita sul santo

Sepolcro de’ miei padri l’esecrato

Destrier tedesco; e spasima tra l’Alpe

E il Po, tra il lago di Catullo e il mare

Un ultimo Prometeo incatenato.

Con scellerata festa

Tuffa la moritura aquila il fondo

Occhio e le penne de la scarna testa

Ne le venete viscere: fumando

Esce stanca, non sazia, dall’immondo

Pasto; e, deterso il rostro ne la vesta

Imperïal, mette un funereo strido.

Rispondono da lunge

I glorïosi portici deserti

Del Sansovino, i templi epici, e il Lido,

Che serba in su la grigia

Arena tutta volta del tradito

Lïone le vestigia.

Ma numerati i giorni

Son del tripudio. In folto ordine invano

Col lor panno da morto per vessillo,

Con la foglia di rovere sul crine

Passan le torme dei perpetui Cimbri

L’odïoso confine. Ogni famiglia

È una congiura: ogni città, Pontida: —

Tempesta la battaglia. Il derisore

Dio de le fughe visita le file

De gli stranieri, e il core.

Vedo del combattuto Adige l’urne

E dell’Isonzo tingersi di rosa,

E una danza di bionde

Teste rotar pei vortici dell’onde.

Vedo per tutti i valichi dell’Alpe,

Come per l’atrio de la nostra casa,

Svolgersi il drappo de la mia bandiera.

Vedo un ramingo che fu già ricinto

Ne la sua torva gioventù di molte

Corone, ire solingo.

La logorata porpora nel fango

Strascina, ove è trapunta

Un’aquila defunta.

Ora di tanti servi a lui rimane

Il carnefice solo. Una condanna

Giusta l’astringe a mendicar il pane,

Al castello battendo e a la capanna

Ov’è il figliuolo, a cui

Fece appendere il padre. — Oh! come è bella

L’alba d'Italia. All’orïente ascende

La sua limpida stella

Col raggio che si frange in tre colori;

All’occaso la squallida discende

Cometa de gli Asborgo. E da le vaste

Terre e dai mari un cantico si leva

Di vituperio e d’onta

Per quella che tramonta.

 

Pisa, 17 dicembre 1860.

 

 

 




1 I Boemi ànno una natural attitudine alla musica, e però molti ne contano, e valenti, le bande musicali dell'Austria; le quali, quantunque roba nimica, bisogna confessarlo, suonano a maraviglia,

 



* Vedi le Note in fine del Canto.



2 Fiume della Croazia.

 



3 Fiume dell’Ungheria.

 



4 La Theiss, o Tibisco, è quel  fiume ungherese, dietro la linea del quale si ripararon sulle prime i sollevati ad agguerrirsi.

 



5 Fu a questo passo di Branisco, tenuto quasi insuperabile, che l’eroico Guyon con 8000 uomini snidò e sterminò un bel numero di Austriaci. Nel cuor del verno giunti gli Ungheresi a quel passo, portando di notte per sentieri lubrici e nevicati i cannoni a forza di spalla, fulminaron dall’alto il nimico, e parve cosa maravigliosa.

 



6 Tutti sanno come i generali austriaci abbiano in Ungheria fatto bastonare parecchie donne.

 



7 L’Ussaro, specie di magiarismo incarnato, come à in proprio la sua lancia e il suo destriero, così vuol avere anche il suo Dio, il suo Magyar Isten, il quale non à da pigliarsi pensiero delle grandi faccende del mondo, ma vive e regna nella sola Ungheria. A questo Dio paesano prega l’Ussaro prima di scagliarsi nella mischia. Petöfi canta di questo Iddio con filial tenerezza.

« Il tempo, grande fulminatore di popoli, ci avrebbe soffiati via, come granello di sabbia:

» Questo Dio ci ascose sotto la sua ala, e l’uragano è passato innocuo sulle nostre teste. »

 



8 Ognuno conosce il grande movimento slavo che si svolse con fatale precocità nel 1847. Iniziato dalla nobiltà, fu mal compreso dalle moltitudini, le quali eccitate dalle sorde mène dell’Austria, e specialmente dai segreti emissarii del principe di Metternich, insorsero con ferocia selvaggia contro i patrizi benefattori.

 



9 Il principe di Metternich, gran cancelliere dell’Impero Austriaco e cagione principale dei macelli di Tarnow.

 



10 La Waag, fiume dell’Ungheria, sulle cui romantiche sponde molto si è combattuto, offre una curiosa particolarità. In mezzo alla corrente fredda emergono qua e là polle d’acqua calda, che giunte al pelo lasciano evaporare colonne di fumo biancastre.

 



11 Nella battaglia data presso la foresta d’Acs, gli Honved fecero miracoli di prodezza, cosicchè gli stessi generali austriaci dovettero ammirare questa fanteria novizia, che si battea colla risolutezza indomabile dei veterani. Petöfi, che era degli Honved, così cominciava un suo canto:

“Niuno dopo Dio porta un nome più bello e più santo dell’Honved. Quanto dovrò io fare per meritarmi questo nome così grande!”

 



12 Sulle sponde del Mariso, presso Arad, la pianura si eleva in facili clivi, dove spesseggiano i vigneti di menes, che si vantano tra i migliori di quel paese: poscia a poco a poco si alza il monte, e si inselva. A due miglia dalla fortezza di Arad si vedono le ruine del castello di Vilagos, e lì vicino, in una villa fu stabilita la resa dell’armi che poi si compì nel piano tra Szöllös e Jenö. Furono 24,000 uomini e 144 cannoni che Arturo Görgey metteva in mano di Rüdiger generale russo.

 



13 Questo numero è attestato da Carlo Luigi Chassin, e tolto alle note di cui volle giovarlo mad. di M... per il lavoro che ei fece sopra Sandor Petöfi.

 



14 Questa frusta, ben nota agli Austriaci, arma dei Czikos, mandriani e domatori arditissimi di cavalli selvatici, è composta d’un manico lungo due piedi e d’una corda di tre o quattro tese a quello attaccata per una corta catenella di ferro. La corda è divisa a certe distanze da palle di piombo: una palla più grossa e pesante pende alla estremità. Il mandriano, anche a galoppo, è sicuro di cogliere colla palla, agitando la frusta, nel punto prefisso, e colla fune sa avvolgere in ispire indissolubili cavallo o nimico, e trascinarlo a terra.

 



15 Arturo Görgey.

 



16 Il 6 ottobre 1849, ad Arad vennero dal Governo austriaco condannati a morte tredici valorosi tra generali e ufficiali dello stato maggiore ungherese. Quattro ottennero la grazia “della polvere e del piombo.» Gli altri sulle forche. Così finivano il vecchio Aulich, il giovine conte Leiningen, al quale fu perfino niegata una lettera della sua giovine sposa la contessa Liska; Török, Lahner, Pöltenberg, il toroso Damjanic, Nagi Sandor, Knezich, Vecsey ed altri. — Poche battaglie vi ànno nella storia che abbiano divorato tanti prodi generali quanto il mattino del 6 ottobre.

Le sono battaglie dell’Austria!

 



17 Ò voluto toccare di questo magnanimo Ungherese per amore, direi quasi di famiglia. Infimo, come io sono, fra i poeti civili, mi è caro propagare la gloria degli altri che sono grandi. Petöfi Sandor (Alessandro) nacque nella Cumania coll’anno 1823, in mezzo alla sua landa, alla sua Pustza, che tanto amò e cantò. Suo padre facea l’oste e il macellaio: e forse il mestiere gli togliea di capire l’anima di suo figlio: ma ben la comprese la mesta tenerezza della madre. La sua giovinezza fu torbida e scontenta: scolaro indocile: compagno tumultuoso: gittò i libri, e buttossi al commediante: la quale arte gli procacciò pane scarso e amaro, e fischiate di molte. Corse la landa, mendico improvvido, cantando e bevendo, e nelle Czarde ospitali facendo brindisi ai vini focosi e alle focose ragazze della patria; fu poi giornalista, e soldato, ma poveretto sempre. La sua impresa stava in questi versi“: «Due cose mi occorrono, libertà e amore. Per lo mio amore do la mia vita: per la libertà l’amore.” Un bel dì s’innamorò disperatamente d’una che vide morta: e celebrò, in canti intitolati Foglie di Cipresso, questa sua bionda Etelka. La qual passione per altro non gli tolse di metter fuori lo stesso anno 1845 le sue Perle d’amore ispirategli da ragazze tutt’altro che defunte. Lavorava infaticabile, e quasi presago che Dio gli aveva destinato poco tempo al lavoro. Scrisse poemetti e versi d’ogni sorta: fu il poeta popolarissimo e prediletto dell’Ungheria: cantò la steppa colle sue cicogne, i suoi zingani, i czikos, i banditi; cantò idilli, gioie domestiche, amori, e perfino le proprie nozze. Giacchè l’8 settembre 1847 egli sposò Giulia Szendrei: e fu beato, e nella pienezza della sua felicità cantava: Mi sento un re. Se non che, fra le carezze della sposa, ei notava che la sua sciabola appesa alla parete della stanza nuziale guardavalo biecamente con occhio geloso, per la qual cosa nei primi dì delle nozze egli scriveva:

    .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .

“Ma se a un tratto squillasse la tromba delle battaglie, se brillasse lo stendardo trionfale, a cui spasima il mio cuore,

» Sul mio rapido cavallo mi lancerei nella mischia, mi confonderei cogli eroi, smanioso di consacrar la mia sciabola.

» Che se il ferro nimico rompesse il mio petto, ora almeno alcun vi sarebbe che guarirebbe la mia ferita co’ suoi baci e col suo pianto.

» Se cadessi vivo nelle mani del nimico, alcuno saprebbe aprirmi la prigione; due begli occhi risplenderebbero nella mia tenebra.

» Che se la morte mi cogliesse o sul patibolo o nella pugna, un angiolo, una donna desolata laverebbe il mio corpo con le sue lagrime.”

Se non che la sua Giulia, bella creatura quantunque un poco loschetta, non avendo potuto trovare il suo cadavere per lavarlo con le sue lagrime, dopo alcuni mesi sposò il figliuolo dello storico Horvath.

Essa però gli aveva dato prima un figliuolo, immensa letizia di Alessandro, che gli volse alcuni versi i quali finiscono così:

“Oh, che si possa dire presso al mio sepolcro, senza mettere un lamento: Lui morto, la patria non perde nulla. Nulla. L’anima di lui vive in suo figlio.”

Ma già scoppiava la rivoluzione, e Sandor se ne fece il poeta. L’appello del grande lirico, del grande epico Vövösmarty era per ogni bocca, faceva battere ogni cuore: il padre di Petöfi, il povero macellaio quantunque vecchio e malato, pigliò in mano la bandiera tricolore, e fu alfiere d’una compagnia. Sandor volle far l’agitatore, volle far l’uomo di stato, si dimenò per essere rappresentante della nazione; ma si accorse che non era il fatto suo: pigliò l’arpa e la sciabola che erano davvero il fatto suo, e combattè, e cantò. Cantò la patria, la libertà, suo padre bandieraio, l’Honved, il suo Bem; eccitò, esaltò, satireggiò. Mandò una freccia allo stesso imperadore Ferdinando, chiamandolo Ladislao Ben-bene. Un’altra ne scoccò verso Francesco Giuseppe dopo invocati e ottenuti i soccorsi della Russia.

“Tiranno maledetto, ei dice, tu prevedi ben fatale la perdita, dacchè ti vendi a Satana, acciò ti salvi.

» Ma, credimi, tu ài con chiuso un cattivo contratto: Satana non ti salverà; e Dio t’abbandona.”

L’ultimo suo canto pare essere stato un brindisi audace, scritto appunto per la festa del giovine imperadore. Il valoroso colonnello Alessandro Teleki lo trovò fra le carte dello stato maggiore di Bem salvate dalla rapina dei Cosacchi nella sconfitta di Segesvar, Dopo alcune strofe, voltosi al Sire, esclama:

“Che il presente il quale ti degni concedere a noi, dal buon Dio ti sia reso più tardi: gli innocenti sono avvinti ai ceppi; che i ceppi si avvinghino a’ tuoi due polsi.

» Possa il destino accordarti tutta la felicità che il tuo popolo ti desidera, Che i demoni visitino i tuoi sonni, maestà, re degli impiccati, Che il tuo letto sia un braciere: che il tuo cibo sia roso dai vermi: che la tua bevanda sia il sangue de’ martiri: che la tua scranna si muti in patibolo.

» Che tu possa limosinare, come le migliaia de’ tapini che tu derubasti. Giacchè tu non fosti mai re dell’Ungheria, bensì il suo ladro, il suo assassino.

» E quando dopo una giusta punizione la tua anima alfine fuggirà dal tuo corpo, che il turbine sperda le tue ceneri; e invece d’una croce sulla tua tomba si levi una forca.”

Colle schiere di Bem, che lo tenea carissimo e lo nominò maggiore sul campo, Alessandro si trovò il 31 luglio del 49 alla battaglia di Segesvar in Transilvania: nulla ostante prodigi di valore, l’immensa differenza del numero fece prevalere il nemico di modo che la rotta fu intera. Il generale venne raccolto esanime in un campo di maitz; ma il giovine poeta che fino agli ultimi istanti s’era battuto al suo fianco, non si trovò fra i cadaveri riconosciuti: il suo nome non apparve sulle liste nè dei prigionieri, nè dei martiri: non lo si rivide più nè in terra d’esilio, nè in patria.

In un istante di balda confidenza egli avea un giorno cantato“: «Senza timore affronto la battaglia, non ò punto a paventar delle palle: so che la sorte sta con me; so che non deggio morire; perchè io ò da essere colui che, abbattuto il nimico, à da cantare, o libertà, il tuo immenso trionfo, celebrando i morti, il cui sangue ti avrà battezzata.”

Invece egli è sparito misteriosamente in mezzo al turbine, nel fiore de’ suoi 25 anni: e invece ch’egli avesse a celebrar i suoi grandi, il verso d’un oscuro Italiano dovea cantar la sua lode.

Chiedete tuttavolta un Czico della Pustza, un agricoltore di Keskemet, un pastor Séclero se Petöfi è morto: no, per Dio, no, vi rispondono: non è morto quel bravo figliuolo, È nascosto laggiù, in qualche loco; ben nascosto fra gente fida. Venga l’ora della liberazione, e subito, all’indomani Petöfi sarà con noi.

E sarebbe quasi ora che tornasse.

 



18 È opinione che l’idioma magiaro non abbia parentela con gli altri di Europa.

 



19 La Transilvania, il paese delle sette montagne, è come una immensa fortezza: è la Svizzera dell’Oriente. I Carpati a mezzodì la ricingono d’una muraglia gigantesca. Colà vivono i Sécleri, gagliarda gente della famiglia Magiara. Erano i beniamini di Bem. Il poeta patriota cantava di loro:

“Il sangue del Sécleri non è degenerato: ogni goccia è un diamante.”

Colà vivono i Valacchi, gente Rumena originata dalle legioni lasciate sul Danubio dopo la strage Dacica da Traiano; e i Sassoni gente alemanna che nella guerra del 48-49 ferocemente parteggiarono per l’Austria. A ogni tratto in quelle contrade incontri castelli feudali, ruine romane, e sepolcreti turchi, elevati fino dai tempi in cui il prode Uniade ne disfece pressochè 100,000.

 



20 Rakoski è uno degli eroi più popolari che abbiano un tempo combattuto per la indipendenza ungherese.

Un poeta magiaro cantava, nel 48:

“Santo del paese, capo della libertà, brillante stella nel mezzo della notte, o Rakoski! come, al rammentarti, palpitano i nostri cuori, e ci si gonfiano di lagrime gli occhi!

» L’ora si appressa in cui si vincerà quella santa causa di cui tu fosti soldato. Ma tu sarai assente dalla vittoria: perchè non si può ritornar dall’avello.

» Impugna lo stendardo. Che l’ombra tua lo porti nelle prime file, come nelle pugne passate. Che la tua voce infiammi dall’altro mondo i difensori della patria ungherese.”

Quando sull’aia di qualche czarda una banda di Zingani suona sul suo tagorato la marcia di Rakoski, che è come l’inno nazionale, un fremito patriottico coglie giovani e vecchi, donne e fanciulli, i quali, a seconda che si svolgono le melodie di questa lirica epopea, col viso manifestano e coi gesti la potente commozione dell’anima.

 



21 Gli Austriaci di sopra e di sotto l’Enno.






Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License