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Aleardo Aleardi Canti IntraText CT - Lettura del testo |
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I SETTE SOLDATI
A GIUSEPPE GARIBALDI
ALEARDO ALEARDI
I SETTE SOLDATI
CANTO
«……. tedesco………. Giusto giudicio dalle stelle caggia Sovra 'l tuo sangue, e sia nuovo ed aperto.» DANTE, Purg. canto VI
I.
Ecco la valle: io la ravviso, tetra E uniforme; deserto Passaggio in mezzo a due schiene di monti Ardui, che sempre ignora Le rose dell’aurora e dei tramonti. L’imo ne solca un fiume; astori e nebbie Ne solcan l’aure. Una turchina spira Di fumo, ch’esca da abituro umano, Per quanto l’occhio gira Tu cercheresti invano. Pria che vi fosse questa gran miseria Di servi e di signori, Di tormentati e di tormentatori; Questa follìa di popoli devoti A la bugía di mille sacerdoti, Trafficatori di paure arcane De la tomba e di Dio; sotterra un foco Intimo scosse il loco; e da la china Giù de’ monti piombâr quelle infinite Enormi pietre che ti vedi innanti Bianche, diritte, come Tumoli di giganti. Con piè veloce per sospetto vola, Se passa tuttavia, la mandrïana Che, tratto tratto, a salti, Ode fischiando ruinar la frana Dei lividi basalti; Ode e asseconda con tremante voce Il segno de la croce. Ogni eminenza dopo la procella Versa per cento conche I In curve e fuggitive Cascatelle il soverchio de la piova: Suonano le spelonche A la cadenza di frequenti stille: Brilla l’immenso verde, E tutta di vaganti iridi piena È la silvestre scena.
II.
Pur quando all’aure pronube d’aprile Di requie impazienti Fremono i germi in grembo a la Natura Che in pompa si riveste Per le nozze imminenti; E per la terra, e per il cielo spira Quello indistinto fáscino d’amore Che scorre per le fibre a le fanciulle, Pei calami del fiore, E forse per le stelle: Anche quest’erma valle e queste brulle Rocce si fanno belle D’un lor riso severo. Lungh’esso il fiume in su la tersa ghiaia Manda il pivier la gaia Nota di sposo. Ai piedi de le selci, Coronate di felci, esce il ciclame Profumando; e la vite Selvatica diffonde Lontanamente i balsami rapiti Dal venticello ch’alita sull’onde. Nasce, amoreggia, e muor tra le dorate Selvette tenüissime dei muschi Un mondo di viventi atomi, a cui Sembra una stilla di rugiada un lago E per girare intorno All’orbe immenso d’una margarita Consumano la vita. Fino ai colubri appigliasi l’arcano Assillo dell’amor. Sbucan dai covi Cinti di rovi al sol meridïano, Avviandosi ardenti al consueto Loco dei cento talami. Costretti Ivi in beata voluttà di spire Mettono un fischio languido; ed il sole Coi raggi indifferenti Feconda a un tempo il tossico ai serpenti, L’olezzo a le vïole.
III.
E un dì passai per questa valle. L’alba Illuminava d’una luce scialba Le declivi boscaglie; e in ciel languía Il curvo filo de la stanca luna. Quivi a lungo, poc’anzi avea ruggito Una battaglia disperata e santa Tra i figliuoli d’Italia E lo stranier: una vendetta allegra De la schiatta latina. In vetta a una collina Guardai giù basso, e a la crescente luce Mi parve innanzi rinnovato il truce Spettacolo di Flegra. Oh quante genti fulminate! quante Agonie disperate Ne la giovine etade De le speranze! quanti fior di vita Ricisi da le spade! Che amor, che generosi impeti, e arditi Proponimenti e lampi Di poesia spariti Là con quei cor, con quelle bionde teste Ne la fuga dei carri e dei cavalli Orribilmente péste! E quanta folla d’anime immortali Che varcano le soglie de la morte Dai lor cari defunti inaspettate! Simili a nembo di sinistri augelli Che ratto migri ai nidi oltramontani, Volaron le novelle Crudeli, e dai moravi Ai campi transilvani Sorse un gemito d’avi, Un singhiozzo di madri e di sorelle Diserte. E cento acuti Archi di stranie chiese Brillâr di torce funerali, accese Per la pietà dei poveri caduti. Quivi frattanto, senza onor di tombe Ai venti abbandonata e a la rugiada, Giacea questa ecatombe Di servi de la spada. Essi eran morti udendo il trïonfale Suon dell’itale trombe, Beffardo ultimo vale: Quando che sia risorgeranno al tócco De le angeliche squille, e forse ancora A quel subito suono Dubiteranno d’essere inseguiti Dall’itala vendetta Lungo gli eterni liti. Poi che nè pur la pace de la fossa A spegnere non val l’odio compresso Che contro l’oppressor nutrì l’oppresso.
IV.
Dentro al mio core s’era fatto un grande Buio. Il più triste spirito dei carmi Agitava il poëta: L’italiano esultava, e l’uom piangea. Pure all’idea de le recenti e antiche Catene, e degl’insulti Da tre secoli inulti: all’empia vista Di quel popol di morti, affascinato Alzai la destra in guisa Di chi vuol maledir: ma a mezzo l’arco Ella mutossi in man che benedice: E come ebro discesi Da la pendice al campo insanguinato. Colà in disparte parvemi la salma D’un caduto su l’orlo de la riva. Pendea nel fiume la sinistra palma Che sospinta dall’onde Iva e rediva come cosa viva. Tenea con l’altra al core Un suo strumento nitido di bosso, Donde ei ritrasse in vita Pane e sorrisi, e note Di gentil melodia col sapïente «Povero onesto, io dissi, e chi di noi Offese i padri tuoi? Chi ti spinse a lasciar l’esile aratro Sovra i piani dell’Elba? E non ti afflisse Abbandonar l’immenso anfiteatro De la patria boema, a cui fan cinta La famosa foresta e le brillanti Montagne dei Giganti? O perchè non seguìvi Ad animar con gli eredati suoni De le natie canzoni I convegni giulivi Del villaggio domestico; e la vaga Danza che folta ti attendea, la festa, Tra mezzo a le fiorite Collinette di Praga? Come nel pianto abbandonar potesti La tua fanciulla, a cui dall’arpa ebrea Derivare apprendesti Nobili accordi con la man plebea? Povera bionda! Intanto Ella di speme l’avvenir ricama; E per l’amor d’un pane Va trascinando lietamente il santo Strumento dei profeti Per gli anditi indiscreti Di taverne profane. Ma poi che giunto all’Elba il picciol grido Sia del tuo fato, la vedranno a poco A poco dileguar; cosi che in breve L’immondo ragno tenderà le reti Fra le disciolte corde; L’arpeggiatrice dormirà nel prato Inugual del sagrato.»
V.
Io gía come l’afflitto che cammina Favellando da sè. Quando lontano Appena un trar di sasso Contenni il piè dinanzi Un inclinato masso. Simile al gufo che il villano inchioda Là crocefisso al legno de le porte Per divertir non so che malefíci Temuti de la sorte; Tal qui giacersi con aperte braccia Vidi un supino fulminato al core. Al fosco lividore Del poco fronte e dell’obliqua faccia, Al crine irto, ai nodosi Lacerti disegnati Dai panni luttuosi, Io riconobbi un nato All’ardor di selvaggi abbracciamenti Sul giaciglio croato. Anime prave Che ricevono al fonte un odïoso Battesimo di schiave; Intelligenze pigre Là giù nei lor materni antri alla caccia Degl’Itali educate ne le atroci Scaltrezze de la tigre: A cui ne la ferina Tragedia de le pugne unica Musa È la rapina. Ahi miseri, e non sanno Che insieme un dì ci leverem fratelli D’ire e d’affanno! — A lui Insuperato nuotator non valse Fortificar i nervi incontra ai flutti Rapaci de la Kulpa; 2 O pareggiar nel corso Anelante i selvatici bidetti Aborrenti di morso; Ch’or non di meno, come inerte cosa, Ne la perpetua calma De la morte riposa. — Lungo un’erbosa riva che si perde Col pallido suo verde Nell’adriaca marina, Mena solinga a pascere la vacca, Util compagna e cara De la sua vita amara, Una gentil Morlacca. Quivi seduta senza trovar pace Riguarda al sol che tramontare accenna Oltra quel mar, da quella banda, dove Ne la deserta antichità si giace La nobile Ravenna. Poi s’alza ratta e un súbito sgomento Le stringe il core, perocchè le parve Sentir passar col vento Caldo, che soffia dal lombardo lito, Mista al lamento di cognate larve La larva del marito. Leva lenta le nari, e l’aure anch’ella La vaccherella fiuta, E con lungo muggito Il tramonto saluta. — Oh va’, infelice! gitta in mar l’infausto Anel di sposa: la tua terra è omai La patria de le vedove. Levate, O donne, a schiere la canzon dei morti Per le serbe vallate. Misere! e a voi non fia Nè pur concesso lagrimar sull’erba Sorta dal sangue dei mariti estinti; Però che tutti maledetti e vinti Giacquero sui pugnati Campi de lo straniero; E il lor cenere è sparso ai quattro lati Del moribondo impero. Ite, o donne, coi macri orfani in collo Dinanzi a voi spiegando, Simbol d’immenso lutto, il funerale Stendardo giallo e nero: ite, e levate A mille a mille la canzon dei morti Per le serbe vallate. VI.
Con tal procella di pensier che invano Significar con l’impotenti rime Si trova la pittrice arte dei carmi, Io m’innoltrai nel piano Vie più di membra mutile, di rotti Carriaggi sparso e d’armi. Era un silenzio pauroso. In questa Campagna dei sospiri Non sentivi un sospir. Pure un momento, Quasi ronzío d’insetto vagabondo, Mi parve udir maravigliando il lento Mormorare d’un salmo. L’inquïeto Sguardo girai d’intorno, e vidi in mezzo A un denso rovereto Starsi un mesto, diritto in fra due morti. Le lunghe pieghe de la veste nera, L’onda fluente dell’intonso crine, I severi conforti De le voci latine Mi palesâr che gli era Un ministro dell’ara. Ei non piangea: ma più del pianto amara Era l’angoscia de lo scarno volto. Io m’appressai. Non fece Motto, e finì la prece. Poi senza pur guardarmi: “Tu chi sei? Disse; che cerchi?” — “Io mi son un, risposi, Che piange e canta; e vengo A contemplar un’itala vendetta.” - “Or ben, soggiunse sospirando, nota Que’ due caduti che mi fûr si cari; E se a nemico generoso io parlo, Ricorditi di lor, te ne scongiuro, Canta di lor che fûro Grandemente infelici.” — Ed io guardai. Uno era biondo e bianco; avea la morte Dimenticato di coprirgli il fisso Orbe de le pupille, Picciole e brune, come due granate De’ suoi natii Carpazi Da un alito appannate. I mal contesti rami Dei crocëi ricami Sui rozzi panni dell’azzurra veste Facean contrasto col candor di neve Dei lini, e de la breve Sua mano, e con la gemma Effigïata di non so che stemma Ond’era ornata. Avea per origliero Il fianco ancora tepido del suo Moribondo destriero, Tutto di spume livide e vermiglie Bruttato il crine, il largo Petto e l’inerti briglie. Agonizzando il nobile leardo Al trafitto soldato Volgea lo sguardo, quasichè volesse Chieder perdon di non lo aver salvato.
VII.
«Censo di boschi, seguitò quel pio, Censo di ville e vastità di prati, Dai rivoli fecondi Dell’Ipoli solcati, 3 Ereditò quel misero nascendo. Gioia di cacce, turbine di balli, Squittir di veltri, volo di cavalli L’accompagnaro al novo Affacciarsi nel mondo; ove a tardarne Le facili procelle Guidavanlo i materni occhi, siccome Due domestiche stelle. Ma poi che con insoliti rintocchi A libertà sonò la vaticana Mentitrice campana, E dall’Ionio al Baltico, dal Ponto Al mar d’Atlante un grido Di súbita rivolta Salì da venti popoli, comparsi In fantastica mostra Con armi antiche e con vessilli novi A la fervida giostra; Quando fûr visti rodersi ne’ passi Scorati de la fuga Pallidi coronati impenitenti, E de le reggie per le invalse sale Tonò la liberale Canzone dei redenti; Quando i colli vitiferi, e le lande Dell’ungarica terra Arser d’inclita guerra; ei ne le vene Sentì l’orgoglio d’esser nato in grembo A la patria de gli Ussari. De gli avi La sciabola brandì: pose sul core Il nastro tricolore: Su le spalle il dolman: balzò in arcioni: Verso il Tibisco insanguinò gli sproni. 4 — Là del castel su la ventosa altana Stette a lungo la madre a benedirlo, Fintanto che cavallo e cavaliero Parvero un punto nero Ne la campagna. E da le interne corti Inquïeti echeggiavano e lontani I latrati dei cani Che facean vïolenza a la catena. – Ei combattè. Ne la notturna pugna Al fiero passo di Branisco, i crini 5 Del suo corsiero, e l’ugna Stillâr del sangue dei nemici estinti. Tra le carpazie rupi In galoppi silenti Volò su le recenti Nevi a inseguirne le fuggenti schiere; E dei roveti a le conserte spine Vide pendere a cenci le bandiere Dell’aquile assassine. In quelle notti che l’assiduo lampo De le infuocate palle Illuminava di baglior sinistro I colli, i forti, il campo Ungarico, e la valle Benedetta dall’Istro, Notti selvagge onde tuttor si offende L’aspra beltà de la ritrosa Buda, Ei, lasciate le tende Ozïose, e le indocili cavalle A scalpitar la paglia Fangosa de le stalle, Impugnato il moschetto, Nel più fitto salía de la battaglia, Demone giovinetto. L’ultimo dì s’inerpicò tra i varchi De le cadenti mura, in ogni canto, Per le vie, ne le chiese, e per le piazze Pugnando: e allor soltanto Posò, che vide il tricolor vessillo, Iride di vittoria, Brillar su le ruine De le squarciate case palatine: Allor si assise tra il tumulto e il pianto Sui ruderi tranquillo. Quivi deposto il volto in fra le palme, A la patria pensò: pensò all’amara Gloria de’ morti; e all’acre Ebbrezza degl’infranti Ceppi, in que’ giorni di battaglie sacre. Sopra la rupe del castel di Buda Veder gli parve ritta in fra le cupe Nuvole degl’incendi Una cristiana Pallade magiara, Che, proteso lo scudo ampio, copría La vergine Ungheria. E dopo molte lune, La prima volta ei rise. — Pensò a la madre. Ahi! sventurata. Invase Fûr le sue case; e apparve in su la soglia Il giustiziero. La gentil ribelle Senti infamarsi le patrizie terga 6 Dal vituperio dell’austriaca verga: E odiò la vita. E dato L’ultimo bacio a le atterrite ancelle, Sotto la pietra del sepolcro ascose Le membra vergognose. E dopo molte lune, La prima volta ei pianse.
VIII.
» Fra le ruine a lo improvviso, acuto Un accento sonò: “Sia maladetto L’imperadore!” – “E sia!” Interruppe il seduto. E vôlto il guardo, scôrse un giovinetto Con sanguinosa mano Una lancia d’Ulano, Che genuflesso in atto Di giubbilo, di rabbia e di preghiera, La glorïosa antenna Baciava dell’ungarica bandiera. Come sospinti da virtù segreta, Levârsi a un tratto e si abbracciâr. Vent’anni Di feste insiem gioite, D’insiem patiti affanni, Come quel punto non avríeno avvinte Di tanto amor le vite Di que’ due che giammai non s’eran visti. V’à de’ momenti in questo Tenebroso passaggio de la terra, Che in mezzo al turbinío dei sentimenti L’anima splende, e illumina gli arcani D’un’alma ignota che s’affaccia; e a un punto La comprende, l’attrae, l’ama, e contesse In un balen lo stame D’un immortal legame. Al patrio Dio rivolti 7 Giurâr d’esser fratelli Uniti in vita, uniti Fin ne la tomba istessa: E come vedi, tenner l’impromessa.» — Ei tacque. E quel secondo Infelice guardai. Come era bello Il volto de la morta creatura, Ritoccato così da la sventura! Un non so che di femminile uscía Dal languido sembiante, e da le brevi Onde del crine di cotale un biondo Che nel color di cenere moría. Quasi cercasse un ultimo saluto, Verso il fratel tendea la man che sola Gli rimanea già tinta Di sepolcral vïola. Poco da lui lontano Ancor da una vulgare elsa indivisa Giacea soletta un’altra man ricisa, E forse era la sua. — “Questi che guardi” Seguì quel mesto con rotte parole Qual di chi sta per piangere, e non vuole, “Questi a Tarnovo, la città funèbre, Da antichi di Polonia avi gagliardi La sfortuna sortía del nascimento: E pur sin da la cuna Una corona gli arridea di conte. Ma non appena incominciò per lui Il giovanil festino, In cui novizia audace La pubertà si piace; Truce conviva gli sedè di fronte Lo spettro di Caino. A que’ dì da la Vistula a la Sava 8 S’era diffuso il fremito d’un verbo Eccitator, compreso Tra le famiglie de la gente slava. E nel lor cielo, che parea sereno, Di qua di là splendea Qualche improvviso liberal baleno. Come di notte stando a la pianura Vedi talor del monte Sopra la faccia oscura Di loco in loco vagolar dei lumi Che son portati, e par che vadan soli; Non altrimente là per quella immensa Vastità di contrade tenebrose Scorrevano facelle Di libertà, recate Attraverso reconditi sentieri Da non visti corrieri. Un’aura nova e calda di congiura Gonfiava a un tempo i veleggianti lini Del pescador finlandico. e battea Sopra gl’irsuti crini Del Cosacco selvaggio Lungo la riva, ove peccò Medea; Traendo in suo passaggio Ribelli mormorii da le campane Dei villaggi boemi, Note di sdegno in liberi poemi Dall’arpe lituane. E, magnanimo alfiere, Già uscía con lo spiegato Vessil de la risorta aquila bianca Il patrizio gemmato cavaliere: E apertamente con fraterna voce Intorno a sè da gli ampi Predii invitava la mutabil plebe Curvata in su la croce Ereditaria dei sudati campi. Ma un livido canuto, 9 D’oro carico e d’anni e più di colpe, Con pupilla di volpe Vigilando scrivea ne la ferale Reggia de la tedesca Sodoma imperïale. Nè de la penna intinta Nel sangue de la gente Posava mai insidïoso moto. Ed era l’alma sua quasi morente Faro che guizza da un infausto porto In riva a un mare morto. Egli credeva, ghibellin fatale, D’aver sepolta viva, Come antica vestale, La libertà dei popoli, nel fondo D’un sotterraneo feodal di Vienna, Perch’ella in un immondo Dì fornicato avea con gli eloquenti Carnefici di Francia in su la Senna. E non contento all’aulico mercato Ch’ei fece in vita de le stirpi umano Rivendute a le Corti; Prima di scender, celebre esecrato, Carcerier de le menti, in mezzo ai morti; Pria d’affacciarsi al giudice divino, Volle sul fronte suggellarsi il turpe Marchio dell’assassino. Sottil velen di perfide promesse Stillò nel vulgo, il pravo Fango eccitando dei ribaldi istinti; E patteggiato con lo scalzo slavo Il fiorin de la colpa, entro i palagi De’ lor signori, con l’acuta falce Scagliò i sedotti mietitori a infami Saturnali di stragi. Poscia seduto in su la piazza, in mezzo A lo sfilar de le funeree ceste, Con scellerata calma Ei numerò sopra la sporta palma Dei parricidi il piccoletto prezzo De le recise teste. E l’infelice che tu miri estinto Vide a que’ giorni ladre Marre villane trucidargli il padre. Il sacro capo, simile ad un frutto Dall’arbore sbattuto, Rotolò su la terra, e fu venduto. E forse il cane, al lume de le tetre Stelle, affannato vagando lambiva Su le rigate pietre Il sangue di colui che lo nutriva.»
IX.
Queste parole di ricordo atroce Quel delicato pronunciò sommesse, Quasi temendo di svïar col grido De le memorie e l’ira de la voce Al limitar mal fido De la seconda vita Quell’anima di fresco dipartita. E vòlto in mesta illusïone al cielo, Come chi guardi e segua Cosa che sale e nel salir dilegua, In un sospir si tacque; Nè più si udì per la funerea valle Che il frangere dell’acque. Poi seguitò“: «Congiunti Sempre pugnâro i due Bei cavalieri dove più rïarse La titanica guerra. In su le sponde De la Vaaga montana 10 Ambi trovârsi in quel crudel cimento, Quando fûr visti rovesciar nell’onde I nemici, travolti In disperata frana. Oh! lo rammento. Dopo quel truce giorno a quando a quando Pei flutti sanguinosi Scendevano pietosi Viluppi di cadaveri. Posato Su qualche testa lacerata un corvo Crocidando talor parea guidarla, Abborrito nocchier: mentre le polle Che una virtù di sotterraneo foco Calde dall’imo di quel fiume estolle, Spinte a fior d’acqua si scioglieano in bianche Colonnette volubili di fumo. A quella vista, involontarie il passo Fermavano le schiere Del vincitore: e da le ripe muto Con l’arme e le bandiere Porgevano un saluto Religïoso e pio: Chè lor pareva in que’ vapori erranti Gli spiriti veder dei trucidati Che salissero a Dio. Poi li trovai nell’ispida foresta D’Acse pugnare a lato 11 Fra tronco e tronco per angusto calle. Un’indefessa grandine di palle Mietea le vite al pari de le foglie: Tal che poscia al mattino uscía dal molle Suolo il rapido fungo, Tinto d’arcane lettere di sangue. E ne le sere, quando Era spento il fragor de la battaglia, Spesso li vidi scendere d’un salto Dai fumanti destrieri; e a somiglianza Dei combattenti d’Attila, scagliarsi In un giocondo turbine di danza. Urlavan le canzoni; Sonavano gli sproni; Eran tappeto l’aquile di seta Vinte e calpeste; lampe I casolari in vampe; E testimoni a quel festin di forti Qua e là pel campo i cumuli dei morti.
X.
» Ma contro il dritto, la virtude, e il Dio Ungarico, la vile onnipotenza Del numero prevalse e il tradimento. Mendico imperïale, Lagrimando, la man perfida tese Il fanciul Lorenese, Chiedendo al boreale Sire la pronta carità di cento Mila Cosacchi, e l’onta. Solcâr le nevi, scesero dai monti, Lande varcâro e valli, Fêr su le travi dei deserti ponti L’unghia sonar dei sarmati cavalli Quei tetri servi; e il cuspide piantâro De le lor lance freddamente in core Al moribondo popolo magiaro. – Saliva per la terza Decima volta il sol d’agosto al sommo Arco dei cieli, e con ardente sferza Batteva le profonde Fratte e i burroni del fatal Vilago; 12 I grappoli di menes, e il Mariso Che travolgea nell’onde Sabbie dorate e lagrime di prodi; Battea sull’uniforme Sconfinata pianura ondoleggiante Di mèssi, al par d’un oceano biondo; Battea per la suprema Volta su le infelici Sciabole, e su le illustri cicatrici D’un esercito muto. Era il nefando Giorno del gran rifiuto. Era scoccata L’ora dell’onta, quando Patria, vessillo e brando Dovean cadere ai piè d’uno straniero. Pöeta! oh non fu mai giorno più truce Di quello così fulgido di luce. Passavano con plumbea ala gl’istanti, Siccome anni pesanti Sull’anima. Da mille Volti grondava a grosse e lente stille Pianto e sudore. Ognuno Sentia scavata sotto i piè la tomba Del proprio onore. Ognuno avria voluto Morir. In mezzo al funebre silenzio Uno scoppio improvviso Tratto tratto s’udiva. Era un soldato Che taciturno con l’ultima palla De la sua carabina Fendeva il cranio de la sua cavalla. Talor per l’aura nitida saliva Una riga di fumo: Era un drappello, che baciata in giro Pïamente la santa Patria bandiera, lacera in ottanta 13 Combattimenti, la fidava al foco. Al pro’ che l’asta ne tenea, tremava La man che non avea Giammai tremato; e gli altri intorno intorno, In circolo fremente, Con l’occhio fisso e con la guancia smorta, Seguíano i guizzi e il cenere cadente Di quella nova morta. Fu chi rivolto a la vicina selva, A un rovere le sciolte Briglie, gli arcion, le offese Armi, l’assisa, e la speranza appese; E seminudo su le ignude groppe, Col cibo d’una ghianda, Con la sua frusta glorïosa in pugno 14 Tornò libero figlio de la landa. Fu chi dell’onta impazïente, al petto Drizzò la bocca del fedel moschetto; E, dato col pensiero a la lontana Madre, che l’attendea, l’ultimo addio, Tornò libero a Dio. E al traditor, che torbido le file Cavalcando radea, spruzzò sul fronte Una goccia di sangue del tradito. O Arturo, Arturo! tutta 15 La rapida ed eterna onda dell’Istro Da quel segno sinistro A lavarti non vale; Poi che l’infamia ormai su lo aborrito Campo di Ieno a te pose nel dito Il suo vipereo anello nuzïale. — Tramontò il sole, e l’Ungheria. Sul piano Solingo, su la bruna Selva, e le ville, tutta notte rise, Come beffarda maschera, la luna.
XI.
» E il tradimento rinverdì la pianta Selvaggia del patibolo che cresce Nei giardini d’Asborgo. Era nel tempo Dei novi geli, quando Da la mia terra a schiere Repubblicane parton le cicogne Abbandonando il culmine dei tetti Ospitali, dal fido Lor nido benedetti. Era un mattino: E a me che un colle discendea sui primi Albór, già si pingeano in lontananza D’Arad le torri, il vallo, il rivellino, E lungo il vallo non so qual sembianza Di palchi eretti, e di scavate fosse. Ma poscia che il crescente Raggio si tinse d’un color di rame, Tutta m’apparve all’atterrita mente Scoverta l’opra de la notte infame. Eran tredici tombe: era un filare Di nove forche. Il frale 16 D’otto martiri, ormai livido e nero, Pendea dal trave. Un’ultima figura Lenta salir le desolate scale Vidi, e una corda, e un fiero Dibattimento di convulse forme. Gli altri dal piombo fulminati, in terra Giacean come chi dorme. Qual dïanzi sparite Eran dall’orizzonte Scintillando le Pleiadi consorti, Tale passava splendida e col fronte Sereno quella Pleiade di forti Vincitor di battaglie. E da due lustri un popolo tradito Ne veste le gramaglie. Ora in quella silvestre Santa Croce là giù dell’Ungheria Posano sotto un campo di ginestre, Senza pietra, confusi In una gloria, e senza accanto il brando, Il giudizio di Dio sul coronato Carnefice aspettando.” — Qui l’evocata visïon feroce Gli soffocò la voce. Indi sui due Dolci defunti raccogliendo il guardo: “Questi, soggiunse, il nome Non anco illustre, e la novella etade Da la fune salvâr; ma fûr dannati A perpetui soldati.” Poi, quasi un novo e splendido ricordo Passasse a vol per quella anima offesa, Seguì sclamando con parola accesa: “E tu, Sandor, perivi, 17 Dei carmi favorito e de la spada, Mentre l’arco de gli anni e di fortuna Poetando salivi. Verga gentile d’albero plebeo, Tu la natía favella, Che non à madre, che non à sorella, 18 Ai virili educasti Metri di guerra, rustico Tirteo. Ove n’andasti che non torni? Siede Sul letto nuzïal la giovinetta Tua vedova che attende; Tra le candide bende De la cuna bisbiglia L’angiol recente de la tua famiglia. Vieni. Per te le belle Figlie de la tua landa Sfidando i delatori T’intrecciâro ciascuna una ghirlanda Di tre colori. — Ahimè, la patria, ignora Perfin la zolla, dove Inginocchiarsi a piangerlo! Cadea Forse in battaglia. Forse Ne le notturno insidïate corse De la sconfitta sanguinando, immerso Dentro un padule transilvano, ai venti Diede il suo desolato ultimo verso. Forse un Cosacco, cacciator di vite, Incontrato lo stanco Là per quelle romite Vie, con la picca ne trafisse il fianco: E oltra passando il tartaro corsiero Col piè ferrato lacerò la santa Testa che tanto contenea tesoro D’inni venturi e tanta Carità di pensiero. Forse smarrito in una fonda gola Tra i sàssoni dirupi, anima sola, Quando quei truci abitator dell’alte Vette spïando del nemico i passi, Sui fuggitivi dirigean la furia Dei rotolati massi Quivi periva. A immagine del forte Paladino ferito in su le arene Fatali di Pirene, Forse egli pria de la solinga morte Chiedendo aita, il corno Disperato sonò: ma non l’udia La esanime Ungheria.” Quel doloroso fe’ silenzio, e al suolo Cadde pregando genuflesso: e forse La sua gentil preghiera Spiccando il vol, come divina cosa, Là giù in terra straniera Scoperse la segreta Aiuola, ove si posa L’afflitta fronte del civil pöeta.
XII.
Senza saperlo io stesso Mi trovai genuflesso. E quando il vidi Già ritornato in terra col pensiere Dal vïaggio del ciel fatto sereno, “Ma chi se' tu, gli chiesi, Che così onesto lagrimando parli?» Ei mi rispose“: «Piccioletta istoria, O poeta, è la mia. Io son Rumeno De la tua stirpe. Da latina gente Messa a vegliar con l’aquile sull’Istro Il torbido Orïente, Per mille e settecento anni oblïata, Usciron gli avi miei. Fra i sette monti Dei cavalieri Sécleri io nascea, Dove Sandor cadea. Quivi pei boschi 19 Bruni di pini, e i nobili castelli, Sin da fanciullo l’odio Vêr lo stranier m’appreser le ribelli Melodie del magnanimo Racoschi. 20 Dentro il cristal d’un lago Montano, azzurro, placido, profondo, Ch’era tutto il mio mondo, ove le stanche Onde riposa la spumante Aluta, Si riflettea con le pareti bianche La mia casa paterna. In mezzo a un prato i ruderi di un campo Del Dacico Traiano eran ricordi De la Cittade eterna: A’ piè d’un colle l’arabo sorgea Cippo d’un ottomano Col verso arcano e la falcata luna, Reliquie di quei dì, che al transilvano Brando ridea fortuna. Or da due lustri in quella onda turchina Si specchia la ruina Del mio nido natío. Poi ch’una sera Del Lorenese le fuggenti squadre Giunser là su, nè paghe a la rapina, M’arser la casa, e il padre. Ahi! sventurato! Ed io, Come ogni cosa mi fu tolto in terra, Mi son rivolto a Dio.» Disse, e movendo i passi Guardinghi in fra i cadaveri, cennava Con l’addio de la man ch’io me ne andassi.
XIII.
Affrettando la via, come sospinto Da non so qual paura, abbandonai Quel campo seminato di sventura. E per novo sentier, che più veloce S’inerpicava al colle, Salendo mi pareva A quando a quando scorgere un feroce Lampo di riso balenar sui volti Dei barbari insepolti; E qualche man che livida sporgesse Con brancolanti gesti Tentando al mio passaggio D’afferrarmi le vesti. Quivi sull’erba ravvisai caduti A drappelli i devoti Cacciatori del Brénnero; cui meglio Era inseguire col sagace veltro, Col mazzolino sul cappel di feltro, Pei nevicati vertici remoti Le retiche camozze; e sull’aperto Verde dei prati fulminar le lepri Fuggendo uscite dai tentati vepri. Quivi giaceano con gli ambrosii crini Eruttati, ahimè! di polvere i divini Battaglieri dell’Enno; a cui fu gloria 21 Sul passeggiato lastrico sonoro Di fremente cittade Sbatter l’acciar de le innocenti spade. Nè li guardai. Ma in vetta Giunto del colle, mi rivolsi indietro Vêr quella forra che rendea sembianza D’un immenso ferètro.
XIV.
Ormai si affretta al fine La maledetta secolar tragedia Fra le alemanne genti E le genti latine. Da le molte favelle, a cui l’astuto Sire insegnò con dïuturna insidia A ricambiarsi accenti D’odio e d’invidia, è per uscire alfine La parola d’amore. Iddio con immortali Caratteri di monti e di marine À segnate le patrie. All’opra sua Già troppo contrastarono gli avari Discernimenti, l’ámbito, e la fame De’ figliuoli d’Arminio. Ognun possieda Le sue tombe, e i suoi lari. Omai son vòlte Le settimane del divin decreto Che per trecento afflitti anni dannava L’Itala stirpe a schiava. Ora è fatal, che per la terza volta Essa la sacra fiaccola raccolga Di civiltà fra i ruderi di Roma Sacerdotal sepolta; E il suo seguendo nobile destino, Per ispirate vie, Maestra eterna, a le sorelle apprenda Libere, oneste, e nove Socïali armonie. È ver che ancora scalpita sul santo Sepolcro de’ miei padri l’esecrato Destrier tedesco; e spasima tra l’Alpe E il Po, tra il lago di Catullo e il mare Un ultimo Prometeo incatenato. Con scellerata festa Tuffa la moritura aquila il fondo Occhio e le penne de la scarna testa Ne le venete viscere: fumando Esce stanca, non sazia, dall’immondo Pasto; e, deterso il rostro ne la vesta Imperïal, mette un funereo strido. Rispondono da lunge I glorïosi portici deserti Del Sansovino, i templi epici, e il Lido, Che serba in su la grigia Arena tutta volta del tradito Lïone le vestigia. Ma numerati i giorni Son del tripudio. In folto ordine invano Col lor panno da morto per vessillo, Con la foglia di rovere sul crine Passan le torme dei perpetui Cimbri L’odïoso confine. Ogni famiglia È una congiura: ogni città, Pontida: — Tempesta la battaglia. Il derisore Dio de le fughe visita le file De gli stranieri, e il core. Vedo del combattuto Adige l’urne E dell’Isonzo tingersi di rosa, E una danza di bionde Teste rotar pei vortici dell’onde. Vedo per tutti i valichi dell’Alpe, Come per l’atrio de la nostra casa, Svolgersi il drappo de la mia bandiera. Vedo un ramingo che fu già ricinto Ne la sua torva gioventù di molte Corone, ire solingo. La logorata porpora nel fango Strascina, ove è trapunta Un’aquila defunta. Ora di tanti servi a lui rimane Il carnefice solo. Una condanna Giusta l’astringe a mendicar il pane, Al castello battendo e a la capanna Ov’è il figliuolo, a cui Fece appendere il padre. — Oh! come è bella L’alba d'Italia. All’orïente ascende La sua limpida stella Col raggio che si frange in tre colori; All’occaso la squallida discende Cometa de gli Asborgo. E da le vaste Terre e dai mari un cantico si leva Di vituperio e d’onta Per quella che tramonta.
Pisa, 17 dicembre 1860.
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1 I Boemi ànno una natural attitudine alla musica, e però molti ne contano, e valenti, le bande musicali dell'Austria; le quali, quantunque roba nimica, bisogna confessarlo, suonano a maraviglia,
* Vedi le Note in fine del Canto. 2 Fiume della Croazia.
3 Fiume dell’Ungheria.
4 La Theiss, o Tibisco, è quel fiume ungherese, dietro la linea del quale si ripararon sulle prime i sollevati ad agguerrirsi.
5 Fu a questo passo di Branisco, tenuto quasi insuperabile, che l’eroico Guyon con 8000 uomini snidò e sterminò un bel numero di Austriaci. Nel cuor del verno giunti gli Ungheresi a quel passo, portando di notte per sentieri lubrici e nevicati i cannoni a forza di spalla, fulminaron dall’alto il nimico, e parve cosa maravigliosa.
6 Tutti sanno come i generali austriaci abbiano in Ungheria fatto bastonare parecchie donne.
7 L’Ussaro, specie di magiarismo incarnato, come à in proprio la sua lancia e il suo destriero, così vuol avere anche il suo Dio, il suo Magyar Isten, il quale non à da pigliarsi pensiero delle grandi faccende del mondo, ma vive e regna nella sola Ungheria. A questo Dio paesano prega l’Ussaro prima di scagliarsi nella mischia. Petöfi canta di questo Iddio con filial tenerezza. « Il tempo, grande fulminatore di popoli, ci avrebbe soffiati via, come granello di sabbia: » Questo Dio ci ascose sotto la sua ala, e l’uragano è passato innocuo sulle nostre teste. »
8 Ognuno conosce il grande movimento slavo che si svolse con fatale precocità nel 1847. Iniziato dalla nobiltà, fu mal compreso dalle moltitudini, le quali eccitate dalle sorde mène dell’Austria, e specialmente dai segreti emissarii del principe di Metternich, insorsero con ferocia selvaggia contro i patrizi benefattori.
9 Il principe di Metternich, gran cancelliere dell’Impero Austriaco e cagione principale dei macelli di Tarnow.
10 La Waag, fiume dell’Ungheria, sulle cui romantiche sponde molto si è combattuto, offre una curiosa particolarità. In mezzo alla corrente fredda emergono qua e là polle d’acqua calda, che giunte al pelo lasciano evaporare colonne di fumo biancastre.
11 Nella battaglia data presso la foresta d’Acs, gli Honved fecero miracoli di prodezza, cosicchè gli stessi generali austriaci dovettero ammirare questa fanteria novizia, che si battea colla risolutezza indomabile dei veterani. Petöfi, che era degli Honved, così cominciava un suo canto: “Niuno dopo Dio porta un nome più bello e più santo dell’Honved. Quanto dovrò io fare per meritarmi questo nome così grande!”
12 Sulle sponde del Mariso, presso Arad, la pianura si eleva in facili clivi, dove spesseggiano i vigneti di menes, che si vantano tra i migliori di quel paese: poscia a poco a poco si alza il monte, e si inselva. A due miglia dalla fortezza di Arad si vedono le ruine del castello di Vilagos, e lì vicino, in una villa fu stabilita la resa dell’armi che poi si compì nel piano tra Szöllös e Jenö. Furono 24,000 uomini e 144 cannoni che Arturo Görgey metteva in mano di Rüdiger generale russo.
13 Questo numero è attestato da Carlo Luigi Chassin, e tolto alle note di cui volle giovarlo mad. di M... per il lavoro che ei fece sopra Sandor Petöfi.
14 Questa frusta, ben nota agli Austriaci, arma dei Czikos, mandriani e domatori arditissimi di cavalli selvatici, è composta d’un manico lungo due piedi e d’una corda di tre o quattro tese a quello attaccata per una corta catenella di ferro. La corda è divisa a certe distanze da palle di piombo: una palla più grossa e pesante pende alla estremità. Il mandriano, anche a galoppo, è sicuro di cogliere colla palla, agitando la frusta, nel punto prefisso, e colla fune sa avvolgere in ispire indissolubili cavallo o nimico, e trascinarlo a terra.
15 Arturo Görgey.
16 Il 6 ottobre 1849, ad Arad vennero dal Governo austriaco condannati a morte tredici valorosi tra generali e ufficiali dello stato maggiore ungherese. Quattro ottennero la grazia “della polvere e del piombo.» Gli altri sulle forche. Così finivano il vecchio Aulich, il giovine conte Leiningen, al quale fu perfino niegata una lettera della sua giovine sposa la contessa Liska; Török, Lahner, Pöltenberg, il toroso Damjanic, Nagi Sandor, Knezich, Vecsey ed altri. — Poche battaglie vi ànno nella storia che abbiano divorato tanti prodi generali quanto il mattino del 6 ottobre. Le sono battaglie dell’Austria!
17 Ò voluto toccare di questo magnanimo Ungherese per amore, direi quasi di famiglia. Infimo, come io sono, fra i poeti civili, mi è caro propagare la gloria degli altri che sono grandi. Petöfi Sandor (Alessandro) nacque nella Cumania coll’anno 1823, in mezzo alla sua landa, alla sua Pustza, che tanto amò e cantò. Suo padre facea l’oste e il macellaio: e forse il mestiere gli togliea di capire l’anima di suo figlio: ma ben la comprese la mesta tenerezza della madre. La sua giovinezza fu torbida e scontenta: scolaro indocile: compagno tumultuoso: gittò i libri, e buttossi al commediante: la quale arte gli procacciò pane scarso e amaro, e fischiate di molte. Corse la landa, mendico improvvido, cantando e bevendo, e nelle Czarde ospitali facendo brindisi ai vini focosi e alle focose ragazze della patria; fu poi giornalista, e soldato, ma poveretto sempre. La sua impresa stava in questi versi“: «Due cose mi occorrono, libertà e amore. Per lo mio amore do la mia vita: per la libertà l’amore.” Un bel dì s’innamorò disperatamente d’una che vide morta: e celebrò, in canti intitolati Foglie di Cipresso, questa sua bionda Etelka. La qual passione per altro non gli tolse di metter fuori lo stesso anno 1845 le sue Perle d’amore ispirategli da ragazze tutt’altro che defunte. Lavorava infaticabile, e quasi presago che Dio gli aveva destinato poco tempo al lavoro. Scrisse poemetti e versi d’ogni sorta: fu il poeta popolarissimo e prediletto dell’Ungheria: cantò la steppa colle sue cicogne, i suoi zingani, i czikos, i banditi; cantò idilli, gioie domestiche, amori, e perfino le proprie nozze. Giacchè l’8 settembre 1847 egli sposò Giulia Szendrei: e fu beato, e nella pienezza della sua felicità cantava: Mi sento un re. Se non che, fra le carezze della sposa, ei notava che la sua sciabola appesa alla parete della stanza nuziale guardavalo biecamente con occhio geloso, per la qual cosa nei primi dì delle nozze egli scriveva: . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “Ma se a un tratto squillasse la tromba delle battaglie, se brillasse lo stendardo trionfale, a cui spasima il mio cuore, » Sul mio rapido cavallo mi lancerei nella mischia, mi confonderei cogli eroi, smanioso di consacrar la mia sciabola. » Che se il ferro nimico rompesse il mio petto, ora almeno alcun vi sarebbe che guarirebbe la mia ferita co’ suoi baci e col suo pianto. » Se cadessi vivo nelle mani del nimico, alcuno saprebbe aprirmi la prigione; due begli occhi risplenderebbero nella mia tenebra. » Che se la morte mi cogliesse o sul patibolo o nella pugna, un angiolo, una donna desolata laverebbe il mio corpo con le sue lagrime.” Se non che la sua Giulia, bella creatura quantunque un poco loschetta, non avendo potuto trovare il suo cadavere per lavarlo con le sue lagrime, dopo alcuni mesi sposò il figliuolo dello storico Horvath. Essa però gli aveva dato prima un figliuolo, immensa letizia di Alessandro, che gli volse alcuni versi i quali finiscono così: “Oh, che si possa dire presso al mio sepolcro, senza mettere un lamento: Lui morto, la patria non perde nulla. Nulla. L’anima di lui vive in suo figlio.” Ma già scoppiava la rivoluzione, e Sandor se ne fece il poeta. L’appello del grande lirico, del grande epico Vövösmarty era per ogni bocca, faceva battere ogni cuore: il padre di Petöfi, il povero macellaio quantunque vecchio e malato, pigliò in mano la bandiera tricolore, e fu alfiere d’una compagnia. Sandor volle far l’agitatore, volle far l’uomo di stato, si dimenò per essere rappresentante della nazione; ma si accorse che non era il fatto suo: pigliò l’arpa e la sciabola che erano davvero il fatto suo, e combattè, e cantò. Cantò la patria, la libertà, suo padre bandieraio, l’Honved, il suo Bem; eccitò, esaltò, satireggiò. Mandò una freccia allo stesso imperadore Ferdinando, chiamandolo Ladislao Ben-bene. Un’altra ne scoccò verso Francesco Giuseppe dopo invocati e ottenuti i soccorsi della Russia. “Tiranno maledetto, ei dice, tu prevedi ben fatale la perdita, dacchè ti vendi a Satana, acciò ti salvi. » Ma, credimi, tu ài con chiuso un cattivo contratto: Satana non ti salverà; e Dio t’abbandona.” L’ultimo suo canto pare essere stato un brindisi audace, scritto appunto per la festa del giovine imperadore. Il valoroso colonnello Alessandro Teleki lo trovò fra le carte dello stato maggiore di Bem salvate dalla rapina dei Cosacchi nella sconfitta di Segesvar, Dopo alcune strofe, voltosi al Sire, esclama: “Che il presente il quale ti degni concedere a noi, dal buon Dio ti sia reso più tardi: gli innocenti sono avvinti ai ceppi; che i ceppi si avvinghino a’ tuoi due polsi. » Possa il destino accordarti tutta la felicità che il tuo popolo ti desidera, Che i demoni visitino i tuoi sonni, maestà, re degli impiccati, Che il tuo letto sia un braciere: che il tuo cibo sia roso dai vermi: che la tua bevanda sia il sangue de’ martiri: che la tua scranna si muti in patibolo. » Che tu possa limosinare, come le migliaia de’ tapini che tu derubasti. Giacchè tu non fosti mai re dell’Ungheria, bensì il suo ladro, il suo assassino. » E quando dopo una giusta punizione la tua anima alfine fuggirà dal tuo corpo, che il turbine sperda le tue ceneri; e invece d’una croce sulla tua tomba si levi una forca.” Colle schiere di Bem, che lo tenea carissimo e lo nominò maggiore sul campo, Alessandro si trovò il 31 luglio del 49 alla battaglia di Segesvar in Transilvania: nulla ostante prodigi di valore, l’immensa differenza del numero fece prevalere il nemico di modo che la rotta fu intera. Il generale venne raccolto esanime in un campo di maitz; ma il giovine poeta che fino agli ultimi istanti s’era battuto al suo fianco, non si trovò fra i cadaveri riconosciuti: il suo nome non apparve sulle liste nè dei prigionieri, nè dei martiri: non lo si rivide più nè in terra d’esilio, nè in patria. In un istante di balda confidenza egli avea un giorno cantato“: «Senza timore affronto la battaglia, non ò punto a paventar delle palle: so che la sorte sta con me; so che non deggio morire; perchè io ò da essere colui che, abbattuto il nimico, à da cantare, o libertà, il tuo immenso trionfo, celebrando i morti, il cui sangue ti avrà battezzata.” Invece egli è sparito misteriosamente in mezzo al turbine, nel fiore de’ suoi 25 anni: e invece ch’egli avesse a celebrar i suoi grandi, il verso d’un oscuro Italiano dovea cantar la sua lode. Chiedete tuttavolta un Czico della Pustza, un agricoltore di Keskemet, un pastor Séclero se Petöfi è morto: no, per Dio, no, vi rispondono: non è morto quel bravo figliuolo, È nascosto laggiù, in qualche loco; ben nascosto fra gente fida. Venga l’ora della liberazione, e subito, all’indomani Petöfi sarà con noi. E sarebbe quasi ora che tornasse.
18 È opinione che l’idioma magiaro non abbia parentela con gli altri di Europa.
19 La Transilvania, il paese delle sette montagne, è come una immensa fortezza: è la Svizzera dell’Oriente. I Carpati a mezzodì la ricingono d’una muraglia gigantesca. Colà vivono i Sécleri, gagliarda gente della famiglia Magiara. Erano i beniamini di Bem. Il poeta patriota cantava di loro: “Il sangue del Sécleri non è degenerato: ogni goccia è un diamante.” Colà vivono i Valacchi, gente Rumena originata dalle legioni lasciate sul Danubio dopo la strage Dacica da Traiano; e i Sassoni gente alemanna che nella guerra del 48-49 ferocemente parteggiarono per l’Austria. A ogni tratto in quelle contrade incontri castelli feudali, ruine romane, e sepolcreti turchi, elevati fino dai tempi in cui il prode Uniade ne disfece pressochè 100,000.
20 Rakoski è uno degli eroi più popolari che abbiano un tempo combattuto per la indipendenza ungherese. Un poeta magiaro cantava, nel 48: “Santo del paese, capo della libertà, brillante stella nel mezzo della notte, o Rakoski! come, al rammentarti, palpitano i nostri cuori, e ci si gonfiano di lagrime gli occhi! » L’ora si appressa in cui si vincerà quella santa causa di cui tu fosti soldato. Ma tu sarai assente dalla vittoria: perchè non si può ritornar dall’avello. » Impugna lo stendardo. Che l’ombra tua lo porti nelle prime file, come nelle pugne passate. Che la tua voce infiammi dall’altro mondo i difensori della patria ungherese.” Quando sull’aia di qualche czarda una banda di Zingani suona sul suo tagorato la marcia di Rakoski, che è come l’inno nazionale, un fremito patriottico coglie giovani e vecchi, donne e fanciulli, i quali, a seconda che si svolgono le melodie di questa lirica epopea, col viso manifestano e coi gesti la potente commozione dell’anima.
21 Gli Austriaci di sopra e di sotto l’Enno. |
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