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Aleardo Aleardi Canti IntraText CT - Lettura del testo |
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CANTO POLITICO
IN MORTE DELLA CONTESSA MARIANNA GIUSTI NATA MARCHESA SAIBANTE. AL VENTURO PONTEFICE
ALEARDO ALEARDI.
CANTO POLITICO
I.
Così mesta e sicura Dove pensi di gire, o pellegrina? Volgi forse al paese de gli estinti, Chè vedo apparecchiata Un’insolita vesta, e dei giacinti Tristi, e un lenzuolo e il legno de la croce Ch’è il bordone dell’ultimo cammino? Or che scintilla il sol meridïano Sui tetti alti e il giardino, Perch’ài chiuse le imposte, e de la stanza In un canto lontano Si dibatte fra ’l buio un lumicino?
II.
La vecchierella, antica di famiglia, Entra pian piano pallida, e bisbiglia Preci. Non so che cosa Prepara e piange e fugge frettolosa. Ma nel fuggir, sogguarda Te che con lei gentile Fosti sempre ed umana; Sogguarda in aria di paura arcana. E tu giaci frattanto Tinta nel viso d’un color di perla Con la posa d'un Santo.
III.
Chi t’incalza a partir pel desolato Eremo de la tomba? Oh! ne gli avari Solchi, non dubitar, già caleremo Tutti a trovar quei che ne furon cari. Anco ti arresta un poco, Cortese mia. Serene Saranno e belle e senza alcuna guerra Quelle plaghe del ciel: ma bella pure E senza esempio allegra ora diviene Questa italica terra. Or non è tempo di morire. È tempo D’attendere e gioire. Or che l’antica Eredità dai barbari contesa A la veneta gente Splendidamente Iddio vuol che sia resa.
IV.
O anima gagliarda, Te il comune desir forse non punge Di vedere, in un dì che non è lunge, Fulminando volar da la lombarda Pianura all’Alpi, al mar, per una via Sacra, la gioventude Bella, tremenda e pia De le italiche schiere? E in fuga per i campi Le rotte orde straniere? Non ti punge desío Di veder sul natío Suol luccicar le mobili selvette Dei possenti lancieri; e per le apriche Nostre valli passar le giovinette File dei fanti che parranno antiche? E dai vinti sentieri Sbucar di Veia e di Caprino, e al piano, Come vivente lava di vulcano Acceso dal destino, Scendere i bersaglieri? Arsi dal sol le fronti, Con l’arme in pugno, con le piume al vento, Di polve e fumo, di sudor, di sangue Superbamente immondi, Ebri di gloria scendere giocondi Sposi de la vittoria? E quel dire: Son nostri!
V.
Anima Italïana, A te che in core abomini gli avversi Figli selvaggi de la tramontana, Forse non tarda di veder la fine Del gigante conflitto Fra l’immortal diritto, e la tiranna Forza brutale; e la costei condanna Ai vivi, ai morti, ai posteri bandita Da la voce tremenda D’un Re senza paura e senza menda? Bandita da le domite colline De la esultante martire Verona, Di mezzo a le ruine De le castella che le fûr corona Esecrata di spine? Poi ch’è destin che nell’ausonia terra Alcuna guerra mai non si combatta Pe’ suoi fati soltanto, Ma sì pei fati dell’umana schiatta?
VI.
Volgon già dieci secoli che dura Con diversa ventura Questa battaglia tra il figliuol di Roma E l’ispido nipote Dei Nibelungi da la fulva chioma. Non è monte in Europa e non è valle Ch’echeggiato non abbia A la lor rabbia; al rombo De le lor frecce; al fischio De le lor palle. Tinsero l’arena Di molti fiumi col febbril zampillo De la lor vena. I cento Clivi, i passaggi infidi e le boscaglie Dell’Alpi risonarono e del Jura De le trombe a lo squillo, Al frangersi dell’aste e de gli scudi, A le percosse maglie: E spesso in vece dell’odor dei fiori Si diffuse pei campi in lontananza De la polvere incesa La marzïal fragranza. D’ogni città per le cruente strade Scintillaron le spade In truce lotta che parea fraterna, E invece era di due Famiglie avverse la contesa eterna. E tra il fragore e i colpi Dell’atroce duello Pareva udir per l’aure a quando a quando Ir sibilando d’Attila il flagello, Il flagello di Dio. Or vinti, or vincitor giusta le tempre Dei rinnovati nervi, Ora signori or servi Que’ combattenti arme mutâr con gli anni, Mutar nomi ed affanni: ma fûr sempre Tuttavolta gli stessi: o li chiamasse Barbarossa, la gente, oppur Ottoni, Li chiamasse Ferrucci, Ovver Napoleoni; O ne le regïoni D’un arrogante olimpico comando Fosser detti: Ildebrando: O in quelle de la libera parola: Savonarola; o in quelle D’un cenobio ribelle Fosser detti: Lutero, Spartaco del pensiero. Pugnâr, caddero, giacquero, e risorti Ricominciâr. E i vasti cimiteri, Ove talor sotto la stessa croce Tinti di sangue riposâr quei morti, Or con amara voce Vaterloo fûr chiamati, o Cavinana; Or con nome divino Legnano o San Martino.
VII.
Ma v’ebbero dei vili Lunghi tempi servili ed impotenti Fin di lamenti, allor che l’infelice Italia, alfier morente De la latina gente, Parve spirare, e giacque Immota ne la sua Cinta superba di montagne ed acque. Per una via di disonesti lutti Fu trascinata in pria. A le ignominie d’un Calvario novo, Flagellata da tutti I soldati stranier qui convenuti Come iene a ritrovo Di cadaveri. Poi tetre famiglie Di Regoli affamati, Roghi innalzando e palchi, Con la ragion dei falchi Si spartîr le sue mèssi e le vendemmie E il tappeto dei prati. Ed ella, al par del coronato Ispano Che la ferì nel cor sotto Fiorenza, Con funerea demenza Si celebrò vivente L’esequie in Vaticano. Ella, privilegiata dei sublimi Ardiri de la mente, Indifferente l’anima commise Ne le cupide man d’un sacerdote; Il qual fra le stupende Beltà dei monumenti, e i molli canti Di vati senza patria, e le famose Sculte o dipinte immagini di Santi, Fra i balsami e le bende Artistiche la vittima compose; E con bugiardi omei, Sparsevi su di Gerico le rose, Cauto si assise sull’avel di lei Ch’ei ben sapeva che non era morta, Non già col sentimento Dell’angiolo dal bianco vestimento Per poter dire un giorno: «Ella è risorta;» Ma per vegliarne con pupille d’Argo L’egro letargo; il lento Metro spïar del core; Per soffocarne nel mistero il primo Fremito precursore Del suo risorgimento. I marinai che l’àncora a que’ giorni Calar lungo il romito Paradiso dell’itale scogliere, Non altro avranno udito Uscir da la Penisola che il fioco Salmodïar di querule preghiere Mormorato da un popolo di larve; E correre gl’immensi Piani dell’onde un suono D’organi tra l’odore Di nauseabonde nuvole d’incensi. Bensì talor surgea Di mezzo a le codarde sepolture Qualche anima possente Ricca di Dio, che ardiva Interromper que’ biechi saturnali Sacerdotali, e quelle orgie divote Di carnefici in maschera di santi Piene di pianti; e maledir la rea Etade e i sacri filtri e le catene, Profetando le idee dell’avvenire: Ma pontefici e re subitamente Sovra le piazze de le cupe chiese Ergevano le pire, Spegnendo con feroce Argomento di fiamma La temeraria voce: E scagliando le ceneri del grande Visitato dal nume Sovra l’onda d’un fiume. – Stridon le stipe: incede Da vincitor il martire: l’erede Del santuario siede Sui ricchi pulvinari; E l’effluvio dei membri arsi, giocondo, Sale a le sacre nari. – Ma lo notava il mondo.
VIII.
E il folgore dell’ire Lungamente raccolte Scoppiò. — Son le rivolte Gl’impazienti apostoli fatali Del pensiero di Dio, che si rivela Al pensier de’ mortali. Irrequïeta L’umanità vïaggia Guidata dalla sua nobile stella Per una strada o florida o selvaggia Di monti aperti e di profonde valli, Tal che ora poggia, or scende, Ora sen va con sì confuso metro, Che par s’arretri, o che si volga indietro; Pur sempre ascende, attratta Ad una mèta di superba altezza Che i cieli arcani le assegnâr, cui tende Con indefesso spasimo d’istinto; Nè mano di pontefici, nè mano Di re, poveri tutti! impediranno Quel vïaggio di Dio. — Pendeva al fine il secolo ch’è morto; Un plumbëo destino Sul gentile incumbea sangue latino. Lasso di sonni l’Italo pusillo, L’Ibèro nell’orgoglio De’ suoi cenci seduto Sui gradini d’un soglio Monacale languía. Ma un fastidio magnanimo del vile Passato a un tratto accese L’impetuoso spirito francese, Che impugnato il civile Vessil segnato da le nove fedi, Solo e feroce infisse La lancia inesorabile nell’idra Tenace del servaggio. Infurïando scrisse Dall’alto dei patiboli col sangue Patrizio gl’immortali Dritti all’uomo negati; e con la prima Pietra di strage popolar vermiglia De la vinta Bastiglia Incominciò la rapida ruina De le gotiche reggie. Un fragore di franti Ceppi religïosi e feodali Corse a que’ dì le terre; E in mezzo a la tempesta de le guerre Titaniche, e a le lugubri eloquenze De le torve tribune, a quando a quando Pareva il tonfo udir de la ferale Scure di Robespierre.
IX.
Ma le scitiche rabbie e le tedesche Levârsi contro all’inclita rapina Di questa audace novità latina. Alleate coi turbini, coi venti E con le nevi de le lande algenti, Pugnar feroci e false, Pugnâr congiunte e disperate, in fino Che un’altra volta Satana prevalse. I nostri padri videro ammirando D’una città sacra, fedel, deserta Sollevarsi le fiamme Ai cieli boreali, Come selvaggia offerta Di sacrifizio a Dio vendicatore; Tingendo coi riverberi, presaghi D’un tramonto imminente, I popoli e il recente Trono dell’Occidente. I trïonfanti pallidi raccolte Le avvilite corone Rotolate sui campi di battaglia, Convennero sul margine dell’Istro A concilio sinistro. Qui de le patrie soffocando i sacri Risorti entusïasmi, Qui de la tirannia Con l’infernal magia Evocando i fantasmi Del passato odïati in un’ebrezza D’onnipotenza, vollero dementi Abolire il pensiero, Catenar l’avvenire: e si spartîro, Sconfondendo i penati, La mandria de le genti. E mentre tanta umanità piangea Mercanteggiata, un indecente scoppio Di risa inestinguibili scorrea Lungo gli orti e la chiesa unica, il doppio Colonnato e le sale del pagano Ricinto vaticano; Come accosciate là sopra le nere Lastre di Delfo al tempio Le Eumenidi con gli occhi Semivelati, a guisa di pantere, Dicon che un tempo vigilasser l’orme Agitate dell’empio, Serve e superbe allor non altrimenti Le germaniche genti Vegliavano a la porta D’un imperio deforme, Custoditrici d’una pace morta; Mentre l’antico rettile d’Asburgo Rinnovando il martíre Dell’inviso a gli Dei Laocoonte, Da la perfida reggia Avviluppava in tortuose spire Nobili schiatte, e ne suggea con dire Canne non mai satolle Il fior de le midolle. Molti così passâro anni codardi. Simili a lunga notte Non d’altro viva che d’alcune voci Di congiura interrotte; Sin che il divino assillo D’Indipendenza i popoli rimorse, Traendoli a spiegar con vïolenta Sublime impazïenza Dinanzi al sole il patrïo vessillo. Qundo un re capelluto, a cui le franche Rivolte avean raso le chiome, in muto Monastero sepolto, Si vedeva il cresciuto Crin prezïoso che valea l’impero Novellamente scendere sul volto, Ei dal divoto carcere fuggendo Irrompeva all’aperto; Dove talor dai rudi Guerrier levato sui ferrati scudi Riguadagnava il serto. Anch’essa Italia dal cenobio imbelle Del servaggio è fuggita. A la infelice Diseredata crebbero le chiome: E torna imperadrice; Poi che i suoi forti con superba gioia La levaro in trïonfo Sovra l’intatto scudo di Savoia, E la torbida larva De la Santa Alleanza in fra il rossore De le nordiche aurore Lungo il Baltico mare Impallidisce e spare.
X.
Or non è tempo di morir. T’arresta Un poco ancor nel tuo florido ostello, Anima onesta. È bello Quel poter dire: Io vidi grandi cose Ne la mia patria. È mesta Troppo la tua partenza a la vigilia Dell’italica festa. Or che l’eterno amore De la natura fa tornare i fiori, Perchè partire, o fiore? L’orecchio, invece, nel silenzio accosta A terra. Di’: non senti Lieve lieve dai colli e da le valli Venir verso Verona Un suon come di molte péste uniformi d’uomini, e un confuso Scalpitio di cavalli? Oh sono dessi i lungamente attesi! Senti! senti! Già parme Da le rapide mura udir le scolte De l’oppressore tramandarsi il verso Barbaro dell’allarme — Veder già parmi pei squarciati spalti L’impeto de gli assalti; e fiuto l’aure De la battaglia. Già la morte vola Da la fulminea gola Di mille bronzi. Un’ondeggiante zona D’acre fumo incorona Ogni castel che lampeggiando tuona. Con dubbiosa vicenda Arde pei suburbani Solchi la mischia orrenda. De la cittade a le deserte vie Giungon carri cruenti, Carichi d’agonie, Inaffiando di sangue i pavimenti. Sovra la soglia de le chiuse porte Qualche ferito qua e là caduto Sente appressar l’acuto Brivido de la morte; E volge il ciglio e l’anima a quel monte Che gli verdeggia a fronte, Forse pensando che oltra là, lontano, Avvi una dolce casa poveretta Ove l’attende invano Una madre soletta. Da le torri eminenti E d’in sui tetti perigliosi, a gruppi, Pallidi cittadini Con gli occhi intenti, i crini Irti, coi pugni stretti, Con anelanti petti Assistono, guardando a la campagna, A quel giuoco selvaggio, ove una patria Si perde o si guadagna. Ma ormai distinta io sento Batter recata da non so qual vento L’ora del Fato. Lo stranier nei cieli È condannato. De’ suoi morti il piano È coperto. Dell’Adige iracondo Sui vorticosi flutti, Avvezzi ai lutti, passano bandiere Lacere ed aste e vestimenta e salme Di fuggitivi che travolti al fondo Ruotan sepolti ne la mobil sabbia Con la lor rabbia. I liti Suonan d’intorno ai tremoli nitriti Dei cavalli feriti. Qualche infelice invan con moribonda Man disperata ai fragili s’appiglia Salici de la sponda. Altri affogando batte la funesta Acqua con palma stanca, e in un supremo Sforzo, come fa in mare L’augel de la tempesta, Erge la testa anche una volta e spare. — Ite, o stranieri, giù per le correnti Inesorate: e vi sien gravi l’onde, Crudeli i corvi de la ripa, e i venti Marini. E tanti vi prolunghi il Fato Istanti ancor di vita, Che a voi mirar sia dato L’adriaco golfo, italo lago un tempo E in avvenir. Udrete Uscir là giù dall’Isole Brïoni Misterïosi tuoni: All’istrïano margine vedrete Nodi di fiamme e di sanguigni lampi, Come di cosa che sul mare avvampi. Quello è il navile imperïal che vola Dall’italico foco incenerito. Cade la notte. Dell’inutil Pola Rosseggia da lontano Lo scheletro gigante del romano Anfiteatro e il portuoso lito.
XI.
Ancor qua giù rimani, O mia gentil; vedrai novo ed insigne Spettacolo d’amor. È l’indomani De la vittoria. Non vi fu pupilla Veronese, a la notte, Visitata dal sonno. In ciel già brilla Il sol d’Italia. Prima Nostro non ci parea nè manco il sole. Fuor d’ogni casa una festevol onda Sbocca di gente, e imbruna Le strade e i ponti, e inonda Le piazze. Altri s’aduna A chieder nuove: altri racconta i prodi Fatti di ieri, e fa piangere e piange. È un’ora glorïosa, Quaudo il delitto è un’impossibil cosa. Qual per incanto, la città fiorisce Tutta quanta a bandiere tricolori; Le fanciulle dell’Adige nei giorni Schiavi le àn con gioconda Speme trapunte in emula congiura, Mentre udiano di fuori per l’oscura Aria i villani passi De la tedesca ronda. Ora a le logge, a le finestre, ai merli Ondeggian de le torri in faccia al sole. Ma le campane ormai suonano a festa; Le trombe squillan: entra Ne la cittade il Re. Passa la porta, Sorriso d’arte: e il suo corsier la testa Gemina e gli altri avanzi Dell’aquila pur dianzi smantellata Carolando calpesta. Col figlio a fianco, e i suoi gagliardi intorno Raggianti il volto di gentil baldanza Sotto un nembo di fiori, Fra una pioggia d’allori Il magnanimo avanza. Un plauso immenso Da la folla prorompe, e via si estolle Al Dio che vede e volle. Ei con la muta Eloquenza del capo Nobilmente saluta. — Emanüele, Re d’Italia, anch’io, Non ultimo poeta, Un saluto t’invio. Certo mia madre, Santa com’era, divinando il figlio, Me al nascere di panni Tricolori fasciò. Sin da fanciullo Arsi d’Italia, e ne la diva morta Presentii la risorta Del Campidoglio. Nè sotto l’infame Staffil stranier, nè ai giorni Esuli, o su lo strame De le prigion col trave Del patibolo in faccia, oh no, giammai Non disperai. Tal che di fede ardenti Sempre uscirono i carmi, e non discari A le mie genti. Impavido cantore Pria di civil dolore, L’onesta arpa riprendo: Del mio nativo ostello Dico le glorie, e scendo Contento nell’avello. — Ma al suon di una guerresca melodia Già varca il Re la via Fatta dal nuovo suo battesmo altera; Già varca i viscontei Archi adorni di pensili trofei, E sosta in mezzo a la superba piazza. Chi è? che vuol? che cerca Là, quella afflitta e pallida figura? Chi la sospmge a fendere la calca? Fate largo, o giocondi, a la sventura. È una povera pazza Son quattro dì che a un ciglio Rimoto de le mura Una banda di teutoni soldati Le strascinâro il figlio, Perchè l’Italia amò. Là ginocchioni, Bendato gli occhi, egli invocò sua madre, Misero! e non volea morir. Ma a un cenno Sei palle di moschetto A lui spezzâro il petto, Spensero il lume a lei dell’intelletto. Riman sull’erba dell’iniquo campo Ancor de la sua mano Sanguinosa lo stampo. Or ch’ella udì gridar“: «Viva Vittorio Novello redentore!” Vola supplice a Lui, perchè sul ciglio Rimoto de le mura Salga ed appelli il suo defunto amore A sorger fuore da la sepoltura. Cela commosso una pietosa stilla, E dell’Arena Ei sale Per le romane scale, ove l’attende Come un cratere mobile di genti. – Martiri santi che entro là cadeste Non renitenti ai morsi De le tigri e de gli orsi, O voi rapiti a la feconda e nova Sublimità de la cristiana idea, Se Dio nell’agonie, la visïone Del velato avvenir vi concedea, Certo esultaste nel mirar quest’ora Trionfale dell’italo riscatto Che fatalmente maturar dovea A’ rai de la divina Crocefissa virtù di Palestina. E in vero, quella folta Di popolo redento Nell’àmbito raccolta D’insigne monumento, Quegl’infiniti cor che batton tutti Come un sol core, è uno spettacol degno Dell’occhio del Signore. – Ma chi son quegli arditi Mezzo vestiti di color di fiamma Che sbucan fuor da le marmoree valve, Qual da battuto ferro arroventato Schizzano le scintille? La gente ondeggia per mirarli. Salve, O Leon di Caprera: ei son lo illustri Reliquie de’ tuoi Mille. Vostra mercè, l’oppressa Nobile plebe, al par del re, possiede, La sua porpora anch’essa. Forse è un presagio. Forse Il cielo la destina A diventar regina. Or se un uccello valicasse il sommo De la mole superba, Tanto è gremita, non potria vedervi Un picciolo fil d’erba Da farsi il nido. E pur sotto le tende De la loggia regale Veggo uno scanno, ove nessun s’asside. Chi l’oserebbe? Gl’Itali fèr voto Solenne ne le loro Libere feste di lasciarlo vuoto: Però che quello è il loco ove dovrebbe Sedere il Conte, l’immortale assente, Che nell’urna di Sàntena riposa La testa glorïosa. E da quel loco che ti par deserto Forse non vista or gode L’anima del veggente Creata angiol custode De la novella gente. — Silenzio! Sorge da le quattro bande Modulata da innumeri strumenti La melodia del patrio inno, e pei cieli, E pei secreti portici si spande. Sorge il popolo anch’esso e in riverente Atto scoperto il capo, Qual per istinto con le mille voci Intuona una severa Canzon che par preghiera. E in un sublime istante L’anfitëatro in tempio si tramuta. Ma perchè mai sta muta In questo giorno la propizia voce Del sacerdote? ed anzi per la chiesa Farnetica l’offesa? Perchè mai la celeste Religïon de gli avi miei che nacque Consolando lo schiavo, ora ai redenti Nipoti maledice E ne abborre le feste?
XII.
Ma tu dal mondo col pensier fuggita, Sazia di vita, con le mani in croce, Tu non m’odi, Maria: Forse ti chiama di là su una voce Più forte de la mia. Tutto spira abbandono a te d’intorno. Su gli avori del cembalo si posa La polve neghittosa: I fior che fûro tua delizia un giorno, Or che non v’è chi provvido li bagni, Chinano le corolle illanguidite: Il capinero, che a le tue romite Ore compagno, teco Rivaleggiò nell’arte de le note, Oblïato finì. Due giorni attese Ne la sua conca cristallina l’onda; Con voce moribonda Chiamò, chiamò, ma niun l’intese: ed ora Come in aereo avello Giace ne la sua pensile dimora. Ma poi che te non giunse A trattener l’aspetto ed il singulto Dei figli a piè del letto Con. disperato culto inginocchiati, O risoluta, addio. Sali all’Immensa Regïon di chi fu. Là troverai Qualche anima dal mondo dipartita Che mi fu dolce in vita: Parla ad esse di me. Di’ lor, che mai Non le obliai: che nel mio cor v’è un loco Dato a le tombe: e sul mio labbro, al mesto Imbrunir d’ogni sera, V’è un sospiro per esse e una preghiera. Là troverai fra solitarie stelle La madre mia. Sollecita a lo incontro Ti si farà chiedendoti novelle De le viscere sue. Dille: « L’àn fatto Molto patir; l’àn tratto Dall’una all’altra carcere, fra i ceppi, Come un ribaldo. In pianto Soletto errò mordendo l’inferigno Pan dell’esiglio. Saldo Pur lo tenne il benigno Amor, la netta coscienza, e il canto. » Ma quando assunta al glorïoso bacio Sarai del Cristo, anima di Maria, Ricòrdati d’Italia, E abbracciata la croce, Esci con questa voce: « O Redentore, io vengo Da la nobile e forte itala terra: La terra tua, però che là su un sacro Colle di voti e di laureti adorno La verginella Ebrea Che ti fu madre, un giorno La povera casetta deponea. Però che là tra i fasti Del lido tiberino Del sangue de’ tuoi martiri fecondo Così sublime il tuo vessil levasti, Che fu segnal divino All’anime vaganti per il mondo. Ma ohimè! una serva avara e frodolente Schiatta di gente che non ha famiglia, Là nel tuo santo nome Intenebra de’ popoli la mente, Turba le fedi e i cuori, Il delitto consiglia Complice grida il verecondo cielo De le sue vane e ruggini saette, Vuol leggere vendette Fra le linee d’amor del tuo vangelo: E la città dei sette colli è fatta La cittade dei sette Dolor. D’un vecchio infermo Gravita in testa il pallido triregno, Al par di tre diademi Di terror, di vergogna e d’anatèmi. Il successor di quello Che presse il piè sul collo umilïato Del più superbo dei superbi Svevi; Il successore del levita audace Che tentò dominar popoli e regi Dal suo seggio di pace; Che fra le zone de le triple mura D’un feodal castello Tenne tre notti eterne di rancore, Ignudo i piedi, al gelo de le stelle, Supplice un alemanno imperadore Pria d’assentirgli un tiepido perdono Che gli ridesse il trono; Il successor di tanti Inflessibili Santi Piange e si curva con ginocchia umíli Davanti a le più vili Maestà della terra. Re mendicante cerca L’obolo da lo illuso o dal tapino, Onde di poi si merca Il cavallo e lo stil dell’assassino; Tal che di Pier la rete Vôlta è nel limo a pesca di monete. L’immacolato, il mansueto, il pio Stringe alleanza con l’iniquo e il forte, Deliba il vin del vïolento, e segna Fra le sacre cortine, Al divoto chiaror del Santuario I decreti di morte, Le stragi perugine. Il Vicario di Dio fatto è vicario De lo stranier. L’altero Roman patrizio sogna Una Roma tedesca; L’italïano maledice al dolce Nome d’Italia. Il Sire Dell’anime divenne Servo a la gleba, e per due tristi palmi Di terra isterilita, Dei fratelli, dei figli e dei nipoti L’anima giuoca e la seconda vita; Anzi che far lo splendido rifiuto Che gli aprirebbe le dorate porte D’un avvenir d’amore. Imbelle pescatore, La navicella che gli desti in sorte, Fra i turbini del secolo avventura Per femminil paura De la sua ciurma cupida e feroce. Ahimè! Signore, ei diventò l’amara Croce de la tua croce. » — E tal parlò di fronte al Nazzareno La bëata sdegnosa; Poi rivolgendo un pio Malinconico addio Per gli abissi dell’etere sereno Al suo mondo natìo, vide là dove Il Tevere si move Tra le ruine come un serpe verde, L’insidïoso Satana con l’ale, Largamente rotar sul tenebroso Tetto del Quirinale: Poi lo rivide in un balen, mentito Sotto le spoglie di stranier romeo Perdersi cauto, come chi congiura, Fra i cupi archi e le mura Frante del Coliseo.
XIII.
Vecchio infelice da la bella aurora, Dall’avvilita sera, O Pio, tu désti una pietà profonda. Quanto mutato! — Oh, ti sovvien quell’ora Che in faccia a una commossa infinita onda Di popolo esultante che piangea Ài benedetto l’itala bandiera? Quello fu un giorno! fu la più sublime Festa dell’alme. Ogni privato ostello Diveniva una chiesa. Ogni vascello Recava dall’esiglio Dei perdonati. Il pastoral valea Tutti gli scettri de la terra. Italia Era un inno: era tua. Chiamata da la lieta Voce del suo profeta, Ella balzò dal secolare avello Fanciulla audace, credula, dicendo: “Son qui, Signor, mi guida Ove ti piace.” Oh, niuno Nato di donna fu vicino a Dio Come tu fosti allora, o Pio! — Gaeta Spense il profeta. — O misero, che fésti Di quell’ora potente Da crëator? Perdesti Una mortal battaglia Nel campo de gli spirti e de la Fede, E i vincitor ti fêro Espïar con afflitti anni d’offese Lente e di vitupero Lo splendido peccato D’avere amato il tuo gentil paese. Impäurito all’opra tua, credevi Ai flutti comandar de la fatale Umanità che sale: “Non andrete più in là.” Ma il flutto disse: “Dio mi prescrisse d’avanzar.” — Con l’acqua Lustral del tempio, e con la folgor sacra Tentasti indarno l’albero novello Di Libertade inaridire. Il Cristo Pianse sul monte lacrime divine Antiveggendo il fine Tetro e la fame e l’agonia selvaggia De la sua terra. Invece Tu dall’infame scoglio Di Gaeta ridesti, Quando vedesti ripiombar un nembo D’armi su la tua patria e di catene. E al tuo riedevi insanguinato soglio Schiavo tu pur, ma allegro Di rivederla schiava. Da quel giorno un’amara Discordia è sorta in ogni onesto core Fra i sentimenti e l’ara. Iddio non vive ove non vive amore. Egli dal pervertito Aere del tempio e da le poltre celle Dei monasteri è uscito. Santificando l’oro e la sudata Dignità del lavoro, Ei venne ad abitar tra le sonanti Officine, e l’arata Terra, e le navi, e le accampate tende Di chi col sangue la natal contrada All’oppressor contende Col moschetto pregando e con la spada. – O sacerdote, i nostri Santi non son più i tuoi: le tue battaglie Non son le nostre. Appesa a le muraglie Dei domestici lari Noi veneriam, raccolta Nell’itala coccarda La Croce Savoiarda, Come civil sorella Di quella de gli altari. E tu l’abborri! — Le recenti nostre Catacombe divine, Ove cotanta carità fu spenta, Stan su le meste chine Di San Martin, nei fossi di Magenta: E tu le abborri! — Ascolta. Ancor sei forte Perchè ti vanti, artefice di calma, Di serenar la morte, Di volgere la chiave De le immortali porte, Perchè con la soave Vïolenza dei preghi, Tu di’, che sleghi l’anime dei padri Oltre la tomba e de le dolci madri. Noi pur vogliam nei santuari stessi De’ nostri avi pregar: noi pur vogliamo Benedetti dormir come in famiglia, Sotto i loro cipressi: Ma ancor vogliam la intera Patria che è nostra. Pèra Chi lo contende. È ancor inulto e caldo Il cenere d’Arnaldo. Oh pria sepolta Nel buio fondo de le sue marine, Prima coperta da le lave ardenti De’ suoi vulcan la cara Penisola rimanga, Prima che un’altra volta De le sue genti l’unità si franga! O Pio, tu désti una pietà profonda! Come un nocchiero che domanda aita Sopra l’antenna d’un navil che affonda, Da la sublime cupola del suo Tempio con voce fioca, Straniero eterno, Ei gli stranieri invoca. Vede apparir sull’orizzonte i segni Profetici del tempo Che ai tre dannati regni Del Tevere, del Bosforo, dell’Istro Vanno annunziando l’ultima sventura: Sente salir dal Vaticano un tristo Vapor di sepoltura, E repugnante invano In cor si vaticina L’ora e l’angoscie de la sua rovina. Così non lo mertasse! — Vecchio infelice, abbassa gli occhi, e mira Roma là giù. Fra i rnderi s’aggira Un popolo che freme Di vegetar sotto il tenace sguardo Del delator codardo, e non di meno Fabbrica stili de le sue catene; Irride a la commedia de le oscene Tresche sacerdotali, E te saetta con la sua festiva Mordacità d’irriverenti sali. Mira laggiuso. Innumeri leviti Color di notte, principi vestiti Color di sangue, urtan con piè superbo Una plebe che à fame Di libertà. e di pane, Da lor cresciuta inoperosa e immonda Accanto all’onda de le sue fontane. Di su, di giù pel tuo tarlato trono Inaccesso al perdono Uno sciame d’impure Cupidità s’arrampica, s’intreccia Fra le tenebre, come Usano i vermi ne le fosse scure. Il nido abbandonato Dall’aquile romane Un covo è diventato Di serpi oltramontane. — Vecchio infelice, or guarda a la campagna. Ella ti gira intorno Calva, deserta, come una maligna Fascia di solitudine e di febbri. Un ciel di foco, un suolo di gramigna, Un fiato d’aura immonda Di quando in quando alcuni archi travolti D’acquidotti senza onda: Qualche logora tomba Senza sepolti, uniche ombríe su prati Infecondi, pelati; Un filo di torrente Che striscia fra i giuncheti, e non si sente, Ove attorta, sui ponti, la ribalda Vipera al sol si scalda. Qualche buffala immota Lorda di mota con la testa bassa Musando guarda il vïator che passa. Un branco di selvatici cavalli Galoppando pei calli Arsi, solleva a nuvole la sacra Polve di venti popoli; la polve Più illustre de la terra. Ecco i pascoli pingui e le fiorite Aiuole di Virgilio! ecco i giardini Dei superbi Latini! Vedi là quel drappel di vïandanti Sollecito con l’arme in su le spalle, Col zaino ai lombi, grave Di mortiferi piombi, Fendere al metro di scurrili canti La solitaria valle? Quegli son gli assassini Che tu, sull’alba, ài benedetto, o Pio. Non dubitar, dimani Varcheranno i confini. Ahi! sventura! sventura! Odo voce ridir, misterïosa, “Gli Iddii Ben vanno.” Qualche grande cosa Certo qua giù si muore. Ritirati, Levita, Perchè con la tua livida figura Mi nascondi il Signore!
Brescia, 15 giugno 1862
NOTA
Dimando scusa di questa nota che riguarda me solo solissimo. Pure la metto, perchè ognuno à i suoi orgogli, e anch’io ò il mio; quello, vo’ dire, di non essere mai stato in vita mia nè Ghibellino nè Gllelfo, ma italianissimo sempre. E però non vorrei si credesse, che questo mio sdegno severo contro il poter temporale, e questa lancia che m’industrio di rompergli addosso, fosser cose nate da ieri; fossero germogliate in causa delle recenti ribalderie del governo pontificio, o dello stomachevole baccanale, che cardinalume, vescovume e forestierume festeggiarono, per l’ultima volta, a Roma, di fresco. No. Per me queste le sono idee vecchie, che ò cominciato ad avere quando ò cominciato a pensare, e non mi sono lasciato cambiare nè anche da quello stupendo sofisma del Primato. Anzi, un presentimento sempre mi disse di dentro, che prima di andarmene dal mondo avrei veduto andarsene, in compagnia dell’Austria, anche il regno dei preti. E così sia, chè n’è ora. A prova di ciò mi è caro poter citare dei brutti versi scritti nei bei tempi della mia prima gioventù, quando ero in mezzo, per dirla col mio povero Beppe, alla baraonda tanto gioconda della mia buona Padova. Essi facean parte di un mostro che i miei amici ed io avevamo il coraggio di chiamar Ode. Ora codesto mostro, parlando, al suo modo, di patria, di religione e di amore, ch’egli chiamava l’Immenso tripode, su cui La Poesia brillò, fra le altre perle conteneva queste due strofe: «Cantiam la Patria. È un gelido Silente cimitero; Ondeggia innanzi al portico Un drappo giallo e nero Lo affolla una miriade D’ombre di schiavi e re. Un uom dal seggio logoro Veglia le tombe ree, Sir di coscienze, pallido Imperador d’idee Tricoronato vantasi, Senza corona egli è.» Le son quel che sono; ma sarà anche la povertà di ventisei anni che sono scritte, e nondimeno sanno di oggi. La data precisa non la saprei dire, perchè di quelle tante poesie, dopo fatte, non ne ò saputo più nuova. Ma i miei benedetti amici, che allora aveano quei benedetti vent’anni (dico dei vivi, perchè Dio me ne à tolti tanti!), ricordano e data e versi. I quali poi, chi li volesse vedere, ànno da essere di certo negli archivi della polizia austriaca, che tiene con materna inquieta sollecitudine conto esatto di tutto. La quale, mi ricordo, in quel tempo à avuto la bontà d’invitarmi da lei, per la sola onesta curiosità di sapere se ne fossi per caso l’autore. Anzi d’allora in poi, non so perchè, ci siamo un po’ rotti; e lo siam tuttavia.
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