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Aleardo Aleardi Canti IntraText CT - Lettura del testo |
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IN MORTE DI DONNA BIANCA REBIZZO
LETTERA A RAFFAELE RUBATTINO.
Prediletto agli Dei tenne il giocondo Greco chi giovin muore. A lui sdegnoso De la vecchiezza inelegante, parve Non amaro il calar sotto i cjpressi Nell’april de la vita, allor che varchi Quasi danzando il limitar del mondo Fiorito a festa e de la tua venuta Si allegra ogni sembiante, e ad ogni giorno Mette le piume una speranza e vola Pe ’l novo aere cantando, poi che il Vero Freddo saettator nissuna ancora Ne uccise. E pure, Raffaele, io penso Ch’anco a que’ giorni una beltà d’Atene Che con man sedicenne isse cogliendo Sotto lo sguardo cupido e gli ardenti Inviti degli Efebi, i fior pei campi De la sua primavera, se vedea Allo improvviso ruinar il suolo Sotto i suoi piedi ed apparir la riva Squallida d’Acheronte, inorridita Si ritraea. Ma le venia davanti L’inesorato messaggier dell’Ade E le dicea“: «T’aspetto. Impazïente Già scalpita il cavallo della Morte; Va’, saluta la vita; un’ora sola Agli ultimi congedi io ti consento.” Oh! certo allor la renitente, io credo In pianto si sciogliea. Poi ch’era tanta La repugnanza per le elisie lande, Ancora che d’olibano fiorenti E d’asfodelo, che lo stesso Achille Deiforme avría tolto essere in terra Schiavo affamato di signore avaro, Anzi che dominar scettrata larva Su l’ombre vane de la morta gente.
Poi quando avvenne, che un Divin confitto Sopra una croce dall’ebrea vendetta Con parola d’amore indusse il mondo, Dall’egra signoria della materia Affaticato, a sconfessar la bella Religïon dei grandi avi, e l’Olimpo Rimase un vuoto, e per le sacre selve I fauni agonizzâro alle scontrose Drïadi moribonde avviticchiati, E galleggiâr sopra i flutti marini Dell’estinte Nereidi le salme: Quando persin le insuperate forme Àttiche degli Iddii detronizzati Caddero infrante dal martel geloso Dei novelli credenti: e una gran voce Misterïosa, che sapea di pianto Per le mediterranee acque diffusa Si udì gridar al colmo de le notti: “Il gran Pane morì:” quando la morte Fu il pensier de la vita unico, e il mondo Nelle vacue città, nei popolati Deserti altro non parve che un’immensa Paurosa preghiera, ed un’immensa Espïazion di non so qual peccato; E ai lieti inni del Maggio, a le canore Di Venere vigilie, ai ditirambi Esultanti successero i dolenti Salmi e le tetre fantasie delire Del romito di Patmo, allor felice Si disse l’uom, che giovinetto o annoso Iva l’ossa a posar nel cimitero Pentito e liberal verso il volpino Sacerdote e di buone opere carco.
E dentro all’urna, o Raffael, scendea Ricca di generose opere Bianca, Dal profondo tuo duol, dallo infinito Pianto de’ poverelli accompagnata; Nè a lei le Grazie facili, e l’arguto Sentimento del Bello, e dell’ingegno La vena di virile oro temprata Valsero a ritardar la dipartita. Ma forse che felice ella ne’ bui Regni scendeva? — Un pauroso varco Sempre è la morte. Era in sul verde ottobre Degli anni, allor che un Sol tepido ancora Qualche soave fior t’educa, tanto Più profumato quanto più tardivo; E i bollori languîr dell’agitato Sangue e gli urti, però che la sudata Esperïenza ti fruttò la calma. Gli odii e gli amori, torbidi torrenti Di gioventù, si quïetâro in lago Placido, che riflette tremolando Alberi e case delle tue memorie Impallidite, e i cari luoghi, e il raggio Gelido e casto de la luna. In mezzo Ad un giardino, sol per lei d’Albâro Sulle alture crescente, ella vivea Festeggiata regina, avventurosa Di quel fidato amor, che non avverte Se in argenteo si muti il biondo crine. Da l’alto ella vedea splendere il glauco Mar nello amplesso delle due riviere, E sovra i flutti carolar le navi Peregrinanti: ella sentiva il metro Dei marini uniforme e i lunghi cori De le operaie e il mormorio confuso Salir delle fabbrili opre. Vedea La notte incerte torreggiar le forme Del Faro pio, che saettava il fascio Degli invocati rai lontanamente, Quasi che fosse la fiammante spada Di san Giorgio, che vigila sui sonni Dell’amata cittade; e l’ampio aspetto Della eterna Natura e l’universa Vita, una vita le infondean novella.
Volgeva il dì della sua festa. Il bianco Sentiero che s’inerpica vèr l’erta Villa era bruno d’amici accorrenti. Ella spirava a larghi sorsi l’aure Della esultanza in mezzo ai fiori, ai noti Volti, ai giulivi carmi. Da le gronde A la porta ospital tutta un sorriso Era la casa. Quando a un tratto apparve Un angiolo da lei sola distinto: Avea nere le chiome e l’ali nere Punteggiate di stelle, e nelle nere Pupille ardeagli un lume agonizzante, Che parea tremolar nello infinito. “Angiol, Ella gli disse, angiolo bello, Forse e tu pure a festeggiar venisti La mia giornata?” — “A compierla” rispose E in fronte la baciò. Sonava intanto Degli auguranti calici il tintinno Misto al volar degli epigrammi alati Pel giardino. A quel bacio ella un funèbre Senti brivido al cor; livida cadde E giacque; e a te che genuflesso insieme All’atterrito sposo, il morïente Capo le sorreggevi, o Raffaele, Dal fondo occhio mandò lungo uno sguardo Santo compendio d’una vita intera, E con tremula man cennò l’estremo Addio, che il labro più dir non valea.
Ella morì. — Di lei che resta? — Ascolto Da le operose uscir dotte officine D’una scienza prometèa, che indarno Suda ostinata ad involar l’arcana Scintilla de la vita, una insistente Voce che grida“: «Nulla.” — E quella tetra Voce mi fere qual gelata lama Ch’entri le carni. — Nulla! — E cosa è il Nulla?
O Raffaele, a te, cui le vigilie Sui calcoli sagaci, e il coronato De le imprese ardimento, a cui le navi Venturose, che rigano di fumo Italico le avite aure di Brama E ombreggiano le ripe di Canopo Seminate di tombe, anco non ànno Fugato l’ideal santo dal core, In verità ti dico: non è morta Bianca, ma vive: la più nobil parte Di lei volò dall’urna. Ove ella sia Non dimandar, nè come sia. Lo ignoro. Niuno lo seppe degli antichi, niuno Dei recenti profeti. È la dimanda, Che dai monti perpetua e da le valli, Dall’isole e dal mar, forse da cento Mill’anni innalza con protese braccia Il mortal supplicando ai cieli, e i cieli Muti restâr. Tra l’avvenire e il guardo Del moribondo l’irrisor fantasma Sempre del dubbio sta. Se un dì, benigno Scese sul fango della terra un Dio, Oh! perchè mai non à per la pietade Di tante strazïate anime tolto Il vel crudele del mistero; e questa Assidüa strappato intima spina, Che fitta in cor, pei tempi e per lo spazio Porta ululando la progenie umana, Quasi cerva che insanguini la selva Col dardo ai lombi? Qua dentro immortale Ti sento, anima, sì; ma veramente Altro di te non so: so che a me stesso Sono un mistero: — O da la culla, ignota E cara ospite mia, d’onde venisti? – Qual delitto fu il tuo perchè tu fossi Umilïata a vegetar in quattro Fragili palmi di morente creta? — Che sei tu? — Dove vai? — Sciolta dai sensi Messagger’ delle idee, quali saranno Dopo il sepolcro i tuoi pensier? Che forme Fieno le tue ne le dimore eterne? – T’affogherai nella infinita luce Di Dio, oppure fiaccola distinta Vagherai per lo immenso? — Ad altre vite Predestinata forse in altri mondi: Rinascerai sotto il flagel di prove Novelle per uscir purificata De le commesse colpe? — Oltre la tomba Berrai l’onda letèa? — De la tua prima Patria oblïosa, oblïerai pur questa, Ove ài pianto ed amato, e indifferente A le gioie e ai dolor di quei che tanto Ti fur diletti guarderai quaggiuso Qual chi vïaggia per città d’ignoti? Oppur, larva amorosa, intorno ai cari Rimasti aleggerai segretamente A deprecare il turbine dal campo Paterno, e il lutto da le dolci case? E de la vita ne’ dubbiosi passi Forse su loro scenderai nascosta Consigliatrice sotto a vaporose Forme di sogno o di presentimento? Quali saranno, povera smarrita, Nello infinito e nello eterno, i tuoi Desii, gli amor’, i gaudi tuoi? — Ti fia Giammai concesso penetrar le leggi Dell’universo in numeri di luce Scritte sul fondo dei supremi azzurri; E a le fontane spumeggianti d’onde Sgorga perenne il flutto de la vita Abbeverarti; e nel tuo vol salire Temeraria salir fin che tu vegga Da lunge scintillar l’arcano abisso Radïante, ove è Dio? — Tutto è mistero. Nè per lacrime mai, nè per scïenza Quaggiù al mortale indovinar fia dato Il destin de le cose. O Raffaele, A che quest’orbe e le sue verdi terre Ricche al di sopra d’alberi, di fiori E d’animali d’ogni foggia, e sotto Antichi cimiteri accumulati A cimiteri d’esseri scomparsi? – A che la nuda vastità dei mari, E sotto i mar’ le maestose selve Visitate dai mostri? — A che la schiatta Dell’uom caduca? — A che il dolore? — E tanta Di vite esuberanza a le crudeli Fantasie de la morte abbandonata? E ad ogni istante, qual neve di notte, Questo fioccar dell’anime nell’ombra Eterna? — A che lo sterminato spazio E per la muta vanità dell’etra Quelle infinite legïon’ di soli Che dietro lor si tirano fuggendo Altre terre, altre lune, e l’universo, Che infaticabil gira, come sasso Di fionda intorno a la tranquilla mano Di Dio? — Tutto è mistero! — E pure è tale Questo che mi governa intimo istinto Di fè profonda, che se un dì vedessi Ribelli a le prescritte orbite gli astri Devïare selvaggi, altri sparire Per gli azzurri deserti, altri vêr noi Saettando calar e di lor spera Con la crescente enormità la faccia Abbacinar de la sgomenta terra; E azzuffarsi tra lor schiantando gli assi Come bighe precipiti nel circo; E coi frantumi le tenèbre a lunghi Solchi rigar di foco, e per la eterea Volta un orrendo grandinar di stelle Se qua vedessi dileguare il dolce Raggio del sol per sempre, e all’improvviso Romper vulcani furïosi, e sopra. Le cupe dell’oceano acque e dei laghi Riverberarsi con guizzi sanguigni De le città gl’incendi e de le selve; E a me d’intorno ogni animata cosa Perir; ed io vivendo ultimo in vetta D’una rupe restassi esterrefatto Testimone dell’ultima ruina, Oh! non ancor dimetterei la salda Fede nella immortale anima e in Dio.
Verona, 7 settembre 1871.
NOTA
Chi scrisse questi poveri versi, amerebbe che tutti gli uomini, i quali hanno seriamente meditato sulle cose di Religione e su quello che sarà per essere di noi al di là della tomba, prima di lasciar la vita, facessero il loro atto di fede, e lo manifestassero alla gente. Egli penserebbe, che in tanta confusione di concetti e di credenze nella quale ogni dì più si versa e miseramente si ondeggia, questa lunga serie di onesti documenti frutterebbe un gran bene all’umanità.
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