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Aleardo Aleardi Canti IntraText CT - Lettura del testo |
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ARNALDA DI ROCA
POEMETTO GIOVANILE.
ARNALDA DI ROCA
POEMETTO GIOVANILE.
A LUIGI CARLI MEDICO CHE MI AMÒ COME PADRE QUESTO CANTO GIOVANILE VENT’ ANNI SONO DEDICAI. DOPO TRE LUSTRI CHE È MORTO SCRIVENDO DI NUOVO IL SUO NOME SENTO COSÌ PROFONDI L’ANTICO AFFETTO E IL DOLORE COME SE L’AVESSI PERDUTO IERI.
CANTO I.
O nepote dei dogi, allor che a tarda Notte ritorni da le allegre sale, E nell’affaticata alma rïandi De le cene il tumulto, e i Buoni e i canti, Ricomponendo nel pensier le molli Forme, e la stretta de la mano, e il bacio, Onde furtivo in danza vorticosa Lambivi il crine de la tua fanciulla: Mentre dei remi all’uniforme tuffo Che a la storica tua casa ti mena La stanchezza ti vince; in quel sopore Che non è veglia e ancora non è sonno, O nepote dei dogi, ài tu sentito Romper la calma de le tue lagune Triste un gemito e lungo? ài tu veduta Vagolare una nebbia, e il negro panno Radere de la gondola e vanire? —
Quando la squilla de le torri annunzia L’alba di un dì che una passata gloria Di Venezia rammenti, o una sventura, Da le tombe oblïate inclita sorge Una folla di padri, i mari, e i campi Rivisitando de le antiche pugne Dolorosi o festivi.
E questo è il giorno, Che Cipro fu perduta, e una lucente Perla divelta dal ducal diadema Ingemmò la cruenta elsa al feroce Sir di Bisanzio.
E, ier quando il silenzio Più solenne regnava ne la notte, E posavan le gondole fidate A le catene del deserto lido, Nè s’udiva echeggiar pur d’una pesta Il pavimento de le mute calli, Fu vista navigar per la profonda Oscurità de’ tuoi canali un’aurea Larva di Bucintoro. Eran sue vele Lacerate bandiere. Eran suoi remi Labarde irrugginite. Su la curva Prora, un fantasma di lïon morente Governava il fatal corso, con l’ala Rotta vogando per l’immobil onda, Su le scalee dei templi, e innanzi a gli atrii De le reggie patrizie erravan forme Vaporose in ducal manto vestite, Che, al venir de la nave, il piè strisciando Senza passo sull’acqua taciturne, Vi salían dentro dolorosamente Festeggiate dai funebri consorti.
Quando fûr dove frange a gli immortali Murazzi il mar, misterïoso un vento, Onde venuto non si sa, li spinse, E via, siccome fulmine, per l’orba Solitudine. Al par d’impäuriti Corridori, fuggivano le sponde Istrïane, e il deserto anfiteatro Fuggía di Pola; dileguavan l’irte Dai flutti tormentate assiduamente Dalmatiche scogliere, e il profumato Da le olezzanti sue vallee d’aranci Äere di Corcira. E via pur sempre Di quel navil l’irrefrenabil volo. Allor quando scorrea per qualche golfo Memore ancor di veneziane mischie, Ratto salían da le profonde sabbie Tavole sciolte o scavezzate antenne Che ne seguivan, dietro galleggiando, Il fantastico volo e la mestizia. Ma come giunse procedendo in faccia Di Lepanto a le torri e a la marina, Tacque il vento, e fûr viste al manco lato Tutte quante l’egregie ombre addensarsi; E un protender di braccia, e un minaccioso Guizzar di lampi da sinistre daghe; E d’Epíro pei seni, e di Morea, Qual di chi impreca, si diffuse un grido Lungo. Ma il vento itera i soffi, e torna La nave arcana a divorar gli spazi. Sparve Citera, e le selvette, e i clivi, Ove tuban le tortori fra i mirti; Creta sparì con gl’insepolti avanzi De le cento città; sparve il distrutto, Sui baluardi fulminanti e negri, Nido di cristïane aquile, Rodi. E se un vascello in quell’ora passava La pianura del mar licio solcando, Vide sul bianco de le vele un lungo Ordine d’ombre disegnarsi, e certo Un senso di sventura attristò l’alme A’ naviganti. Tra i cornuti scogli De la cercata Cipro alfin posava L’impeto e i remi la feral congrega, E gemendo per l’isola si sparse. O nepote dei dogi, ove l’arguta Parola t’abbia di stranier facondo Le maraviglie de’ tuoi fasti apprese,
Usciva un’alba Dal limpido Orïente; una di quelle Liete di luce e di vittoria, ond’era Giocondata Venezia a' dì beati. La reina del golfo assunse i veli Di corallo trapunti, e la ghirlanda Contesta di marine alghe ricinse, E, su conca di perle, in mezzo all’onde Trasse superba fidanzata: al fido Sposo, che ai piedi le fremea, donava Il simbolico anello, e l’Oceano L’isola d’Amatunta a la diletta, Siccome dono nuzïal, porgea.
Ch’io ti saluti, avventurosa amante Dei Lusignani! Oh ti piacesse un tempo A le tue sponde folleggiar, lasciva Sacerdotessa di piacer, coi veli Disordinati e balsamo stillanti; O, di maglie crociate il sen difesa, L’insania pia de le divote genti Caro ti fésse dei corsieri il dorso, Caro il fiutar la polvere de’ campi Trïonfati, e il salir per le squarciate Bastite, eri pur bella, o Citereia. Limpidi sempre i ceruli tuoi mari, Azzurri sempre i tuoi fulgidi cieli. Tu in questo cerchio di zaffiro il molle Capo difendi dall’ardente raggio Del Sol che t’ama sotto l’odorose Tue selvette di palme; e al mormorío De le fresche fontane, e sotto i verdi Pergolati dei celebri vigneti Stai meditando, come donna afflitta Ne la magione de’ suoi padri, ov’era Signora un tempo, ed ora serve ancella. La Luna, le Piramidi, la Croce Si levano sublimi in sull’immenso Teatro di riviere, onde sei cinta, E tu vedesti, su le brune rupi Assisa, fluttuar entro i vïali Di profumati sicomori il Nilo Sacerdotale; e un incessante muto Incombere di sabbie e di sventura Su le cittadi da le cento porte, Su le reggie, sui templi, e su le sfingi Divine.
E tu dell’orïente all’onda Affacciata, mirasti, in una cupa Notte, la croce radïar da un colle; E l’intera d’un popolo progenie Maledetta, lasciar le dolci case Native, e del Giordano ai saliceti L’arpe, non più profetiche, pendenti; Disseminando su la terra i tristi Passi rivolti ad un esilio ignoto, Sola in mezzo a le genti, vagabonda Assiduamente. E allor che prodi turbe Tentar l’acquisto del divino avello, Lungo il sorriso de le tue marine Un bosco t’apparia d’itale antenne Carche d’illustri perituri. Ed ora, Se lo sguardo protendi oltre i cipressi D’ombre pietosi ai ruderi di Tarso, Vedi la luna d’Ottoman sui flutti Di giannizzero sangue imporporati, Da le punte dei cento minareti Splendere mesta e volgere al tramonto.
Tu cinta di ruine ampie, ruina Ampia tu pure, poi che invan di Pafo Sopra la sacra collinetta attendi Che ancor fumin le cento are a la dea; Poi che sotto gli acuti archi del tempio Di Nicósia, 2 una man misterïosa Sovra le pietre dell’altare infranse La corona di Cipro, e la fortuna. E su le aiuole dei giardin deserti Dei Lusignani inoperosa affila L’Arabo l’arme, e nel pensier lascivo Vagheggia ai vezzi de le tue fanciulle Bramate e il rapimento; in fin dal giorno, Che fu nel fango di tue piazze tratto, Il veneto stendardo, infin dal giorno, Triste e lontano che or m’invita al canto.
Era una notte di settembre. — Un grave Alito d’infocata aura pesava Su lo squallido pian di Mezzarea; Pure i diruti vertici dei monti Circostanti inalbava un vel di neve, Tracciandone le creste ardue del cielo ù Pallidamente su gli immensi azzurri. Per i colli regnava e per le valli Quella perfida calma, onde talora Il furïar dei turbini e lo scoppio Più cupo de le umane ire s’annunzia; Udito avresti il remigar dell’ali D’augel notturno, che tornando ai balzi Di Santa Croce, si recava al nido La preda semiviva. E degna invero Del feroce suo sguardo era la scena Sottoposta. La valle ampia, rotonda, Un’arena pareva a cui d’intorno, Quasi gradini d’un immenso circo, S’inalzassero e i colli e le montagne, Dove le nevicate ultime balze Sembianza offrian di candidi velari. Nel mezzo al piano ergea l’äeree croci, Le cupole eminenti, il vedovato Suo palagio di regi, e la scomposta Zona dei baluardi sanguinosi Nicósia estenuata, E d’ora in ora, Quando sui merli de le mura il lungo Grido iterava la mutata scólta, Echeggiavati in cor, come l’estrema Parola d’una gente moribonda, Intorno i valli e per le fosse un truce Spettacolo di laceri turbanti, D’armi confuse e di squarciate membra Di cavalieri e di cavalli estinti, D’onde talora ti feriva il roco Gemito d’un morente, e il desïoso Crocidar d’una nuvola di corvi, Accorsi in folla al funeral banchetto.
Ahi! perchè mentre il mio canto repugna, Ammalïata dal terror mi tenti, Dell’arpa mesta la più mesta corda O Musa luttuosa?
Un giovinetto, Cui lo smeraldo del pugnal svelava Cresciuto ai vezzi di dorata culla, Sopra le ghiaie d’un torrente ardea Strazïato da sete, e con l’intatto Braccio aiutando l’altre membra inferme Si traeva fin dove un mormorío Di ruscello si udía. Come fu presso, Alzò lo sguardo. Due raminghi cani Rodeano i fianchi d’un corsier caduto; Lo guardò, lo conobbe a le fastose Briglie, che un giorno l’amorosa mano, Gli ozi allegrando dell’areme, avea De la madre trapunte oh! non per questa Notte d’angoscia: lente per le guance Sceser due stille, e nel pensier deliro, Siccome in sogno, gli tornò quel tempo Che su i pascoli d’Angora volava, Invidïato vincitor del vento, Sovra l’arabo dorso; e fra i vïali Di gelsomin che il Bosforo riflette, Perigliando nel corso, a sè traea L’occulto sguardo de le turche spose. E gemette profondo, ed un intenso Disio l’assalse del materno volto; Ed abbracciato con amore il collo Al corsier de’ suoi dolci anni, moriva Chiamando il nome di sua madre; e i cani Frattanto ingordi proseguiano il pasto.
Ma chi ti spinse a navigar per queste Acque, infelice giovinetto, contro Un popolo innocente, a disertarne Le case e i cólti, a vïolar le figlie? Forse, notturno traditor, la spalla Col pugnal ti sfiorava un uom di Cipro Perfidamente? o una fidata sera Spingea la face a incenerirti i lari? No. — Dai guanciali del serraglio un giorno, Sotto le curve d’una sala, al mito Raggio di pinti vetri illuminata, Sonò una voce, che iraconda indisse Lo sterminio di Cipro. E tu repente, Come a tornèo, sovra il corsier balzavi; E ben ti colse la vibrata freccia Su quel funebre solco. E tal si giaccia Ogni stranier che l’altrui patria affligge.
Stendesi intorno a la città sfidata, Come bianco ricinto a cimitero, Una fascia di tende, a cui sinistre Corruscan sui pinacoli le lune; Nel mezzo volge il verdeggiante flutto, Siccome onda lustrale ai combattenti Il Predeo flessüoso.
E pei zaffiri Splende del ciel sui desolati campi Col fatidico lume una cometa; Come face, che un bieco angiolo rechi Per vagheggiar giù ne la valle oscura Le gesta ree de la ferocia umana.
Buia mole, superba, taciturna Son le case dei Roca. Una romita Lampada, solo occhio di luce, veglia Dentro una stanza, e tremolando sviene All’affacciarsi de la prima prima Alba che di Soría l’acque inargenta. Presso una coltre candida una conca Alabastrina d’oblïati e chini Fior, che pareva avessero morendo Lagrimato l’umor di quella conca. Accanto ai fiori una fulminea canna Damaschina e il fidato arco, e un lïuto Oblïato da gli estri e da la mano Animatrice. Su le mute corde Stava un volume istorïato, dove Posava un dardo a rammentar la smessa Pagina. Era il divin libro, che primo Scritto dall’uom, fia letto ultimo in terra: E fra i margini d’oro e di vïola, La meditata pagina dipinte Porgea le mura di città battuta; E un fluttüar di turbe entro una piazza Tumultüando accorse, ove da un cippo Bellissima e terribile una donna, Da mille faci rischiarata, un teschio Sanguinoso agitava: ed oltre i muri Per l’ampia valle una codarda rèssa D’anelosi fuggenti. E su la pinta Invidïata Ebrea brillar pareva D’una recente lagrima la perla.
Col sen posato ad un veron che odora Del soggetto giardin, una sembianza Di non mortale crëatura appare: Tacita, malinconica, distratta, Con la man che parea nata soltanto A le carezze, infrange le corolle Convulsamente d’una madreselva, Che olezzando si abbraccia a gli scolpiti Stemmi di conte. Forse, un dì que’ molti Serafini, che volano pei mondi Apportatori d’un’eterna idea, Qui riposando sul veron dell’orto L’iri stringea de le celesti piume! Ma quel mesto pallor, quel bruno lampo Appassionato de la sua pupilla, Quel tremito affannoso, onde agitarsi Vedi del crin la negra onda diffusa, Non mi rivelan la serena ebrezza Dei Serafini. E troppo è fiero e rotto, Il palpito di quel core; chè tale, Malinconica Arnalda, era il tuo core.
Le verginelle de la stessa etade Che ai vispi giuochi, ai canti dell’amore, A le preghiere le venían compagne, La diceano fantastica. E talvolta Mentre sul volto le splendeva il riso, In un baleno, a una cadente stella, Ai giri d’una rondine sul fiume, A lo squillar d’una campana, al lento Battere de la pioggia nel cortile, S’intorbidava di mestizia arcana; E solitaria si piacea per lunga Ora seguir ne’ rugiadosi solchi Del vespertino radïante insetto L’intermittente palpito di luce; E il vagar d’autunnal foglia sul terso Cristallo di correnti acque caduta; E il vagar de le nubi in tempestoso Cielo; e la barca che fendeva il mare. E meditava — e meditava, e spesso Il metro allegro d’una sua canzone Seguía ’l tramonto d’una mesta idea.
Ma in quella libertà de la natura, Ma in quella ingenua libertà del core, Ella apprese ad amar d’amor profondo Dio, la patria, i parenti, ed infiniti Eran de la soave alma i tesori.
Ora il pensier, ond’ella è tribolata, È l’imminente, irrevocabil, fiera Agonía de la patria. È l’improvvisa Morte, che fischia nell’ardente palla, E pende forse sul capo paterno, E sul capo di tal, ch’ella osa appena Nomare, e pur dall’äere, dall’onda, Dall’universo nominar l’ascolta. E per quanti pensier tumultüando Commovesser quell’anima, pur sempre Avea dinanzi questi due, feroci Indefessi. — E se mai qualche speranza Passava di conforto apportatrice Su quel core un istante, era l’augello Sovra il lago d’Asfalte; un volo, un lieve Volo e poi muor. Le ardea la fronte china Sotto la piena dell’affanno. Un’aura Non alitava. Impazïente ai caldi Vapori che salían da la pianura, Scese al giardino, già da lunghi giorni Non visitato. La gramigna edace Ingombrava i vïali. Un doloroso Presentimento l’assalì mirando La palma che sua madre, ahi! già sotterra, Augurando piantò quand’ella nacque; Chè rïarsa dal sole era la palma. Per una via di scompigliati fiori Giunse a un loco romito, ove un zampillo Gli orli imperlava d’una vasca, ed ivi Trasse più largo e men triste il respiro, E sui rigidi marmi inginocchiata L’infelice pregò.
V’à degl’istanti Allor che de la vita è la miseria Più disperata, che ti par vedere All’improvviso illuminarsi il buio Dell’avvenire. E sembra che una voce Intima, arcana, udita sol dal core, A te predíca, che le dolci cose Cotidïane, che ti son dinanzi Per lungo amore a te congiunte, è quella L’ultima volta che le vedi in terra: E le cerchi, e le noti ad una ad una, E gli aspetti ne stampi entro la mente, Quasi presago che verran tra poco Giorni più tristi, che, per te lontano, Fia ricordarle amaramente caro.
E sì profondo a quella voce arcana Era la bella tribolata intesa, Con tanta pena trattenea lo sguardo Sul vïal, su la vasca, e su la palma, Che il Buon dell’arme e il concitato passo D’un guerrier non udía, che, a lei venuto, Immobile, commosso a mani giunte La fissava adorando.
Ella pregava: «Signor, tu che ponesti in me sì grande Questo, che m’arde, amor de la mia terra, Perchè vestirla di cotanto riso, E poi farla si misera e scaduta, E fieramente serva? Oh! sull’istesso Monte de gli uliveti, e su le zolle Dove pregasti la suprema notte, Io supplicando ti richiesi un giorno: Dammi che vegga almen splendere un sole Dei suoi liberi giorni; e se delizia Non m’assenti cotanta, oh! dammi almeno Per questa cara che pugnando io spiri! E venne il dì de le battaglie; e a un punto Stretti ad un patto, proferito un giuro, Folti concordi si levâro i forti…. E tu li percotesti! Oh! se nel cielo La rüina n’è scritta, e pur di questa Dolce mia casa un martire è voluto, Salva, o Signore, la paterna salva Veneranda canizie, e l’adorato Petto di Nello mio salvami…. e sola Sia la martire, io sola….»
E quel vicino Guerrier non visto, più e più commosso, Udendo in quella nobile preghiera Così sonar il nome suo, chinossi, E intenerito la baciava in fronte. La vereconda si rivolge; il noto Sembiante scorge, e disperatamente Gli si abbandona ne le braccia:
“O Nello, D’amor non favellarmi; in questi giorni, Che la patria perdiam, parmi delitto Un accento d’amor, qual se proferto Presso il guancial d’una madre che spiri.”
“Oh, non affatto nel mio seno, Arnalda, È consunta la speme, ove una lancia E un’anima ci resti; ed oggi pure N’è promessa una pugna; ultima forse E felice, chè insolito tumulto Erra là basso ne le tende; e il padre Tuo m’invïava i riposati servi Qui a ragunar.”
“Oh caro! tu mi parli D’una speranza, che non ài nel core. Mira là su: non so perchè, ma quello, Certo è un presagio che ne manda Iddio.”
Ed ambi vêr le cupole di Santa Sofia drizzâro le pupille afflitte. Dall’aguglia maggior, che pari a snello Pino lanciava verso il ciel la punta, Una palla nimica avea d’un colpo Svelta la croce; ed or pallida, scema, Su quella punta passava la luna; E l’aguglia fedel l’empia sembianza D’un infedele minareto avea. “Vedi, Nello, la chiesa ove sovente Inginocchiati al vespero pregammo Pace all’ossa materne, ohimè! sur essa D’una meschita l’avvenire incombe.”
“Lascia, o cara, il terror de’ tuoi presagi; Torna secura, ed animosa; in petto Non mi spegnere questa ultima, ch’arde, Scintilla di coraggio.”
”Nello mio, Qualche cosa di triste erra per l’aura! Qui dentro al cor l’approssimare io sento D’inevitabil, certa ora solenne D’angoscia. Odimi, Nello: una segreta Storia, la sola, che celata io t’abbia, Sull’anima mi pesa, e mi parrebbe Di morire in peccato, ove attendessi Anco un giorno a svelarla…. Allor che un voto Me col padre traea peregrinando A le sante città di Palestina, Tremo ancora in pensarlo!... Era un mattino, Si fendeva il deserto. Una infinita Curva di firmamento, un infinito Orizzonte di sabbie era d’intorno; Non una pietra, un fior; solo brillava Lontan lontano, come via d’argento, L’onda eritrea. Quando ad un tratto un cupo Romoreggiare per lo cielo udimmo Dietro le spalle: mi rivolsi e vidi Tristi, rosse, infocate, ampie colonne Tempestando seguirci, e acutamente Urlò la guida: «Iddio ci salvi; è il vento Fatale! » Un’ora di convulsa vita Agitava il deserto, e dai profondi Visceri, fumo e gemiti mettea. Muti, cacciati da la morte, a lungo Stretti volammo pei mobili solchi. Altro io non so; chè un’ansia, una follía Vertiginosa ardeami il sangue; e presso Lì, su la sella mi vedeva assiso Un cocente fantasima di sabbia Ad abbracciarmi. Allor che mi riebbi, E blanda al cor mi rifluì la vita, Posava sotto un sicomoro; e al capo Facea guancial la lapide solinga D’un Mussulmano. Un cavalier d’Arabia Mi sorreggea pïetosamente il padre Per sua cura redento. E fino al mare Si offerse a la novella alba guidarci Per la via perigliosa. Esule errava Per delitti non suoi entro il deserto. Bello era, e generoso, era proscritto, Ed infelice, e mi richiese amore. Io non l’ò amato, ma pietà sentii Di quel gentile, che nel cor m’impresse Una memoria che tuttor mi tocca. Ora è qui, tu il conosci, è il prode Assano. Odi una prece, Nello mio; nell’ora De la battaglia, non drizzar la freccia Te ne scongiuro, non drizzarla al pio Che m’à salvato il padre….”
Da le mura Un improvviso fulminar di bronzi Manda la voce de la sfida; e l’eco Di monte in monte la diffonde, e muore.
CANTO II.
Oh! mi soffia sul volto, e avviva i lenti Estri, misteriosa aura che muovi Dai campi malinconici del nostro Grande passato, e mi riporta l’eco De le antiche battaglie italïane Ispirandomi il carme, onde il poeta D’ogni età, d’ogni terra, i molli ardisce Dispettoso scompor sonni di plebe Concittadina.
Pei sudati solchi De la valle feconda, ove poc’anzi, Traea dal mare a correre la brezza Sui larghi campi de le spiche d’oro, E l’allegra canzon del mietitore Predicea le vendemmie e l’esultanza, Luccicando nell’arme, innumerata Una turba tumultüa di gente Mietitrice di vite, e come irose Onde crescenti di marea, che batte Contro le sponde di vascello infranto, S’avventa a la cittade. Intorno, intorno Ai rotti muri di Nicósia e ai tetti Stanno i suoi figli, che silenti e radi, Ma indomiti a la nuova alba saranno Liberi in terra o martiri nel cielo. Mirali! Come udîr l’antelucana Squilla pei cieli, che a la prece invita, Caddero genuflessi. Oh! niuno è al mondo Spettacolo che quel d’un infelice Popolo vinca, il qual cammina a morte Come una sola e mesta anima, e prega Per la terra dei padri innanzi a Dio! Spirto d’Iddio, tu che due fiamme eterne Ponesti in petto de gli umani, fiamma Sacra d’amore a libertade, e sacra Fiamma d’odio al servaggio, e ti fu caro Veder levarsi un popolo nell’arme Per le case, per l’are e le dilette Bionde teste dei figli, e per le tombe Venerate pugnar; perchè sovente Ai rapaci stendardi ài benedetto, E la catena con l’acciar temprasti De le libere spade?
Un improvviso Nembo di palle grandina dai muri: La prima fila, la seconda morde L’insanguinata polve. Intorno, intorno Ai battaglieri si diffonde un folto Nuvolo bianco, ove talor discerni Trepido un guizzo di moschetto, un lampo Di säetta che passa, un vagabondo Aggirarsi di lacere bandiere, Simiglianti a raminghe ale d’augelli Sorpresi dal crosciar de la tempesta.
Ài tu sentito, allor che per le tristi Terre di brina assidüa lucenti Fischia il rovaio turbinoso, e investe L’antichissime selve, e ne’ conserti Rovereti percossi eccita un foco Che lunghi giorni illumina il paese; Ài tu sentito crepitar gli antichi Pini ed uscir dai covi de le fiere Un ululo selvaggio?
E tale è il vario Fragor, che assorda questa valle: misto A lo squillo dei corni, odi il nitrito De’ fuggenti cavalli, e l’iracondo Grido de gli omicidi, e dei feriti I lamenti supremi; e tutta quanta Ti sembra palpitar l’isola, quasi Impaurita ninfa oceanina, In fra le spire di marino mostro.
Da vaporoso padiglione intanto D’accese nuvolette, i raggi d’oro Trae, maraviglia d’ogni giorno, il sole; E in mezzo a la prefissa orbita fulge, Indifferente, se di sopra il nostro Mondo, plasmato di superba creta, L’uom nell’ebbrezza di gioiti amori, O dell’odio nell’impeto si abbracci.
Passar lungh’ore di scambiate morti, Nè lo stendardo del profeta ardiva Agitar le sue verdi onde di seta Su gli spaldi inaccessi. Invan le adunche Scale rasente le muraglie, e i muti Passi furtivi per le torte vie De le breccie, e gli aperti impeti invano: Poi che su gli eminenti orli una siepe Sta vegliando di prodi; e all’uopo scende Una ruina di cadenti pietre, Balestrate da impavidi fanciulli Usi a validi giuochi, e da animose Giovani, ne la santa ira più belle.
Ma lungamente fulminato il vallo, Come terra per molte acque s’insolca: E già le torri eran diserte, e i radi Propugnator de la città scorata Già cadean rassegnati. Era una ressa D’orfanelli accorrenti a le gelate Labbra dei padri, un accorato e lungo Iterarsi d’amplessi, un lagrimoso Passaggio di cadaveri diletti: E per le case, per le vie, nei templi Un ululo di morte e di terrore Tristamente correva. Ahi! la fortuna Volse i crini a la valle, consueta Meretrice dei molti e de gli iniqui.
Vedi tu là quell’uom, che torvo e scuro, Come una notte di tempesta, à l’occhio, E la barba à d’argento, e ritto accanto Al pennoncello de la sua progenie, Par simulacro su quell’ardua torre Che a’ lieti giorni di speranze altere Gl’imprevidenti nominâr Costanza? Quello è un gagliardo che non à sorrisi, Che lagrime non à, tranne per due Cose dilette; e due gentili amori Ne governano il cor costantemente: Amor di figlio per la bella Cipro, Amor di padre per Arnalda bella, Tenace come l’edera, ch’ei preme, Stretta a le selci di quel merlo antico; Cresciuto all’ombra de le sue castella, Cui prime fûr religioni, Iddio, E la patria, e lo stemma immaculato De gli avi; e giuoco de le man fanciulle Una bandiera, un morïone; e orgoglio Del giovinetto, säettar primiero La volpe per le macchie irte ringhiosa, E, plaudito, domar lungo i vïali Odorosi di fior le riluttanti Selvatiche puledre; a cui fu ardente Gioia una sfida; e il ritornar, superbo Vincitor, dal tornèo; chi può del veglio Ridir la giovin alma?
Or con lo sguardo: Segue i passi nimici, e col diverso Pallor del volto la dubbia vicenda De le pugne asseconda; e immobilmente Sfida la palla, che gli sfiora il negro Pennacchio del cimiero e la corazza. Quel tetro affanno, che non à parole, Quell’ira che si erige incontro all’empia Fatalità che ti calpesta, e leva Torbida la ribelle anima a Dio, Quasi il perchè richiegga irriverente De le sventure immeritate; e l’odio, Che ribolle al fallir de la vendetta, Laceravan quel core, e cupamente Trasparivan da gli occhi. Egli intravede, Come in presaga visïon, pei rotti Valli la furia dei vincenti, e ad ogni Porta un rivo di sangue; e all’alba nova La città del suo cor gli si presenta Di carnefici ostello e di defunti, E forse a lui serbata obbrobrïosa Morte, o l’onta del remo, o la miseria Dell’esule che va limosinando Quel duro pane che gli fia negato Da lo stranier con un insulto; mira L’ignominia abitar ne le sue case Donde gli sembra uscire un grido: — il grido Di Arnalda vïolata. A quella atroce Immagine, lo sguardo avido volge, La sua diletta ricercando; ed ella Gli stava in atto affettüoso accanto, Come angiolo compagno. E la figura Ti parea de la vergine, che un giorno Con l’arpa fida seguitava i passi Del cantor di Fingallo, allor che il bardo Per dirupi scorgea meditabondo; Mentre ei sul piano risonar di Lena Sentía il fragor de le passate mischie Eroiche e il picchio dei ferrati scudi, E pel torbido mar le remiganti Navi, e la sfida dei rinati prodi; E lampeggiando ne la fervid’alma Proromper l’estro de gli eterni carmi.
“Togliti, Arnalda, a questa torre; vedi Come il Signor vi semina la morte; Qui la tua vita e il mio coraggio è in forse: Vanne, ripara a la difesa torre De la nostra dimora; e presso l’ara, Presso l’avello di tua madre prega…. Prega ch’io muoia, se la patria muore. E se pria del tramonto odi a martello Risonar le campane, e invano attendi Una novella che di me ti parli, L’ultimo, o cara, dei consigli accogli…. Io t’aspetto nel cielo.”
“Oh se, la prima Volta, non piego al tuo voler, perdona; Nel periglio dei padri, unico in terra Avvi un loco pei figli e questo è il mio. ”
Ei non rispose; e vôlto al ciel, si strinse La generosa lungamente al core. Oh! chi può dire, in quella unica stilla, Che dal mesto del veglio occhio discese Sovra le maglie e la fanciulla, quale Infinito dolor fosse racchiuso? Stilla, che un cor di martire versava Sopra il terren del sacrifizio! E pure Da quell’amplesso, che potea l’estremo Essere in vita, anco una gioia al forte Sorrise: chè talora esce da due Abbracciate sventure una dolcezza! Del baluardo egli s’affaccia all’orlo, E fra la polve, che di bianco velo Del Pedeo la tranquilla onda celava, Vede giù basso serpeggiar più folte Le avverse bande; e per la breccia acclive, Che ad uno ad uno i battaglier caduti Indifesa lasciâr, silenzïose Anelando salir.
L’ultime appella Reliquie de’ suoi prodi, e vôlto intorno Un guardo di pietà sui morituri, Per la china li guida e si dilegua.
L’angusta corte che mettea sul lembo Dell’erta breccia, era d’infranti merli Ingombra e d’arme e di cadute pietre; E pari a campo sepolcral, quïeta. Ondeggiava romito ancor nel mezzo Lo stendardo di Cipro, quasi fosse Da le pie de gli estinti alme agitato: Distesi fra le péste erbe non freddi I cadaveri ancora. Una fanciulla Moría soletta accanto a un caprifico, E sollevando le pupille nere, Con l’estremo sorriso salutava Il moto estremo de la sua bandiera.
Lanciasi il Conte ne la cerchia, infigge Dentro il terreno insanguinato il brando; E protesa la man verso la croce Dai trafori dell’elsa affigurata, «Giuriam,» gridò, «di vendicar la santa Terra dei padri, o di cader con essa!» E cento destre, d’uomini, di donne, Di giovanetti s’allungâr tremando Non di terror, ma d’ira: e cento labbra Solennemente proferir: “Lo giuro.”
E attesero in silenzio. — Ed ecco spunta Come disco lunar su da ruina, Una fila di pallidi turbanti Lungo l’ardue macerie; un improvviso Nembo di freccie i più vicini atterra, Spunta un’altra e precipita: ma sotto Crescon le turbe ognor più folte, e poste Le adunche scale, a dieci, a venti, a cento Sorgono sul fortin gli assalitori; Divorato è lo spazio. Odi un feroce Cozzar di lame, e quel ferino, immenso Urlo, che solo con la morte à pace. Vedi sull’alto del pendio tremendi Saettatori fulminare un misto D’umane forme, che franano a valle In amplessi di rabbia; e tra le punte Batton de le ruine e a balzi a balzi, Non altrimenti de le querce monde, Che per le chine lubriche abbandona Il boscaiuolo de le cedue selve, Piomban ne la soggetta onda del fiume, Che tinta in rosso a la città s’avvía!
Voi, che passate a caso per i ponti, Arme recando e cibi ai combattenti, Misere donne, se vedete mai Agitandosi giù per le correnti Venir qualche persona moribonda, Tendete il guardo, poi che forse è il vostro Figlio esaugue che passa; è forse il vostro Povero amor che passa! —
È rotto e freme Anco una volta l’infedel sul calle Acerbo de la fuga. A la riscossa Nello, il Signore di Saïdo, accorse. Di tanta schiera non riman che un solo Che bestemmiando si ritira, e scaglia Il dardo che gli avanza. Oh! maledetta Sia quella freccia, che gittasti, Osmano! E se pur adorato, unico in terra Ti resta un figlio, quella freccia un giorno Sia destinata di tuo figlio al core. Essa d’Arnalda il morbido volume Lambì dei crini, rasentò l’usbergo; E in petto al Conte si confisse. Intorno S’affollano pietosi i combattenti All’egregio ferito. Indarno ei volle Anco fissar ne le fuggenti lune Gli occhi errabondi, e cadde, e a la vicina Chiesa fu tratto, come cosa morta!
Era il funereo tempio ove la stanca Polvere, e le virtù parche, e le colpe Dormivano dei re; però che dentro Gli avelli incisi di bugiarde cifre La valorosa, irrequïeta e rea Lusignana progenie era discesa. Per mezzo all’ombra de le vôlte acute Come lampa di speme in desolata Anima, il sol dall’occidente invia Mesto un saluto su purpureo raggio Popolato da mille atomi erranti; E, trapassando pei dipinti vetri, Di fantastiche tinte si colora Sovra la tomba d’Elena posando, Quasi paresse coi sanguigni, azzurri Guizzi di luce figurar l’eterne Fiamme, dove la perfida reina Sconta il veleno e i casalinghi lutti. 3 Steso ai piè dell’avel che all’infelice Giano 4 fu primo ed ultimo riposo, Aperse gli occhi il morïentc, e vide China. su lui la figlia in quell’estremo Disperato dolor, che è più di morte. Guatò d’intorno attonito; gli parve Di tornare a la vita dopo lungo Sonno affannato: come in faticosa Visïon, gli ricorse una confusa Pugna, e un Osmano saltellon pei muri Ir vagabondo con un dardo lungo; E si sentia colpire, e de la morte Arrivar la solenne ora comprese; Ma il pensier de la sua misera terra, Così com’era, anco il premeva:
“Arnalda Sali là su: di’ cosa vedi.”
Ed ella Con quella punta di coltel nel core, Barcollando saliva obbedïente Le scale, onde si giunge a la sublime Finestra de la chiesa. — Indi lo sguardo Per molta parte di città si stende E per molta campagna.
“Su le mura Vedo ondeggiare un lacero stendardo Ma non è quello di San Marco. Padre Odi tu questo che mi gela il sangue Rintocco di campana: a onde a onde Scende il nimico per le vinte chiuse A la cittade.”
E impallidendo, il capo Chinava a la cornice, e si sentía L’anima strazïata ire in dileguo. Oh! perchè non morir!
E giù il ferito Tornava a domandar, “Di’ cosa vedi.”
“Vedo avanzarsi per le vie la mischia, Vedo le soglie de le case ingombre Di morenti e di morti; e turbinosi Nodi di fumo ascendere dai tetti: Vedo di faci scintillar i vani Qua e là de le finestre. — Padre! padre! Anco dal loco, ov’è la nostra casa, Vedo salir la punta de le fiamme! Povero avello di mia madre! — Tutto, Padre, è perduto!”
E la paterna voce, Come d’uom cui la mente egra delira, Più fioca sempre favellava:
“Io veggo De la patria il fantasima che incede Tacitamente per la chiesa: l’orma I pavimenti insanguina; si posa A me d’accanto ad aspettar ch’io spiri…. Attendi, o Patria, anco un istante, e al cielo Ascenderemo a chiedere vendetta Di tante colpe, che non àn perdono.” E lieve lieve per le vôlte acute L’eco del tempio rispondea: “Perdono.”
Quando di Rama sui funerei colli Passò un lungo lamento, e una regale Mano i lattanti d’Isräel percosse, Forse una madre col suo bimbo ascosa Dietro le sacre are sentía le péste Omicide vagar, con la medesma Ansia di questa vergine diserta, Che per le vie de la città la strage Or vicina ruggire, or dileguarsi Nelle confuse lontananze udía.
Ai lunghi schianti commoveansi i vetri Del Santuario, e rispondean gli stalli Vedovi e i sotterranei ambulacri. S’ode un fragor d’arme, che avanza; scende Precipitosa da le scale Arnalda, E davanti l’esanime si ferma. Guai chi primo la tocca! Ardonle i polsi, Lampeggia il brando, e ne lo sguardo à impressa La maestà, che il sacrificio ispira. Ma quel tumulto or cresce — ora s’allenta, Finchè per andamenti altri si perde: Torna il silenzio. Odesi poscia il passo D’un corridor, che galoppa lontano; La via divora, s’avvicina, — è giunto, È già passato. — No: come a prescritta Mèta dinanzi il portico sonoro Del Santuario si fermò d’un tratto. La prima volta, o donna, è che tu tremi! Odi! — una pésta entra le porte — e inoltra Per la crescente oscuritade. —
“Arnalda, Ove se’, Arnalda?” – “Sei tu Nello? Oh! grazie, Madre d’Iddio! sei vivo!”
“Arnalda, dove È tuo padre? Oh, celiamlo omai; per tutto Si dilata lo scempio, e se speranza Ancor ci resta, è di morir uniti!” “Chi sei,” disse il vegliardo, “e perchè suona Disperata così la tua parola?” Ma rïapparsa ne la debol mente La ricordanza de la nota voce: “Sir di Säido, or ti ravviso…. Dimmi, Tutto dunque è perduto?”
“Ad uno ad uno, Signore, i forti caddero sui muri: Caddero per le vie; dentro le piazze, Dentro a le corti caddero pugnando: Or non è pugna, è strage. L’abborrito Carnefice di Stàmbol à fissato Lo sterminio di Cipro. — Ormai l’antico Onore è spento de le nostre case; Spenta è la tua città. Di tanto e lungo E infelice valore altro non resta, Che qualche prode agonizzante, e questi Laceri avanzi de la tua bandiera: Carca di gloria, tu me l’ài ceduta; Carica di sventura, io la riporto.”
“Porgila ch’ io la baci, e qui sul petto Ferito me la posa. — Oh! questo solo Era il sudario ch’io bramava estinto…. Men triste or muoio…. Benedico Iddio, S’Ei mi concede ch’io non vegga vivo La servitù di quest’isola mia. Ma che sarà di questa creatura? Che sarà mai d’Arnalda? — Odimi, Nello: Se mai t’arrise amor ai dì giocondi Per questa che tra poco orfana fia, E l’anima cortese, e le sembianze, E la mestizia non ti fûr discare, Deh! ch’ella trovi ai giorni del dolore In te l’amor del padre e de la madre! Ella è tua.… la proteggi.”
E il cavaliero Con un gaudio accorato a la fanciulla Porgea la mano nuzïal. Sorrise Il moribondo, e più commosse e roche Gli uscían dal petto le parole:
“Io scendo, Nello, a la tomba poveretto. I nostri Vezzi dimani adorneran le molli Odalische dei ladri: entro i giardini Pascoleranno le cavalle turche…. Volge Nicósia in cenere…. Le vampe Del mio palagio esser dovean le tede Pronube de la vostra ara!…. Di tanta Ricchezza che sparì, solo vi lascio Quello che non potean tutti rapirmi Congiurati gli Osmani, e la fortuna: La veneranda vanità d’un nome Invïolato; e a te, Nello, quest’una Lieve ma sacra eredità del mio Brando, netto di colpa, e di viltadi…. A le tue man lo fido…. Oh, qui da canto Chi è che geme?...o figlia…. o figlia mia…. Qui t’appressa; mi bacia anco una volta…. Ancor più presso; ò freddo, Arnalda, ò freddo…. Qui mi ti posa, e mi riscalda il petto. Toglimi, cara, quest’anel dal dito. Esso è quel che portò l’intemerato Angiol che ti fu madre: io sull’altare Puro gliel porsi, ed ella ancor più puro Me lo rendea sull’origlier di morte. Questo di me, questo di lei ti parli Infin che vivi. — O, misera, sì forte Non singhiozzar…. Io rivedrò fra poco Quella santa nel ciel, ed ambi Iddio Perpetuamente pregherem per voi.… Ài tu per l’aure torbide sentito Forte una voce che mi chiama a nome?…. Arnalda, ò freddo…. qui sul cor mi versa Quelle lagrime calde…. o benedetta…. Ricòrdati di me che muoio….” Un fiero Tumultüar d’armati e di cavalli Che urlando irrompe da la porta, scuote Quegl’infelici che pareano morti Al par del morto. — Esterrefatto balza Nello da terra; il brando impugna: “Sposa Or siam perduti.”
Una rapace turba Con agitate fiaccole s’accalca, Cento facce selvaggie illuminando Ai profanati limitari. — Primo Sul pavimento di sconnessi avelli Un Mussulmano col caval si lancia; E, ravvisato in minaccioso aspetto Ritto un guerriero ad un altar: “Il tuo Dio, gli grida, ben scelse a la custodia De la sua casa un guardiano imbelle.” E curvo su le redini s’avventa A quel deriso. —
“O sposo, è lui…. è lui…. È Assano.” Altro la vergine non disse: Poi che sentì mancarle il core, e cadde Su la salma del padre, inanimata; E forse ora si volge al paradiso. —
All’udir il suo nome e quella voce, Attonito stupì l’Arabo, e rise Come Satana ride. Intorno ai due Che duellano, come ad un tornèo, Si stringe con le fiaccole la gente. Solo fra tanti il Sire di Säido A una colonna che sostien le navi Balza d’un salto, si ripara, e pugna. E già due volte spezza con la spada Le maglie, e offende il cavalier. La curva Lama azzurrina dell’Osmano ai marmi Guizza d’intorno e fa sprizzar scintille. E già sul capo discoperto a Nello Rapida scende; ma al corsier nimico Manca sul terso lastrico una zampa, Sfonda un avello ne la sua caduta, E palafreno e cavalier confusi Mordon la polve. — Sul caduto allora L’altro inarca l’acciaro, e già la morte L’Arabo sente. — Se non che, dal fondo D’una navata sibila una palla; Nello è caduto! — Furibondo sorge L’arabo, un motto mormora all’orecchio D’un fido schiavo, e fin che gli altri al sacco Si spargono del tempio, ei su novello Destrier apre la calca e via dispare; E fuvvi alcun cui parve di vedere Lungo gli arcioni pendergli dinanzi Come una forma di persona morta.
O generosi che cadeste, addio! – Addio, bella di gloria e di dolori Animosa cittade! Un’ odïata Notte sopra il guancial de la sventura Ti agitasti, cristiana, e sul mattino Martire all’onte del servaggio sacra Ti svegliavi ottomana; e preludevi De la tua miseranda isola ai ceppi. Così tramonta de le patrie il sole All’occaso di sangue imporporato. Cadono i padri combattendo; i figli Vivon nell’odio memore: i nipoti Si rassegnano al fato; e poi fin l’ombra De la speranza, e le memorie sperde, Più assai che il tempo, il postero codardo. Pur nascoso talor fra le rovine Cresce, da pianto nobile irrigato, Gracile il fiore de la indipendenza: Poco a poco, guardingo si propaga Nei giardini domestici educato, Fin che arriva a olezzar apertamente Ne le piazze e sull’are, e se ne tesse Una civil corona all’animoso Eroe de la rivolta. —
Ahi! del riscatto, Città infelice, non ancor nel cielo È per te l’invocata ora battuta! Veggo ancor per le azzurre aure beate Volger la luna, e vïaggiar le stelle; Veggo il sorriso de le tue marine, E per le valli irrigüe gli aranci, Sempre verdi fiorir: l’alma di foco, Il crin di corvo e lo splendor del guardo Ancora ammiro de le tue fanciulle Desïose d’amor…. Ma dove i sacri Giorni n’andâro de le patrie feste? E l’inno popolar che fea le tue Notti di canti liberi gioconde? Dove il braccio dei prodi, e su le porte Le scólte cittadine? ove il lucente Altar da cui l’ardita incoronavi Fronte dei Lusignani? Ove le egregie Tombe ne andâro?
O stanche ossa dei regi Dall’Eterno chiamate, e dall’umane Storie, a giudicio, invan di queti sonni La speranza v’allegra! Appare il giorno De le sconfitte, e il vincitor vi fruga Per rapirvi le gemme irriverente; Il giorno appar de le rivolte, e il pugno Dei popoli vi semina pel vento. Pure a le tue contrade ove rïesca, Derelitta Nicósia, il peregrino Ancor dopo tre secoli di lutto, Mesta i sepolcri de’ tuoi re gli additi. Un sol ne manca: sì che invano ei chiede Ove l’ultima tua dogal Signora Dorma il sonno dei morti. — Oh, con le serve Braccia tu l’ergi, dove è più deserta Del mar la spiaggia; poich’è spenta Ahi! sotto l’alga de le sue lagune La tua Sultana, e del lïone alato È spento l’antichissimo ruggito. —
CANTO III.
Udite, solitarie anime care, In cui celato per avversi fati Freme de la natal terra l’amore, Cui non è ~emma di regal corona, Che pur una di sangue inclito vinca Nobile stilla per la patria sparsa: Udite, anime care, ove il desío Tolto non v’abbia di saper gli affanni D’Arnalda lagrimevole, la musa Povera narratrice.
Ella era côlta Da un penoso delirio. In quel dei sensi Disordinato errar, cui la sospinge De lo spirto l’angoscia e de le membra, La fantasia, ne’ suoi voli di Fata Or benigna or crudel, prendea le forme Del terribile vero.
Essere in prima In quel tempio credea, dove ai sereni Giorni pregò. — Su splendido tappeto Inginocchiato le brillava accanto Il bellissimo Nello. — Un mar di luce Diffondeasi dall’ara; e le sublimi Cupolette indorando e il pavimento, Sovra il candore del suo vel piovea E sopra i gigli che le fean ghirlanda. Un’ invisibil mano discorreva Per gli ebani dell’organo spargendo Di melodie le profumate vôlte. Era il di nuzïal. —
Ma un’oppressura Tormentosa, una scossa, un incessante Scalpito a guisa di corsier che fugge, I bei sogni rubando all’infelice Mutan la visïone. —
Ecco a rilento Sollevarsi le lapidi e dal vano Una nube salir, che tutte quante Occupò le colonne e le navate. La paurosa con la man ricerca L’anello che le fu lungo desio; Ma l’anello si snoda, e le sembianze D’una vipera assume, e il bianco dito Avvelenato dall’acuto dente, Morto le cade da la man di gelo.
Per quei vapori, ovunque ella si volga, Vede sempre un crudel volto che ride Insultando e la fissa; e cento braccia Lunghe, villose, col pugnale in alto. Il sacerdote, il fidanzato, il raggio Dileguano, e il sì dolce organo è muto; E sol per gli ambulacri ultimi il tristo Nitrito ascolta d’un caval morente. Ella ghermita da una man di ferro Depor si sente dentro un freddo marmo. Trepida gira la pupilla, e vede Che quel gelido marmo era un sepolcro, Con dentro un morto, e il morto era suo padre: E già un grido mettea….
Ma un’ oppressura Più tormentosa, un faticato corso, Un fischiar d’affannosa aura pei crini, Scotean la sognatrice; e si mutava De le feroci fantasie la scena. —
All’improvviso le parea quell’urna Commoversi co’ suoi grifi di pietra, Ed uscire dal tempio: e la persona Morta, tremendo guidator, sedea. E correano, correano per le vie Note, pei suburbani orti, sui clivi Precipitosi e lungo le campagne Rapidissimamente. E lo splendore, Che illuminava il disperato corso, D’una vinta cittade era l’incendio. E correano, correano, e si sentia L’unghia di marmo battere il sentiero; Finchè la terra si perdeva, e il lido In un negro mettea vasto oceàno: E quell’urna solcarlo; e la persona Morta, tremendo navichier, sedea Fra le spume del mar.
Ma un’oppressura Più tormentosa ognor, ma l’impudico Premer d’un bacio che le cerca i labbri Quasi fugace rettile che strisci Su le carni notturno, a quell’afflitta Rompono i sonni. Apre le luci; in una Barca lanciata a la balía dei remi Si vede, e a quel fatale Arabo in braccio, Cui riga ancora il candido mantello Il vivo sangue del morente amico. Si conobbe perduta. E con la mano L’onta coperse del baciato viso. Come in nube indistinta in pria le giunse La ricordanza, indi più netta, infine Limpida e disperata; in un istante Vide il passato, vide l’avvenire; E credette morir…. Ahi! poveretta, Chè per angosce non si muore in terra!
Un tramonto sul mare! Oh! come è bello Il sol che ne le immense acque discende. Che se la costa, ove al mattin sorgea, Appellata è Soría; se quelle brune Macchie lontane, ove tramonta, sono Le sorelle di fama e di sventura Isole dell’Egeo, superbamente Egli è splendido allora! Ei, le solinghe Colonne d’Elio, che fu sua cittade, E i rovinosi simulacri, a cui Fallîr da mille e mille anni i divoti, De la luce più limpida colora. E le mobili spume, onde s’imbianca L’azzurro piano, imporporando irradia, Sì che pare al rapito navigante Reggere il pino dentro un flutto d’oro. Danzan sull’onda con le argentee schiume, Tratti al desio de la morente luce, Fuggitivi i delfini, e la conchiglia Schiude le valve per dar loco al raggio Che le accarezzi la gentil sua perla! È l’ultim’ora d’una festa. Il crine Sparso di rose fulgide, nell’acque Discende il re. La festa è consumata. Una dolce quïete, una mestizia Posa nell’aure e sull’oceano. Allora, Come al passar d’un re per una villa S’accendon lampe ne le vie notturne, Via per le sfere un cherubin aleggia E illumina le stelle e de la luna Il niveo faro, perocchè si svela Più maestoso ne la notte Iddio. Oh, come è caro il dì che muore, e i bruni Piani saluta dell’immenso mare!
Ma tal non è per l’esule che triste Solca pelaghi ignoti, ignoto ei pure E sospettoso, e la memoria il punge Dentro al core dei placidi tramonti Accanto a genïale anima scôrti Dal limitar de la paterna casa. E si rammenta la fidanza onesta Dei colloqui animati, assiso ai freschi Vesperi de la patria, ond’egli forse S’allontana per sempre; in su la poppa Posato del navil, versa nascoste Lagrime amare sovra l’onda amara; E intanto ode cantar dietro di lui In una lingua che non è la sua. Tale non è per quel che di catene Improvvise fu cinto, e va prigione A stranie prode, ove nessun l’aspetta, Fuor che il fantasma de le sue sventure. Sol libero del guardo, a la palomba, Che trapassa veloce, a la rosata Nube, che vola vèr la patria, affida Un addio lagrimoso. — E questo, o bella Dolorosa di Cipro, era il tuo fato.
Per cento vele biancheggiante sega L’Issico seno col favor del vento La flotta de la Luna, e con le aurate Punte s’avvia de le dipinte prore Di Famagosta ai venerandi muri, Dove un futuro martire l’attende. Guizza rasente i solitari scogli La fusta del corsal, dentro le macchie Si nasconde di canna, e traditrice Esce di notte a derubar pei lidi. Sole nel seno di tranquilla baia Specchiansi immote due galee nell’onda Mirti perenni, e pallide lavande Fanno siepe a le rive; un’odorosa Selvetta miri fluttuar di cedri Su le eminenze, e quasi a guiderdone De le frescure onde le fu cortese, Sopra il suggetto mar, che la riflette, Sparge il profumo de le sue corolle. Forse quelle galee, come una coppia Peregrina di cigni, a tanto d’acque Paradiso e di campi innamorata, Qui l’àncora gittâro.
Oh, tu non sai Qual carico di pianto e di peccato Portin quelle galee!
Là, su la rupe Che al mar s’ affaccia, da le crocee foglie Di selvatica vite inghirlandata, Sali. — Non odi dal navil, che posa Cheto nel mezzo del suggetto golfo, Secondo la raminga òra lo porta, Sollevarsi un lamento? Ivi legata, Quasi rea da patibolo, si accalca Prode una gente. A lei sui vinti muri E su le soglie dei polluti lari Fin la morte fallía. — Poveri egregi, Che faranno dolenti e popolosi I mercati di Galata! L’orecchio Porgi di nuovo; non t’arriva un cupo Fremito e un urlo? — Su le ignude schiene Dei galeotti sibila cruento, L’onta mescendo col dolore, il nervo. Miseri! E voi forse una dolce casa E la canizie tremebonda aspetta D’un padre! E forse in questa ora d’angosce, La sposa ignara, che vi attende, prega Sotto la lampa di Maria, benigni Supplicandovi i mari! —
Oh, non ti fère Un suon da la vicina eco ridetto, Triste, come il sospir d’una sorella Che domanda soccorso? — Oh, non è questo Dell’avvoltoio cacciator lo strido, Che là su quell’altezze aride gira; Questo è gemito umano. È un angoscioso Pianto di donna; perocchè sull’empia Nave che miri, à ragunato Assano I tesori a le ville arse predati; E le gemme più fulgide di Cipro – Le sue fanciulle. —
Oh, sventurate a cui La giovinezza e la beltade è colpa Che ogni dì sconterete vergognose Nei chïoschi del Bosforo ridenti Ed abborriti, a far più lunghe e acute Le voluttà dei comperati amplessi. Oh! sventurate!
Ed ella pur sedea La vergine dei Roca, in mezzo all’altre Miserabili donne. Era un’oscura Cameretta di sotto agli impalcati De la coverta. — Ivi empiamente sparsi Miravi i candelabri e le rapite Spoglie dei templi, e misti a le gemmate Armi, ed ai vezzi a la beltà sì cari, Quei voti, che nel dì del superato Periglio, al santo del suo cor, contenta L’anima appende.
Povere colombe! Quale vi trasse da gli aperti campi Fatalitade di tempesta al covo Proprio del nibbio qui? Ier ne le case Libere ancora, ancor dolce e superba Esultanza di pie madri, e desío Di giovinetti verecondi; ed oggi Sì profondo cadute!... e diman forse Vituperate…. Oh! chi gli atroci e lunghi Patimenti può dir di questo nido Di caste ed immortali anime tratte Come mandre al mercato?
Alcune assise Col guardo immoto, il volto infra le palme, Giacean come impietrite; altre furenti, Piene le pugna di strappate chiome, Forsennate correan; chi genuflessa Pregava; chi parea morta; ed alcuna Su le tavole roride di pianto Si rotolava disperatamente. Pur se un lieve sonava urto a la porta, Tutte volgeansi a quella banda, quasi Per là dovesse entrar il vitupero. Oh quante angosce in quelle paurose Pupille nere; in quei tremuli labbri Illividiti; in quelle mani al petto Raccolte in croce, in quelle pose stanche Pur custodite dal pudor, che mai, Fin nei deliri d’un dolore acuto, Da la vergine mai non si scompagna!
Sole nel mondo! Ognor che il reo pensiero Ripiombava su quelle anime affrante, Pietosamente commoveansi; e, nate Di principe o di plebe, una cadea In seno all’altra; poi che il duol profondo, Simile al cimitero, ogni superba Disuguaglianza toglie e tutti adegua Sotto l’affanno d’una croce istessa!
— Donna, che vuoi tu qui? Splendidamente Scende a lambire il tuo piè di fanciulla La nerissima chioma; e l’immodesta Onda del seno sotto un vel di neve Manifesta di certo un cor di fiamma, Un cor che è nato dove nasce il sole.
La giovinezza ti dipinge il volto Di procace beltà. — Pure nel mezzo Al candor de le guance, solitaria Una rosa di porpora mi dice Che ratto scorre de’ tuoi dì lo stame: Pur qualche cosa di sinistro avvampa Dentro quel bruno orbe dell’occhio.
Donna, Che vuoi tu qui? — Perchè quel lungo riso Irriverente? Non sai tu, ch’è sacra L’aura che spira da una gran sventura; Poi ch’ivi più solenne orma rivela La presenza d’Iddio?
Ella depose Sopra un guanciale un crocefisso d’oro Che di strane tenea bende ravvolto. E su le braccia mollemente a guisa Di bambolo cullava. E a le cadenze D’una mesta canzon del suo paese Voluttüosa maritava i passi D’una danza di Cipro. — E tutte l’altre Pareano a quella gioia indifferenti.
Ella seguía la danza e la canzone, E un dolor pauroso uscía da quella Vïolenta letizia; in fin che lassa Mal traendo il respiro, entro le bende Incespicava, e per morta cadea.
Allor si mosse una gentil figura A sollevarla con bontà pietosa; Era Arnalda. — Seduta a lei d’accanto Sull’origlier de’ suoi ginocchi il capo Leggiadro ne depose. — Indi la mano Tese a spïarne i palpiti del core: E il core, or lento, or frettoloso, come Dentro le spine de le sue memorie, Intricato batteva. E meglio fòra Che non battesse più: — “Povera Actea! Povera pazza! Se non pur felice, Fieramente felice, chè l’angoscia, Come pietra scagliata in fondo al rio, T’à intorbidato l’onda de la vita, E nel tramonto del pensier ti tolse A la veduta di sì ree giornate!”
Se piomba la sventura in cor gentile, Ne trae tesori che nei dì felici Ignorava d’aver, e più benigno Lo rende agli altrui mali. E quella pia, Fatta siccome immemore del suo Infinito martír, qual fa una madre Con malato figliuol, le accarezzava Il fronte, il collo, il crin. E le memorie Agitavano Actea: — “Pria di lasciarmi, Anco un bacio, amor mio; come sei bello! Come ti ride su la nobil fronte Scintillando il cimiero! — A me, fanciulle, Venite a me, spose di Cipro! Avreste Veduto al mondo mai re da corona, Che la porti sì ben, come il mio sposo Porta il cimiero? Oh nol guardate! io sono Una fiera gelosa…. Oh parti e pugna, E riedi; incontra io ti verrò sul ponte…. Eterna è un’ora ch’io l’attendo, e ancora Non torna….
“È morto, e non tornano i morti... Chi mi parla di morte? Oh maledetta Questa voce crudel! — Per l’oppressore Odïoso al Signor, non ei la spada Servile assunse: ma v’è un tetto, ov’egli Nacque; v’è un’ara, ove pregò fanciullo, E mi diè la sua gemma; àvvi una breve Culla, che dentro un’innocente accoglie Creatura di rosa; un’infinita D’amarezze e d’amor corrispondenza, Che à nome patria; egli per lei soltanto Vestì la maglia, e sguainò la spada: Tornerà. —
“È morto, e non tornano i morti…. Son morti tutti, anco la patria…. un solo Vive…. silenzio! non lo dite, o donne: Il mio soave pargolo di rosa Dentro un sepolcro io l’ò celato; un’onda M’inseguia di turbanti; io per l’occulta Via del giardino dileguai non vista: Entrai la stanza nuzïale; oh come Sorridevi, o celeste, entro l’intatta Neve dei lini! Nel cortile udii, Erompere pel vinto atrio la gente: Egli vagì…. come celar quel mio Solo tesoro, onde giammai non fôra Stata povera in terra? Egli vagiva. Io lo feci tacer col mio pugnale: S’addormentò; nè lo trovar la gente…. Eccolo ei dorme ancora…. oh! con quel pianto Non destatelo, o donne….” 5
Da la mesta Consolatrice che volea calmarla Si liberava nel delirio Actea; E su le bende lacere inclinata Depose un bacio. Ah! misera nel legno De la croce baciar credevà il figlio. E tacque, e pien di pianto era il sorriso De la povera pazza.
Entro la muda, Per l’äer cieco, non s’udia che un rotto Anelito di petti affaticati A spirar la sventura: e di quel breve Pauroso silenzio eran gl’istanti Enumerati dai singhiozzi in terra, Dal custode segnati angiolo in cielo. Quando a la porta s’affacciò sinistra La figura d’un Arabo. Su lui Da la virtù d’un reo fàscino vinti, Come per muta tenebría scintille, Si conversero cento occhi di donne; Quasi volesser coi fulminei sguardi Incenerirlo. — Ei con beffardo accento Loro indisse d’uscir. — Pietà non era, Che su la tolda a respirar le addusse Le placide frescure, e l’odorosa Brezza, che lambe le tepenti rive: Era timor che l’agitata e greve Dimora ne la stiva a la bellezza Appassisse le rose; e men gioconde Tornassero le veglie a la feroce Sete de’ sensi, che a Bisanzio attende.
Nube in cielo non era, e dietro i colli Vitiferi di Candia il sol morìa: A quelle derelitte ultimo forse Fra gli occidenti de la patria: e in due Ne partiva la vita; in quel soave Paradiso che fu, sparso di fiori, Di blandizie e d’amore; e in quella ignota Landa d’esilio che non à ritorni, Terminata soltanto allor che aperto Troveranno un sepolcro, ove le stanche Membra celar con la crudel vergogna!
Libera ancora sovra un’erta cima Una imprudente campanella osava Ridir Ave a Maria: da lunge un’altra Risponderle parea; quasi un’austera Coppia d’amici, che fidente parli, Sull’imbrunir de le pensose sere; De le cose del cielo.
Oh! chi nell’ore De la partenza memori potea Udir le squilla del natal paese Senza un pio turbamento, a lui natura Un raggio di gentile alma negava!
Tal non era d’Arnalda, e non dell’altre Sciagurate compagne: ed essa pure Actea parve ascoltasse: e ne la offesa Mente quel dì le arrise, allor che i bronzi Sonâr la gloria di sue dolci nozze, Qual sovvenir di noti ed amorosi Volti, di tetti placidi, di allegre Feste e di tombe! E chi pensava ai gaudi De le romite sere, ai delicati Lavori smessi, quando il sol lambía Col raggio d’oro le trapunte tele; Chi il secreto desío rimeditava E i guardi, e le furtive orme, e il pudore D’un cognito donzello, e l’infinita Soavità d’un bacio fuggitivo. E la madre? Oh la madre era di molte L’amarezza suprema, e le scolpite Sembianze, e gli atti mansueti innanzi Redían cari e tremendi: e se d’alcuna Menda vêr lei si ricordava il core, Quella, che parve un dì menda sì lieve, Tornava or colpa smisurata. — Arnalda Le sacre ossa materne, e l’insepolto Capo del padre ripensava, e un altro Caro morente al piè d’una colonna, E de la patria vïolata il grido: E cadde genuflessa, e su le labbra La morte e la preghiera avea dei morti. Tacevan tutte, e tu, povera folle, Mescevi inconsapevole la tua Danza di Cipro a la natía canzone.
Allor s’intese da le cento prore Dei vincitor, cui le seconde brezze Traevano e il desío de le rapine, Diffondersi sull’acque una festiva Armonía di stromenti.
Odela o surge, Da non so qual divino estro rapita, Arnalda e in tuon profetico prorompe:
“Ite, l’avventurosa onda frangete, Superbe navi, del trïonfo allegre; E il sol che cade de le sue più vive Porpore vi dipinga! Oh, di ben altra Porpora tinte, che sarà di sangue, Pria che ritorni vedova la selva, Carche di morti, e fuggitive invano E disperate in mari altri v’attendo…. Oh! chi mi leva in alto sì, che i giorni Nascituri contemplo?...
“Ecco tre scogli 6 M’appaiono deserti in mar deserto, Senza traccia d’umane orme e di fama; Voi senza fama? — Oh! tale un nome avrete, Che fia rampogna ai secoli codardi! Però ch’io miro veleggiar per molta Lontananza di fiotti un contro l’altro Due popoli iracondi, e le galere Fulminando scontrarsi, e uscir dal grigio Fumo sul fianco lacero inchinate Le capitane con le vôlte antenne. Però che sento un sibilar di frecce, E un urtarsi di prue l’una sull’altra Lanciate, e il grido de le mille voci D’un naviglio che affonda; e svolazzando Sinistri augelli stridere invitati Al festin de la morte; e le ululanti Esequie e il pianto de le Tracie donne. Però ch’io veggo fluttuare un bruno Panno sull’alto de le tre scogliere, E via per l’onda, finchè l’occhio arriva, Un tristo di turbanti arsi e di vele E di naufraghe salme impedimento…. Una prua dal tumulto esce veloce…. Tu parti? — Addio. — Sollecita il remeggio, Adrïatica prua: te dei trionfi Accarezzata messaggera attende Venezia su la piazza unica in folla; E tripudio di danze e ne le miti Notti lungo la curva ampia prepara Del suo Rialto luminarie in festa…. E tu, Sposa del mare, affretta il riso, Perchè pure per te, misera, vedo Spuntar nell’avvenir le faticose Giornate del dolore: affretta il riso, Finchè non t’abbia l’Oceán reietta, Infedele ad amplessi altri correndo. Se un immortale ai talami t’assunse, Immortale non sei! Tu che lo scettro Rapivi a Cipro mia, tu che a sì dura Agonía l’abbandoni…. e tu morrai Abbandonata. — E scorderanno i regi Le delizie dei giorni, allor che molle Li banchettavi dentro all’aule d’oro, Ospite insuperata: e a far più lieta La voluttà di quelle itale notti, Infioravi le gondole, e per l’acque Illuminate misurando il remo D’armonïose serenate al canto, Soavemente li traevi ai balli Intrecciati di maschere e d’amori. Scorderanno le sacre ire del tuo Lïone e il rugghio salvatore, allora Che navigando lungamente solo D’Orïente le perfide marine, De la Croce vegliante angelo stette Contro la Luna; e con la fulva chioma D’ottomane saette irta rediva, Ma vincitor, di monumenti e d’arme, D’aromati e di fior carco, e di gloria Italïana a la ducal maremma! Flagel di Dio, scendeva un dì dall’Alpi Il guidator de gli Unni, e la Paura Te generava, e poi ti nascondea Fanciulla eroica in grembo a le tue cento Isolette infeconde e glorïose. Flagel dei troni, da quell’Alpi stesse Scenderà di ponente un isolano Agitator d’eserciti e d’idee; Cavalcherà superbo pe’ tuoi lidi Popolosi di ville e di codardi; E tu, stupendo fior de le paludi, Povera, antica, con le man posate Sul grembo inerte, al par d’un tapinello Infievolito, che s’asside al sole, Côrrai, fisando, il moribondo raggio, Che manda l’astro di tue glorie a sera. Finchè te le päure uccideranno: E agoníe calunniate, e morte avrai Inglorïosa, inulta, occultamente Da qualche solitaria anima pianta!…”
Di canti un improvviso e di feroci Risa tumulto, una diffusa striscia Di fiaccole pei colli littorani Che discendendo, i serpeggianti colli Come serpe di foco assecondava, Rupper la visïon dei dì non nati A la bella rapita. Intorno ad essa Pallide, genuflesse eran le donne, Cespo di tuberose säettato Dal sol meridïano, intorno a palma Giovinetta da forti aure commossa. Fin essi i guardïani all’idïoma Incognito e possente, all’ispirato Occhio fulmineo, al portamento ardito, De la fanciulla intesi, avean dismesso Lo sgranar de le inerti ambre, e la noia.
Siccome i fuochi onde rosseggia il monte Quando a valle sospinto il mandrïano Le selvatiche accende erbe autunnali, Pur nel desio di più fiorente aprile; Tali apparíano quelle faci; or d’una Fulgida riga incolorando i clivi Si nascondcan fra gli alöe giganti, Or rïuscivan più di pria vivaci Rasente un balzo, o vagavan confuse, A guisa de le lucciole sui prati. Come scendeano approssimando, al guardo Apparivan distinti armi e cavalli E cavalieri, a cui bianco svolava Qual lenzuolo da morti il vestimento. Alfin posaro in una valle. — Quivi Una tenda crescea di caprifoglio Sopra un delubro rüinato. Un tempo Le Amatusie fanciulle alzâr quell’ara A Citerea di voluttà maestra: Quando, furenti di desío, la baia Correano seminude, e da la riva Ai venturosi naviganti invito Feano col canto; e i talami improvvisi Eran cespi d’olenti erbe e col prezzo Inverecondo componean la dote. 7
Ivi d’Assano riposò la banda Trafelata un istante, a cui tardava Il mattino salpar, de le seconde Prede bramosa; e ad ingannar l’attesa Alzò per l’aure una canzon di guerra, Cui risponder parea l’impazïente Annitrir dei cavalli, e la montagna. E al suolo infisse le cruente picche, Urla mettea di scherno, e di crudele Letizia insultatrice ai generosi Spenti sul campo de la patria.
Donne, Oh, non guardate, misere!, di quelle Aste a la punta! chè derisa e lorda Forse ivi tale sanguina una testa, Cui ieri ancora al mattutino addio Di figliuole col bacio e di sorelle, Adorando baciaste, ahi! destinata A veleggiar; spettacolo di morte, Del navile ai sublimi alberi in vetta!8
Scende la notte: qualche prima stella A poco a poco tremolando spicca; Rompe i sereni al nitido orizzonte Qualche tacito lampo irrequïeto, Occhio di luce che si chiude e s’apre Rapidissimamente.
Oh come cara Fòra quest’ ora, se spuntar fra i rami Là sull’alto del monte io non vedessi L’albór di quel nascente astro crinito A funestarla!
E con qual mai segreto Discernimento, te lanciava Iddio, Fuggitivo pel ciel pallido mondo? Quando sei nato? Ove finor la tua Vita di mille secoli traesti Risvegliatrice di paure arcane? Forse in te pur nasce, fatica, e muore Una gente fugace, a cui diè vita Inaffiata di lagrime la creta? O se’ tu di maligni angeli un nido Senza requie vaganti, a cui talenta Col guardo avvelenar la poveretta Letizia de gli umani? Ove prefiggi Pei dì venturi la sinistra fuga? Quanto ancora di genti congiurate Agitarsi e di guerre, e vergognoso Esular di regali orme maturi?...
Chi mi narra, onde vien, come si chiama Quel galeotto? Or con pupilla immota Egli contempla il risalir di quello Peregrino del cielo, e par confonda La sua con la romita alma dell’astro: Or si volge a quel punto ove il baleno Con arcani caratteri di luce Segna gli azzurri, e maledice al nembo, Che su quell’acque infurïar non osa. Però che un dì dal Golgota lontano Per quell’onde una santa imperadrice, Bella redía de la scoverta Croce; E sorse nera una tempesta, ed ella Gittò al fondo un divin chiodo, che stette Mallevadore di perenni calme. 9 Ma quel dannato a la galera agogna La tempesta e la morte. Al vergognoso Remo non era la sua mano bianca Esercitata. E s’io ne guardo il mesto Pallor del volto, e su la nobil fronte, La ferita recente, se del nero Occhio contemplo la selvaggia cura, Ben lo ravviso. E quella fronte. io certo Vidi una sera scolorir trafitta In una chiesa. Oh meglio era morire! Quanto, Nello, mutato or ti riveggio Da quel gagliardo, che scorrea sull’alba, Tinto di spume del corsiero ansante, Di Nicósia le vie precipitose Verso gli spaldi sacri! E le fanciulle Disïando balzavano dai letti, E affacciate al balcone avean sui labbri Quella preghiera che improvvisa il core Pel valoroso cavaliere e bello! Oh meglio era il morir! Chè fu ben vile E frutto di profondo odIo il pensiero, Che te costrinse col pudor del servo A trascinar la tua vergine sposa Tra le vergogne di chïoschi impuri! Oh l’ignori la misera! Già troppa È la sventura che le strazia il core!
Ma perchè avvinghi il remo, e nel tuo sguardo Si raccende la vita? — E dall’ardito Volto, cui fiamma subita invermiglia, Scuoti i negri capelli e intento ascolti?
Sonò per la carena un improvviso Commovimento, e un urlo di straniere Favelle mescolato e di bestemmie; Una rabbia di colpi; uno scompiglio; Un accorrer pel cieco aere di genti. A quando a quando di fulminea canna Lo scoppio; un grido di morenti e un tonfo Pei gorghi bruni di cadute salme.
Oh! qui di sotto ne la buia stiva, Chi muor? chi vive? e quale mai di sangue Misterïoso dramma ora si compie? Nello, non senti che qua giù si grida In tua lingua natía? Rupper le funi Gli schiavi. — De la carcere il lïone Franse i cancelli, e rugge e all’atterrito Domatore s’avventa e lo divora. –
Come la turba dei mentiti amici, Fugge dall’uomo sventurato il sonno; E se lasso talora ei s’addormenta, Fantasimi deformi e tenebrosi Con gli occhi dell’afflitta anima vede, Tale su quelle povere di Cipro Un sopor faticoso era disceso, Allor quando il fragor de la rivolta Le riscosse: e balzâr per la tenèbra Confuse in päurosi abbracciamenti. Crebbe l’impeto e l’ira. — Una percossa Fiaccò la porta de la muda; e amica Voce sonò, che disse a le tremanti: “Libere! uscite — e combattete.” — Un motto Scambiò le cerve in lëonesse. Usciro Rapide, risolute…. a che?... non sanno. Ma fosse pure a scendere d’un salto Nel fondo a una voragine…. non monta: Chè nel periglio v’è un’altera ebrezza, E la morte sorride all’infelice, Cui ne la vita non riman che l’onta.
Va per le scale tenebrose, e i palchi Trascorre Arnalda; in una scimitarra Col piede inciampa, la raccoglie, e s’arma Sente il marino aere sul fronte, e sbocca Ne la corsia dei remiganti. In quella Da la stiva irrompean ferocemente I rivoltosi. — D’uno sparo il lampo Illumina la tolda; e una confusa Battaglia e i cento volti e la sinistra Gioia e le pòse dell’avvinta ciurma Un istante rischiara, e le paure Più profonde rinnova e la tenèbra.
Vide la giovinetta, o fu delirio, Supplice in ceppi un remador le palme Tendere ad essa, e udì chiamarsi a nome Come ne’ dì giocondi? In un baleno Ella ogni cosa indovinò: lanciossi Sul galeotto e se lo strinse al core!
Novello lampo illumina la tolda, E più cruda la mischia e più sinistro Appare il ghigno de la serva turba: E chi guardato in quell’istante avesse Per la fila dei remi, avria veduto Due crëature in un amplesso unite E in un bacio d’amor. Ella disciolse Nello dai nodi de la vil catena, E congiunti pugnâr. Rade le scolte, Atterriti i custodi, e la battaglia Nel misterio dell’ombre impreveduta, Rapidissima, atroce, e la favella Diversa, a le ferite unica guida; Sopra l’onda del mar fumando il sangue A rivoli cadea da la galera Dove appariva al lume de le stelle Come una caccia di figure bianche Che perseguíte da una gente armata E seminuda, sull’infida tolda Cadean trafitte, o dai raggiunti bordi Si lanciavan nei vortici del mare.
E la povera Actea, non abborrendo I morti e il sangue ond’era molle e ingombro De la stiva sfollata il pavimento, Danzava al metro de le sue canzoni!
“Cipro, vincemmo!” il sire di Saído Gridò con voce a le battaglie avvezza. “Cipro, vincemmo! — I martiri insepolti Esulteranno ne le patrie valli Vendicati. — Ben altra opra ne resta! Ora liberi alfin, lungo gli scogli Costeggerem di quella curva baia, Come pin da corsal tacitamente. Dell’alba a le seconde aure vêr Candia Veleggeremo. Ivi il Lïone alato, Poi che lottò con le tempeste, dorme Su le tarde galee sonni ozïosi: Lui d’un tradito popolo le grida Risveglieranno, pria che l’Ottomano S’avventi a fulminar novellamente Qualche nostra città. — Fratelli, al remo! Se Dio ’l concede, fia per noi redenta Questa povera patria.” —
E nel delirio, Da quel nobile sogno affascinato, Strinse esultando la sua sposa al core: E la pupilla che non pianse mai, Nel segreto versò la generosa Stilla d’un gaudio ch’ogni gaudio avanza.
Ohimè! nel mentre che a rilento move Carca di tanta illusïon la nave; Dopo la svolta d’una rupe appare Un’altra nave! – “All’arme! All’arme! è quella La galera d’Assano.”
E remigando Cupa, silente, di vendetta anela, Lunghesso la divisa onda lasciava Un’orma luminosa; e da la poppa Raggiavan sui pinacoli le lampe, Somiglianti a due grandi occhi di bragia.
Continüò per breve ora la voga, Ai fuggitivi, a gl’inseguenti eterna Ora d’angoscia, perocchè ogni petto, Anche animoso, palpita al pensiero De la morte imminente; e da la creta, Ch’è per disfarsi, l’anima si leva A parlare con Dio che s’avvicina.
Guadagnando di spazio appressa intanto La cacciatrice. In un balen di fiamme Le si cingono i fianchi, e sui fugaci Stride una pioggia di rovente piombo. Surse un nuvolo denso, e in quell’istante D’affannoso silenzio, sonò l’eco De le montagne. Un lungo urto costrinse Le gementi galere; e la commossa Onda levossi con le mille spume Su le teste omicide.
“All’arrembaggio!” - Anco una pugna? Oh, non avrà il mio canto Fastidito di sangue e di sventura; Poi che soltanto a note di dolore Quest’arpa mia non destinava Iddio: Ma forse, io spero, a mantener le patrie Speranze e l’ira, a consolar le pene De’ miei fratelli; e intanto entro il modesto Santuario dal cor, dove le faci Sono i miei cari, con ignoto verso Ella canta in segreto intimi amori. Sai come pugni un libero coi polsi Lividi ancora da la rea catena, Cui sterilita la virtù del core Non à il lungo servaggio?
E tal fu orrenda E disperata e rapida la pugna. E allorquando il solenne arco dei cieli, Dove sui piani di Soría s’incurva, L’alba dipinse con la man di gigli, Cessâr le morti, e la galea ti parve Cimitero natante in mezzo all’acque.
Arnalda, ove ti ascondi, o dove giaci Defunta? Assano avidamente cerca Alcun vestigio che di te gli parli. Forse de la nascente alba più pura Salivi al cielo, e la crüenta piaga Che il niveo sen di martire ti squarcia, Ti fea cortese il guardïan severo Del paradiso? e con aperte braccia Ti corse la paterna ombra dinante?
Muta, ferita, del pallor del cero Che ne le chiese illumina gli altari, Non fidente che in Dio, respira ancora La vergine di Roca. — Il fianco posa Molle di sangue in quell’angol riposto Dell’asciutta carena ove il marino Serba geloso la fulminea polve: Quivi soletta nel silenzio attende Rassegnata la morte.
Ahi! questo pure Ultimo e fiero asilo è invidïato A la diserta. Ànno odorato i falchi De la colomba moribonda il nido. Inoltra col mantello insanguinato L’arabo vincitore, e nel suo sguardo Traluce di dannata anima un lampo. Addietro a lui due schiavi d’Etiopia L’un con la face ne rischiara i passi Giù per le scale, e reca l’altro un colmo Bacil coperto di broccato d’oro.
“Mia sultana d’amor, bella fra tutte L’avventurose Uri del ciel, perdona Se di ritardi al talamo promesso Giungo scortese. — Non fu già mia colpa. Pria di condurti al desïato Aremme, Io ti cercava un dono, unico in terra, Che vincesse ogni gemma d’Orïente. Eccolo; e in esso il mio perdono.” E alzato
Da quel bacile il vel, mise un orrendo Riso, e di Nello discovrì la testa Sanguinolenta.
Motto non rispose L’inorridita vergine; nel volto Non si mutò: si genuflesse, e al Dio De’ suoi padri il sereno occhio volgendo, Tolse un’arma dal cinto, e con la breve Canna dentro a le polveri serbate Placidamente fulminò la palla. E viventi, e cadaveri, e chi fea Patire, e chi pativa, e le rapaci Galee, che a tanti affanni erano scena, Sparvero avvolti dentro un mar di foco, Quale fra sonni päurosi un’egra Visïon di dolor. — Lacere l’onde S’allontanâr in spumeggianti giri: Per vasto tratto da le ardenti e rosse Aure discese e crepitò sull’acque Una pioggia di brage e di squarciate Membra e di tronchi d’arbore fumanti.
Tutto passò. — La calma, che precede L’alba, sorride su la molle baia: Riede pel terso aere il silenzio; e lungo I montani sentier, la tremolante Siepe di melarancio e di lavanda Sveglia i profumi mattinali, e invita Il gentil capinero, e la festiva Lodoletta, che trae verso l’aurora; E di vita cotanta, e da sì cupi, Pur ora, odii agitata, altro non resta Che una solinga nuvola di fumo Che lambe l’acque dove fûr le navi. Odi uno strido d’aquila, che scende Mattiniera a la pésca: odi il maroso, Che frange a gli orli de la ripa, e porta Un remo, un teschio a la deserta arena: Altro per l’infinita aura non odi; Però che eterna è la natura, e nebbia Vanitosa l’umane ire e gli amori.
O nepote dei dogi, 10 ecco, nel mesto Porto sì muto d’opere, la stanca Voga ritorna del Lïon morente; E l’inclite fantasme a le lor tombe Riedono, e al sonno su guancial di polve; Riede, qual si partía da le sue corse Il bucintoro: — e quello che tu vedi Vessillo immoto su la bruna antenna, È la spoglia d’un martire; supremo Astro, che, pria de la perpetua nebbia, Ingemmasse di Cipro i firmamenti.
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1 L’isola di Cipro, altrimenti nominata Ceraste, dai promontorii a guisa di corna, Pafia, Salaminia, Amatusia, Citereia, Macaria, ossia beata, perchè feconda e ricca d’ogni bene, è lontana sessanta miglia dalle coste di Soría, trenta dalla Cilicia, trecento da Alessandria d’Egitto. — Popolata da Cetima prollipote di Noè — soggiogata da Nino assiro — rapita agli Assiri da Amasi re di Egitto — posseduta dagli Argivi — dai Fenici — spartita fra nove re, dei quali Agapenore fabbricatore del magnifico tempio dalle cento are, che Tacito celebrò. — Malarrivata sotto de’ Tolomei — conquistata dai Romani, e taglieggiata al solito e smunta, — Nella partizione del Romano Impero, quando il mondo, fra le tante altre belle cose, era diventato un podere diviso in tre padroni, toccata in sorte ad Antonio. Da costui donata, come si dona un vezzo, a Cleopatra in cambio di un sorriso. — Caduta nelle fiacche mani degl’imperadori d’Oriente. — Da Costantino governata a mezzo di duchi, fra cui Isacco Comneno, levatosi a tiranno. — Rapita al rapitore da Riccardo d’Inghilterra pel ragionevole motivo, che sbattuto da una burrasca gli fu niegata ospitalità. — Venduta, come una fattoria, ai cavalieri del Tempio — venne finalmente (1193) in potere, e retta, come Dio non vuole, dalla famiglia dei Lusignani — degni compaesani del duca di Atene — razza di Francia. La infelice isola beata, fra tristi e sopportabili, n’ebbe tanti da farne sedici re, — Aveano nell’impresa; pour loyauté maintenir, e furono pressochè tutti sleali. Aveano nello scudo: pour vant maintenir, e ve ne furono di prigioni, di schiavi, e splendidamente terminarono col bastardo Giacomo II. La bella vedova di costui, Caterina Cornaro, fu forzata a cederla spontaneamente alla Repubblica di Venezia sua affettuosa madre adottiva. Sotto la Serenissima passò abbastanza male ottantatrè anni — quando Selimo II per molte ragioni da conquistatore, la più fondata delle quali era che poco asceticamente gli piaceva il vin di Cipro, la volle sua; e l’ebbe; e tuttavia dai suoi posteri è governata. — Il 25 luglio del 1570 l’esercito turchesco imprese l’assedio di Nicósia. — Tentati invano dagli infedeli quindici assalti, il 9 settembre 1570 entrarono per le breccie: — quindicimila persone a fil di spada: il resto schiavi. — Una cometa n’avea minacciato ai superstiziosi la rovina. «Una nave fra le altre (scrive il Sagredo — Monarchi Ottomani) destinata a rallegrare il Sultano, contenea pretioso carico, et il trascelto delle bellezze di Cipro in alquante nubili donzelle. Arnalda di Roca più degna di corona che di catene, libera di animo, sebben schiava di corpo, vedendosi captiva con l’altre, condannata a satiare, dopo la crudeltà, anco la libidine ottomana, infiammatasi di generoso risentimento, accese la monitione che con ardore più vorace dei Turchi la nave con tutto il bottino incenerì. Diè fuoco al rogo dell’estinta patria per rinascere qual Fenice alla gloria del Cielo. Et fu questa l’ultima fiamma dell’esequie della capitale di così fiorito regno.» * Vedi le Note in fine del canto 2 Nicósia, città fra le prime di Cipro, sta in mezzo alle terre nel vasto piano di Mezzarea, lontana dal mare ventiquattro miglia dalla parte di Salines, quindici da quella di Cerines. È divisa dal fiume Pedeo ingrossato per molti ruscelli delle vicinanze, passato da vari ponti. È circondata tutto intorno da monti che s’innalzano fino a quello di Santa Croce, il più sublime di tutti, uno dei quattro Olimpi, villeggiature degli antichi Dei. È munita di mura all’intorno con terrapieni, fosse. sortite; è forte di undici baluardi reali, uno dei quali era chiamato Costanzo. Bella di palazzi all’italiana, di piazze, di monumenti, di chiese, fra cui la maggiore Santa Sofia, edifizio gotico-bizantino, opera di Giustiniano, ora moschea; e San Domenico, ove stanno i sepolcri di molti principi della casa di Lusignano. — Illustre per nobiltà non ignava, in mezzo alla quale eminenti i conti di Roca, e di Carpasso, i signori di Said e di Suro. 3 Elena Paleologa, figlia del despoto di Morea, fu moglie a Giovanni II re quattordicesimo di Cipro (1432). Questa feroce donna ingelositasi di Maria di Patras, la più bella dama dell’Arcipelago, favorita del re, le fece cincischiare il naso e gli orecchi; e costrinse Giacomo figliuolo della povera Maria e del re, alla chierca. — Poscia maritò la propria figlia Carlotta a Giovanni secondogenito del re di Portogallo, e siccome il genero non secondava le sue mire, ella se ne sbrigò col veleno (1456). 4 Jano I (1403) terzodecimo re, fu così chiamato perchè nato a Genova, mentre suo padre Giacomo I era ivi prigione. Liberato il giovi netto coll’oro, vide alla sfortuna della nascita tener dietro l’infelicità del regno, poichè fu travagliato da guerre e devastazioni, da novella prigionia, e riscatto ruinoso. 5 Il pensiero di questo episodio dell’Actea fu suggerito da un fatto che trovasi narrato nell’opera di Anton-Maria Graziano intitolata: «Antonii Mariæ Gratiani a Burgo Sancti Sepulcri Episcopi amerini, de Bello Cypro, Lib. V. Præteriri silentio non debet nobilis matronæ facinus. Ea cum teneri ab hostibus urbem accepisset, jamque trepidatione, ac tumultu cuncta perstreperent, proripit se domo, ut, quæ fortuna viri, quæ trium filiorum, quos pater secum in pugnam adduxerat, cognosceret; ad moenia ipsa vadentem refugentium impetus domum intrusit. Hic comperit, virum, filiosque egregie pugnantes pro patria mortem occubuisse. Tunc præceps, dolore et strepitu ingruentis in urbem tumultus, alienata prope mente, domum irrupit. Ei impuber filius eximia forma, quem unice diligebat, occurrit: quem complexa mater, diu osculo inhæsit: mox furisli percita pietate: Egone, inquit, te, fili, tam sævis hostibus vile mancipium relinquam? tu, jam jamque amplexu avulsus meo, barbarorum libidini ludibrium ibis? Simul, hæc dicens, pueri jugulum cultro transfixit, seque insuper, tribus vulneribus in pectus adactis, interfecit.» 6 In questi e ne’ seguenti versi si accenna alla famosa battaglia navale di Lepanto, incominciata presso i tre scogli detti Echinadi, ora Curzolari. La quale, dopo miracoli di valore, terminò colla sconfitta de’ Turchi (6 ottobre 1571), un anno dopo la rovina di Nicosia, e la presa di Cipro. La novella di quella disfatta, che fu una vera e solenne festa per l’intera Europa di allora, fu, non appena finita la giornata, mandata celerissimamente a Venezia da Veniero. 7 Propetidi erano donne della città di Amatunta, che avendo spregiata Venere e negata la sua divinità, furono punite dalla Dea col renderle insensibili all’onore e alla vergogna. Queste, secondo quello ne vien riferito dagli storici, mandavano in certi tempi determinati sulle spiaggie del mare le loro figliuole, perchè cercassero di guadagnarsi con la prostituzione qualche denaro, onde formarsi la dote: nè per quanto si pentissero dappoi della colpa, riacquistarono il senso del pudore. Trog. Pomp. L. 18, c. 5. 8 Le teste dei conti di Roca furono mandate, per terrore, e per ischerno, sotto le mura dell’assediata Famagosta. (Piero Giustiniano, Storia Veneta.) 9 In una leggenda cipriotta è raccontato che la madre di Costantino, tornando da Gerusalemme per mare, dopo aver discoverta la croce, fu assalita da una fiera burrasca nel golfo di Settaglia, infame allora per naufragi. Ella, vedendo crescere il pericolo, lasciò cadere nel fondo del mare uno de’ sacri chiodi, e da quel giorno in poi, quelle acque da procellose si resero piacevoli e navigabili. 10 In questi ultimi versi intendo parlare di Bragadino, il generoso difensore di Famagosta, e della sua spoglia. Di questo fatto così dice uno storico: «Per ordine di Mustafà, Marcantonio Bragadino fu condotto in piazza nudo, colle mani e piedi legati, colla faccia volta alla colonna dove si castigano i malfattori: quivi, standosene Mustafà guardando sì fiera crudeltà, fu vivo scorticato. Rifulse incredibilmente in mezzo a sì tormentoso strazio la costanza e la fortezza di quell’uomo: non trasse gemiti, non mosse lamenti: confortavanlo la pietà verso Dio, e l’amore verso Cristo salvatore, il cui nome ed aiuto continuamente invocava: nè trapassò se non quando i tagli all’umbelico arrivarono: quando là si venne, in divine lodi e preci profondendosi rendè l’anima invitta a Dio immortale, e le mortali spoglie con l’eterna e beata vita cambiò. Nè contento il barbaro dell’aver mirato coi propri occhi scarnificato e lacero con orribil genere di tormento l’uomo fortissimo, volle anche incrudelire contro il suo cadavere. Appeso alla fune con cui stava legata la bandiera sulla piazza, ai morsi delle fiere l’offerse; poi la pelle riempiuta di fieno, ed a guisa di vivente vacca conformata, e ad ombrello sottoposta, fe’ portare a ludibrio per la città. Finalmente all’antenna d’una i galeotta sospendendola, ed a ferale spettacolo ai lidi di Cilicia e di Soria mostrandola, la condusse a Costantinopoli: affinchè quasi niun luogo fosse, ove stampati non si vedessero i vestigi della sua perfidia e crudeltà.» Venezia al martire eresse un monumento. |
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