Capitolo
Nono
C'est bien vrai,
on laisse un peu de soi dans les choses, de
ses souffrances, de ses espèrances, et quand
on les retrouve, elle vous parlent, elle vous redisent ces choses, qui
vous attristent ou vous égayent.
E. ZOLA
La più grande sventura della vita è la vecchiezza scevra
della ricordanza della virtù.
BUZURG, detto il Seneca dell'Oriente
Noi realmente non godiamo
e non soffriamo che il momento
presente. In ciò siam tutti eguali, giovani e vecchi, ricchi e poveri,
genio e volgo.
Il passato non ci
appartiene che in immagini conservate dalla
memoria; l'avvenire non è nostro che nelle sembianze che ci dipinge la
speranza o il timore, il desiderio o la paura.
L'uomo più potente e più
fortunato, ricco di tutte le energie
del pensiero e del sentimento, non può che rendere il piacere più
intenso, chiamando in amoroso convegno con le piacevoli sensazioni del presente
la folla più gaia delle memorie passate e
delle speranze dell'avvenire.
Il selvaggio e l'idiota
non hanno che una debolissima capacità
di concentrazione e alla scena reale del presente non possono chiamare
che pallide e fuggevoli memorie e languidi desideri
di un di là e di un di più.
L'uomo di robusta fantasia e di tenace memoria fa del fuggevole istante tutta una festa, a cui sono invitati
tutti i più lieti ricordi del passato,
tutti i rosei fantasmi dell'avvenire; ed
è davvero una fortuna provvidenziale, che il volgo non possa intendere
quanta intensità di gioie del pensiero e del sentimento
può concentrare in un istante un cervello potente e fortunato.
Questa è la vera, la vitale differenza, che passa fra uomo e
uomo nel godimento della vita; differenza
che avanza tutte le altre segnate dalla bellezza, dalla fortuna, da
tutte le infinite disuguaglianze umane.
E non è da credersi, che il genio solo o soltanto il sentimento fantasioso possa dare a noi questa
fortunatissima delle fortune; perché
vi sono dei geni molto infelici, che adoperano la luce del loro pensiero per illuminare soltanto il dolore, e
d'altra parte vi sono cuori troppo sensibili, che vivono in un palpito continuo di dolorose tenerezze e di
convulse suscettibilità.
Il preziosissimo dono di
far convergere nel fuoco dell'istante che fugge i raggi del passato e
quelli dell'avvenire è virtù congenita, che l'educazione può affinare ma non
creare, e che consiste, per dirlo in una
parola, nell'antitesi, nel viceversa
dell'ipocondria; in una felice armonia di sensibilità squisita e di volontà robusta. Queste nature
privilegiate sono lenti acromatiche,
sono apparati di accomodamento psichico più perfetti d'ogni strumento ottico; più perfette del nostro occhio, che è pure uno dei grandi miracoli della
natura.
Ammessa in tutti quanti, questa capacità di concentrazione mirabile del passato e dell'avvenire dà
risultati molto diversi secondo le
diverse età. Nella giovinezza abbiamo poco
passato di cui disporre e molto avvenire, nell'età adulta un'equazione quasi esatta dei due elementi; nella
vecchiaia invece ricchi tesori di memorie e un povero avvenire.
Ed è in questa differenza
appunto, che i più credono di trovare la grande infelicità del vecchio,
per cui tutto il patrimonio di gioie è nel passato, che più non ritorna, mentre
è così ristretto l'orizzonte dell'indomani.
Errore codesto, ispirato
da quel pessimismo brontolone, che è
forse il vero peccato originale dell'umana famiglia.
È forse l'avvenire più
nostro del passato? No e poi no. Di nostro,
non v'ha che il presente. Passato e avvenire sono fantasmi, e se fra
questi due v'ha differenza, è tutta a vantaggio del passato, che fu nostro;
mentre l'avvenire ci può scomparire fra
mano, domani, forse oggi stesso, forse fra un'ora. Si può morire ad ogni età, mentre d'altra parte anche
a cent'anni si può sperare di campare
fino ai centodieci, perché altri uomini
vissero fino ai centoquaranta, e lo ha detto San Girolamo, già molti
secoli or sono:
“Nemo enim tam fractis viribus et decrepitæ senectutis est, ut non se putet unum adhuc annum esse
victurum. “
Se non siete artista, se
non siete archeologo, se non vi siete
mai fermato commosso davanti al Colosseo o a una cattedrale annerita e corrosa dai secoli, voi potete
saltare le pagine seguenti, perché non furono scritte per voi.
Il tempo non soltanto
consuma, non soltanto arrugginisce i metalli o appanna i vetri e corrode le
colonne, non soltanto lima le rocce e
appiana i monti; ma nel tempo stesso smorza col suo andare la nudità dei contorni, l'impertinenza dei colori e l'acutezza degli spigoli, deponendo quel
che si chiama nel linguaggio tecnico degli archeologi e dei numismatici
la pattina, e che nella lingua della
poesia, tante volte più vera di quella della scienza, dicesi il fiato
del tempo.
Le cose nuove hanno per sé la freschezza, la lucentezza, la gaiezza; ma son sempre un po' impertinenti, un po'
chiassose, sentono un po' del parvenu.
Son nobili con blasoni comperati ieri,
son cavalieri di recentissima nomina. Sono ragazzi nati da poco, che saltano, gridano e fanno il chiasso.
Le cose antiche sono
nobili di vecchia data, rispettabili, solide.
Vi si può appoggiare senza paura: si contemplano con venerazione, almeno con rispetto. Le cose nuove ci
rallegrano, ma le antiche ci fanno pensare. Le cose nuove si adoperano, le cose antiche si conservano sotto chiave; e
ogni giorno che passa accresce la loro rispettabilità e il loro valore.
Benché in selce, questa
freccia ha una pattina. Benché di selce,
anch'essa ha raccolto il fiato del tempo, che per più di cinquanta o sessanta secoli l'ha accarezzata e
baciata. Quanta storia in quel frammento di pietra! L'uomo che l'ha
fabbricata è da cinque o seimila anni
scomparso e le sue ceneri son già passate
attraverso chi sa quante mille e mille creature del mondo verde e del
mondo roseo. Forse più d'una molecola di lui
è in noi, ma di lui non è rimasto nulla; neppure il nome, neppure il nome della
razza a cui egli apparteneva.
Ma no, rimane di lui
questa scheggia amorosamente lavorata e sfaccettata dalle sue mani; mani
come le nostre e che attraverso i secoli si ricongiungono con le nostre.
Quanta storia in quella
freccia, quanta densità di memorie in
quella pattina non più alta si un decimo di millimetro, eppure più ricca di pagine della Bibbia.
E questa moneta di
Giustiniano imperatore, lucente ancora nel suo oro bizantino, ma tosata
con discrezione da qualche usuraio turco, ma
accarezzata anch'essa dal fiato di tanti secoli?
Anch'essa ha la sua pattina
e noi la palleggiamo e la palpiamo
con amorosa tenerezza. Forse passò per le mani di Teodora e fu data da lei in premio ad uno dei
tanti suoi amanti. E per quante altre
migliaia di mani non è passata, portando sulla sua piccola ruota la fortuna e la
vergogna degli uomini, le loro libidini e i loro desideri; premiando or la virtù, ora il vizio, e pur serbando nel fango
della prostituzione o fra gli incensi
dell'idolatria il suo riso ironico del metallo più vile e più superbo
dell'umana mineralogia!
Come nelle foreste i
vecchi tronchi degli abeti e delle querce ci narrano le glorie della
loro lunga vita coi licheni policromi e le
molli borracine che li rivestono, e nelle cento cicatrici ci narrano gli schianti dei fulmini, i colpi d'ascia del boscaiuolo, i capricci degli amanti; così ogni
cosa antica escita dalle mani
dell'uomo ci parla sommessamente, misteriosamente
e in diverse lingue la lunga e paziente e dolorosa storia della civiltà.
I marmi ce la raccontano
con le corrosioni delle nere verrucarie, i bronzi con il fiato verde della loro
pattina, i graniti con l'appannatura del feldspato decomposto. Il legno
ci ripete coi suoi gemiti il morso secolare
e paziente dei tarli; e il vetro stanco di tanta luce passata attraverso
le sue trasparenze, si riposa nell'iride dei
raggi da lui decomposti. Perfino l'immortale porcellana di Satsuma ci
ricorda nella sfumatura lasciatavi dai secoli un'arte obbliata coi nomi dei
suoi grandi artefici.
Verderame o ruggine, pattina o corrosione, tarli o fenditure ci raccontano tutti la storia dei secoli;
l'andare eterno della materia che non posa mai e mai non muore;
riscontro armonico delle borracine e dei licheni dei giganti della foresta.
E il vecchio legge questo muto linguaggio dei secoli che furono, assai meglio del giovane; perché anch'egli
è un bronzo antico, anch'egli porta
sulla sua pelle la pattina del tempo che fu. Egli ha una stretta
parentela con tutte quelle cose su cui ha fiatato il tempo, e con esse rivive
il tempo che fu.
All'infuori dell'archeologia
il vecchio ha un ricco museo di
memorie sue: memorie di cose, memorie di uomini. Son tristi e son liete: più numerose forse le prime
che le seconde, ma più pallide assai di queste.
Noi tutti ricordiamo con vivezza maggiore i piaceri che i dolori, s'intende sempre a parità di forza; dacché
con la nostra volontà rinfreschiamo, ricordandole, le gioie del passato
e spesso cacciamo via le tristi immagini dei dolori patiti.
Dolori e gioie son
ripartiti fra gli uomini con ingiusta misura, per colpa nostra e della fortuna;
ma la memoria serba come tesori i
dolci ricordi e cancella i dolori; e anche quando questi furono forti, dopo i lunghi anni, si
dipingono nell'orizzonte lontano come
mesti fantasmi, che ci commuovono, ma non
ci fanno soffrire. Il dolore si è trasformato in malinconia e questa è spesso cara, né la vorremmo cancellare
dalle nostre emozioni. Se potessimo ricordare affatto i nostri cari morti e gli amori sepolti e gli amici lontani per
sempre, ci vergogneremo di noi stessi come di una viltà.
Nei nostri giardini, se siamo appassionati cultori di fiori,
abbiamo sempre anche il geranio notturnino,
modesto nelle foglie, triste nei
fiori; ma questi, piccoli e oscuri, quando tramonta il sole emanano un profumo acuto come di aromi orientali portati da un vento lontano. E quel
profumo dura tutta la notte e scompare col crepuscolo dell'alba.
Così nel giardino del nostro cuore i muti ricordi del passato devono rappresentare quel geranio della notte, e
anch'essi devono innalzare nel nostro cielo i lontani profumi del tempo
che fu.
Dall'infanzia alla
canizie che lungo cammino! La vita è breve,
quando la misuriamo col metro del desiderio; ma quanto è lunga, se l'accompagniamo passo a passo, palpito
a palpito, dal primo bacio della
mamma alla prima neve caduta sul capo!
Quanti uomini diversi si
son succeduti l'un dietro l'altro sotto la buccia sottile del nostro lo;
il bambino, il fanciullo, l'adolescente,
l'uomo adulto; ed ora il vecchio li riassume tutti quanti quegli uomini, che, pur rimanendo una stessa creatura, ebbero gioie e dolori così diversi;
altrettanti volumi di un'opera sola,
di uno stesso autore e a cui non manca più che di scrivervi la fatale
parola: fine!
Da tutti quei volumi
sfogliati dalle nostre mani commosse emana un odore di cose lontani e soavi; un
profumo molle di terra bagnata da una
pioggia dopo una lunga sete; un aroma di
vecchio cuoio di Russia, di un mazzolino di mammole dimenticato da anni
in un armadio.
Nessuno dei nostri sensi
ricorda i luoghi e i tempi come il più
imperfetto dei cinque; e come un odore ci fa riapparire viva e
palpitante una scena della nostra vita dimenticata forse da quaranta o cinquant'anni, così tutte le memorie
ci appaiono indistinte, nebulose, crepuscolari come profumi, che non hanno forma né colore. Nessuna cosa rassomiglia
più ad una memoria del passato quanto un profumo, che l'ala di vento ci porta di lontano.
E con noi quanti compagni
incominciarono lo stesso viaggio e ci abbandonarono lungo il cammino!
Eravamo mille, quando uscimmo alla vita e giunti alla stagione dell'amore non eravamo più che cinquecento.
Fanciulli rosei e paffutelli,
fanciulli gai e clamorosi e saettanti come rondini, corridori come puledri in festa, caddero qua e là abbattuti
dalla difterite, dal tifo, da uno dei tanti nemici del povero bipede
planetario.
Rotte le file dal tumulto
dell'amore, ci siamo dispersi per i prati
e le foreste a caccia della voluttà, e ci siam riveduti alla stazione della virilità e ci siam contati una
seconda volta. Non eravamo più che duecento.
Ed ora quanti siamo, dopo
le battaglie dell'ambizione e della gerarchia sociale?
Forse trenta o quaranta.
E ci guardiamo commossi e trepidanti con un'aria di sorpresa, palpando le nostre carni, per sentire se
davvero siamo ancora tra i vivi.
In tutto questo, direte
voi, vi è più dolore che piacere. Io dico invece che vi è l'una cosa e
l'altra insieme, e che non può dire di aver
vissuto una vita piena e intiera chi non ha potuto raggiungere l'età dei lunghi
ricordi; chi nel calice della vita non ha bevuto anche l'amaro eppur dolce
nettare della malinconia.
La memoria di un lungo
passato può avere talvolta l'amarezza
della corteccia peruviana, ma com'essa ha pure l'azione tonica e
corroborante; com'essa ha la virtù di guarire la febbre dei miasmi sociali e le nevralgie del secolo nevrosico.
E con i compagni del lungo viaggio ci hanno tenuto dietro anche le cose e queste hanno saputo vivere più
degli uomini. Abbiamo ancora i papiri
di Ercolano, mentre son già disperse le
ceneri dei nostri nonni. Un foglio di carta ha vita più tenace delle
carni di Ercole o del cervello di Goethe.
E quanti e quanti di quei
fogli rinchiude la domestica biblioteca del vecchio! La prima lettera
d'amore aperta con le mani tremanti, or son
cinquant'anni; l'ultima lettera di nostra
madre che porta ancora impresse le nostre lagrime.
Il primo diploma, che
quarant'anni or sono, ci proclamava dottori,
e l'ultimo articolo di giornale, che lodava con sentite parole un nostro libro.
Tutto un archivio, tutto
un tesoro di affetti, di compiacenze
deposto su quel fragile tessuto, che una vampata di fiamma può
distruggere in un minuto, e che pure sanno serbarsi per secoli sempre vivi,
sempre pieni di tutti i succhi, che vi distillavano il cervello e il cuore di
cento generazioni.
Fortunato il vecchio che
muore nella casa in cui è nato! Per
lui quelle mura son quelle di un museo di reliquie, di una chiesa
illuminata dalla fede.
Su quella soglia, sui gradini di quella scala posero i piedi
i suoi padri, gli avi suoi, e nel cortile
sempre verde egli ha tentato i passi
vacillanti della prima infanzia. Ogni camera è per lui un tempio, in cui
ricorda e fors'anche prega. In un certo corridoio
oscuro rubò il primo bacio d'adolescente a una bella cuginetta e una
certa cameretta oscura gli fu prigione nelle
prime impertinenze d'una fanciullezza scapestrata. Risuonano ancora in
quella casa la voce fioca della nonna, le ire paterne e le parole pietose della
mamma, che implorano indulgenza dal babbo. Quanti morti ancor vivi passeggiano
in quella casa, quante voci spente, non
obbliate mai, ripetono al vecchio l'eco malinconico di tanti e tanti anni!
E fra quelle sante pareti
quante reliquie, quanti monumenti, che non sono né di marmo, né di
bronzo, ma sono imbevute del sangue di tante esistenze vissute con noi e per noi.
Sedie e tavoli e quadri e
corone appassite di fiori son tutti benedetti dal dolore o dall'amore,
tutti santificati dai grandi palpiti delle
passioni umane che lasciarono da per tutto un alito del loro fiato, una
lagrima dei loro pianti o un fremito delle loro voluttà.
Tutte quelle cose che non
parlano ai profani e agli ignari, cantano
e piangono e mormorano sommessamente parole ed inni e pianti, che il vecchio solo ascolta e intende e a cui egli risponde
con altre lagrime, con altri sorrisi, con altre carezze.
Molti vivi son passati morti per la soglia di quella casa
per non ritornarvi mai più; ma il custode di quel tempio è rimasto a custodire
le reliquie del passato, a difenderle dall'obblio, ed egli stesso in un giorno
non lontano ripasserà la stessa soglia, dopo
avervi lasciato altre memorie ai superstiti; dopo avervi deposto voci e
sorrisi, che i figli e i nipoti di lui custodiranno e difenderanno alla lor
volta.
Se tutto questo è dolore,
non v'ha uomo di cuore, che non voglia
pianger queste lagrime, che non si senta orgoglioso di poterle piangere.
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