Se leggete i miei libri,
conoscete già uno di questi due vecchi
felici, perché io ho raccontato un episodio glorioso della sua vita nel mio Testa.
Ora però devo presentarvene il ritratto.
Ipsilonne ha le gambe poco diritte, ma ciò non gli impedisce di camminare speditamente, né gli ha mai
impedito di fare il pescatore sino ad oggi.
È di giusta statura,
asciutto di carni e quasi magro. Ha ancora
molti capelli e qualche dente e soprattutto uno stomaco di ferro, che gli permette di digerire ogni cosa
e perfino il caciucco, il formaggio pecorino e i polipi lessi
e messi in insalata.
Sua delizia gastronomica
sono i peperoni, dei quali preferisce
i più forti e quelli che contendono al corallo le tinte più porporine.
Nessun regalo più gradito posso fargli di una dozzina di quei peperoni di Ceilan o di Spagna, che coltivo con tanto
amore nella mia Serenella, per diletto dei miei occhi e per farne dono agli
amici miei, amanti degli aromi piccanti.
Egli chiama nel suo
dialetto pevron quei bei corni di porpora e li accarezza
con le mani callose e li nasconde nella sua vecchia
giacca, col gesto comico dell'avaro, che nasconde il proprio tesoro.
Fino a questi ultimi anni ha fatto il pescatore e il
barcaiuolo, ma ora ha raggiunto il colmo
della felicità, vivendo di rendita.
Una rendita che a un
signore non basterebbe per una settimana,
ma a lui basta per tutto l'anno. Una rendita, che gli è doppiamente
cara, perché è il frutto di una vita intera dedicata al lavoro e alle opere
buone e frutto della riconoscenza che ha seminato vivendo.
Che bella e gioconda cosa
è la spiga, seminata da noi, coltivata
col nostro sudore e che ci rammenta il bene che abbiamo fatto noi, e il
bene che ci vogliono gli altri. Chi non ha mangiato
di questo pane, veramente eucaristico, non ha conosciuto una delle gioie
più alte concesse all'uomo. Pane eucaristico, perché in esso è nascosto un Dio:
il Dio del bene.
La rendita di cui gode
Ipsilonne consta di due cespiti, come direbbe un burocratico della
finanza.
Il primo è una
pensioncina che gli feci aver io dal Depretis e che il Crispi aumentò e rese vitalizia. È il premio che il Governo italiano gli ha concesso, per aver salvato
la vita di Garibaldi con pericolo della sua. E questo è il premio di un
atto eroico, è il premio dato dalla patria a un suo cittadino.
L'altro cespite è il
tributo di un suo figliuolo, che in America
onora il nome italiano con l'onesto commercio. È il ricorso di un santo
affetto, che l'Oceano non ha fatto naufragare, ma ha raddoppiato. Un vecchio padre può ricevere senza rossore da un figlio a cui diede la vita e
che iniziò all'onestà sicura, al
lavoro costante.
Ed ecco come Ipsilonne vive di rendita e non maneggia più le reti e il remo che come dilettante.
Quand'egli il mattino ha
preso il caffè, preparato amorosamente dalle mani di una sua figliuola,
mette in bocca una cicca e va sulla spiaggia
dove tra i battelli in riparazione e le paranze tirate sulla riva, tengon convegno
sulla molle arena i bambini e i vecchi; la poesia e la gloria della
famiglia umana. I primi giuocano, gli altri
fumano o ciccano, e fumando o ciccando,
ruminano deliziosamente le care memorie di una lunga vita.
Ipsilonne è il decano di
tutti quei veterani della vita e l'aver
salvato la vita a Garibaldi mette intorno al suo capo come un'aureola di santo.
Io l'ho veduto tante
volte nelle giornate fresche dell'inverno distendersi voluttuosamente
sulla tiepida arena e beversi tutta quella delizia di sole, con un'intensa
attenzione epicurea; mentre il suo sguardo si
perdeva nell'orizzonte di quel mare
sempre azzurro e di cui egli conosce da quasi novant'anni le bellezze e
le ire, gli scherzi e gli sdegni.
Quanta felicità in quella creatura povera e vecchia!
Spesso lo vedevo con la
sinistra smuovere dall'una all'altra guancia la sua cicca pizzicante e
poi accarezzarsi il mento più volte, come
chi è contento di vivere e trova che la vita è una bella e buona cosa,
quando non vi si mescono i veleni dell'odio e gli assenzi della vanità offesa.
Io ho invidiato spesso le lucertole, quando appianando le
quattro zampine sulla sabbia ardente, nel pieno del sole, la toccano con la
pancia beata, bevendo tutto quel calore e tutta quella luce, con gli occhi socchiusi per la troppa voluttà. Ma la
lucertola umana è ancor più felice, perché uomo e perché pensa e raccoglie nel
molle letargo di una sonnolenza meditabonda tutte le memorie del passato e
tutta la coscienza di un presente felice;
senza rimpianti, senza desideri e senza noia.
Chi non può esporsi al sole senza un ombrellino o senza un'emicrania, insulta suo padre, il padre di tutti,
ed io lo compiango come un povero infermo.
Chi non ha saputo godersi
le delizie inenarrabili di una lucertola,
sdraiata sull'arena calda di una spiaggia, è un mezz'uomo, è un invalido, che io compatisco.
Quando Ipsilonne è stanco
di far la lucertola, parla coi suoi coetanei del passato e del presente,
avendo sempre qualche nuovo aneddoto di pesca
o di marina da narrare. Ha raccontato già cento volte la sua impresa
garibaldina, ma vi è sempre chi l'ha
dimenticata o per cortesia speciale finge di averla scordata.
Dalla conversazione con i vecchi passa a giuocare con i piccini. I vecchi e i bambini in tutti i tempi si
son sempre intesi e hanno sempre goduto della reciproca compagnia. Dandosi la mano, essi chiudono quel circolo in cui
si muove e si agita tutta la grande
famiglia umana. Essi sono il principio e il fine delle cose; e come col riunire
i due opposti elettrodi scocca la scintilla
elettrica, così il vecchio, dando la mano
al bambino, ristabilisce l'equilibrio delle opposte forze, e ciò che fu feconda e ciò che sarà. Il bambino
che bacia il vecchio forma uno dei
quadri più umani, più divinamente umani che ci porge la vita. È tutta la
storia in ciò che ha di più bello e di più caro.
E i bambini di San Terenzo
conoscono il loro vecchio, che li accarezza, che dà loro un frutto o una
tiratina d'orecchi e con cui scherzano e giuocano volentieri.
Le ore dei pasti suonano
sempre un po' tardi per il nostro Ipsilonne, perché ha sempre appetito
ed è sempre sicuro di trovare ottimo il vino e squisita la vivanda.
E giunto alla sera, senza
essersi mai annoiato, giuoca la sua partita a tresette, ridendo, schiamazzando e riscaldandosi come un giovanotto alle vicende della fortuna o
agli errori del compagno.
Egli ha anche un piccolo
mondo soprannaturale, che consiste nella messa, cui ascolta ogni
domenica, e nella comunione che fa ogni
Pasqua. Non ha mai discusso la propria religione,
né l'ha mai lasciata mettere in canzonatura. È questa per lui una bandita, in cui nessuno deve mai
penetrare. Dio per lui è
l'indiscutibile, l'assoluto, è il dogma che non si può mettere in dubbio, perché è quello che è e
perché suo padre, suo nonno, e suo
bisnonno sono stati cristiani e cattolici, come lui.
Anche la morte è un altro dogma, che non si discute; ma egli non la teme. Quando qualcuno gli augura di
toccare il secolo, risponde sempre a una maniera, crollando il capo e
sorridendo:
“Sarà quel che sarà”, dice
egli “tanto pensarci e non pensarci è lo stesso. Quando il frutto sarà maturo,
cadrà da sé e la morte lo raccoglierà.
Per ora sento di esser ancora acerbo. Anche scrollando l'albero, il frutto non
può cadere...”