La gola
Da buon cristiano aborro i peccati mortali e credo di non averne mai commessi in mia vita, così come spero di
non commetterne mai in avvenire; ma
adoro i peccati veniali, che sono come
chi dicesse il sole della vita, e senza i quali i più tra gli uomini rinuncerebbero a far la loro
comparsa sul nostro pianeta.
Prima però di dirvi quali
e quanti sieno questi peccati veniali, intendiamoci bene sui peccati mortali,
onde non avvenga confusione.
I miei peccati mortali non sono quelli della Chiesa apostolica romana, ma di un'altra chiesa più grande e
soprattutto più alta; in cui entrano
cristiani e ebrei, mussulmani e buddisti,
purché prima di entrarvi si sieno levate le scarpe della superstizione e abbiano adottato il dogma del non
far soffrire anima viva.
Dunque i miei peccati mortali sono questi:
1. Far soffrire.
2. Esser superbi.
3. Esser vili.
4. Non amare la patria.
5. Non credere
nell'ideale.
6. Non credere nel progresso.
7. Mentire.
Quanto ai peccati veniali,
non ve li posso dir tutti, perché da soli farebbero un volume e ve li
dirò un'altra volta.
Essi sono i nei, che messi in buon posto e su una bella
faccia, la rendono bellissima. Sono i chiaroscuri del paesaggio, sono l'amaro del caffè e il moscatello dell'uva,
sono il sale della sapienza e la
grazia della bontà; sono sale ed aroma; sono il vino del desinare; sono insomma tutto ciò che v'ha di meglio
nella vita.
So anch'io che senza di
essi l'uomo sarebbe perfetto; ma allora
non sarebbe più un uomo, ma un angelo, e fino ad ora nella vita breve vissuta dall'umanità, siamo
ancora lontani lontani dal metter le ali.
Gli angeli poi hanno un
grave difetto, quello di volar via, quando vogliamo acchiapparli. Ne nasce
qualcuno anche fra gli uomini e
specialmente fra le donne; ma quaggiù sulla terra, quando camminano tra noi, si sporcano i piedi, perché c'è troppo fango, e ne hanno un gran schifo e volan
via: volan lontano, poggiando per poco sulle vette illibate e candide del Monte Bianco o dell'Everest e là li
vediamo librar le ali d'argento per pochi istanti e dopo essersi scosso
il fango terestre dai piedi, se ne vanno
forse in un pianeta migliore dove non
c'è fango.
Per ora almeno, il sole ha
le sue macchie e l'uomo buono e bello ha i suoi peccati veniali, che lo
aiutano a tollerar la vita e talvolta bastano a farla felice.
Fra essi ve ne son due,
prediletti dalla vecchiaia, e sono la
gola e l'avarizia; e noi li studieremo l'uno dopo l'altro, perché il nominarli non basta; perché i peccati
veniali sono come le grandi virtù, ed
hanno forma e indole diversa; tanto che
possono essere antipatici o simpaticissimi, possono far del male e far del bene.
La gola è larga dispensatrice di gioie grandi e piccine al
vecchio; anzi egli gode di questi piaceri più del fanciullo, che è distratto,
più del giovane troppo occupato dei suoi amori, più dell'adulto che deve dedicare il suo tempo a farsi un posto
al sole.
Tutti i sensi impallidiscono
nel vecchio; meno il gusto, che in
lui si affina anzi con l'esperienza e con l'attenzione.
La gola sotto alcuni
rapporti è meglio dell'amore; primissima fra le voluttà, arciprimissima
fra i bisogni umani.
Amore e gola hanno un prima, un
mentre e un poi;
ma quanto diversi questi prima, questi mentre, questi poi!
Nell'amore il prima è spesso un prurito che fa male o
un uragano che schianta gli alberi e rovina
le messi. Il mentre è dolcissimo,
ma ahimè, dura troppo poco. Non dirò con l'epicurea francese, che cela ne dure que le temps d 'avaler un æuf, ma
dobbiamo pur confessare, che il mentre si misura non a giorni, né a ore; ma con l'orologio a minuti
secondi.
Il poi, poi, è ora acido, ora amaro: nei casi più
fortunati è un languore, cioé una
forma di stanchezza. Nei casi più disgraziati,
che pur son frequenti, è un dolore o un pentimento o l'uno e l'altro insieme.
Nella gola invece
delizioso è il prima, più delizioso il mentre, deliziosissimo il poi.
Il vecchio, quando si sveglia al mattino, fra i crepuscoli che gli aprono le porte della giornata, vede
sempre per prima cosa la sua colazione e il suo pranzo.
È d'inverno, e pensa ad una lepre in salmì o ad una beccaccia lardellata di prosciutto, dorata dal grasso
di uno spiedo sapiente e adagiata
sopra una fetta di pane aromatico, croccante, profumatissimo.
È d'estate, e pensa ad una
pesca morbida e vellutata come la rosea guancia d'una bella inglese o come il
roseo e grasso cuscino d'una giovane
olandese. Vede i denti e le labbra, che s'affondano in quella benedizione di
Dio e sente il succo nettareo, che inonda la bocca e sgocciola per ogni
lato.
Ma né una beccaccia, né una lepre, né una pesca bastano al pranzo, e il vecchio epicureo studia gli accordi
e le melodie delle note diverse, che
dovranno formare la musica della colazione e quella del pranzo.
Ieri il desinare fu troppo leggero. Una zuppa, una sogliola
fritta e un beccaccino gli hanno lasciato il corpo troppo leggero e il
ventricolo non sazio. Converrà che oggi il pranzo sia un po' più serio e converrà pensare a un gigot di
montone o a una lingua di Zurigo adagiata in un letto di cavolini di Bruxelles.
Degli ovoli ben pepati alla gratella potranno servire di fritto.
Ma per prepararsi degnamente ad assaporare e a digerire questo pranzo forse un po' pesante, converrà che
la colazione sia più leggera del solito, benché l'appetito sia impertinente e esigente.
E qui una nuova e lunga
meditazione su questa prima parte
della giornata. Una sogliola no, perché l'ho mangiata ieri. Mangerò una piccola frittata al prosciutto e
una costoletta di vitello ai ferri. —
Finalmente colazione e pranzo sono fissati
e il piano di battaglia è ottimo. Unità nella varietà; sapori diversi
che fanno melodia di note deliziose.
Il vecchio goloso si
veste, prende il suo caffè e va egli stesso
al mercato, perché non lascia mai al cuoco l'onore e il compito difficile di scegliere il pesce, il
selvaggiume e la frutta.
Gira e rigira; tutto
guarda e tutto pesa con la bilancia dell'occhio,
del naso e del tasto. Salutato da tutti i rivenditori, che lo conoscono
come un antico e prezioso cliente, non si lascia sedurre mai né dai sorrisi più
amorevoli, né dalle offerte più insinuanti;
ma da solo e senza riguardi giudica e manda.
Ha scoperto un pesce spada, non apprezzato né conosciuto nella città dove vive e che è giunto per caso.
Egli ne conosce tutto il valore e se l'ha comperato.
Ha trovato una pernice
paffutella proprio nel punto giusto di
maturità e l'ha comperata.
Ha scoperto da un ortolano un piccolo cestino di funghi dormienti. Son cresciuti sotto le nevi dell'Appennino e nel freddo silenzio
dell'inverno hanno maturato i più delicati aromi del monte e degli
abeti.
Ah quanta ignoranza nel volgo dei cuochi e delle cuoche!
Il buon vecchio è andato un po' tardi al mercato; eppure gli hanno lasciato intatto quel tesoretto. Li farà
friggere e gli parrà di mangiare la più delicata e squisita cervella.
Dal fruttaiolo ha preso due pesche sole, scelte fra cinquanta. Una pera burrona, delle noci fresche, del
ribes e una banana. Quei frutti
faranno un bel quadretto, colorito e profumato e quei grappolini di
rubino messi fra le pesche, la pera e la banana
sembrerà che ridano, come labbruzze di bambini festanti.
Si può metter tanta poesia
e tanta estetica nei preparativi di
una colazione e di un pranzo, quanto nel comporre una sinfonia, una
romanza o un inno.
E sinfonie e romanze ed inni cantano ad una tavola ben apparecchiata. Cantano le lodi alla natura
proteiforme e creatrice, che con la lenta
pazienza dei forti prepara all'uomo i succhi
profumati, le carni tenerelle e le polpe voluttuose, che attraverso al tempio del palato danno a noi nuovo
sangue, nuovo calore e nuova vita.
La tavola è un'ara, su cui
la natura offre all'uomo il più giocondo,
il più prezioso tributo, e in cui si compie la più sublime
trasformazione delle forze.
Il mentre è più delizioso del prima. Questo è la speranza:
quello è la fede.
Il giovane che col respiro soffocato, col cuore palpitante, con
le mani fredde aspetta la donna che ama, se può parlare dice a se stesso: Venga
quest'ora e poi ch'io muoia! Uno di questi
minuti e poi la morte!
Il vecchio che si siede a
tavola, non ha il respiro affannoso, né il cuore turbato, né le mani
fredde; ma distende il tovagliolo sulle ginocchia con studiata lentezza, e
tirando su dai precordi un profondo sospiro,
si guarda intorno, aspirando tutti
gli odori presenti e futuri, che vengono e verranno dalla cucina.
Quegli odori son buoni,
son gravidi di promesse, e il vecchio si stropiccia le mani davanti alla
zuppa profumata, che deve aprire le porte a
tutte le voluttà gastronomiche, che con ordine sapiente si succederanno
le une alle altre.
Quelle voluttà or
profonde, or delicate, ora intense, ora vaporose si succedono è come onde tranquille di un mare allegro.
Non uragani, né lampi, né fulmini; ma ondulazioni soavi e molli, che scacciano un piacere, per darcene uno maggiore.
Nell'amore il rapimento,
nella gola il possesso. Nell'amore
siam foglie vibranti di voluttà, ma trasportate da una bufera che è più forte
di noi. Gaudenti, inebriati; ma posseduti. Nella gola, padroni noi
stessi del nostro piacere, che governiamo a nostro capriccio, col timone in
mano; sempre padroni del dove, del come, del quando.
Nell'amore, felici, ma
schiavi di una potenza troppo potente;
nella gola, felici e padroni della nostra felicità. Nell'amore, il troppo, che ci rovescia a terra, che
ci capovolge, che fa naufragare il
nostro Io nell'onda tumultuosa e tiranna. Nella gola, il molto, ma un
molto tutto nostro e che possiamo far riposare a nostro capriccio.
Come è deliziosa quella nota eterea di un sorso di dorato Sauterne, che ci lava bocca e lingua dal saporoso
gusto di una rosea trota. Come è
austero quell'amaro di un Bourgogne premier cru, che si marita
col succo nettareo di un petto di beccaccia! E quei tartufi che alternano il
loro profumo, che sembra l'etere della terra,
con le carni soavi di un grasso tacchino; e quel pasticcio di
Strasburgo, che si discioglie nella nostra bocca, come la carezza innamorata di
una donna libertina; e tutta quell'infinità
di sapori odorosi e di saporosi odori, che fanno del nostro palato una
serra calda piena di fiori inebrianti; e
quelle estasi profonde, senza deliri e senza stanchezze, non sono forse
tutto un poema?
Di certo, il vecchio
fortunato che può mangiar bene e senza rimorsi, se pranza solo tiene
aperto il libro immortale del Brillat-Savarin' dove si legge:
Il gusto, così come la natura ce l'ha dato, è ancora
quello dei nostri sensi,
che ben considerato, ci procura più godimenti degli altri:
1. Perché il piacere di
mangiare è il solo, che goduto con moderazione, non sia seguito dalla stanchezza.
2.
Perché è di tutti i tempi, di tutte le età e di tutte le condizioni.
3. Perché si gode necessariamente
almeno una volta al giorno e può ripetersi, senza inconvenienti, due o tre
volte al giorno.
4.
Perché può associarsi a tutti gli altri e può anche consolarci della loro assenza.
5. Perché le impressioni che
ci dà sono in una volta sola più durevoli e più ubbidienti alla nostra volontà.
6. Finalmente, perché
mangiando noi proviamo un certo benessere indefinibile e particolare, che
sgorga dalla coscienza istintiva; perché mangiando noi ripariamo alle nostre
perdite e prolunghiamo la nostra esistenza.
Il nostro vecchio non si vergogna di esser goloso. Quando l'arte asseconda la natura e ci procura piaceri
innocenti, deve anzi renderci fieri di esser uomini, e di avere col nostro
intelletto allargato tutte le frontiere del sensibile e del soprasensibile.
Egli ha letto e riletto
le pagine dedicate dal Brillat-Savarin al
fagiano e vuole regalarle ai lettori italiani (e sono molti) che non le
conoscono e non le hanno degnamente apprezzate e assaporate:
Il
fagiano è un enigma la cui soluzione è stata rivelata soltanto agl'iniziati: essi soli possono assaporarne tutta la
bontà.
Ogni sostanza ha il proprio
apogeo di mangiabilità: alcune vi sono già arrivate
prima del loro intero sviluppo, come i capperi, gli asparagi, le pernici grige, i piccioni al cucchiaio, ecc.; altre
vi arrivano nel momento in cui hanno tutta la perfezione d'esistenza che
è loro destinata, come i poponi, la maggior
parte delle frutta, il montone, il bue, il capriolo, le pernici rosse; altre finalmente quando cominciano
a decomporsi, come le nespole, la beccaccia e soprattutto il fagiano.
Quest'ultimo uccello, se si
mangia nei tre giorni dopo la sua morte, non
ha nulla di speciale. Non è né delicato come una pollastra, né profumato
come una quaglia.
Preso al
momento giusto è una carne tenera, sublime e gustosissima, perché sa di pollastra e di selvaggina insieme.
Il
momento così desiderabile è quello in cui il fagiano comincia a decomporsi: allora il suo aroma
si sviluppa e si unisce a un olio che per venir fuori aveva bisogno di un po' di fermentazione,
come l'olio del caffè, che si ottiene
solo dopo l'abbrustolimento.
Quel
momento si manifesta ai sensi dei profani con un leggero odore e col mutamento di colore del
ventre dell'uccello, ma gl'ispirati lo indovinano per una specie d'istinto che agisce in molte
occasioni, che per esempio suggerisce ad
un abile rosticciere di decidere alla prima occhiata se un uccello dev'esser
tolto dallo spiedo o se invece deve fare qualche altro giro.
Quando il
fagiano è arrivato a quel punto, bisogna spennarlo, non prima, e dev'essere accuratamente
lardellato scegliendo il lardo più fresco
e più sodo.
Non è
inutile l'avvertimento di non spennare il fagiano troppo presto: esperienze molto ben fatte hanno insegnato che i fagiani
conservati con le penne sono assai più
profumati che quelli rimasti a lungo nudi, sia che il contatto all'aria neutralizzi parte dell'aroma, sia
che parte del sugo destinato a nutrire le penne venga riassorbito e
serva a far più sostanziosa la carne.
L'uccello
così preparato dev'essere vestito: e si fa così.
Prendete
due beccacce, disossatele e vuotatele in modo che ne vengano due parti: una di
carne, l'altra d'interiora e fegatini.
Poi
prendete la carne e fatene un ripieno tritandola con midollo di manzo cotto a vapore, un po' di
lardo sminuzzato, pepe, sale, erbe odorose
e tanti tartufi quanti ne occorrono per riempire l'interno dell'animale.
Avrete
cura di fissare questo ripieno in modo che non si spanda al di fuori, cosa un po' difficile se
l'uccello è avanzato. Però ci si arriva con vari mezzi, e tra gli altri, tagliando una crosta di pane
che si attacca con un nastro e che fa da
otturatore.
Preparate una fetta di pane
che superi di due pollici da ogni lato le dimensioni
del fagiano disteso per lungo: poi prendete i fegatini e le interiora delle beccacce e pestatele con due grossi
tartufi, un'acciuga, un po' di lardo
sminuzzato e una quantità bastante di buon burro fresco.
Stendete ugualmente tale
pasta sulla fetta di pane e collocate questa sotto
il fagiano in modo che s'impregni bene di tutto il sugo che ne gocciola
mentre si arrostisce.
Quando
il fagiano è cotto, servitelo con grazia sulla fetta di pane, circondatelo di arance amare e abbiate fiducia
nell'effetto.
Questa
pietanza di nobile sapore dev'essere inaffiata di preferenza col vino dell'alta Borgogna; ho ricavato tale verità da
una serie di osservazioni le quali mi sono costate più fatica che tutta una
tavola di logaritmi.
Un
fagiano così preparato sarebbe degno di comparire sulla tavola degli angeli, se essi camminassero
ancora per il mondo come ai tempi di Lot.
Ma che
dico? L'esperienza è stata già fatta. Un fagiano vestito fu preparato, sotto i miei occhi, dal
bravo cuoco Picard, nel castello della Grange, ove abita la mia bell'amica signora de
Ville-Plaine, e fu portato in tavola dal maggiordomo Louis, che incedeva con passo solenne. Fu esaminato con lo stesso interesse
che se fosse stato un cappello della signora
Herbault, fu assaporato attentamente, e durante questo sapiente lavoro gli occhi
delle signore brillavano come stelle, le loro umide labbra sembravano di
corallo e le fisionomie erano estatiche.
Feci di
più: ne presentai uno simile a una riunione di magistrati della Corte di Cassazione che sanno come
occorra qualche volta deporre la toga
senatoria, e ad essi dimostrai facilmente che la buona tavola è un giusto compenso delle noie giudiziarie. Dopo un
conveniente esame, il decano scandì,
con voce grave, la parola: “Eccellente!”. Tutte le teste si chinarono in
segno di assenso e la sentenza fu approvata all'unanimità.
Durante il processo io avevo
osservato che i nasi di quegl'illustrissimi erano
agitati da movimenti molto visibili di olfatto, che le auguste fronti dimostravano
una tranquilla serenità e che le veridiche bocche avevano un che di giubilante che arieggiava ad un mezzo
sorriso.
Del resto, tali effetti
meravigliosi sono naturali. Cucinato secondo la ricetta che abbiamo esposta, il fagiano, già squisito per conto suo, s'imbeve di fuori del saporito grasso derivato dal
lardo che si carbonizza, s'impregna di dentro dei fluidi odorosi che emanano
dalla beccaccia e dal tartufo. La fetta di pane già così riccamente
guarnita riceve ancora i sughi triplicemente combinati sgorganti dall'uccello
che si arrostisce.
Così di
tutte le buone cose che si sono riunite, neppure la più piccola particella
sfugge all'assaporamento: e data la squisitezza di questo piatto, io lo credo degno delle più nobili mense.
Chi ha scritto queste pagine
condite di così fino epicureismo, per esse sole meriterebbe di passare
all'immortalità; ma la sua squisita ghiottornia non gli impedì di essere uno
degli uomini più rimarchevoli del suo
tempo (1755-1826). Fu deputato agli
Stati Generali; poi all'Assemblea Costituente, Consigliere di Cassazione e quel che più importa magistrato liberale e coraggioso; nemico d'ogni violenza,
venisse poi dall'alto o dal basso.
Queste virtù, rare in ogni tempo, gli valsero l'esiglio. A Nuova York
visse dando lezioni di francese e suonando
nei teatri. Ritornato in patria fu nominato segretario dello Stato Maggiore dell'armata francese in Germania,
poi commissario del governo presso il tribunale di Seine et Oise e dopo il 18 brumaio passò alla Corte di Cassazione,
dove visse gli ultimi venticinque anni della sua vita.
Quanto alla sua virtù di
scrittore basti citare ciò che lui scrisse il più grande forse dei
prosatori francesi, il Balzac:
A
partire dal XVI secolo, se si fa eccezione per La Bruyère e La Rochefoucauld nessun prosatore ha
saputo conferire alla frase francese un rilievo così vigoroso; ma ciò che distingue
soprattutto l'opera di Brillat è il comico al di sotto della bonomia, carattere peculiare della
letteratura francese
della grande epoca che iniziò con la venuta di Caterina de' Medici in Francia e
si chiuse con la sua morte. Così la Fisiologia del
gusto piace alla seconda lettura anche più che alla prima.
Eppure vi sono molti idioti che credono la gola un peccato mortale e degno solo di gente volgare e di tipo molto
basso. Essi forse non hanno mai letto
la sentenza del gran cuoco Brillat-Savarin:
Les animaux se repaissent, l'homme mange, l'homme d'esprit seul sait
manger.
Dove però la gola stravince nelle sue dolcezze l'amore è nel
poi.
Il vecchio che ha pranzato bene, che ha nascosto le fatiche della digestione con una tazza ardente di ottimo
caffè, si siede o meglio si sdraia,
abbandonandosi alle infinite delizie del chilo. Se parla, risponde a
mezz'aria e come in sogno e adagiando tutte le membra nelle profondità
voluttuose di una poltrona o di un'agrippina,
cade in estasi. Estasi di compiacenza:
compiacenza di aver adempito molto bene ad uno dei doveri massimi dell'uomo animale e di aver goduto
uno dei più grandi piaceri dell'uomo
intelligente.
E i piaceri per lui hanno sempre il carattere di un frutto proibito; ciò che li acuisce, li affina e direi li
spiritualizza.
Per mangiar molto, per
mangiar bene com'egli ha fatto, ha dovuto fare i conti con la gotta e
col ventricolo non più vigoroso come a
vent'anni. Egli ha dovuto ricordare i consigli del medico e i precetti dei libri d'igiene studiati da
lui con largo benefizio d'inventario. Nel piacere goduto c'è un po' di birichineria. Egli l'ha fatta in barba all'igiene e
alla Facoltà di medicina, e la facile espansione del suo ventricolo e il
languido tepore che lo innonda per ogni
parte gli danno la beata sicurezza,
che anche questa volta avrà saputo canzonare Esculapio e i suoi
sacerdoti.
Fra un dormiveglia
saporoso e soporoso e un ricordo di altri
pranzi egualmente fortunati, gli passano dinanzi tutti i sapori e gli odori della mensa abbandonata da
poco.
Ah quel Sauterne come gli
ha imbalsamato le labbra, la lingua, il palato! Come ha salutato
festosamente l'ultimo profumo di quella
trota tenerella, là in fondo alla bocca; proprio sulle frontiere del sensibile e dell'incosciente. Pareva del Chateâu-Yquem!
E quell'ala dorata di fagiano, quanti aromi nettarei aveva assorbito! Aveva in sé i profumi del tartufo e
della beccaccia, che gli avevan
tenuto compagnia nel sapientissimo laboratorio di un'aulica cucina!
Quanti ricordi di voluttà
recenti, quanti progetti giocondi di peccati futuri!
Purché non venga la gotta,
purché non faccia un'indigestione...
Ma l'ala del sonno si posa
sulle palpebre del vecchio beato,
confondendogli sapori, odori e paure.
E tutta quella beatitudine
goduta senza tradire l'amico, senza prostituire il corpo alla compera
della voluttà; una festa senza rimorsi, una vittoria senza morti e senza
feriti, che si potrà rinnovare presto, fors'anche
domani...
È in quell'ora di chilo che forse il mio vecchio felice dà ragione al Brillat-Savarin, che faceva di Gasterea
una decima musa, quella che presiede ai piaceri del gusto e ch'egli
descrive sotto la figura di una fanciulla,
dai capelli neri, dagli occhi profondamente
azzurri, dalle forme piene di grazia, con una cintura del color del fuoco. E aggiunge che “elle est belle comme Vénus; mais elle est surtout
souverainement jolie “.