La patologica e la fisiologica
Da Orazio al Raiberti, che lo parafrasò stupendamente in dialetto milanese, satirici e moralisti furon
tutti d'accordo nel flagellare
con lo scudiscio della satira e con lo sdegno della morale oltraggiata l'avarizia. Non vi fu un aggettivo vituperevole
che bastasse a ferirla, né frase sanguinosa per offenderla.
A volta a volta peccato mortale davanti al confessionario e
vizio immondo al tribunale della pubblica opinione; qualcosa di vile, di abietto, di sudicio, di paradossale. E se volete
persuadervi del concetto etico e sociologico, in cui i più tengono
l'avarizia, dovete studiare la mimica del nostro volto, quando accusiamo un
tale di avarizia.
La parola è l'ombra del
pensiero e il gesto mimico, che accompagna una parola, che sia giudizio di
qualcuno o di qualche cosa, la rinforza e gli aggiunge un valore
psicologico massimo. È un terreno sfuggito
finora all'osservatore e che è sfuggito anche a me, che pure ho dedicato
tutto un volume allo studio della fisonomia
e della mimica 1. Propongo questa miniera vergine ai posteri: La
mimica degli aggettivi.
Eccone le prime linee:
Voi dite: Che
libertino è Tizio!
E intanto i vostri occhi
luccicano e le labbra si baciano l'un
l'altro e poi anche la lingua bacia la vostra bocca: tutta una mimica
erotica e libertina.
Caio è troppo superbo!
E il nostro capo si erige
alto sulle spalle e le gote si gonfiano e ne esce il soffio pieno e
rumoroso del millantatore. Sempronio è
un gran furbo!
E voi ghignate con un occhio e stirate all'insù un angolo della
bocca, come se esprimeste la diffidenza e suonaste la campana dell'allarme.
E infine, se voi date
dell'avaro a Martino, strizzate gli occhi, arricciate il naso e
sollevate le labbra, come se sentiste un
puzzo; il che vuol dire, che al cospetto degli uomini l'avarizia è fra
la cose vituperevoli e ributtanti.
Si può dire libertino, superbo, furbo, avaro, in
mille lingue diverse e quindi con mille
diversi suoni; ma il gesto che accompagnerà
questi aggettivi sarà quasi sempre eguale, rappresentando così quel linguaggio universale che è la mimica, la
grande fratellanza umana.
E perché il consenso di
tutti i tempi e la mimica di tutte le faccie
umane è andata d'accordo nel flagellare l'avarizia? Perché fu posta fra i vizi immondi, fra le più
basse passioni?
Perché l'avarizia offende il nostro egoismo, che perdona cento volte più facilmente i peccati d'amore, che
anche a noi possono portare o promettere qualche zuccherino.
Perché il giurì, che è l'inconscia e poco onorevole denudazione della natura umana, condanna il ladro e
anche l'assassino, che ha ucciso
l'amante della moglie.
L'avaro è per noi un ladro, che ruba alla società umana il tributo del denaro, che dovrebbe entrare nel
grand'alveo della circolazione,
fecondando il campo di tutti; e quindi anche
il nostro. Con la solita ipocrisia, però, che fa da vernice a tutti i nostri giudizi, ai nostri usi, alle
nostre istituzioni; vituperando
l'avarizia abbiamo cura di dire, che questo vizio è una mostruosità, perché priva l'uomo di tutti i
comodi e di tutte le gioie che gli vengono dal denaro. L'Io nostro, il piccolo, è molto nascosto o si confonde con l'Io
sociale, l'Io grande, di cui siamo
tutti, consapevoli o inconsci, difensori e avvocati.
Non crediate però ch'io
voglia difendere l'avarizia e da peccato mortale redimerlo e sollevarlo
a virtù.
No, e poi no: voglio
soltanto fare con voi un po' di analisi fisiologica di questa forma
psichica, di cui distinguo subito due forme molto distinte e diverse.
Vi è l'avarizia patologica
e la fisiologica. La prima è un vizio, è una malattia psichica e merita tutte le contumelie dei satirici
e dei moralisti. La seconda è una mezza virtù, è un pèché mignon.
L'avaro patologico è un
uomo che adora l'idolo e non il Dio, e
che è innamorato del denaro, come rappresentante della massima forza e del piacere; lo ama, lo difende; lo palpa, lo accarezza e se ne fa adoratore assiduo e
ardente.
Per lui il denaro non è più lo strumento dello scambio e del commercio, non è più il rappresentante di
tutte le delizie della vita; ma è un Dio esistente di per sé e che è bello, perchè
potente e grande, perché tutto abbraccia e sottomette. E così come il poligamo libertino ad ogni unità
femminea, che aggiunge al proprio
harem, gode una nuova gioia, anche quando
questa è potenziale soltanto e non attuale; così l'avaro accresce le sue
compiacenze, quanto più arrotonda i suoi capitali e ingrandisce le sue casse.
E siccome ogni spesa
assottiglia il suo tesoro, così tormenta
se stesso e la propria fantasia per ridurre al minimo l'uscita; privandosi d'ogni
festa, d'ogni larghezza di lusso, d'ogni tripudio di allegrezza. E
soppresso il superfluo, lima anche il
bilancio del necessario; ogni giorno, ora contrastandogli il terreno e godendo di una sovrumana
voluttà nel sagrifizio che si impone;
in ciò poco diverso dell'amore, dell'amor
materno, di tutte le grandi passioni umane, che nel sagrifizio trovano
la sorgente più feconda di gioie.
Suo idolo, suo Dio il
denaro, e ad esso l'avaro sacrifica ogni
altra gioia, felice di soffrire per l'amor suo, che per lui rappresenta
tutte le energie, tutte le possibilità; la soddisfazione di tutti i desideri.
La formula psichica
dell'avaro è una equazione semplicissima, chiara come 1+1=2.
Tutti i pensieri, tutti gli affetti, tutte le energie
sacrificate a un Dio solo, il denaro. Per lui
vivere, per lui godere, per lui soffrire. E davanti a sé una fame che
non si sazia mai, una sete che non si estingue; l'infinito palpabile; un ideale
insomma, che basta alla felicità umana perché non muore che con l'ultimo
respiro; perché non conosce disinganni, perché non ha bisogno di alcuno.
Immaginate voi la gioia morbosa, intensa di quel marchese che avendo scoperto che nei fornelli della propria
cucina, insieme alla cenere, ardevano molti carboncini che andavan perduti diede l'ordine perché la cenere fosse stacciata, e
i carboncini fossero messi a parte
per servire a cuocere il caffè del mattino?
Immaginate voi
l'allegrezza di quell'altro, che raccogliendo la ceralacca delle lettere
raccomandate, dopo pochi mesi poteva darla al cartolaio per averne un paio di
cannuccie di ceralacca?
Pensate voi alla
compiacenza di quell'illustre fisiologo, che ad un pranzo dato in suo
onore, allo stappare dello champagne, andava sotto la tavola per raccogliere i
tappi, che gli potevan servire per le sue esperienze; risparmiando qualche
soldo per comprarne di nuovi?
E faccio punto, perché se volessi numerare tutte le fantasiose invenzioni degli avari per risparmiare una
lira, un soldo, anche un centesimo, non la finirei più.
Sì, l'avaro giunge ad essere
crudele e puerile per appagare la propria passione. Patisce la fame e
affronta il ridicolo; il colmo della pazzia
e dell'eroismo in omaggio di una passione.
Vincer la fame, il più formidabile e il più animalesco dei nostri
bisogni; affrontare il ridicolo, che piega anche gli atleti della volontà, che
fa paura anche agli eroi!
Vi sono forme così
feroci, così crudeli dell'avarizia, che toccano le frontiere orrende del sadismo, tanto che vorrei farne
una specie, che raccomando agli studiosi della patologia psichica e che chiamerei l'avarizia
sadica.
Fin qui però questa passione (che davvero per la sua forza e per il suo andamento merita questo nome) non
s'aggira che nell'ambito di un
individuo. È un tumore morale, che cresciuto
in un organismo, sacrifica organi e funzioni a se stesso, e di se stesso pascendo, vive e muore nella
frontiera dell'Io. È Origene che si
mutila per non peccare.
Ma l'avaro raramente può
essere uomo sciolto da ogni vincolo di
famiglia, da ogni dovere sociale. Egli può aver una moglie, dei figli,
dei vecchi genitori; e allora al suo altare non bastano più i suoi tributi
personali; ma sacrifica anche i più santi affetti, i doveri più sacri. Non
contento di patire egli stesso, fa patire anche gli altri. Non vi ha voce di
dolore o lamento che lo commuova. Quella
stessa fantasia ingegnosa, che gli aveva fatto trovare i carboncini
nella cenere dei suoi fornelli, gli viene in aiuto per trovare che anche i suoi
figli possono privarsi di ciò che a lui non
è necessario, e di transazione di coscienza in sofismi scivola poco a
poco nella più crudele, nella più feroce
violazione dei doveri di padre, di marito, di fratello, di uomo sociale.
È il ladro, che dalle
volgari arti del furto, passa alle glorie più alte dell'assassinio. È il
passaggio brusco e violento dal carcere
correzionale alla galera e alla forca. È la passione suicida e omicida, che non conosce più frontiere
al possibile, né ardimenti alla
violenza. È il sadismo dell'avarizia spinto al colmo della patologia più
vile e più ributtante.
Ma all'infuori di questa
avarizia, che appartiene alla patologia,
ve n'ha un'altra fisiologica, che è una delle tante armi con cui il
vecchio deve difendersi.
È un'economia un po'
esagerata del denaro e che va insieme
a tutte le altre economie, che egli è costretto a fare. È una riduzione del bilancio passivo, è una forma di
prudenza e di previdenza.
Il giovane può essere
prodigo, l'adulto può esser largo; il vecchio
deve essere economo e dall'economia all'avarizia non v'ha che un passo.
Il giovane può osare, può
rifare la propria fortuna, può godere dell'altalena vertiginosa, che
volta a volta lo innalza nelle beate sfere della ricchezza per piombarlo subito
dopo nella miseria. Il giovane non cammina, ma salta e il bastone è per lui un gingillo di moda, ma non mai una terza
gamba, come è per il vecchio.
Per questo, i salti sono pericolosi e il bastone è un aiuto.
L'economia è per lui la terza gamba.
Ammetto benissimo, che si
può esser vecchi senz'avarizia; ma io parlo della grande maggioranza
degli uomini.
Questi con la lunga vita hanno imparato a diffidare della generosità del prossimo e soprattutto, se hanno
dignità d'uomo, sdegnano d'ispirare la
compassione e di stender la mano; fosse pure alla moglie o ai figliuoli.
Il vecchio sano nel corpo e nel pensiero accetta l'affetto,
la tenerezza, le carezze più delicate e i più delicati accorgimenti del cuore;
ma non vuole ispirar mai la compassione, che lo diminuisce e lo avvilisce.
L'indipendenza economica è la sua dignità
d'uomo, quella che gli fa tener alto il capo, malgrado tutte le
debolezze, che lo insidiano e lo piegano.
E all'economia egli ci
pensa tanto da scavalcare d'un tantino
le frontiere, che lo separano dall'avarizia.
È un'avarizia benigna,
carina, ch'egli esercita non per sé solo, ma per i suoi cari; dacché
egli vuole essere ricordato con riconoscenza,
anche quando egli non sarà più di questo mondo. Più d'una volta il suo gruzzolo di economie sarà disperso da eredi
scialacquatori, ma ciò non gli importa. Scomparso dai vivi non sentirà
né l'ingratitudine, né l'obblio.
Ho conosciuto un vecchio che con il lavoro fortunato era riuscito a farsi milionario e che negli ultimi
anni della sua vita era divenuto
cieco. Orbene, sua massima gioia era quella di rinchiudersi nel suo studio e di
numerare i biglietti di banca, che aveva addensato nello scrigno. Li
conosceva tutti al tasto e li ordinava
secondo il loro valore e li palpava amorosamente; alternando quelle
carezze con altre date ai marenghi e alle
svariate monete d'oro d'ogni conio e d'ogni paese e che faceva risuonare
al suo orecchio gaiamente, lungamente.
Era un uomo d'ingegno, e
quel suo spasso, che bastava a farlo
felice, non era un gioco puerile; ma una tacita e intensa adorazione di uno fra i massimi fattori della
civiltà, del progresso; una delle fonti
più feconde d'ogni opera buona (checché ne dicano i socialisti
calunniatori del capitale).
Egli rideva spesso tra sé
e sé, palpando quei biglietti e facendo saltellare le monete.
E perché rideva?
Rideva pensando a tutte le
trasformazioni, di cui eran capaci
quei fogli e quei dischetti d'oro.
Ecco qui; questo foglio da
mille potrebbe comprare la virtù di
dieci ragazze almeno o corrompere l'onestà di un impiegato, di un
doganiere, di un giudice.
Quanto male potrebbe fare
questo foglio! — Ma viceversa potrebbe salvare dal suicidio un
poveraccio, a cui scade una cambiale;
potrebbe per un anno intiero difender dalla fame una famigliuola; potrebbe permettere a un giovane bravo e povero
di fare gli studi ad una università.
E quest'altra povera
monetina da una lira, nella sua piccolezza
quante cose può fare! Tra le altre, per esempio, sminuzzata in venti soldi procacciare venti sorrisi da
venti conduttori, quando io dessi loro un soldo di mancia. E m'avrei
qualcosa di più d'un sorriso. Anche una
scappellata! — Un sorriso e un saluto
per un soldo! Ma quel soldo è un sigaro non previsto nel bilancio della
giornata, e alla fin dei conti, se la gratitudine è maggiore del dono, ciò non
prova che l'uomo sia una creatura vile, ma prova soltanto che per il povero
conduttore un sigaro può dare un gran piacere.
Se la Venere medicea potesse narrarci tutte le voluttà de' sensi e del pensiero, tutte le opere d'arte che ha
risvegliato nei mille e mille uomini
d'ogni tempo e d'ogni paese, che l'hanno contemplata; e se tutti questi
tesori estetici e voluttuosi potessero
tradursi in una cifra, che ne significasse il valore, si troverebbe di certo,
che quella statua greca vale almeno quanti diamanti pesa.
E con un gran salto,
scendendo al denaro, anche la sua contemplazione
ha risvegliato pensieri e gioie e opere, che figurano nel bilancio del bene nel gran libro dell'umana famiglia.
Nell'avarizia tutti hanno veduto la forma patologica, perché vi hanno scorto la poesia e le idealità, che
possono esserle compagne.
Non è soltanto in amore,
che il prima è spesso la parte migliore; ma in quasi tutti i tesori concessi all'uomo, la potenzialità avanza l'attualità, se mi permettete
(per una volta sola) di prendere in prestito le mie parole alla
metafisica.
Spendere il denaro per soddisfare un desiderio fu, è, e sarà
sempre una delle maggiori compiacenze.
Ma il contemplare il
denaro, pensando a tutti quanti i mille desideri che potrebbe
soddisfare, a tutte le trasformazioni, a tutti i travestimenti di cui è capace
è godere in potenza mille gioie in una volta sola, conservando pur sempre la forza motrice; che anche domani, anche posdomani e
sempre potrà farci nascere i desideri nuovi e aprirci orizzonti nuovissimi in quel cielo lontano, dove regnano i sogni e
le chimere che son pur sempre la parte più bella della nostra vita.
Il fare è bello, ma dopo
aver fatto il più delle volte non ci rimane altra risorsa che disfare.
Invece il sapere di poter
fare è cosa grande e bella e gioconda,
che cresce stima a noi stessi e fede nell'avvenire. E il denaro è l'unica cambiale pagabile a vista in ogni
tempo e in ogni luogo.
Sopra ogni biglietto di
banca, sopra ogni moneta sta scritto in caratteri invisibili ai più la
bella parola posso; ma il vecchio
la vede, la legge e la rilegge con amore, con intima gioia; sicuro che egli potrebbe tradurla da un
momento all'altro nell'altra
bellissima: voglio.
Perdonate dunque al
vecchio la sua avarizia fisiologica, quella
che non fa male ad anima viva e che egli concede tante segrete e
profonde allegrezze.