Appendice
In appendice all'elogio tutto
moderno della vecchiezza, l'editore crede utile il riprodurre un elogio
antico, il famoso De Senectute di Cicerone. Quest'opera fu scritta quarantaquattro anni prima di Cristo, vale a dire diciannove
secoli fa 1.
IL CATONE MAGGIORE - DI MARCO TULLIO
CICERONE - OVVERO DIALOGO INTORNO ALLA VECCHIEZZA
FRA CATONE, SCIPIONE E LELIO - DEDICATO
A TITO POMPONIO ATTICO
Se la fitta in tuo cor doglia
molesta,
O Tito mio, mitigar m'è dato,
Della buon'opra mi darai mercede?
I. — Concedi, Attico, di rivolgermi a te con i medesimi
metri, che Ennio poeta, meno eminente per ricchezze che per animo
sensibile alla schietta amicizia, rivolgeva a
Tito Quinzio Flamminino, comunque io menomamente non ti creda la mente
giorno e notte così agitata, siccome a quel
personaggio. Sono a me troppo noti il senso e la mitezza tua, portando io ferma
opinione che tu prendesti il soprannome da Atene non, che nel puro tuo accento greco, per l'amenità dei costumi
e la giudiziosa fermezza.
Tuttavia suppongo te
dagli stessi casi profondamente commosso, che me pure talvolta tengono
turbato, a confortarci de' quali da noi soli non bastiamo, ed unico sollievo
possiamo aspettarlo dal tempo.
Perciò appunto ho
deliberato d'inviarti i miei pensieri intorno alla vecchiezza. Essa, che ormai ne ha raggiunti e che
non sta in poter nostro di sfuggire2, voglio pormi con ogni
studio a rendere meno tediosa per ambedue,
per quanto mi sia nota la moderazione e saviezza con cui sopporti e sei preparato a sopportare quest'incomodo,
al pari di qualsiasi altro.
E venuto nel proposito di
tener discorso della vecchiezza, di te mi risovvenne a spronarmi in tale
divisamento, siccome cosa che potrebbe ridondare a vantaggio d'ambedue.
Comporre questo trattato
mi riuscì tanto più gradito, non che io m'attenda una panacea universale contro
la molestia della vecchiezza: ma perché sembra a me la via di rendere la
presenza di essa più mite e gioconda.
Laonde non potrà mai
abbastanza meritamente encomiarsi la filosofia di far trascorrere a tutti
coloro che sanno farne buon uso, senza dispiaceri l'intero corso della
vita.
Ma di ciò a lungo già parlammo altrove e spesse fiate ancora
diremo.
Io questo libro intorno alla vecchiaia t'invio: e davvero
non parvemi tornasse conto di porre, siccome
fece Aristone di Chio sulle labbra di Titone,
questo sermone, avvegnachè, pronunciato da favolosi personaggi pochi
trovasse propensi a credergli da senno. Bensì mi sembrò più a proposito di farne interlocutore Catone il seniore
onde alle sentenze s'aggiungesse peso
mercé l'autorità di tanto nome. — Lelio
e Scipione feci ammiratori della amenità con cui Catone trova di
accomodarsi alla vecchiezza, e di sue argute risposte.
Ove ti sembri che egli in
questi dialoghi spenda maggior copia di erudizione, che non sia solito farlo in altri suoi scritti, il merito è
tutto delle lettere greche, da quel
sommo indefessamente coltivate negli anni senili. Ma a che giovano parole?
Lasciamo a Catone medesimo il vanto di porre in maggiore luce le massime
nostre intorno alla vecchiezza.
II. (Lodi a Catone.
Opinioni controverse intorno alla vecchiezza.) — SCIPIONE. Io e Lelio siamo, o Catone,
frequenti volte ammiratori del tuo squisito e profondo sapere in ogni cosa. Ma
tanto più viva è la nostra ammirazione,
perché consapevoli che non t'incomoda il peso della vecchiezza, di cui
non pochi uomini sono infastiditi quasi pesasse sul loro dorso il monte Etna.
CATONE. Lelio e Scipione, voi prendete a fare le meraviglie
per cosa di lieve conto. A coloro che entro
sé medesimi nulla ponno trovare che li soccorra a condurre gioconda la
vita, torna incomoda ogni età; ma gli uomini
che hanno l'animo ricco di energia, non s'infastidiscono facilmente di
ciò che deriva dal necessario ed immutabile ordine della natura.
Pur troppo la vecchiezza è
la prima di queste necessità e nonpertanto gli uomini, a forza d'incessanti desideri, se l'avvicinano più
rapidamente. Ma quando vi sono arrivati se ne lagnano, tanta è in essi
incostanza, leggerezza ed
ingiustizia. “Ci ha colto, dicono costoro, all'impensata, e più pronta che non fosse aspettata.”
Anzitutto, io dimando,
come mai si condussero a fare un calcolo così fallace? Si dica in che modo una età succeda all'altra e la vecchiezza sembri
incalzata più presto dall'adolescenza, che questa non sia raggiunta dall'infanzia? Al postutto sarebbe sedotto da mera
illusione che immaginasse una vecchiezza più piacevole, per ciò solo che la
vita potesse durare ottocento anni
anziché ottanta. Per lunga che sia, in un modo o nell'altro passa l'età, e consumata una volta, allo stolido vecchio non rimane
alcun compenso.
Se mai voi mi tenete in
conto di uomo giudizioso, e Dio volesse che io fossi degno della vostra stima e del nome che porto3,
credete a me che ogni mia scienza è riposta a meditare ed ubbidire,
quasi a Divinità, una eccellente guida, la
natura. Ogni periodo della vita, essendo da essa distribuito con tanto senno, non è a supporsi che, simile a poeta
dappoco, abbia studiato con minor
diligenza l'ultimo atto della vita.
Ma siccome cosa fatta capo
ha, nella stessa guisa che al chiudersi dell'autunno, le spiche e i
baccelli resi maturi dalla stagione cadono al suolo
dagli incurvati rami, giunto l'uomo al tramonto della vita, le sue forze si logorano ed affievoliscono. Ultima
necessità, che il savio accetta senza ribellarsi: poiché invertere le leggi di
natura, non è forse sull'esempio de' Titani, porsi in lotta con Dio?
LELIO. Or dunque, o
Catone, ne farai cosa oltremodo gradita, e te ne sono mallevadore anche per Scipione, se a noi, preparati alla vecchiezza e
nella fiducia di arrivarvi, tu additerai ben tosto il modo di sopportare quella
pesante età.
CATONE. Di buon grado il
farò, Lelio, qualora siccome lo dici, possa ciò essere ad entrambi.
LELIO. Ci proponiamo
seriamente, o Catone, di conoscere da te quel sì lungo cammino che tu già
calcasti, sul quale noi pure dobbiamo passare.
III. — CATONE. Ed
io mi accingo alla meglio che potrò. Fra coloro a me pari d'età (gli eguali con gli eguali, dice un antico proverbio,
conversano facilmente insieme) spesse
volte m'avvenne udire lamentanze, le quali
da Cajo Salinatore e Spurio Albino, personaggi consolari miei coetanei,
erano biasimate; che fossero, cioè, ormai costretti di astenersi dai piaceri, senza
di cui sembrava loro insipida la vita: né essere tenuti in conto presso loro,
da cui per lo passato venivano corteggiati.
Del che, mi sembra, che
nel rovesciarne la colpa sulla vecchiezza, fossero costoro fuori di via. Conciossiaché, se una simile accusa fosse
da lei meritata, io pure del pari
avrei dovuto subirne gli effetti, e con me coloro tutti di età più provetta, non pochi dei quali vidi traversare la
vecchiezza senza lagnarsi, né trovare
molesto il languore degli ardenti desideri, né essi mai venire a noia ai
loro amici.
Ma per chi attentamente
osservi, il peccato non sta nell'età, bensì ne' costumi. L'uomo di modi gentili e cortesi torna piacevole e gradito
anche nella vecchiezza, mentre gli importuni ed esigenti sono molesti in
qualsiasi stadio della vita.
LELIO. Parli
ottimamente, o Catone. Ma per avventura non potrebbe taluno farti osservare che in mezzo alle dovizie, alla copia d'ogni cosa,
allo splendore delle tue cariche, ti avviene di sopportare la vecchiezza
più agevolmente, il che non da molti è possibile conseguire?
CATONE. Queste circostanze hanno il loro valore, ma sole
non bastano sicuramente. E siccome narrasi di Temistocle che disputando
con cotale serifiese, dal quale venivagli apposto non essere la di lui gloria
merito tutto suo, ma di Atene sua patria, replicò “Non io, per Dio, sarei illustre, per ciò solo che nativo di
Serifo; ma tu neppure saresti chiaro giammai quando pure fosti nato cittadino
ateniese” altrettanto può dirsi della vecchiezza.
Poiché nel modo stesso che l'uomo anche filosofo, travagliato dalla
miseria, troverà incomoda l'età senile, del pari l'ignorante, benché circondato
dagli agi a stento saprebbe compiacersene.
Conforti efficacissimi della vecchiaia, o amici, sono le
arti e la pratica delle virtù, le quali coltivando in ogni tempo, anche nella
più tarda età sono feconde di stupendi
vantaggi, sì per non venire meno giammai anche nel più remoto periodo della vita (del che è massima
l'importanza), e perché la coscienza
pura di rimorsi, e la memoria d'avere operato il bene, sono dolcissima
soddisfazione dell'uomo.
IV. (Encomio al
vecchio Quinto Fabio Massimo.)
Io tuttora giovinetto,
tenni caro, come mio coetaneo, quel vecchio Q. Fabio Massimo che
ricuperò Taranto. In quel personaggio la gravità era temperata dalla cortesia dei modi, né per vecchiezza cambiò costume, benché
mi legassi con lui, non ancora toccata l'età senile, comunque fossi abbastanza
maturo.
Io era nato da un anno
quando otteneva egli il primo suo consolato, e seco lui, allora console
per la quarta volta, io giovinetto e semplice milite marciava alla volta di
Capua, e poscia a Taranto. Quattro anni dopo venni Questore, la quale carica fu da me esercitata durante il consolato di Tuditano e Cetego nell'anno 549. A quell'epoca,
Quinto Fabio già vecchio, propugnava la legge Cincia che vietava agli avvocati
di accettar doni e ricompense. Giunto
in avanzata età, con ardore virile condusse la guerra, e seppe stancare la focosa baldanza d'Annibale con le studiate lentezze.
Di lui egregiamente scrisse Ennio nostro:
Solo
coll'indugiar salva fe' Roma:
Spregiò i clamori e vincitore in
campo
Gloria
n'ebbe sicura e assai maggiore!
Quale non fu la destrezza ed alacrità di quel capitano nel
ricuperare Taranto? In mia presenza, a Salinatore, il quale abbandonata la fortezza
s'era ricoverato nella rocca, e seco lui millantavasi dicendo: “per opera mia,
Quinto Fabio, ricuperasti Taranto!” — “Sì, rispose Massimo sorridendo, né l'avrei ripresa giammai, se tu prima non te
l'avesti lasciata toglier di mano”.
Né meno perito dimostrossi nelle civili che non fosse nelle
belliche faccende: fu nel corso del suo secondo consolato, e resistendo alla
neghittosa inerzia del collega Spurio
Carvilio, che egli, come meglio seppe, fece opposizione a Cajo Flaminio
tribuno della plebe, il quale, a scapito dell'autorità
del Senato, favoreggiava la legge di scompartimento per capi al popolo
delle picene e galliche terre: assunto alla dignità di augure, osava dire che i presagi erano propizi a chi
operava a pro della repubblica, avversi sempre per coloro che tentavano
di nuocerle.
Non pochi egregi atti mi
avvenne di ammirare presso quel personaggio; ma nulla pareggia la fermezza d'animo che mise a sopportare la morte
del figlio suo Marco, giovine di chiara rinomanza e già consolare. Leggendo l'orazione funebre ormai nota a tutti, che
egli medesimo ne scrisse, gli stessi filosofi ne sembrano assottigliati
a meschine proporzioni.
Né grande era solamente al
cospetto de' suoi concittadini, ma più commendevole
ancora nelle domestiche pareti. Per eleganza nel dire e sapere, preclaro;
nell'archeologia, eruditissimo; profondo nella scienza degli auguri;
nelle lettere, siccome conviensi a cittadino romano; perfettamente colto; dotato di prestante memoria, nessun
particolare gli riusciva nuovo sì delle guerre intestine, che delle
straniere.
Ed io avidamente godeva
di conversare con lui, quasi presago di quanto avvenne; mancatomi un maestro di tanta capacità, non mi fu più possibile
di rinvenirne l'eguale.
V. (Placida vita
condotta dai vecchi.) — Assai cose
dissi di Massimo e più che basti a convincervi che non avvi motivo di
chiamare disagevole una vecchiezza pari alla sua.
Ma non tutti però ponno
essere Scipioni, o Fabi per godersi nelle rimembranze di espugnate città, di battaglie campali o di mare — e di guerre condotte e riportati trionfi. Tranquilla e
piacevole trascorre del pari la
vecchiezza in seno alle gentili abitudini d'una vita placida e pura. Così narrasi di Platone che giunto all'ottantesimo
anno si spegnesse scrivendo; di Isocrate che grave di novantaquattro,
componeva il suo libro del Panatenaico, vivendo poscia altri cinque anni. Fu
suo maestro Gorgia Leontino che varcò il centosettesimo anno, senza mai
distogliersi dagli intrapresi studi, né
abbandonare le consuete faccende. Richiesto un giorno, come mai sapesse
reggersi in così lunga vita “ perché, rispose, la vecchiezza non mi dà finora
motivo di essere malcontento”. Sublime risposta, degna di così valentuomo,
conciossiaché gli uomini rozzi solamente incolpano
l'età senile di loro melensaggine e de' loro difetti.
Così non la pensò quell'Ennio, a voi già noto:
Pari
a destrier che la sudata arena
Correndo,
vinse i contrastati allori
Ed
or carico d'anni, sta e riposa
paragona la sua vecchiezza
a quella d'antico animoso corsiero vincitore: e di lui certamente voi potete avere qualche memoria. Diecinove anni dopo
sua morte vennero al Consolato Tito Flaminio e Marco Acilio; ed egli, essendo
Consoli, per la seconda volta Cepione e Filippo, trapassò, allora appunto che,
compiuti li sessantacinque anni, io mi feci a propugnare la legge Voconia con validi argomenti e con tutta l'energia de'
miei polmoni. Ennio toccava il settantesimo anno, ed in quell'ultimo
stadio, povertà e vecchiezza, che tutti
credono noje gravissime, sopportò con tanta fermezza che quasi sembrava
compiacersene.
Ad ogni modo, il tutto ben considerato, trovo quattro motivi
per cui sembra infelice questa età.
Il primo, perché distoglie l'uomo dagli affari;
L'altro, perché è accompagnata dalle fisiche infermità;
Il terzo, perché lo priva presso che d'ogni voluttà;
Finalmente, perché
confina da vicino con la morte.
Esaminiamo dunque ad una
ad una queste accuse per giudicarne la verità.
VI. (La vecchiezza non
distoglie l'uomo dai gravi affari.) — Il vecchio è dunque distolto dall'incumbere agli affari? Ma
da quali per Dio? forse da quelli che
hanno bisogno di gioventù e fisico vigore. Ma le forze dei vecchi non
sono mai ridotte a tale nullità, che essi non possano supplire con la mente nel
governo delle cose, quando le infermità del corpo hanno affievolita la loro
energia. Era dunque assolutamente inetto quel Quinto Massimo? Inetto, Lucio Paolo tuo genitore, o Scipione, il quale fu suocero
altresi di mio figliuolo, egregia persona? E gli altri vecchi, Fabrizio, Curio, Coruncanio prestando alla Repubblica
l'appoggio del loro autorevole consiglio, forse che erano buoni da
nulla?
Ed Appio Claudio che non solamente era vecchio, ma cieco,
quando il Senato mostrossi propenso alla pace
ed all'alleanza con Re Pirro, rimase egli
un istante perplesso a biasimarlo con i detti, che Ennio riferisce ne' seguenti
versi:
Senatori,
dov'è l'usato senno?
Giudiziosi
una volta, or deliranti,
e con altre rampogne
dello stesso peso? — A voi quel carme non è cosa nuova. Esiste pure il discorso dello stesso Appio, da lui declamato
diecisette anni dopo il suo secondo
consolato, essendone già passati dieci fra questo e il primo al quale fu eletto dopo essere stato Censore. Tutto
ciò prova quanto ei fosse attempato
all'epoca della guerra con Pirro: e tuttavia, come lo attestano i di lui contemporanei, parlò con meraviglioso vigore.
Nulla dunque provano coloro che affermano essere inetta agli
affari la vecchiezza. Simili in questa loro
opinione a chi giudichi ozioso il pilota, conciossiaché mentre i marinai
salgono sugli alberi, alcuni corrono alle sarte
lungo i bordi, ed altri vuotano lo scafo dell'acqua, solo sta seduto a poppa immobile, stringendo nella mano il timone.
Egli non si affatica come i giovani
certamente, ma presta opera assai più essenziale e migliore.
Alle grandi imprese non
sono qualità necessarie il vigore, la flessibilità delle membra; ma bensì il senno, la dottrina e l'autorità del
comando, doti che la vecchiezza non che scemare, rende complete.
Ed io medesimo che alla volta milite, tribuno, legato,
console, sono versato nelle arti della
guerra, forse vi sembro ozioso perché non mi vedete a capitanare un
esercito? E che perciò, se nel Senato mi faccio a proporre ogni fazione militare, e il modo e il tempo d'operare? Io, con
lo sguardo teso sulle puniche frodi, tengo già ordinato il piano della
guerra, prima che essa venga bandita a
Cartagine; né cesserò mai di dare l'allarme, finché quella città non
veda distrutta. Piaccia agli Dei, o Scipione, che
sia questa la gloria destinata a te avviato sulle orme dell'avo, il quale, passato
da tredici anni, lasciò di sé memoria imperitura.
Noi fummo Consoli assieme, egli però per la seconda volta; e
nove anni dopo se ne morì, prima appunto
dell'anno in cui io stesso venni eletto a Censore. Fosse egli vissuto
cento anni, non avrebbe certamente avuto di che pentirsi per sì lunga
vecchiezza! Aveva abbandonato il salto, la corsa,
il maneggio del giavellotto e della spada, ma era maestro di esperienza e di senno. — E per tali doti che appartengono di consueto agli uomini attempati, fu dai maggiori nostri il Senato
appellato Consiglio della Repubblica.
Del pari presso gli Spartani fra i vecchi vengono eletti i supremi magistrati, e perciò appunto col nome di
seniori chiamati. Basta il leggere e scorrere le straniere storie, per
rinvenirvi ad ogni tratto esempli di grandi repubbliche poste a
soqquadro da giovani, da vecchi puntellate e reintegrate nella pristina
grandezza.
Giace
la patria vostra, un dì possente:
Ditemi
or voi, perché cadde sì tosto?
È questa la dimanda che
Nevio poeta introduce in una delle sue commedie. E fra le altre
osservazioni, sovrasta questa risposta:
Oratori
inesperti, stolti, imberbi
Tenner
lo Stato e vi dettâr le leggi.
La gioventù pecca per eccessiva temerità; la prudenza
appartiene ai vecchi.
VII. (Né memoria né
ingegno fanno difetto ai vecchi.) — Si rampognano i vecchi per fugace memoria. Sia pure, quando
fu tarda per natura, o irrugginì per mancanza di esercizio.
Temistocle chiamava a nome tutti i cittadini: tuttavia ch'il
crederebbe? nell'età avanzata, confondeva i
nomi, e salutando Aristide lo appellava Lisimaco. Io parimenti conobbi
non solamente coloro che al presente sono ancora in vita, ma i padri ed avi
loro. Scorrendo le iscrizioni scolpite sui
loro sepolcri, non lo faccio, come asseriscono taluni, per timore di smarrirne
la ricordanza, bensì perché in cosiffatta guisa rivivo fra i trapassati.
Non mi sovviene di persone attempate che nascosto un tesoro,
dimenticassero mai il luogo dove l'avevano
celato. Rimembrano esse con rara precisione
ogni loro faccenda, non lasciano cadere in contumacia l'assegnamento
delle comparse nel foro, e tengono nella memoria i nomi de' loro debitori e creditori. Gran numero di
giureconsulti, pontefici, auguri, filosofi, arrivati in età
avanzatissima, conservarono intatta la vasta loro erudizione.
Lo studio e l'alacrità
giovano a mantenere vigorosa la mente dei vecchi. E ciò non avviene
solamente per eminenti e chiari personaggi, ma per coloro altresì che vivono
privatamente.
Giunto all'ultimo stadio
senile, Sofocle componeva tragedie, e perché assorto dalla passione dello studio era noncurante degli interessi della
casa, venne dai figli chiamato a
renderne conto ai giudici. E nella stessa guisa che in Roma sono interdetti coloro che malamente amministrano le loro
sostanze, così da quel tribunale veniva Sofocle dichiarato mentecatto e sospeso dal governo della famiglia. Narrasi di
quel vecchio venerabile, che al
cospetto dei giudici prendesse a declamare l'Edipo a Colono, tragedia di fresco composta, in torno a cui
stava tuttora lavorando, e chiedesse loro se
quei versi sembrassero dettati da uno stolido? — E quella recita bastò
perché il Tribunale rievocasse la sentenza.
Or dunque Omero, Esiodo,
Simonide, Stesicoro, e gli altri già da me nominati, Isocrate, Gorgia, Pitagora il principe dei filosofi, Democrito,
Platone, Zenocrate, e poscia Zenone,
Cleante, e colui che voi tutti vedevate in Roma, lo stoico Diogene,
vennero forse costretti per vecchiezza a dimettersi
dagli studi, ovvero li proseguirono essi nel corso dell'intera vita?
Anche lasciata in disparte la divina occupazione delle
lettere, ben io potrei nominarvi non pochi campagnuoli dell'Agro Sabino miei
vicini e famigliari, ai quali punto non
garberebbe che in loro assenza, altri desse mano ad alcun lavoro rurale di qualche importanza, né alla seminagione, né al raccolto, né al togliere le granaglie
dall'aia. E la gelosia di tali faccende
che sono di lunga lena mi desta minor meraviglia, perché non è un uomo per vecchio che sia, il quale non creda di
poter vivere ancora quell'anno.
Tuttavia essi incumbono a non pochi lavori, dei quali ben sanno che non
potranno raccogliere il frutto in vita. “È d'uopo piantare alberi che preparino l'ombra ai nostri nipoti”
dice il nostro Cecilio Stazio nella commedia dei Giovinetti coetanei.
E il tremolante
agricoltore richiesto per chi mai sudi a tracciare solchi novelli vi risponderà senza imbarazzo: gli Dei
immortali ne permisero di ricevere fecondi e ben coltivati i campi dai nostri
maggiori, affinché fossero da noi tramandati nel medesimo stato ai
nostri nipoti.
VIII. (Il conversare
con vecchi riesce piacevole). — Quando
Stazio Cecilio alludeva alla previdenza dei vecchi oltre il confine
dell'età loro, li avea lasciati parlare più
giudiziosamente che dopo non facesse con i seguenti versi:
Per
Giove, se vecchiezza al venir suo
Non
traesse altro sconcio, avvene un solo
E
questo basta. Per sì lunga etade
Vede
assai più, ch'essa veder non brami.
Sia pure, ma scorge altresì non poche delle cose che
desidera.
Né i vecchi solamente, ma
la gioventù stessa di frequente, si avviene in molti oggetti che
scanserebbe volentieri.
Falsissima però oltre ogni dire è quell'altra sentenza di
Cecilio:
Miseri
vecchi! Essi lo sanno a prova,
Di
farsi coll'età noiosi al mondo.
anziché noiosi, dico io, piacevoli.
Nello stesso modo che ai colti vecchi riesce gradito il
conversare con giovani d'ottima indole, per il diletto che
trovano nel rispetto e nella benevolenza della gioventù, del pari i giovinetti
accettano con piacere gli ammaestramenti degli uomini attempati, siccome
indirizzo al retto cammino della virtù. Dal
canto mio credo di non essere meno accetto a voi di quanto voi stessi lo
siete a me.
Ma procacciate di evitare
che la vecchiezza s'intiepidisca nel languore dell'inerzia, tenetela tesa nelle utili occupazioni e sempre attenta
a qualche studio: non però in contraddizione con quelli in cui si
esercitò nei precedenti anni.
Che dire di coloro che non
si stancano dal far dovizia di nuove cognizioni? Non aspirò forse Solone
alla palma della poesia? narra egli non aver mai cessato di apprendere cose
nuove benché assai attempato. Non dissimile
da lui io già vecchio mi diedi allo studio delle greche lettere e con vera passione, onde saziare l'ardente sete di
farmi profondo in quelle dottrine dalle quali ora attingo esempi ad ogni
tratto. Al pari di Socrate datosi con
ostinato proposito allo studio della cetra (posciaché presso gli antichi
frequentissimo era l'esercizio della musica) neppure io dedicandomi allo studio
della letteratura greca, volli essere avaro di fatica.
IX. (Le forze de' vecchi sono di altra specie e si fanno
amare dai giovani mercé i loro ragionamenti.) — Venendo a parlarvi della mancanza di forze, altra delle mende apposte
alla vecchiezza, nella mia gravissima età non m'è venuto mai di
invidiare il vigore de' giovani. Io pure, nel fiore degli anni, pago della mia, non mi sono mai sentito umiliato davanti
alla possanza muscolare del toro e
dell'elefante. Il savio è soddisfatto dei mezzi che ha e li impiega
tutti ad ottenere l'intento.
Come si mostrò dappoco e
spregevole quel Milione di Crotone, il quale
reso cadente per età, allo spettacolo degli atleti nella palestra, mirando
con occhi pieni di lagrime i muscoli del proprio braccio, — e questi,
disse, non valgono più a nulla! — E tu assai meno di essi, vecchio stolido, perché non ti bastò l'animo di crearti un
nome con l'ingegno e quel poco di celebrità te la diedero le spalle e il
nerbo del tuo braccio. Assai diversi di
cotestui furono Sesto Elio, Tito Coruncanio che vissero in epoca anteriore, e Publio Crasso, mercé i quali le
leggi a tutela dei cittadini furono
poste in vigore e che fecero prova di maturo senno fino all'ultima età.
Ma, perché dissimularlo? nella vecchiezza pochi sono
oratori; mentre a quest'arte non soccorre il solo ingegno; essa ha bisogno di
lena e polmoni. Del resto può essere conservata anche nella vecchiezza
l'armonia della voce; in qual modo poi non saprei spiegarlo. Essa a me medesimo
non venne meno finora, benché molti lustri abbia già contati.
Il discorso dei vecchi è rotondo, placido, maestoso. Con
eleganti ed aggraziate frasi, non di rado
fermano essi l'attenzione de' loro uditori. E se le affievolite forze
non permettono loro più di arringare nella Curia, hanno almeno la compiacenza che mercé i consigli dati nelle domestiche pareti a giovani generosi del calibro de' Leli e
de' Scipioni, altri eseguiscano quanto fu da loro proposto. Questi
uomini canuti ponno essi trovar compenso più
dolce della affezionata gioventù che fa loro onorevole corona? Ho motivo
di credere Gneo e Publio Scipinone e i tuoi due avi Lucio Emilio e Publio Africano ebbero vaghezza di vivere nel consorzio di
nobili giovani. Ciò prova non doversi stimare meno felici coloro che sono maestri
di dottrina, per ciò solo che consumarono il vigore con l'età. La fisica
debolezza frequenti volte è colpa dei vizi della gioventù, anziché degli
acciacchi della vecchiezza. Una adolescenza disordinata e lasciva rende il corpo snervato e cadente nell'età
senile. Leggesi in Senofonte d'un discorso tenuto dal Re Ciro a vicino a
morte, nel quale afferma di non essersi avveduto che da vecchio le sue facoltà
mentali fossero divenute più deboli che non le avesse in gioventù.
Nella mia fanciullezza ho
memoria di Lucio Metello (quattro anni dopo
il secondo Consolato venne eletto sommo Pontefice, e non meno di venti anni più tardi copriva ancora quella dignità)
che giunto all'estrema vecchiezza era
robusto al pari di qualsiasi giovane. Nulla vi dirò sul conto mio, malgrado l'antico uso dei vecchi ai
quali si perdona in grazia dell'età.
X. (Personaggi che
condussero robusta vecchiezza.) — Nei poemi di Omero avrete certamente letto di Nestore eterno
panegirista de' propri meriti. Toccando egli pressoche novant'anni, non
ebbe a temere, grazie alla schiettezza con
cui parlò di sé medesimo, di venir giudicato ciarlone esagerato e
millantatore. Narra Omero che la parola scorrevagli sulle labbra più dolce del
miele, né a condirla di tanta soavità avea mestieri di fisica forza. Tuttavia dalle labbra del supremo condottiero de' Greci non
esce mai il voto che dieci Aiaci sieno
da anteporsi a dieci Nestori. Se questi
ei possedesse non dubiterebbe della prossima espugnazione di Troia.
Ma ripiglio il discorso
per dirvi che giunto all'anno ottantesimoquarto, vorrei pure sapermene
dar vanto come faceva Ciro; ma non posso dissimularvi
che le mie forze sono di gran lunga minori che non fossero quando milite feci la guerra cartaginese e nella
medesima campagna ottenni la carica di
Questore; o Console mi trattenni nella Spagna, e quattr'anni dopo, allorché, Tribuno militare, presi
parte al combattimento presso le
Termopili, sotto il Consolato di M. Acilio Glabrio. Malgrado li gravi
sofferti disagi, la vecchiezza, con i lo vedete, non mi snervò completamente, né sono affranto dalle infermità, e il
foro, il tribunale, gli amici, i clienti, gli ospiti non si lagnano
certo che io manchi d'attività.
Non sarò mai per approvare quel vecchio proverbio che dice:
non farti vecchio troppo tardi, se vuoi
campar vecchio lungamente. — Preferirei di passare pochi anni nella vecchiezza, che non avvicinarmela prima del tempo. Ond'è che nessuno venuto da me per affari,
ebbe a cogliermi nell'ozio.
Non crediate però che io mi tenga di robustezza pari alla
vostra, siccome voi pure conoscete
certamente di essere meno vigorosi del Centurione Tito Ponzio. Vanta
egli per ciò solo un merito maggiore del vostro? Ponno bastare anche forze
moderate, e purché ciascuno faccia né più, né meno di quanto è capace, non
potrà mai essere invidioso d'altri. Narrasi che Milone percorresse lo stadio
Olimpico portando un bue sulle spalle.
Sareste voi ambiziosi di questa gloria materiale, anziché di quella che
Pitagora ottenne con il luminoso suo ingegno? Godiamo pure le forze fisiche finché le abbiamo, ma non rimpiangiamole
quando ne abbandonano. Altrimenti avverrebbe che giovani lamentassimo la
puerizia, e fatti adulti faremmo richiamo all'adolescenza già sfuggita.
L'età procede sempre con passo costante, e natura che batte
unica e semplice via, e assegna ciò che spetta ad ogni stagione della vita, comparte all'infante la debilità, ai giovani
l'intrepidezza, la perseveranza all'adulto, lasciando ai vecchi la
prudenza e il consiglio. E tu stesso, o Scipione,
sei in grado di darci contezza del nonagenario Massinissa ospite tuo e dell'avo. Di quell'uomo, che postosi in
viaggio a piedi, non prendeva certo
una cavalcatura; e se a cavallo, non discendeva per lungo che fosse il
cammino, né per gelo o per pioggia coprivasi il capo: di corpo adusto e
muscoloso non mancò neppure ai doveri ed al carattere di Re.
Laonde l'esercizio e la temperanza giovano ai vecchi per
conservare una parte del pristino vigore.
XI. (Il senno
supplisce ne' vecchi la fisica debolezza.) — Nella vecchiezza
vengono meno le forze, né vi sarebbe ragione di pretenderne da essa. Per legge è dispensata da ogni atto, dove
sia mestieri vigoria di corpo; nessun
obbligo ci corre di fare quelle cose a cui siamo inetti, e nemmeno di
adempirle nella misura che le forze nostre ce lo permetterebbero. Poiché tale è l'imbecillità di molti vecchi
da renderli incapaci d'ogni ufficio,
nonché di qualsiasi comune incumbenza sociale. Ciò però non potrebbe assegnarsi a vizio speciale della
vecchiezza, bensì alle infermità inseparabili dalla umana natura.
Poteva essere più sfinito
di forze quel figlio di Publio Scipione Africano, del quale tu sei figlio adottivo? Poteva la di lui salute
essere più vacillante o per meglio
dire soffrire infermità più ostinate? Se le malattie non avessero reso tanto grave la sua debolezza,
Roma avrebbe vantato una gloria di più, poiché al generoso animo del
genitore accoppiava una erudizione di gran lunga più vasta.
Perché dunque far sì gran
caso delle infermità de' vecchi, se i giovani medesimi talvolta non
ponno evitarle?
È mestieri, o Lelio o Scipione, avvezzarsi a far resistenza
alla vecchiezza, e supplire ai di lei
incomodi con l'alacrità: combatterla, come avviene delle malattie, quando ne siamo assaliti. Aver giudiziosa cura della
salute; attendere a moderati esercizi; di cibo e bevanda prenderne quella porzione che basti bensì a rifare le forze,
non mai a intorpidirle.
Il corpo non solo, ma le
morali facoltà educare e soccorrere, poiché a guisa della fiamma che
mancando l'olio si spegne, così queste vengono offuscate dalla vecchiezza.
Diversamente dai corpi snervati dall'eccessivo esercizio e dalla fatica,
l'animo è più svegliato quanto più operoso.
Conciossiaché quando il
poeta Cecilio ci presenta sulla scena i vecchi stolidi, li sottintende creduli, smemorati, dissoluti; cattive qualità
non appartenenti all'indole dell'età attempata, bensì generate dall'inerzia, dall'ozio, dalla svogliatezza, che in certi vecchi
diventò abitudine.
A quel modo che
inverecondia e libidine sono vizi assai più da giovani, che da vecchi, e non per questo può darsena la
taccia ai giovani tutti, sibbene ai
malvagi fra essi; del pari non tutti i vecchi, ma quelli soli di poco cervello si abbandonano alle stolidezze, e
smarriscono il retto criterio.
Appio, vecchio e cieco com'era,
governava quattro figli già adulti, cinque
figlie, un servidorame assai numeroso, ed una estesa clientela. Con mente svegliatissima attendeva a tutti gli
affari, i quali non soffrirono mai perché fosse tanto attempato.
Non pago di essere capo della
famiglia, ei ne esercitava di fatto il potere: temuto dagli schiavi,
rispettato dai liberi. Tutti lo avevano caro, e la di lui casa offriva un modello di costumi, e di ordine veramente romano. Così la vecchiezza sostiene il decoro, e vale
a mantenersi indipendente, se non è costretta a spogliarsi
dell'autorità, e se col senno domina la famiglia
fino all'ultimo limite della vita.
È degno di tutta la mia
stima quel giovine che la pensa da uomo maturo, non meno del vecchio che conserva vivacità ed animo giovanile, in
esso invecchiando bensì il corpo,
l'ingegno reggendosi sempre vigile e pronto.
Dal canto mio, ora sto
componendo il settimo libro di Origene, faccio collezione d'antichi monumenti,
attendo indefessamente a ripulire le orazioni da me pronunciate nelle più
celebri cause, studio sui codici degli Auguri, dei Pontefici, e del diritto
civile; faccio altresì quotidiano esercizio di lettere greche, e giusta l'uso de' pitagorici, onde tenermi pronta
la memoria di quanto dissi, ascoltai e feci nella giornata, tengo nota
nella sera. È questa la maniera di affilare
l'ingegno, questa la ginnastica del pensiero.
Occupato assiduamente, ottengo di sentire ben poco il bisogno delle forze del
corpo. Non lascio negletti gli amici, di frequente intervengo alle
adunanze del Senato; per quelli e per questo presento memorie profondamente
studiate che faccio valere col vigore dell'animo, anziché con le fisiche forze.
Ed ove me ne sentissi incapace, mi riuscirebbe gradito anche lo stesso letto sul quale starei adagiato, elaborando col
pensiero le idee che non bastassi a mandare ad effetto. Ma grazie al mio
sistema di vita, m'è dato di attendervi e trarle a compimento.
In questo modo per coloro
che fra gli studi conducono una vita attiva e indefessa, la vecchiezza
viene quasi inosservata, gli anni si accumulano senza avvedersene, e il filo dell'età non si spezza all'improvviso, ma nell'attrito
d'un giorno con l'altro è consumato.
XII. (La vecchiezza distoglie dai piaceri sensuali.) — Terzo
difetto si appone alla vecchiezza: d'essere abbandonata dal gusto dei sensi.
O età doppiamente privilegiata se mercé di essa siamo tratti
in salvo da ciò che è fonte di tanti vizi per
la gioventù! E qui, ottimi garzoni, imparate quale fosse l'opinione di
Archita di Taranto, filosofo chiarissimo e primo fra i primi di quella città. A
me venne fatto di conoscerla quando tuttora giovinetto ebbi stanza in quella
città con Quinto Massimo.
Diceva quel savio che natura non avea mai percosso gli
uomini con flagello peggiore dei godimenti
sensuali. “Da quella sete insaziabile di voluttà sono eccitati senza
verecondia e senza freno. Per essa tradirsi la patria, rovesciarsi le
repubbliche, aprirsi perfidi colloqui col nemico. Non scelleraggine, non
misfatto dove non tragga irresistibilmente la passione delle voluttà; stupri,
adulteri ed altre nefandità avere primo, prepotente eccitamento dalla libidine. All'uomo compartisse natura, o per avventura
un Dio, dote nobilissima, l'ingegno, e
la concupiscenza bastare da sola a corromperlo ed ottenebrarlo. L'uomo
nel calore della libidine non sente più il
freno, ed ogni virtù abbandona l'animo di coloro che lasciansi dominare da così sozza passione.” Soggiungendo poi,
onde maggiore fosse l'evidenza di questa
verità, doversi immaginare un uomo arso da quell'ardentissima fiamma. “Chi mai crederebbe, sotto la brutale contrazione
di tanto incubo, potesse diverso desiderio o pensiero schiudersi la via nella
sua mente? Avvisava nulla esservi di più vituperoso ed iniquo della voluttà la
quale se per lungo tempo irrita i sensi dell'uomo, irreparabilmente ne spegne ogni lume dell'intelletto.”
Tale ragionamento tenne
Archita con Caio Ponzio Sannito genitore di quello stesso che sbaragliò l'esercito dei Consoli Publio Postumio, e
Tito Vetturio nella battaglia di
Caudio. Nearco di Taranto ospite nostro, e tanto innoltrato nelle grazie del popolo romano, affermò averlo udito da persone
già attempate, e soggiunse essere stato presente a quelle parole l'ateniese Platone, che siccome ho letto, aveva
preso stanza in Taranto sotto il
consolato di Lucio Camillo e di Appio Claudio.
Ma a qual fine vengo io a narrarvi tante cose? È mio intento
di persuadervi che se non bastasse la sola
ragione e la filosofia a rendere odiosi i piaceri sensuali, teniamo
almeno dovere di gratitudine alla vecchiezza, la quale non ne lascia più
desiderare quello che non ne bisogna.
La passione delle voluttà ci toglie il retto criterio,
oscura il pensiero, e non associasi mai con la pratica di qualsiasi virtù.
Io stesso feci cassare dal
Senato, otto anni dopo il suo consolato, Lucio Flamminino fratello di quell'ottimo e valoroso Tito Flamminino, e malgrado il facessi di mala voglia, ne vergai il
decreto, pensando che contro la di
lui sfacciata libidine un esempio fosse necessario. Mentre stava Console in Gallia quell'uomo, fra i vapori
d'un banchetto, ammaliato dai
vezzeggiamenti d'una cortigiana, percosse a morte un prigioniero già
condannato per capitali delitti. Questo misfatto passò inosservato alle investigazioni di suo fratello Tito, assunto a
Censore poco tempo prima che io vi fossi chiamato. Ma da me e da Flacco fu
considerata imperdonabile così scellerata licenza che aggravava il
disonore della pubblica carica con la privata ignominia.
XIII. (Non disdicono ai vecchi gli onesti godimenti della
mensa.) — M'avvenne più volte che i
maggiori miei facessero racconto, siccome di fatto accaduto nella loro età giovanile, che Caio Fabrizio allorquando stava Legato della repubblica presso il Re Pirro,
facesse meraviglie di quanto gli narrò
il tessalo Cinea di certo ateniese, il quale tenevasi in conto di
filosofo4 ed affermava la
voluttà servire d'incitamento a tutte le azioni dell'uomo. Marco Curio e Tito
Coruncanio, all'udire codesta sentenza,
fecero voti che Re Pirro e i Sanniti accettassero per vera quella dottrina
nella certezza di poterli vincere più facilmente resi imbelli per sì brutale
passione.
Contemporaneo di Marco
Curio e cinque anni prima che questi venisse al Consolato, Publio Decio, console
per la quarta volta, faceva sagrificio della propria vita alla Repubblica. Era
questo Curio amicissimo di Fabricio e di Coruncanio; ed essi, così il
costume di sua vita che l'eroico atto di Decio
considerando, avvisavano esservi certamente alcun che di specie più bella e
nobile che per spontanea attrattiva si fa appetire: ciò che ogni uomo dabbene, posta in non cale la voluttà, dovrebbe
fare studio di conseguire.
Ma ormai fu detto più che basti de' piaceri sensuali, il che
torna in lode più che in biasimo della
vecchiezza, se per essa si ammorza la scintilla delle emozioni carnali.
Non ghiotta di squisite
vivande, di sontuose mense imbandite e di tazze ricolme, nemmeno soggiace all'ebbrezza, alle affannose veglie,
agli agitati sogni.
Ma se pure in qualche
modo è forza compatire al fascino delle voluttà, arduo non poco essendo combattere il solletico de' sensi (dal divo
Platone chiamato esca del male, essendone gli uomini accalappiati come i
pesci all'amo), basti che i vecchi
s'astengano dalle disordinate gozzoviglie senza vietar loro i modesti
passatempi, e i temperati banchetti.
Caio Duillio figlio di
Marco, che primo vinse in battaglia navale i Cartaginesi, io, tuttora adolescente, vidi più d'una volta far ritorno da
cena lietamente fra lo splendore di abbaglianti doppieri e i suoni armoniosi; unico fra i privati cittadini che si
regalasse con tanta magnificenza, la gloria delle sue gesta scusando
questa licenza.
E senza parlarvi d'altri,
non poss'io di me stesso intrattenervi che sempre vissi in festose
brigate?
Sotto la mia questura vennero istituiti consorzi d'uomini
per liete adunanze nei giorni sacri ai riti
di Cibele. In mezzo a questi gioviali convegni si banchettava, ma senza
varcare i limiti della temperanza, sebbene non potesse ammutolire lo slancio
vivace naturale alla gioventù.
Con la matura età però
ogni atto si compone a più placidi e pacati modi. Il diletto di questi
banchetti, assai meno stava risposto nei godimenti
della gola, che nella qualità degli amici e del piacevole conversare. Più esattamente dei Greci, gli avi nostri, dal
convivere degli amici a mensa, il nome di convito derivarono. Coloro
invece, appellando sodalizi di bevande e di
cibi questi convegni, mostrarono dare la preminenza alla parte
materiale, che avrebbero dovuto tenere in infimo pregio.
XIV. (Gozzoviglie di
Catone.) — Per diletto di
conversare, amo talora presentarmi ai
conviti prima dell'ora fissata e partirmene dopo; e non siedo soltanto
fra i miei coetanei che ormai sono assai diradati; mi va a genio anche la compagnia dei giovani dell'età
vostra e di voi. E ne tengo debito alla vecchiezza, che di tanto mi
accrebbe il gusto del conversare quanto m'ha
scemato quello della bottiglia e de' manicaretti.
Che se taluni sono ghiotti di questi piaceri sensuali
(affinché io non sembri troppo austero
avversario delle voluttà verso le quali per avventura sta nell'uomo una tendenza naturale) mi asterrò
dall'affermare che per essere ormai vecchi sia loro mancata ogni
sensibilità.
Piace anche a me, credetelo, la presidenza della mensa
introdotta dai nostri maggiori e i brindisi
che il capo della tavola innalza fra le ricolme tazze, purché, siccome
Senofonte ne apprende nel suo Simposio, queste sieno di piccola forma adattata
per deliberare il vino; mi piace la fresca aura nella state, e nel verno godo
al tepore del sole, o di fiamma vivace, li quali
gusti di frequente mi prendo nella mia villa Sabina. Ivi convito ogni giorni
i vicini a cena e vi sediamo fino a notte inoltrata passando il tempo in
giocosi discorsi sopra vari argomenti.
Che lo stimolo sensuale, non si faccia sentire con molta
vivacità nei vecchi, lo credo. Tuttavia
l'astinenza non debbe costare ad essi molta fatica. La privazione d'una cosa non più desiderata, cessa d'essere molesta.
Sofocle richiesto da taluno già in età avanzata perché non
si prendesse i piaceri di Venere “Dio me ne
guardi”, rispose, “di piena volontà li sfuggo, siccome da tiranno
dispotico e sfrenato”. Per verità coloro che sono ghiotti di questi diletti, ne trovano spiacevole e molesta la privazione;
quelli poi che a sazietà ne gustarono,
sono assai più paghi di averli abbandonati,
che di goderne. Siccome la pena dell'astinenza non è sentita da chi non
appetisce, preferisco la mancanza del desiderio al possesso.
I giovani certamente trovano mercato più facile e spontaneo
di certe voluttà; ma anzitutto, diciamolo
pure, sono questi piaceri riprovevoli. — Se poi la vecchiezza non può goder degli altri a profusione, non le
manca mezzo tuttavia di gustarli con
moderazione. L'attore Turpio Ambivio diletta certamente assai più coloro
che siedono ai primi posti, ma ponno averne piacere anche gli spettatori
collocati ai secondi.
Del pari la gioventù assapora i piaceri più spensieratamente
perché vi si abbandona con maggiore intimità,
ma i vecchi hanno mezzo di esserne soddisfatti anche tenendosi a
moderata distanza da essi, perché sentono bisogni
più limitati. Contiamo forse per poco che l'animo nostro, scosso il dominio delle sozze passioni, quali sono la
libidine, l'ambizione, l'invidia,
l'odio, possa vivere in pace, e per così dire, a sé medesimo? Soccorsa dal
pascolo dello studio e della dottrina, la vecchiezza nella placida sua
acquiescenza, può apprestarsi momenti piacevolissimi.
Non vidimo noi Caio Gallo
amicissimo del padre tuo, o Scipione, uscir
vita quasi senza avvedersene, tanto fervore metteva negli studi
dell'astronomia? Oh quante volte fu sorpreso dall'aurora dopo essersi posto
allo studio nella sera precedente! Quante volte, la notte sopraggiunse intanto ad un lavoro da lui incominciato nel
mattino! Come godeva quell'ottimo nel predirci assai prima che non
fossero visibili, gli eclissi del sole e della luna?
Che dirò io degli studi
meno severi dove però è necessario un pronto ingegno? Con quanto diletto Nevio ci declamava le imprese della guerra cartaginese! Quanta compiacenza Plauto sentiva
delle sue commedie il Truculento e il Pseudolo?
Sei anni prima della mia
nascita, Livio Andronico, già fatto vecchio, non scriveva forse una tragedia sotto il consolato di Centone e di Tuditano?
Tuttavia io era già fatto adulto che egli stava ancora in vita. Che dirò di P.
Licinio Crasso autore d'un commento sul diritto civile e pontificio? O degli
scritti di Publio Scipione5, il quale ai nostri giorni noi
tutti abbiamo salutato Pontefice massimo?
Questi personaggi che io passai a rassegna, benché carichi
d'anni, non cessarono mai di proseguire con ardore i loro studi. E quel Marco
Cetego, chiamato da Ennio con tanto criterio
anima della Dea Suadal6, benché giunto in età avanzatissima, non vidimo noi
ostinatamente immerso nelle profonde sue meditazioni intorno al ben
dire?
Che valgono mai, diciamolo schiettamente, i godimenti della
mensa, dei dadi e del bordello a paragone di
quelle morali soddisfazioni? Mercé di
codesti studi, viene creata una dottrina che grado per grado crescente, arriva
a sublime stadio, a misura del senno e dell'ingegno di chi la possiede. Assai giudiziosa massima fu dunque quella
scritta da Solone, in alcuno de' suoi
versi, che cioè, dall'invecchiare, ogni giorno apprendeva qualche cosa,
nel che la voluttà provata dall'animo suo era maggiore di qualsiasi altra.
XV. (L'agricoltura
nobile passatempo de' vecchi.) — Vengo
ora ai piaceri dell'agricoltura, la
passione dei quali è per me indicibile; prestandosi essi così bene anche alla vecchiezza, senza digradare le cure dell'uomo dotto.
Gli agricoltori sono
intenti al lavoro della terra, la quale non è mai ribelle alla mano
dell'uomo, e rende con usura, talora più, talora meno, ma quasi sempre generosamente,
li semi deposti nel suo seno. La terra non mi porge piacere per i soli frutti
che produce, altresì per il vigore e per le proprietà della sua natura.
Nei di lei solchi
squarciati dall'aratro e ricchi di sostanze fermentatrici accoglie lo sparso seme che asconde nel seno
delle infrante glebe (da cui l'arte
poscia inventava l'erpicazione). Il seme dagli ardori solari riscaldato e reso fecondo, s'inturgida, e ne
spunta fuori una verde, sottile erbetta, le tenere fibre della quale traggono nutrimento
dalle di lei radici; a misura che invigorisce s'innalza, e rizzata sul nodoso
stelo, quasi pudibonda, fa velo ai semi nei calici non per anco
dischiusi. Questi apronsi allo spiccare de'
grani, che simmetricamente distribuiti, alla voracità dei piccoli
uccelli trovano scudo nei gusci delle spiche.
E se mi trattenessi a parlarvi intorno alla piantagione, al
nascimento, allo sviluppo della vite, ciò
farei non per altro, che non sono mai pago di far conoscere la pace e i placidi passatempi di questa mia senile età.
Ma troppo lungo sarebbe il discorrere
della forza vitale d'ogni produzione terrestre,
la quale dal granello del fico e dall'acino della vite fino ai minutissimi semi di tutti i vegetabili, infinite
propagini e rami fa nascere. Chi può non ammirare e dilettarsi alla
vista delle piante di radice vigorosa, degli
arboscelli, de' tralci, degli allievi innestati? La vite per indole propria
flessibilissima, che priva di sostegni, giace prostrata al suolo,
meravigliosamente si drizza sui propri capreoli, i quali a guisa di mano afferrano tutto ciò che sta loro vicino. Guidato
dall'arte sua, l'agricoltore le tronca con il ferro i tralci parassiti
che serpeggianti e molteplici spinge per ogni
lato, onde impedire che essa, per lussureggianti rami, inselvatichisca e prodigati facciansi insipidi i di lei
succhi. All'aprire della primavera
spunta la gemma sulle articolazioni dei rami lasciati al tronco, e da essa
nasce l'uva, che alimentata dai calori del sole e dai sali della terra, da principio appare agresta al palato e poscia
maturando acquista dolcezza, e avvolta
ne' rigogliosi pampini se ne fa velo contro i raggi solari, senza
perdere il beneficio della tepida temperatura. Non avvi albero che meglio della
vite produca frutto più saporito, e leggiadro allo sguardo. Io non solo apprezzo altamente l'utilità di essa, ma
eziandio mi diletta la di lei
coltivazione, e i vari sistemi di regolarla, l'ordine delle spalliere, l'intrecciamento
delle propaggini, il modo di moltiplicarle, la separazione dei tralci parassiti, e l'immissione sotterra di
quelli che voglionsi far germogliare.
Dirò io
dell'irrigazione, della canalizzazione degli scoli, e della concimatura dei terreni mirabilmente idonea a fomentare
la fecondità del suolo?
Appunto perciò sembrommi
pregio dell'opera tener separato discorso di essa nel libro che appositamente scrissi intorno alle cose agrarie,
benché Esiodo, per altro sì dotto, il quale trattò della coltura dei campi, non
abbia nemmeno fatto parola degli ingrassi, che sono primo elemento di fertilità. Omero però, che vari secoli visse prima
di Esiodo, molto a proposito descrive Laerte, il quale onde confortarsi
della dolorosa assenza del figlio Ulisse, sta rivolgendo e concimando l'orto.
Attendere all'agricoltura
non diletta solamente mercé la educazione delle messi, delle praterie, delle vigne e degli alberi, ma torna
oltremodo piacevole per tutto ciò che spetta ai frutteti, agli ortaggi,
al pascolo dei greggi, alla cura degli alveari, alla infinita varietà dei
fiori. Al piacere che porgono le piantagioni
si può aggiungere quello dell'innesto, invenzione che onora i progressi
dell'agricoltore.
XVI. (Generali romani
coltivatori della terra.) — Potrei farvi passare a rassegna altri non pochi passatempi campestri,
se non mi avvedessi d'essermi su questo argomento già troppo dilungato.
Voi però mi sarete indulgenti per tale prolissità in grazia del profondo studio
che feci intorno all'agricoltura, e della
naturale tendenza dei vecchi alla loquacità, con che risparmio l'accusa,
che io dissimuli i peccati della vecchiezza onde farvela assaporare siccome
scevra di mende e perfetta.
Gli ultimi anni trascorse
nella vita campestre Marco Curio, il trionfatore de' Sanniti, de' Sabini
e di Pirro, ed io, mentre rivolgo gli sguardi alla
sua villa, la quale è vicina alla mia, non mi stanco mai di ammirare, sì la frugalità di quell'uomo, che l'austerità dei
tempi passati. Sedeva egli modesto davanti al focolare, quando venuti
gli ambasciadori di Sannio ad offrirgli in dono una riguardevole somma in oro,
Curio la respinse dicendo: non tenersi da
lui in pregio il possesso di quelle ricchezze, bensì l'impero sopra coloro che le possedevano. — Un
animo di tal tempra non bastava forse a rendere contenta di per sé la
propria vecchiezza?
Ma ripigliando il discorso delle cose campestri i senatori
d'allora, o per meglio dire i vecchi,
tenevano dimora nel contado. Lucio Quinzio Cincinnato stava conducendo l'aratro, quando un messo venne ad
annunziargli essere egli innalzato alla Dittatura: e fu appunto per suo comando
che Caio Servilio Aala mastro della cavalleria, tolse di vita Spurio
Mevio il quale cospirava a farsi Re. Dalle
loro ville, quel Marco Curio e i Senatori venivano al Senato; e da quel costume
di abitare i campi ne venne poi nome
di Cursori ai messi incaricati di recare ai Senatori la lettera d'invito.
Or dunque di che mai si
potrebbe lamentare l'esistenza di questi vecchi che presero piacere
all'agricoltura? È mia opinione che di più beata non se ne possa immaginare, non solo per il giovamento alla salute dell'uomo, ma per le distrazioni che porge, per
l'abbondanza e dovizia d'ogni cosa atta al vitto nostro, non che ai riti
degli Dei. Verso le quali voluttà da molti
appetite perché non disoneste, io non mi dimostrai troppo severo. Grazie poi alle cure di esperto e diligente
padrone, li granai, la cantina e le
stalle contengono in abbondanza vino, olio, ed ogni derrata; avvi copia
di maiali, capretti, agnelli e pollami.
L'orto dei legumi fornisce di camangiari sussidiari la loro
cucina, e quando la stagione dei raccolti è
chiusa, non mancano l'uccellazione e la caccia.
Accennerò io brevemente li
prati sempre verdi, li simmetrici filari d'alberi, la leggiadra
disposizione dei vigneti, e i fecondi uliveti? Nulla può paragonarsi a campo ben coltivato per la ricchezza dei frutti e per
il lussureggiante aspetto; la vecchiezza medesima anziché
distogliersene, se ne trova eccitata e sedotta.
Dove, meglio che in villa, il cadente vecchio può ristorarsi
al vivido raggio solare, alla allegra fiamma del focolare; o nell'estiva stagione,
al rezzo amico, o nel bagno di acque salubri?
Abbia pur vanto la gioventù nell'armeggiare, nel guidare
destrieri, nel maneggio del giavellotto e della clava, sia pure agilissima alla
corsa ed al nuoto. Fra i vari giuochi resta
sempre a noi vecchi il passatempo dei dati e della trottola. Ambedue questi giuochi sapranno spassarci; ma non sono
necessari alla vecchiezza; non le
mancano passatempi piacevoli anche priva
di essi.
XVII. (Re agricoltori
dell'antico evo.) — Senofonte scrittore di tante ottime cose, delle quali io attenta lettura vi
raccomando, nel suo libro appellato Economico,
intorno al governo domestico,
porta al cielo l'agricoltura: e siccome uomo che alla regale maestà non
reputava indecorosa la pratica di essa, ivi introduce Socrate a narrare
a Critobulo, di Lisandro spartano
personaggio di preclaro ingegno venuto in Sardi, quel messo della lega
greca, per offrire presenti a Ciro il Minore re de' Persiani, rinomato per prestanti virtù e glorioso impero. Questo
monarca che adoperava con l'ambasciadore modi urbani e cortesi nei
pubblici affari, un giorno prese a mostrargli
il proprio giardino chiuso da ben contesta siepe, dove stavano leggiadri
filari di bellissimi alberi. Lodava Lisandro la superba altezza di essi con leggiadria allineati, a spazi equidistanti, il
terreno perfettamente purgato e il soave olezzo de' fiori “non sì forte
meravigliandosi (esclamò) di tanta
precisione, che della solerzia e maestria degli autori ed esecutori di
sì egregio disegno”. — “Io stesso qui tutto disposi, soggiunse Ciro, mio l'ordine, mia la distribuzione, e non pochi di tali
alberi con le mani mie io stesso
piantai.” Allora lo spartano mirando le agili forme del Re, la porpora e la tiara d'oro e di gemme contesta, disse: “A buon dritto, Ciro, godi fama d'uomo felice, poiché
posto in così alto grado basti a raccogliere tanta virtù”.
E diletti di questa specie
sono anche ai vecchi permessi, i quali nell'età
che raggiunsero non vengono assolutamente distolti dall'attendere ad altre occupazioni, e specialmente
all'agricoltura, che non disdice nemmanco
all'età più avanzata.
È noto che Marco Valerio Corvino visse fino a cent'anni,
avendo consumato quasi intero il corso di sua
vita nella coltivazione dei campi. Venne egli per sei volte al
consolato, con intervallo di quarantasei anni fa il primo e l'ultimo. Quel
periodo di nove lustri, a cui i maggiori nostri assegnavano il principio della vecchiezza, fu per esso non interrotto seguito di magistrature; e così l'ultimo stadio di
sua vita passava egli più dolce del medio, possedendo maggior autorità mentre
il suo lavoro era di gran lunga minore.
Altro eminente pregio
della vecchiezza è riposto nella considerazione che la circonda. Quanta mai non fu quella di Lucio Cecilio Metello, e
d'Attilio Celatino, per unico elogio del quale basterebbe l'iscrizione posta al suo nome sopra una tavola di bronzo: “te
saluta primo cittadino di Roma il popolo romano a gran maggioranza di
voti”.
È noto l'epitaffio, che fu
scolpito sulla sua tomba: veniva tenuto in conto d'uomo preclaro e fu vera giustizia resa a lui che aveva
guadagnata unanime in suo favore la fama. Quanta eminenza in quel Publio
Crasso negli ultimi tempi insignito del sommo Sacerdozio; in Marco Lepido a lui
succeduto nella stessa dignità! Che non direi
io di Paulo, dell'Africano e di
Massimo, de' quali altre fiate vi tenni parola! L'autorità di essi non era
riposta unicamente nel merito delle loro dottrine, ma rivelavasi dall'ossequio
con cui ogni loro cenno veniva accolto.
In somma laddove è tenuta
in onore la vecchiezza frutta considerazione di gran lunga maggiore che
tutti assieme non valgano i piaceri della gioventù.
XVIII. (Catone nelle
sue lodi ai vecchi intende di quelli preclari per le loro azioni.) — Ma in ogni discorso da me intorno alla vecchiezza
tenuto, non sia per isfuggirvi di mente che io di quella soltanto
intendo parlare con lode, la quale discende da una gioventù bene allevata.
Ond'è che poi trovai concorde con me la
pubblica opinione, quando reputai meritevole di commiserazione quella
vecchiezza che può sostenersi in credito unicamente
mercé la millanteria delle parole. Non bastano le rughe della fronte, non i bianchi capelli per rendere di
repente vulnerabile un vecchio; soltanto nell'ultimo periodo l'età raccoglie i
tardi frutti d'una vita costantemente onesta.
Aggiungi certi riguardi
che sebbene di lieve conto e volgari, sono accolti siccome testimonianze onorevoli in società: valga il dire essere salutato dai più; desiderato dai conoscenti;
vedersi concessa la destra sulla via
e ceduto il posto nei teatri; l'alzarsi altrui al proprio cospetto; la numerosa
clientela da cui il vecchio è accompagnato al foro, e ricondotto a casa.
Si narra che lo spartano
Lisandro da me dianzi accennato, solesse dire, essere Sparta onorevole
asilo dei vecchi; e in nessun luogo tributarsi maggior ossequio e tenersi in
maggior pregio l'età. A tal proposito, mi sovviene
di talun uomo attempato una volta intervenuto ai giuochi dell'anfiteatro in Atene, senza che alcuno de' suoi
concittadini si movesse a fargli posto. Senonché arrivato ai distinti
sedili riservati agli ambasciatori spartani,
questi rispettosi si alzarono, e lo fecero sedere in mezzo a loro. In quel momento l'intera assemblea, avendo
fatto plauso a tale atto, soggiunse uno di essi “conoscere gli Ateniesi
ciò che fosse generoso a farsi, ma non saperlo fare”.
Vanta il Senato di Roma non poche pregevoli istituzioni, ma
fra le altre merita particolare menzione
quella che il seniore abbia la priorità della parola. Ond'è che gli
stessi Auguri, quando sono vecchi non solo precedono
coloro che tengono il posto d'onore, ma altresì quelli insigniti di
carica eminente. É dunque malinteso il paragone fra i piaceri sensuali e le compiacenze derivanti dalla conseguita
considerazione. — Coloro che seppero
maggiore e splendido profitto ritrarne, sembrammi avere essi recitata abilmente la loro parte nella commedia
dell'età, e non a guisa di attori
inesperti, giunto l'atto ultimo, essersi con mal garbo ritirati dalla scena.
Ma vecchi non mancano queruli, stizzosi, sofistici, e se
osserviamo minutamente, anche avari; il quale vizio più nei costumi, che nella
vecchiezza è riposto.
Le sofisticherie e i difetti testé accennati, se non ponno
appieno giustificarsi, trovano tuttavia
qualche scusa. La vecchiezza di sovente sospetta di essere schernita e teme gl'inganni; poiché all'uomo quanto più
debole è, tornano più sensibili le offese. Nell'esercizio degli onesti costumi, e delle savie dottrine sta l'unica via di
mitigarle, siccome tuttodì nella vita impariamo, o il teatro ce ne porge
lezioni. Tale è la scena dei due fratelli
negli Adelfi di Terenzio, dove tanto sono aspri i modi dell'uno, quanto gentile è il tratto dell'altro. E
così vanno le cose. In quella guisa che
non tutto il vino inacetisce, non sempre l'età sotto il cumulo degli anni, è fatta triste e noiosa. Piacemi
bensì ne' vecchi la severa maestà; ma siccome ogni altra cosa, mi va a genio
moderata e senza spiacevole durezza.
Dell'avarizia poi negli
anni senili, non giunsi mai a indovinare lo scopo. Può essere più stolto
il divisamento di accumulare la copia delle provvigioni per un viaggio dove la
meta è tanto vicina?
XIX. (Noncuranza della morte. — Teorie dei materialisti. Ragionamenti sull'immortalità dell'anima.)
— Resta una quarta causa che più delle
altre questa misera età conturba e tormenta, voglio dire la vicinanza della
morte, che certamente non può tardar
molto a battere alla porta della vecchiezza.
Ben poco sarebbe da
compiangere quel vecchio che passata una lunga vita, non gli bastasse l'animo di disprezzare la morte! Della quale, o
non debbe tener conto, se l'anima interamente si spegne, o desiderarla se per essa,
sciolta dai terreni legami, spazia nell'eternità. Certamente fuori di questo
dilemma, non avvi altra via.
Perché dunque temere, se
morto, o avrò finito d'essere sensibile, o ben anco posso andare alla
volta della felicità?
Infatti non è forse
presuntuoso quell'uomo, per quanto giovine sia, il quale nel mattino vantasi di sapere che sarà
tuttora vivente la sera? Poiché nella giovanile età più frequenti sono
che nella nostra i pericoli della vita. I
giovinetti vengono colti più facilmente dalle malattie; le soffrono più
gravi, e ne risanano con maggior difficoltà. Laonde assai pochi fra essi
arrivano alla vecchiezza. E volesse pure Iddio che molti la toccassero, chè gli
affari della repubblica procederebbero con regola migliore. Il senno, la ragione, la fermezza essendo consueto
retaggio degli uomini attempati, se
questi mancassero, cadrebbe nel disordine ogni buon governo civile.
Ma ritorno all'idea della
morte imminente. — Perché far carico
alla vecchiezza d'un funesto accidente, comune alla stessa adolescenza?
La perdita dall'ottimo figlio mio, quella de'
tuoi fratelli che avevano la prospettiva de' primi onori, è pur troppo
la prova, o Scipione, che la morte non rispetta differenza d'età.
Ma la speranza di lunga
vita che risplende al giovinetto, manca al vecchio. — Speranza malintesa,
dicono taluni. Calcola da sconsigliato chi tiene per vero ciò che è
falso, e per certo ciò che non è. — Certamente, osservo, il vecchio non può sperar nulla; trovasi però a migliori
condizioni del giovinetto perché già
ottenne ciò che l'altro aspetta tuttora. Questi anela di vivere la lunga
età, che dall'altro fu già vissuta.
Del resto puossi ella, Dio buono! chiamar lunga l'umana
vita? Mi si conceda pure la vita più durevole che mai si possa immaginare.
Vivrò gli anni di Argantonio Re di Tartesso
il quale, secondo la storia, regnò ottant'anni
e centoventi ne visse.
Tuttavia non conviene, a
mia opinione, stabilire siccome regola generale ciò che è meramente effetto del caso. Per l'uomo che arrivi a quell'estremo termine, tutto il tempo trascorso, è
zero; non d'altro gli si tien conto fuorché del frutto di sue virtù, e
buone azioni.
Sfuggono le ore, i giorni, i mesi, gli anni, non più ritorna
il tempo passato e l'avvenire è ignoto.
Ciascuno ha dovere di essere pago della durata della propria vita. Nella
stessa guisa che poco importa se l'attore rimane
sulla scena fino al termine della commedia, bastando per fargli plauso
che reciti bene quando si mostra agli spettatori; così pure il saggio non ha bisogno di vivere fino all'ultimo termine
dell'età affinché ottengano
approvazione le proprie azioni. Per breve che sia la vita è sempre lunga
abbastanza per chi sa vivere bene e onestamente. E perché arriva ad un'età avanzata, l'uomo non ha diritto di
lagnarsene più dell'agricoltore, il
quale lamenti perché dopo la florida primavera e la state, succedono l'autunno
e il rigido verno. La prima è immagine della gioventù e i venturi frutti
prepara; nell'altre stagioni poi si colgono e vengono assaporati. Il prezioso
frutto della vecchiezza è dunque riposto, soffrite che io lo ripeta, nella
memoria delle frequenti e nobili imprese operate.
Dovendo, parmi,
accogliersi in buona parte tutto ciò che avviene secondo l'ordine di natura, avvi mai cosa più ad essa consentanea che
gli uomini d'età più remota sieno da morte colpiti, quando i giovani medesimi
soccombono ripugnante per essi la stessa natura?
Laonde il morire dei
giovani rassomiglia a fiamma sommersa all'improvviso
nella piena dell'acque, e invece la vita manca nei vecchi, siccome
fuoco, consumata l'esca, di per sé a poco a poco si estingue.
In quella guisa che è
d'uopo adoperare la forza per divellere dal ramo il frutto ancora acerbo, il
quale se fosse arrivato a maturanza cadrebbe da sé, così nella gioventù
è violento il disgiungersi della vita, e ne' vecchi avviene per maturità.
Del quale pensiero
essendomi fatta piacevole abitudine, quanto più m'innoltro verso il limite della terrena carriera, mi sembra quasi di
ravvisare la spiaggia, ed arrivare in porto tranquillo, dopo lunga e
procellosa navigazione.
XX. (Dispregio della
morte per forza di ragionamento.) — Tutte le età hanno un termine
determinato, ma quello della vecchiezza è incerto. La sopporta
onorevolmente quel vecchio, che senza lasciarsi sgomentare dal pensiero della
prossima fine non dismette le funzioni del proprio stato. Da ciò dipende che la vecchiezza sia anche più intrepida
e ferma della gioventù.
Tale era appunto
l'opinione di Solone, quando richiesto dal tiranno Pisistrato dove mai trovasse la forza di
resistergli con tanta energia, narrasi, gli rispondesse: nella
vecchiezza!
Merita preferenza sopra
ogni altro, il fine della vita, se arrivi in quel punto in cui sono tuttora intatte le facoltà della
mente e del corpo. Allora natura da sé scompone il proprio lavoro, con
facilità pari a quella con cui l'artefice disgiunse
i membri della nave o della macchina già prima costrutta.
Le saldature fatte di
fresco si sconnettono a stento; se logorate dal tempo, a scomporle basta lieve scossa. Laonde a questo fugace avanzo di
vita, né debbono i vecchi afferrarsi troppo tenacemente, né abbandonarlo da
spensierati; e pensò con giudizio Pitagora, facendo divieto all'uomo di
disertare dalla guardia della vita senza comando del generale, cioè di Dio. Mostravasi filosofo, siccome era infatti, Solone
dicendo che alla sua tomba non voleva
mancasse né dolore, né il pianto degli amici. Tante care memorie
studiavasi quel saggio di lasciare di sé!
Non credo che meglio la pensi Ennio con i seguenti versi:
La vana pompa di singulti e
pianto
Risparmiate,
miei cari, al cener mio
considerando essere
superfluo il rimpianto a que' nomi che passano all'immortalità.
Il senso della morte, se
avvenne alcuno, dura un istante tanto più nei vecchi. Morti che siamo una volta, ogni sensibilità è spenta: o se nol fosse, abbiamo di che esserne lieti. I giovani
debbono meditarvi di buon'ora per
avvezzarsi a non darsi pensiero della morte, perché chi non impara ad addomesticarsi con questo pensiero, non
può passare tranquillamente i giorni.
Certa è la morte, incerto
se verrà a sorprenderci anche in questo medesimo giorno. L'uomo che
trema ad ogni istante di vedersene colto, può
egli mai conservare l'animo imperturbato? Né è d'uopo di molte parole a
dimostrarlo.
Basti di rammentare quel
Giunio Bruto che morì sul campo per la libertà della patria; i due Deci che si
scagliavano di carriera contro le spade nemiche; Attilio Regolo che andò
incontro al supplizio, anziché tradire la data fede; i Scipioni, che ambedue
chiusero il varco ai Cartaginesi col proprio
cadavere; l'avo tuo Lucio Paulo, che lavò col sangue la macchia del temerario collega nella vergognosa rotta
di Canne; Marco Marcello, alle cui spoglie mortali lo stesso ferocissimo
nemico non rifiutò gli onori della sepoltura. Che più? Se le stesse nostre
legioni (come dettai nel libro delle Origini) con lieto e intrepido animo coprirono quei posti di combattimento da cui
sapevano perduta ogni speranza di ritorno? E questa morte adunque, la
quale da giovinetti e da uomini ignoranti e rozzi non è temuta, dovrà
sgomentare l'animo del vecchio assennato?
Fu sempre in me ferma
l'opinione, che dalla sazietà d'ogni cosa si arrivi alla sazietà della vita. Vediamo i fanciulli: amano certi
semplici giuochi; se ne curano essi
quando fatti giovinetti? E i passatempi di costoro non vengono forse a noia nell'età virile? Alla sua volta questa
si compiace di tali esercizi da cui
distogliesi al vecchiezza. Né a questa estrema
età mancano pure godimenti che le si attagliano. Ma nello stesso modo
con qui vengono meno le sensazioni gustate nei precedenti stadi, spengonsi quelle della vecchiezza. Scema il
diletto con l'uso: e la sazietà della vita ferma il punto immutabile
della morte.
XXI. (Opinione di
alcuni sommi pagani sull'immortalità dell'anima.) — Non troverei fuori di
luogo che da voi venissi dimandato cosa ne pensi della morte, io, la quale avendo così vicina, dovrei guardarla in viso meglio
di chicchessia.
E sono per credere, Lelio
e Scipione miei, che gli illustri vostri genitori vivono; ma un'altra vita,
quella sola che vera si può appellare.
Finché restiamo vincolati
da questi corporei legami, siamo schiavi delle passioni e cieco
strumento della necessità.
È l'anima d'origine
celeste, scesa dalle superne sfere ad abitare la materia, asilo poco degno dell'indole sua eterna e sublime. Senza dubbio
quell'incommensurabile soffio dagli Dei immortali veniva inspirato negli umani petti a guardia del mondo, affinché l'uomo,
l'ordine dei celesti corpi
contemplando, lo imitasse con pari costanza ed armonia nella vita. Né questa
opinione s'ingenerò in me mercé la sola forza della discussione e la guida della ragione, ma altresì dietro
l'autorità e la mente superiore di filosofi eminenti.
É fama che Pitagora e i
suoi proseliti di recente stabiliti in Italia (dal che a quella scuola
ne venne il nome di italiana) non dubitassero menomamente che l'anima fosse un'emanazione della Divinità. Ed all'appoggio di tale loro dottrina adducevano i
ragionamenti che sull'immortalità dell'anima,
aveva tenuto Socrate nell'ultime ore della vita, quel Socrate che
dall'Oracolo delfico era stato giudicato sapientissimo.
Ma che vale il dire? Sono convinto e in me medesimo sento
che un ente dove si raccoglie tanta
prontezza di concetto, tanta reminescenza del passato, tanto discernimento del futuro, tante arti, tanta scienza, tanti
ritrovamenti, un ente ricco di sì
grandi prerogative, non può essere cosa mortale.
L'anima agitandosi incessantemente, senza che il moto abbia
principio poiché questo moto è inerente all'anima stessa, per identica ragione neppure debbe aver fine, perché non è possibile
che l'anima si spogli della propria
natura. Ed essendo questa semplice né commista d'alcun ché eterogeneo e dissimile, perciò appunto l'anima
è indivisibile. Se dunque non può
essere divisa, neppure può cessare di essere ciò che è e morire.
L'argomento capitale che
nell'uomo la scienza preceda la nascita, fondato sulla maravigliosa
facilità con cui i fanciulli imparano le cose più ardue e concepiscono rapidamente svariatissime nozioni, conduce a supporre
che non sieno nuove le impressioni che ricevono, ma semplicemente in loro si venga rinfrescando e riordinando la
memoria di esse. — Tali sono li argomenti di Platone.
XXII. (Argomenti degli
antichi intorno all'immortalità dell'anima.) — Senofonte così introduce a
parlare Ciro il maggiore negli ultimi momenti del viver suo:
“Non vogliate pensare, o figli miei dilettissimi, che nel
lasciare questo mondo, io cessi di essere in mezzo a voi e rientri nel nulla.
Anche nel corso della mia vita non fu mai da
voi veduta l'anima mia, tuttoché quanto
fu da me operato fosse per voi argomento di credere che essa abitasse questo
corpo. Persuadetevi della di lei esistenza anche se vi è invisibile.
“Per verità sarebbero
inutili gli onori resi alle mute ceneri dei trapassati, se alla nostra
pietà non venissero chiesti dal voto delle anime di essi, cui torna dolce di
vedere conservata la propria memoria.
“Non crederò mai che
l'esistenza dell'anima sia vincolata al corpo, e che spengasi
nell'uscirne, e molto meno che inerte rimanga nel disgiungersi dall'inerte
materia. Bensì che sciolta una volta dalla sostanza corporea, l'anima ritorni alla limpidezza e semplicità
primitiva. In allora soltanto
scintillerà il lampo della suprema intelligenza.
“E siccome in morte la natura dell'uomo cade in
dissoluzione, ed ogni di lei elemento vediamo
ritornare alla sua origine, ed ogni cosa ridursi ai principi da cui derivò: l'anima sola sì nell'atto
di vestire che d'abbandonare la fragile spoglia terrena, sfugge ai
nostri sensi.
“Osservate la morte; nulla
più del sonno le rassomiglia. E tuttavia dormendo l'anima palesa la propria divina essenza, a tale punto che
nella libertà dei sogni talora udiamo predire l'avvenire. Da ciò è
permesso di immaginare cosa sia per divenire
una essenza così sottile disciolta da ogni
terreno legame. Se dunque l'anima è aspettata da tanto destino, venerate la mia quale partecipe della divinità. Se
poi perisse con il corpo, voi però devoti agli Dei, che presiedono a così
mirabile prodigio, non cessate di serbarmi pia ed onorata memoria.”
XXIII. (Profondo
convincimento di Catone nell'aspettare una vita migliore.) — Così parlava Ciro vicino
a morte. Ma ritornando al nostro discorso,
nessuno potrà farmi persuaso, o Scipione, che il padre tuo Paulo, e i tuoi due avi Paulo ed Africano, o il
padre dell'Africano o suo zio, non che
altri molti personaggi chiarissimi, sieno venuti a capo di tante imprese
meritevoli della memoria dei secoli venturi, se non stimolati dalla fiducia di
appartenere per mezzo dell'anima alla posterità.
O pensi tu forse (per
dire qualche cosa in mia lode, all'uso de' vecchi) che mi sarei addossate tante fatiche e di notte e
di giorno, e in città ed al campo, se avessi creduto che la gloria mia
dovesse passare assieme alla vita?
Non era egli assai miglior partito, senza disagi e opposizione,
questa brevissima età trascorrere nella tranquilla pace d'un ozio beato?
Ma, ignoro in qual modo,
l'anima sublimandosi, miri sempre alla posterità:
quasi che discostandosi dalla terrena vita fosse per arrivare all'immortalità, la quale se non fosse essenza
dell'anima, non sarebbero massimamente
gli sforzi dell'uomo al conseguimento d'immortale gloria rivolti.
E perché credete voi che
i sapienti incontrino la morte con pacata anima, mentre viene ricevuta con ribrezzo dagli idioti? Perché i primi vedendo
di più e di lontano, sentono di approssimarsi ad un più lieto soggiorno, e gli
altri all'incontro, ottusi come sono, nulla sanno prevedere.
E per verità me accende vivissimo desiderio di trovarmi in
compagnia dei vostri maggiori, in vita tanto
da me rispettati ed amati; e non solo con i miei coetanei, ma altresì con quei savi, delle cui azioni io medesimo
ho udito, e dissi e scrissi ne' miei diari. Lieto dunque vado inoltrandomi alla
volta dell'altra vita, né soffrirei
certamente per parte di chicchessia un tentativo di ritardarmene il
passaggio, siccome avveniva di Pelia.
Sono preparato a ricusare
la mano d'un Dio ove fosse meco tanto liberale
di farmi retrocedere all'infanzia: perché non ama ritornare alle riprese
chi, già percorso lo stadio, ha quasi toccato il pallio.
Parliamo schiettamente:
l'uomo nella sua vita non ha piaceri disgiunti da incomodi; e seppure ne
ha, o presto se ne sazia, o presto ne trova il fine. Io però di essa non mi
lagno siccome ciò fanno molti ed anche dotti; e non voglio pentirmi d'avere
vissuto, poiché vissi in sì fatta guisa da non credermi inutilmente nato: e parto da queste mortali spoglie come da asilo
ospitale, prestatomi dalla natura nel mio pellegrinaggio, e non per stabile
soggiorno.
Oh felicissimo giorno quando entrerò in quel consesso di
spiriti divini e partirò da questa umana moltitudine e da questo mondo
corrotto! Non solamente mi recherò incontro a quei sommi che dianzi vi
accennai, ma al mio figliuolo Catone,
incomparabile per ingegno e per affetto. Io stesso ne raccolsi le preziose ceneri quando a lui incumbeva di prestarmi
quest'estremo uffizio! Ma quell'animo gentile di certo non si allontanò da me, né ha cessato d'amarmi, e salì in quella
dimora dove aspetta la mia venuta. E
se è sembrato a voi che venisse da me sopportata con fermezza la mia
sciagura, fu perché trassi conforto dal pensiero di doverlo raggiungere in
breve.
Per queste ragioni tutte che meco, o Lelio, o Scipione,
avete passato a rassegna, non è grave la vecchiezza, bensì lieve e gioconda.
Se per credere che l'anima
degli uomini sia immortale, io m'inganno, ciò faccio di piena mia volontà, né
finché vivo mi distoglierò da un'illusione che tanto mi piace. Se poi con la
morte, giusta l'opinione di superficiali filosofi, si spegnerà ogni mio
senso, allora non mi avverrà certamente di
udire le loro derisioni, e quando pure giudicassero rettamente coloro che non prestano fede all'immortalità
dell'anima, non avvi di che rammaricarsi
che l'uomo finisca a tempo opportuno. Come avviene d'ogni terrena cosa, l'umana vita trova il suo
compimento, che appunto nella vecchiezza è riposto. Quest'ultimo atto (così
avviene anche nella commedia) non debbe recitarsi con stanchezza, e meno
ancora lasciarne scorgere la sazietà.
Io queste cose vi dissi sulla vecchiezza, la quale voi pure
per la Dio grazia raggiungerete, affinché, dalla stessa vostra esperienza
ammaestrati, questi miei precetti possiate utilmente praticare.