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Girolamo Brusoni La gondola a tre remi IntraText CT - Lettura del testo |
SCORSA SECONDA
Avevano intanto Panfilo e Glisomiro determinato di partire da quella casa prima del giorno; perché aggravata la contumacia di Panfilo e di Vittorio da quel notturno disordine, consigliava Glisomiro che si dovesse con la presta partenza assicurar da una seconda querela. Dormito adunque appena un’ora s’alzarono di letto, e sentito che andasse cessando il diluvio della pioggia, si diedero ad intimar la marchia a tutta la compagnia. Onde Vittorio, che non aveva mai chiuso occhio, lasciato Rambaldo confuso nell’aspettazione di quello che dovessero risolvere di sua persona e di Paolina, Panfilo e Glisomiro; trapassò nella camera de’ medesimi cavalieri a participar loro la notizia di questi accidenti. Rimase Panfilo oltremodo sorpreso di questa novità; pur si rimise in tutto alla disposizion di Vittorio. Ma Glisomiro ascoltato attentamente il cavaliere, e stato qualche poco sovrapensiero turbatamente disse:
«Io non desidero male a Paolina e a Rambaldo; e benché tenga occasione di trattarli da nemici; pure non sarà mai vero, che voglia insultare all’altrui infelicità. Prendano pure altri partiti a proprio scampo, che d’addossarmi le loro follie, che per me farò conto di non aver saputo cosa alcuna di loro». Rimase grave a questa rimostranza Vittorio, ma poi conoscendo il genio di Glisomiro egualmente facile a sdegnarsi e a placarsi; prese soavemente a dire:
«Io non so che offese vi abbiate ricevute né da Paolina, né da Rambaldo, ma se Rambaldo mette di sua elezione nelle vostre mani se stesso e quella dama, ben puossi credere che egli vi tenga in concetto di buon amico».
«Non trattò già cosí l’anno passato (disse Glisomiro) che mise sossopra il mondo per levarmi dal mondo (già che non gli bastò mai l’animo di dirmi una parola in faccia) da traditore».
Vittorio allora abbracciato e baciato il cavaliere, disse:
«Caro amico, rientra in te stesso, e considera che non aveva forse ogni torto Rambaldo in tenerti da nemico mentre si trattava dell’onore della sua casa. Che non è cosí sciocco il mondo, che voglia credere, che una giovane dama non solamente parli di giorno e di notte a un giovine cavaliere, e l’introduca di furto nella propria casa, ma se ne parta per vivere a sua discrezione per foglie di cedro».
«E pure è vero, disse Glisomiro, che il mio amore passava ne’ termini dell’onestà, della gratitudine e dell’onore, e solamente le sue minaccie d’uccider Minetta, e le insidie tese alla mia vita, mi misero in testa la voglia di trattarlo come meritava».
«Sí che è pur vero, disse Panfilo, che Minetta nella tua dimestichezza
trattasse altre arme, che saette, e frombe?».
«Non dico questo, rispose Glisomiro, e so quale sia il debito mio verso le dame d’onore. Ma queste sono parole, e ci convien partire. E perché non voglio meco Rambaldo, e meno Paolina, quanto posso fare per vostro amore si è di farlo accompagnare (già che le sue ferite son piú di spavento, che di danno) da Guglielmo fino a gli stati dell’Imperio; e di rimettere Paolina donde è fuggita, senza che se ne sappia cosa alcuna. Io tengo tanta confidenza nella bontà di Laurina, che saprà tacere di somigliante trascorso, e so che la sorella di Filiberto, è dama cosí savia, che seppellirà nell’oblio questa novella».
Vi fu però che fare e che dire a rimetter Paolina nel termine che si voleva, non tanto per timore di qualche castigo, quanto che riconosciuto Glisomiro in quella tresca, e ripreso come femmina volubile e capricciosa l’affetto dell’antica amicizia passata fra di loro nel primo fiore degli anni, voleva in ogni maniera starsi con esso. Ma il cavaliere, che sdegnato, già tanti anni, della sua volubilità l’aveva scacciata dal proprio cuore, e teneva piú soavi e sicuri impacci d’amore fra’ piedi, indurato l’animo, e chiuse le orecchie alle sue rimostranze e preghiere, tolta seco la donna, Ariperto e Astolfo; e detto alla sua compagnia d’aspettarlo a Torcello, tornossi addietro; e con felicità eguale alla sua accortezza, mandato Astolfo ad avvisarne Laurina, seppe condurre con tanta destrezza questa pratica, che senza che nessuno di casa se ne avvedesse, fu posta in salvo Paolina. Che poscia riconciliata al proprio marito, dal quale s’era per qualche disgusto allontanata, si rimise in altro stato e in altri pensieri conservando una vera obligazione a Glisomiro. Il quale intanto rimisurata prestamente la Laguna tornossi sul far della sera a Torcello, dove turbati della sua dimora si stavano i suoi compagni rinchiusi in una rustica abitazione di certi ortolani ad aspettarlo. Non era però stata inutile affatto per essi questa dimora; perché avevano intanto Panfilo, Vittorio e Rambaldo rispedito Guglielmo con un lavoratore di quegli orti a Mazorbo, dove fatta occultamente inchiesta de’ servidori di Rambaldo e di Cate, avevano trovato, che i servidori si fossero felicemente ricondotti la medesima notte a Venezia, lasciando la vecchia maltrattata, e peggio, che faceva servigi a quei Monasteri. Aveva tentato Guglielmo di ricondurla seco, ma la vecchia risoluta di tornare a Venezia in casa di Betta per esser vicina a quella di Glisomiro, dove sapeva che sarebbe tornato in breve il suo diletto Astolfo, né per poco, né per assai volle piegarsi alle sue voglie. Non piacque a Glisomiro questa novità, sicuro che se la vecchia fosse tornata a Venezia senza di loro, sarebbe stata in due giorni piena quella città de’ successi di Paolina con Rambaldo, e d’ambedue con la sua compagnia. Rimontato adunque subitamente in barca, volle ricondursi col medesimo Guglielmo, Vittorio, Ariperto e Astolfo in quella terra per levamela in ogni modo. Ma pervenuto in questa andata di rimpetto a Burano, e ricordatosi della morte succeduta in quella terra pochi anni sono, dell’immortale poeta Pietro Michiele suo cordialissimo amico; sospirò dal profondo del cuore, e lungamente discorso con Vittorio delle sue egregie e nobilissime qualità, mise in tanta curiosità, e riverenza della sua persona Ariperto ancora, e Guglielmo, che lo sforzarono a recitare una canzone funebre destinata al Tempio della sua gloria con altri componimenti d’eccellentissimi ingegni. Disse.
Nella morte immatura
DI PIETRO MICHIELE
Poeta di nascita e di fama
Illustrissimo.
mesti cristalli e sconsolate rive
vi copra oscuro gel, lugubre orrore.
Cigno dal Mauro all’Indo
piú chiaro della luce, or vien, che prive
della luce vital mortal pallore.
Spezzi il bell’arco Amore,
piangan le Muse a sí funesto crollo,
che s’è morto il Michiele è morto Apollo.
Sfortunate pendici,
chi sia che piú vi calchi, o chi piú beva
del Castalio ruscel l’umor facondo?
Voi siete Erinni ultrici
cagion, che l’Adria perda, e’l del riceva
chi fu mentre cantò, gloria del Mondo.
Versi Nettun dal fondo
pianti e sospir, pianti e sospir confonda
Adria col pianto, e’l sospirar dell’onda.
E tu grand’alma ancora,
(se può affetto terren salir le sfere
e’l mio strano martir ti preme, e duole)
or che in grembo all’Aurora
canti del puro ciel le forme altere,
ed hai plettro di stelle, arpa di sole:
da quella eccelsa mole
raggio di novo amar m’invia? che poi
ridirò le mie pene, e i gaudj tuoi.
La dolorosa Clio,
quella, che dal sepolcro Eroi già spenti
trae col suo plettro or mi ricusa il canto.
Vorrei, ma non poss’io
con stil lugubre in lacrimosi accenti
celebrar, alma degna, il tuo gran vanto.
Ne’ diluvj del pianto
si sommerge la voce, e’l duolo intenso
fa contumace alla ragione il senso.
Altri col canto illustre
Dirce, altri il Sebeto, e’l Mincio, e l’Ebro,
immortalasti tu l’Adriaca Dori.
Eco fatta palustre
cangiò Cirra nell’onde, e’l mar fatt’ebro
di gioia, risonò d’armi e d’amori.
Per Te di mirti, e allori
fiorir gl’incolti lidi, e si compiacque
Febo di traspiantar Pindo nell’acque.
Or chi dotto scalpello
manda a spogliar di preziosi sassi
Luni vicina, e l’ultima Siene;
e prodigio novello
a cui rivolga il peregrino i passi
tomba t’innalza in su le patrie arene?
No, no; drizza Ippocrene
alla gloria immortal de’ sacri ingegni
piú stabili memorie, archi piú degni.
Se già musico fabbro
al tocco sol d’armoniosa cetra
erse mural corona a Tebe intorno,
meglio innalzar può un labbro
alle reliquie altrui, non già di pietra,
ma di bei carmi un obelisco adorno.
Quí perpetuo soggiorno
non fan ceneri fredde ed ossa ignude
ma viva gloria, ed immortal virtude.
Se chiuse in aureo vaso
altri l’aride polvi, e a Re fedele
drizzò trofei d’ambiziosi marmi;
sian Caria di Parnaso
le spiaggie meste, Mausolo il Michiele;
Artemisia le Muse, e sassi i carmi,
Cosí da musiche armi
trafitto gema a suo dispregio il fato
e l’estinto cantar viva rinato.
Ma dove il duol mi trasse?
come vive il Michiel là sovra il Polo,
quí sempre sia di lui memoria acerba.
Sovra poetic’asse
ei volò in Ciel con sí sublime volo,
che noi puote arrestar Cloto superba.
Già gode il Mondo, e serba
di suo nome immortal nelle sue carte
né per viver a lui sia d’uopo altr’arte.
Il cantar lacerato
se già nel docil’Ebro onda maestra
prestò liquido plettro all’arpa d’oro,
di questi, che piú grato
congiunse a lesbia lira itala destra,
estrasse un suon piú dolce e piú sonoro,
lo strumento canoro,
scosso nel mar con l’armonia funesta
se da lui trasse onor vita gli presta.
Taceva Glisomiro, e soggiunse Vittorio:
«Veramente ha la nostra Patria perduto uno dei suoi piú nobili ornamenti nella intempestiva perdita di cosí famoso cigno. Né saprei già donde potesse risarcire un tanto danno, già che una profession cosí nobile trova oggidí pochi seguaci, e manco ammiratori. E pure in un secolo tutto di guerra si dovrebbono udire ancora le trombe di Parnaso».
«Sono passati i tempi (disse Glisomiro) degli Ariosti, e de’ Tassi, E basta bene, che la nostra età vegga qualche infelice imitatore, e seguace delle dissolutezze d’Anacreonte, d’Ovidio e d’altri sí fatti, anzi che di Virgilio e d’Omero».
«Gran vergogna, veramente del nostro secolo, disse Guglielmo, che non si vegga ne’ poeti moderni altro di buono, che quello che gli antichi vi tengono di cattivo.».
«Dovete essere Voi ancora signor cavaliere, proseguí dicendo Vittorio, dell’umore di Glisomiro, che non sa celebrare altri poeti, e massime nelle materie amorose, che il Petrarca, il Tasso, e qualche altro di quella schiera».
«Da che, disse Guglielmo, la cognizione di questa lingua mi fece assaggiare il gusto della poesia Italiana, vi confesso, che nessuno de’ vostri poeti m’abbia lusingato l’animo, e cattivato l’ingegno piú del divino Petrarca e del divinissimo Tasso. E io per me (in quanto può giudicare uno straniero di professione debilmente posseduta) penso, che quelli due nobilissimi ingegni sieno le colonne d’Ercole della poesia italiana; oltre alle quali chi presume di varcare, corre certamente pericolo di restar sommerso nell’oceano della temerità fra l’onde della confusione».
«E pure, disse Vittorio, avendo il Colombo con disprezzar quei confini, che prescrisse
a’ primi naviganti Ercole invitto,
scoperto felicemente un altro mondo, forse, che i moderni poeti varcando oltre alle mete piantate alla poesia italiana del Petrarca, e del Tasso, invece di sommergersi tra i flutti della confusione, potrebbono per l’oceano della pubblica compiacenza, trapassare felicemente alla conquista della eternità della gloria».
«V’intendo, disse Guglielmo; ma la maniera pratica da alcuni nobili ingegni moderni non è (come pare che vogliano dare ad intendere) loro propria invenzione, ma di piú antichi di loro; essendo stato Bernardo Tasso padre del gran Torquato (e seco ma con successo disuguale Luigi Alamanni) il primo, che con le sue nobilissime composizioni, ch’egli appellò Inni, Ode e Idilli, la trasportò dalla Grecia e dal Lazio nella Toscana. E tra le divine rime ancora del figlio si trovano delle canzoni veramente incomparabili e stupende a chi sa considerarle su l’aria degli antichi Greci e Latini, benché temperata con la dolcezza petrarchesca e con la propria e inimitabile sua maniera, nella quale vanno sempre di pari passo congiunte la maestà e la leggiadria. E però troppo gran torto fassi alla memoria e al merito di quegli eminentissimi ingegni a voler donare ad altri quella gloria, che è propria loro. Che se per avventura intendesse di favellare ancora della setta marinesca, io per me a dirvi liberamente il mio senso, stimo piú un sol quaternario de’ sonetti, e una sola stanza delle canzoni del Petrarca, e del Tasso, e d’altri poeti simili a questi, che mille sonetti de’ marineschi, e mille canzoni di quelli che si professano seguaci, e imitatori di Pindaro, benché non abbiano mai forse veduto pure il frontispicio delle sue poesie.
Creda ognuno a suo modo, io cosí credo».
Quí Vittorio: «Guardate, signor cavaliere, che qualche moderno poeta non vi senta, perché stimerebbe che diceste una eresia poetica».
E Guglielmo: «Signore, le opinioni son libere come i pensieri, e non pagano dazio in luogo alcuno; e però
creda ognuno a suo modo, io cosí credo.
Io per me, benché di tardo ingegno, ed applicato ad altri studi, non leggo mai un sonetto o una canzone del Petrarca, e del Tasso, che non esca di me stesso per maraviglia della divinità di quegli ingegni veramente angelici: non trovando in loro parola senza concetto, né concetto senza misterio, né misterio senza arte, né arte senza uno sforzo di giudicio sovrumano: dove ne’ componimenti de’ marineschi non so veder altro, che parole; o pure qualche mescolanza di concetti e di metafore rappatumate insieme a grottesco, e a ventura, e senza ordine, senza artificio, fuorché fanciullesco e dozzinale: e pare insomma, che somiglianti verseggiatori non abbiano altro fine, che d’infilzare quattordici versi per dire un’arguzia frivola e vana per dilettare gl’ingegni volanti e leggieri, che non hanno capacità per conoscere quali sieno i veri lumi e i veri ornamenti della poesia. Quindi si vede, che la maggior parte de’ sonetti marineschi da un bel capo di donna, per un corpo di pantera vanno ordinariamente a terminare in una coda di lucertola, o di scorpione. Onde il volere, come fanno alcuni moderni poetucci e scartabellieri anteporre il Marino, e’l Testi (poeti per altro degni di molta lode) e altri verseggiatori a loro somiglianti, al Petrarca, al Tasso, e ad altri eccellentissimi ingegni di quest’ordine, è uno di quei paradossi, che provoca il riso anche negli Eracliti. E parlo qui solamente delle poesie liriche; che ben sapete meglio di me, che la Gerusalemme liberata e l’Aminta del Tasso son due poemi, i quali siccome nel loro genere non trovano paragone alcuno fra i componimenti degli antichi, non che de’ moderni poeti: cosí par che levino alla posterità la speranza d’aver mai da vedere cosa, che meriti d’esser loro paragonata, non che anteposta».
Pervenuta in questo dire la gondola da tre remi dirimpetto alla casa dove si stava alloggiata Cate, spinse Glisomiro in terra Astolfo a pregarla di lasciarli ricondurre appresso Giustina, con promessa quando non avesse avuto gusto di passare in Germania di rimetterla nel suo ritorno a Venezia, in casa di Betta. Ma benché la vecchia vedesse di bonissimo occhio Astolfo, non per tanto vergognandosi del fallo commesso non sapeva piegarsi a dare questa satisfazione al cavaliere. Pure bisognando in ogni maniera tenerla per qualche tempo lontana da Venezia, Astolfo, che oltre alla vivacità naturale de’ romaneschi, essendo allevato in corte pizzicava del tristo, benché fosse peraltro assai buon giovine, immaginò d’ingannare la scaltra vecchia, e fintosi egli ancora disgustato a causa di Cillia della persona di Glisomiro, tirolla dove piú gli piacque con le carezze, e con darle a credere, che aggiustate le sue faccende, voleva prender casa per se medesimo in Venezia, dove averebbe stimato sua ventura ch’ella ancora si riducesse ad abitare per suo governo. Chi ama, crede; e anche le volpi vecchie vengono colte sovente alla tagliuola. Cosí Cate messa in speranza dalle parole del giovine di prospero fine a’ suoi pensieri amorosi, piegossi a contentarlo, e scesa co’ cavalieri in barca nascosta dalle tenebre della notte sorgente, ripassò con essi a Torcello. Qui raccolta con un dolce rimprovero da Giustina, si rimise ancora sbattuta dal passato pericolo, subitamente a letto; e i cavalieri entrarono fra di loro a consulta sovra la risoluzione da prendersi nell’occorrente bisogno. Quella casa non era certamente capace d’alloggiarli, non vi essendo che tre letti poveri e vili; e la stagione autunnale umida e fredda non pareva punto a proposito per condurre attorno di notte Domitilla e Drusilla dame gentili e dilicate. Cercare di vicino albergo non tornava loro in acconcio, perché non restando in quella città deserta che fabbriche religiose, in quelle degli uomini non era luogo per le donne; e da quelle delle donne venivano egualmente esclusi gli uomini e le donne. Finalmente Glisomiro disse:
«Ceniamo prima, e poi ci parleremo sopra l’andare, o ‘l fermarsi».
Cosí risoluto, e certo con felicissimo consiglio, mentre s’apparecchiano per mettersi a tavola, rinforzatosi nuovamente il vento portò seco un novello diluvio di pioggia, dal quale venne cacciata a quella casa una barca con alcune dame e cavalieri mariti e mogli, che tornavano appunto da villeggiare sul Trevisano a Venezia. Chiesto ricovero agli ortolani, e inteso, che si trovasse con la casa piena di forestieri, non sapevano che si risolvere; se di scendere in terra per involarsi alla procella, che li flagellava, o di girarsi ad altra parte con quello annegamento, a rischio ancora di qualche pericoloso incontro tra i viluppi della notte e dell’acque, mentre trasportati dalla violenza de’ venti, e raggirati dalla oscurità delle tenebre fuora de i Ghebbi (canali navigabili della Laguna) sovra le secche ricoperte dall’abondanza dell’acque, venivano ad esporsi a certissimo e inevitabile naufragio. Sciolse questo dubbio la prontezza di Glisomiro, il quale stando ritirati gli altri cavalieri, trattosi su la porta della casa per intendere questa novità, e conosciute in quella barca Celinda ed Eufemia madre e figlia co’ loro mariti Leonello e Ferrante insieme con Alberta e Placido parimente consorti, e loro congiunti, salutato amichevolmente Placido, che saltò immantenente di barca per complir con esso, fu cagione, che tutti gli altri ancora scendessero a terra, non senza qualche ribrezzo di Glisomiro che teneva con Celinda altri conti, che di complimenti cavallereschi. Era egli veramente amico di Placido, e trattava con esso e con la moglie Alberta domesticamente, ma con Leonello non teneva che un’ombra d’antica conoscenza, e passava con Celinda qualche corrispondenza anzi d’odio, che d’altro affetto; perché suo vicino di casa nel piú bel fiore degli anni, e presunto amante, l’aveva per impulso di gelosia cosí gravemente offeso, che se ben’egli fosse stato molti anni fuor della patria, ed ella divenuta avola non gli facesse piú il viso dell’armi, non aveva però per la lunghezza del tempo, o per la diversità del trattamento dimenticato le antiche offese. D’Eufemia e di Ferrante, non teneva poscia altra notizia, che d’aver veduta la dama da fanciulletta in casa de’ genitori, e che il cavaliere fosse divenuto di poco tempo suo marito. Complito adunque brevemente con Leonello e Ferrante, e piú brevemente salutate Celinda ed Eufemia, si restrinse con Alberta e Placido, il quale veramente di genio placidissimo e dolce entrato subitamente nelle piacevolezze e negli scherzi, il richiese del motivo della sua dimora in quella casa, e chi si stasse con esso, già che vedeva due gondole a quella riva.
«Se foste solo con Alberta mia signora, disse Glisomiro, vi scoprirei agevolmente questa scena; ma Celinda e Leonello vi privano d’una conversazione, che comprereste a qualunque prezzo volessi darvela. Bastivi di sapere, che son qui tre cavalieri di vostra conoscenza, con due forestieri di mia amicizia, e tre dame, che né conoscete, né deono farsi conoscere, mentre qualcuna di loro tocca di sangue Celinda, della quale non si fiderebbono per tutto l’oro del mondo sapendo bene qual sia la sua facilità di lingua; e che se bene sia non vecchia (perché è piú bella, che mai sia stata) ma avola di molti nipoti tiene ancora i suoi begli umori in capo di voler essere adorata ella sola fra le dame».
«Mi maravigliava, disse Placido, che non daste subito in qualche cantafavola con questa dama. Via via, aggiustate questa faccenda, e perché vedo, che avete apparecchiato da cena, pensate pure di farcene parte, perché noi pensando di trovarci stasera a Venezia, ci troviamo qui con un buon appetito di provianda».
Rise Glisomiro, e disse: «Per voi e per la signora Alberta mia padrona vi sarà luogo fra di noi; ma non vogliamo a tresca Celinda ed Eufemia, le quali si potranno cenare in altra parte co’ loro consorti».
Qui Alberta: «Queste non sono parole degne della vostra prudenza e della vostra gentilezza. O tutti o nessuno abbiamo da ricevere questo favore».
Sorrise Glisomiro, e disse: «Per me ne sono piú che contento: ma non posso già disporre dell’altrui volontà, né debbo pregiudicare all’altrui satisfazione. Datemi un quarto d’ora di tempo per consultare con gli amici e poi vi servo».
Per li cavalieri non c’era difficoltà nessuna: perché non sapendo ancora i trascorsi di Panfilo e di Rambaldo, potevano conversare insieme liberamente: ma ben pativano una grande opposizione Domitilla e Drusilla, quella nipote e questa cugina di Celinda. Ma detto loro dalle dame, che essendo ormai sette anni, che Celinda non avesse veduto alcuna di loro, sí che Domitilla cresciuta da fanciuletta a giovane ben formata e in portamento di sposa si rendeva inosservabile; e Drusilla era in guisa cangiata dalla novità dell’abito e delle maniere, che pareva tutt’altra da se stessa, si conchiuse di dispensare per legge di necessità ogni legge di convenienza; e già che nell’angustia del luogo non si poteva di manco di non vedersi, e conversare insieme, che Domitilla comparisse nella maniera già concertata, come sposa di Panfilo, Giustina come consorte di Guglielmo, e Drusilla, come dama amica o parente di Glisomiro. A quella parola trattasi Drusilla appunto all’orecchio di Glisomiro, disse: «Trattatemi pur da amica, non da parente: perché non voglio che Alberta o Celinda mi facciano qualche bassetta».
Sorrise Glisomiro, e disse: «Signora, guardate bene a voi stessa, perché non sono piú quel Glisomiro, che fui una volta con Celinda e con Isabella».
Crollò il capo e torse la bocca Drusilla con un mezzo risetto dicendo: «E che male mi farete per ciò? Mi dovevano maritare i miei parenti, se non volevano che mi trovassi un marito di mio gusto. E non sarò già io cosí pazza, che voglia, come ha fatto Minetta, lasciarvi per un altro, che non è pur degno di portarvi dietro le scope».
Interruppe questo trapasso il complimento di Rambaldo, Panfilo, Vittorio, Ariperto e Guglielmo, con Placido, Leonello e Ferrante, e di Domitilla e Giustina con Celinda, Eufemia e Alberta: onde spiccatasi anche Drusilla da Glisomiro per complire con Alberta, ella trattala piacevolmente in disparte, dolcemente le disse: «Signora, sento piacer singolare d’avere incontrato occasione di riverirvi come sorella di Glisomiro, al quale professo obligazione particolare».
Impallidí Drusilla a questo sovrasalto, e turbatamente rispose: «Signora, voi v’ingannate. Glisomiro non è mio fratello, è mio marito. So bene, che passa fra di voi qualche corrispondenza d’amore, e però se a voi non piacerebbe, che altra donna vi togliesse Placido vostro marito, e voi ancora lasciatemi in pace Glisomiro mio consorte».
Stupissi Alberta di queste parole, e benché non sapesse ciò che si credere di questa pratica, tuttavolta non perduta la sua naturale vivacità, prestamente disse: «Signora, chi pecca per ignoranza, merita scusa. Quelli cavalieri ci han detto che voi siete sorella di Glisomiro; ma se voi mi dite d’essere sua sposa, conviene che ne sappiate piú di loro. Qui però non entro: ma perché penso, che non sia d’interesse di Glisomiro che quello segreto si riveli; contentatevi che vi tratti da sua sorella, non essendo punto mio pensiero d’involarvelo, mentre la nostra corrispondenza con buona grazia di mio marito passa in termine di virtú, d’onore e di complimento».
Interruppe questo ragionamento Celinda, passata anch’essa ad abbracciar la cugina come sorella di Glisomiro; onde Alberta sbrigatasi da questo impaccio non vide l’ora d’essere col marito, e con Glisomiro, i quali tratti in disparte, disse a Glisomiro: «Cosí dunque, signor cavaliere, schernite i vostri amici»? «E come?» disse Glisomiro. «E come?» soggiunse subito Alberta. Aurelia (cosí chiamavano Drusilla) è vostra moglie, e voi dite che è vostra sorella».
Rise Glisomiro, e disse: «Aurelia è una pazzarella, e non è punto mia moglie, e meno mia sorella. Trattatela però da mia sorella con Celinda ed Eufemia; perché mi torna conto per ora».
Rise Placido, e disse:
«T’ho inteso amico. Ma come hai fatto ad amicarti Rambaldo sicché ti lasci in questa guisa la propria sorella? Egli è bene egualmente vigliacco, e tristo».
«Adagio, disse Glisomiro, al giudicare. Minetta è maritata; Aurelia non è sorella di Rambaldo; egli se ne va bandito per suoi capricci, ed io gli sono amiro per complimento insino a che sarà di mia compagnia. Delle altre cose parleremo a Venezia, che ora è tempo d’andare a tavola».
Cosí fu fatto, e passò buona pezza con grande tranquillità la cena; benché i venti travagliando l’aria e la marina flagellassero quella casa, con sí terribili scosse, che pareva dovesse restarne atterrata. Erano già venute le ultime vivande, quando trattosi all’orecchio di Glisomiro Astolfo, gli disse:
«Signore, una parola, in grazia fuor della mensa».
Partí Glisomiro con buona grazia della compagnia per intendere, che cosa gli portasse di nuovo quella chiamata; e intanto passati i convivanti d’uno in altro ragionamento, portò il caso che Panfilo e Guglielmo entrassero a quistionar fra di loro, e con essi Domitilla ancora e Giustina, questa in favore di Panfilo, quella di Guglielmo, con gusto grandissimo delle dame e de’ cavalieri per la vivacità, e prontezza di quelle virtuose giovanette. Fu la quistione ordinaria, ma trattata con qualche singolarità di concetti, e di pensieri: che abbia maggior possanza in amore l’occhio, o la lingua, gli sguardi o le parole. Panfilo e Giustina sostennero le ragioni della lingua; Guglielmo e Domitilla quelle degli occhi. E perché dopo un lungo discorso sostenuto con ragioni e autorità d’egual peso, non si trovava maniera di decidere la controversia, entrata Celinda di mezzo parlò in questa guisa:
«Perché egli è ormai tempo, che si passi a nuovo ragionamento, e si lascino in pace gli occhi e la lingua; io non di mio proprio moto (non portando tant’oltre la debolezza del mio ingegno) ma col parere di persona, che troverà agevolmente credenza negli animi vostri, direi, che nell’amata avessero piú forza gli occhi, nell’amante la lingua. Questa sentenza ho io veduta in una lettera di Glisomiro scritta a bellissima dama, nel cui pellegrino ingegno era per avventura nato il medesimo dubbio».
Qui Alberta:
«Aveva molta ragione quella dama di dubitarne; poiché nella persona di Glisomiro fallisce questa sua sentenza, incantando egli le donne, non meno con gli sguardi che con le parole».
«Sí, disse sorridendo Vittorio; ma per incantatori che sieno i suoi occhi, senza l’incanto delle parole, non arriverebbe giammai ad altro, che a guisa di camaleonte, a pascersi d’aria».
«E d’aria ancora possono vivere gli amanti modesti, soggiunse Alberta; i quali stimano piú la grazia d’una onorata dama, che tutti i piaceri, che potessero ricevere da persone d’altri talenti. Onde il divino Petrarca vero onor degli amanti, dopo d’avere nobilmente provato in cento luoghi, che dell’aria sola del bel viso dell’amata Laura egli pasceva il suo spirito; e massime in quei versi
un vive ecco d’odor lá sul gran fiume,
io qui di foco e lume
queto i vaghi e famelici miei spirti:
rivolto in lamentazione delle sue gravi pene ad amore, con nobilissimo pensiero, e degno di vero amante dolcemente cantò:
Pur mi consola, che languir per lei
meglio è, che gioir d’altra; e tu me’l giuri
per l’orato tuo strale; ed io tel credo.
Né da lui discordante mostrossi l’onestissimo Tasso, la seconda colonna delle amorose scuole, quando della sua eccellentissima Leonora puramente scrisse:
E basta ben, che i sereni occhi, e’l riso
m’infiammin di piacer celeste e santo.
E Vittorio:
«Se fosse qui Glisomiro averebbe certamente un grandissimo gusto in sentire, che le sue lettere sieno cosí altamente onorate da una dama, in cui paragone riuscirebbono imagini dipinte le tanto celebrate Laure, e Leonore. Ma s’egli s’ha preso a imitare ne’ suoi amori il Petrarca e’l Tasso, che sono veramente stati e per dottrina e per costumi degnissimi dell’imitazione d’un’anima grande: penso, che dopo che si sarà avveduto di seminar nell’arena, imparerà, che essendo
in questo mondo instabile, e leggiero
costanza spesso il variar pensiero;
non furono sempre quei divini ingegni d’animo cosí temperato, che si contassero di pascersi d’aria».
In questo dire comparso Glisomiro tirò a sé gli occhi di tutti, e la lingua ancora di Alberta; la quale in vederlo disse:
«Ecco appunto il lupo, di cui si favoleggia».
Ed egli subito:
«Signora, i lupi mangiano le pecore, e io vorrei esser mangiato da una di loro; sicché non sono lupo, se non in quanto vi compiacesse d’esser voi quella pecora, che mi mangiasse».
Risero tutti, e Placido disse alla moglie, che imparasse per un’altra volta a stuzzicare i poeti. Ma Alberta, che non era donna da lasciarsi far paura da un Glisomiro, non attese le parole del marito, voltossi al cavaliere dicendogli:
«Quando pure, signor mio bello, io fossi pecora co’ denti cosí aguzzi, che potessi mangiare un lupo, il vorrei d’altro taglio che non siete voi, che mi parete piú morto che vivo».
Crebbero le risa de’ convivanti per queste parole della graziosa dama; ma Glisomiro, che teneva piú falci, che altri non aveva strali, prestamente soggiunse:
«Signora mia, anche sotto le ceneri d’un morto sembiante si conserva immortale l’incendio, che avviva le forze d’un’anima spiritosa. E quando ancora fossi cadavere, non che piú morto che vivo; anche nella schiena de’ cadaveri nascono e vivono de’ serpenti».
Onde egli ripreso il proprio luogo, continuò dicendo:
«Nel tornare quaddentro parmi d’aver sentito Vittorio, che discorreva. Io non intendo d’interrompere i suoi discorsi e l’altrui piacere; ma di goderne io ancora».
E Vittorio:
«Qui appunto vi voleva»; e riepilogati passati ragionamenti soggiunse:
«Già che la signora Alberta stima che il Petrarca e’l Tasso abbiano amato platonicamente le donne loro; vorrei, che mi favoriste di dirmi, come intendiate quei versi del Petrarca:
Con lei foss’io, da che si parte il sole,
e non si vedesse altri, che le stelle,
sol’una notte, e mai non fosse l’alba;
e non si trasformasse in verde alloro
per uscirmi di braccio, come il giorno
che Apollo la seguia quaggiú per terra.
E come parimente interpretareste questi del Tasso, ne’ quali parlava della sua divina Leonora, che andava in barca a diporto.
Foss’io nocchier di sí leggiadro legno
allor che’l Cielo ogni suo lume vela
per esser sol da la mia stella scorto.
E i sospir fossero l’aura, e’l cor la vela,
e tu mio caro e prezioso pegno
fossi la merce, e queste braccia il porto.
O veramente (per tacere d’un’intiero volume di sonetti, e di canzoni di gelosia per dubio ch’ella si maritasse) questi altri:
Prima con la beltà voi mi vinceste,
poscia con la pietà, quando al mio petto
il nobil vostro fu sí unito, e stretto,
che non vi s’interpose invida veste.
E per meglio confermare il mio pensiero, quel vago impallidire, che fece Laura quando l’innamorato Poeta andò a prender licenza di partire
chinando a terra il bel guardo gentile
e dicendo ne’ suoi morti sembianti
chi m’allontana il mio fedele amico
donde nacque per grazia? Io per me non credo già, che il Petrarca in cosí lunga notte, nella quale non si vedessero altri che le stelle, volesse insegnar l’astrologia a Laura, né ch’ella impallidisse nella partenza del suo fedele amico per foglie di lauro: ma crederò piuttosto col buon Caporali, che usassero insieme la ricetta di Ricciardetto con Fiorispina, insegnandomi quel grazioso novellista di Parnaso,
che in val chiusa non gí la cosa netta.
E mi conferma ancora nella mia opinione il nostro Bembo dicente della medesima Laura,
se a lui, ch’arse per lei la state e’l verno
come fu dolce, fosse stata acerba.
Non credo parimente, che il Tasso volesse di nottetempo diventar nocchiere di Leonora, e farle porto delle sue braccia per insegnarle a conoscere in cielo la tramontana, ma piú tosto per darle ad intendere, come si navighi ne’ golfi d’amore, come forse fece anche allora, ch’egli ebbe fortuna di strignere il di lei seno, in guisa,
che non vi s’interpose invida veste».
Ridevano i cavalieri, e sorridevano con un poco di rossore le dame al ragionar di Vittorio: ma Glisomiro veduto, che egli taceva con un gesto tra sprezzante e capriccioso, disse:
«Pensava, che aveste messa in campo qualche quistione degna dell’ingegno di Panfilo, e di Guglielmo; o che voi voleste portare qualche cosa di pellegrino contro la signora Alberta: ma voi avete preso a trattar di materie affatto rancide e ammuffate; perché e chi non sa, che nella donna gli occhi e gli sguardi, e nell’uomo tengono la parte principale in amore la lingua e le parole? E chi è quello, che possa dubitare della purità degli affetti del Petrarca, e del Tasso, gl’idoli, non che le colonne del Tempio d’Amore, verso le celebratissime loro dame Laura, e Leonora? Ma voi seguendo le opinioni del volgo de’ letterati (scusatemi, che parlo per ver dire
non per odio d’altrui, né per disprezzo)
avete detto qualche cosa, e non avete detto nulla. E per tralasciare, che il Caporali non meriti d’essere ascoltato, come quello, che satirizzando e scherzando, poteva dire ciò che gli veniva a taglio a’ suoi propositi; e che l’autorità parimente del Bembo non debbia essere in questa occasione d’alcun momento; avendo in quelle sue veramente divine stanze servito alla causa, non detto quel che credeva, ed espresse in miglior maniera inviando il canzoniere di quel gran Poeta alla sua donna con queste parole:
Basso pensiere e vile
non scorgerete in lui, ma sante voglie
sparse in leggiadro ed onorato stile:
chi vuol darsi ad intendere, ch’l Petrarca desiderasse di trovarsi sol’ una notte cosí lunga con Laura per fini vulgati e vili, non sa né conosce quali sieno le qualità, e le forze d’un vero amore. Che se voi mi replicaste, che la medesima Laura gli dicesse fin dal Cielo:
e quel che tanto amasti
è laggiuso rimaso il mio bel velo:
O pure
né mai in tuo amar richiesi altro, che nodo,
quasi che volesse rimproverargli l’avere amato (e con eccelso ancora) piú il suo bel corpo, che la sua bella anima; mostrerebbe di non sapere che i veri amanti della bellezza dell’anima, amano ancora quella del corpo, in quanto può essere obietto degli occhi; e che le parole di quella gentil damigella devono essere intese ad accrescimento della gloria di lei, e non a minuimento della virtú del Petrarca; poiché essendo ella, e di costumi e di mente, purissima, tutto che non potesse far di meno di non amare e per debito, e per gentilezza un cosí nobile amante dal quale si vedeva in tante guise onorata: conservò nondimeno con tanta cautela la propria onestà, che per non dare occasione al vulgo ignorante di malignare a pregiudizio dell’onor suo, si mostrò negli atti esterni crudele a quell’amante, ch’ella conosceva d’essere obbligata d’amare come lo spirito dell’anima propria. Né mi si porti in prova, ch’ella ancora meno che onestamente amasse per essersi impallidita e doluta nella partenza dell’amante, perché anche gli onesti amori vanno accompagnati dalle perturbazioni dell’animo, né mai si potè amare senza dolore di vedersi privo della cosa amata. Che se non fosse, che siamo a tavola, e non all’Accademia; potrei con facilissimo discorso darvi a conoscere, che gli amori altresí puramente divini non sono senza dolore nell’assenza dell’oggetto amato. E però andava esclamando a Dio il re de’ poeti insieme, e de’ Santi:
i tuoi celesti alberghi, o mio Signore.
E altrove dolcissimamente esclamava,
Di lagrime mi pasco, e giorno, e notte
mentre nel cuor mi suona: ov’è il tuo Dio?
E come che non solamente dall’ineffragabile testimonio del medesimo Petrarca; il quale per tacere di cento luoghi del suo maraviglioso canzoniere, in quelle opere, che negli ultimi anni della sua vita (ne’ quali santamente visse, né si può credere, che volesse mentire fuor di proposito nel cospetto di tutti i secoli) egli dedicò alla posterità; confessò egli stesso al mondo d’avere ben sí ardentemente, ma insieme onestamente amato; e dalle testimonianze altresí di scrittori gravissimi, e suoi amici e coetanei potessi ritrarre mille argomenti e autorità in confermazione del mio pensere; non per tanto per non allungarmi fuor di ragione, tocco un solo motivo, che a mio senso non ammette contradizione, e passo ad altro. Ditemi in grazia, caro Vittorio: se il Petrarca avesse amato la sua Laura col fine degli amanti vulgati, di possederla; perché quando prima che si maritasse gli fu offerta da un Principe grande con rilevati avvantaggi della sua fortuna in moglie, la rifiutò, dicendo: Guardimi il Cielo, che per un vil diletto voglia privarmi dell’amore di cosí bella dama, che mi partorisce eterni frutti di gloria? Dunque il Petrarca non volle possedere onestamente la sua bellissima Laura, e tanto amata, per non aver mai occasione di non amarla, e di privarsi della gloria che gli recava il suo amore; e vorremo credere, che non solamente la desiderasse, ma la possedesse dopo che maritata ad un nobile cavaliere, nel medesimo istante, che avesse pur pensato di compiacerlo di se medesima si sarebbe resa indegna d’essere amata? E vorrem credere, che l’altissimo ingegno del Petrarca avesse potuto impiegare i suoi divini talenti in celebrare in vita, e dopo morte non una onesta dama, ma un cadavere di vituperio; avendo egli stesso sentenziato delle donne,
che qual si lascia del suo onor privare
né donna è piú, né viva?
Quindi potete conoscere, che se pure in qualche luogo del suo canzoniere si legga qualche concetto piú libero per avventura, che non pare che richiedesse il suo onesto amore, dee essere sanamente inteso, mentre somiglianti componimenti furono scritti da esso in tempo, che essendo Laura ancora da donzella libera, poteva lecitamente desiderarla. Se bene poi meglio consigliato ricusò di sposarla, sicuro che come l’avesse ottenuta, lusingato dalla sua eccellente bellezza, e rapito dal proprio ardentissimo affetto alle compiacenze maritali, non averebbe piú potuto produrre quei parti d’ingegno, che a gloria d’ambedue
Saranno fin che duri il mondo eterni...
E bene egli ebbe tempo di scrivere, anche nella libertà di Laura, mentre essa invaghita dell’amore di cosí virtuoso amante differí lungamente l’accasarsi con altri, sperando pure, ch’egli dovesse perfezionarlo con isposarla. Ma disperata al fine di mai ottenerlo, acconsenti di maritarsi in altri, ma non lasciò però d’onestamente amare il suo divino amante; benché allora per non dar sospetto della sua fedeltà al marito, e della sua pudizicia alla gente desiderasse qualche moderazione nella sua maniera di servirla. Ond’egli per non disgustarla, e per non pregiudicare in conto alcuno alla sua quiete e all’onor suo, non potuto celare affatto l’immortale ardore, che gli accendeva l’anima e gl’illustrava l’ingegno; s’involava alla viltà degli uomini, e viveva per lo piú solitario; se non in quanto passava a qualche ora inosservata, e in luoghi non sospetti a vagheggiare l’unico sole degli occhi suoi. E però andava egli stesso dicendo:
Solo e pensoso i piú deserti campi
vo misurando a passi tardi, e lenti.
E altrove,
Per altri monti, e per selve aspre trovo
qualche riposo. Ogni abitato loco
è nemico mortai degli occhi miei.
Ma perché gli esempi provano sovente meglio delle ragioni e delle autorità; essendo verisimile, che sia succeduto in altri quello, che vediamo con gli occhi propri: io conosco un giovine e libero cavaliere, e una dama della sua medesima età, e condizione, e però in termine sospettoso molto, essendo ella vedova, e bellissima, e vezzosa in estremo; i quali amandosi scambievolmente quanto mai possano amarsi un uomo, e una donna, è accaduto, che per accidenti di fortuna la dama sia stata necessitata a ricoverarsi in casa del medesimo cavaliere suo amato amante; e non per un giorno, ma per molte settimane e mesi con quella libertà, che può imaginare chi ha fior d’intelletto, non avendo il cavaliere alcuno, a cui debbia render ragione di sé medesimo, ed essendo la dama in guisa esposta alle sue voglie, che e giorno, e di notte passano a trovarsi l’un l’altro senza l’assistenza d’alcuno infino al letto. Si trattiene la dama nelle stanze del cavaliere, mentre si veste, studia e dorme. Va il cavaliere in quelle della dama, o si riposi, o si vesta, o lavori, le tien lo specchio mentre s’acconcia il capo, e fa specchio sé medesimo de’ suoi begli occhi; giuocano, e mangiano soli, e forse talora s’involano qualche bacio. E pure con tante comodità, con tante occasioni, con tanto amore, con tanta domestichezza, e la dama conserva incontaminata la sua onestà, e’l cavaliere con animo franco ed invitto sterpa e riseca le nascenti voglie amorose, che ben si può credere, che gli facciano germogliare ad ogni momento nel cuore la bellezza, la grazia, i vezzi, le lusinghe, la confidenza, e gl’incanti di cosí amorosa e gentil vedovetta. E vorremo persuaderci, che il Petrarca uomo d’elevatissimo ingegno, avido di gloria, e tutto intento a immortalar se medesimo e la sua amata donna; e che non ebbe mai forse una di mille delle fortune e delle comodità di questo giovine cavaliere, non potesse amar puramente la sua bellissima Laura? Ma perché alcuni misurando forse gli altri col compasso di se medesimi, s’ostinano in dire, che degli altri ancora, non che il Petrarca, hanno amata la persona, e altamente lodata l’onestà delle donne loro dopo d’averle possedute: benché potessi con l’autorità de’ medesimi scrittori portarti in esempio da loro abbattere cosí mal fondata opinione, e mostrar loro, ch’essi con maniera propria d’amante, che è di mutare a guisa d’adulatore i nomi alle cose secondo i propri interessi, le averanno ben lodate di cortesia, di pietà, e di gentilezza; ma non mai di quella onestà, ch’eglino stessi hanno loro contaminata: vorrei, che mi dicessero solamente il nome di quella donna, che il Petrarca tenne nella sua gioventú a’ suoi piaceri, e n’ebbe una figlia, che dal suo nome fu appellata Francesca?».
«Questa sí, interruppe qui Placido, m’è cosa affatto nuova, che il Petrarca avesse figli».
«Ebbe una figlia senza piú (soggiunse Glisomiro) benché Bernardino Corio nelle sue Istorie Milanesi, raccontando gli onori veramente reali fattigli in Milano da’ Principi Visconti, gli attribuisca anche un figlio, che in verità fu suo nipote, e figlio della Francesca sua figlia maritata ad un Francesco Borsano milanese. La qual Francesca fu donna di rinomata bontà di vita, e si vede oggidí ancora in Trevigi la sua sepoltura con un’insigne epitaffio. Ora io vorrei sapere per qual cagione quell’eccellentissimo ingegno, che tanto celebrò la sua Laura dalla quale in ventun’anno, che l’amò in vita con sí mirabil fede, che egli medesimo se ne vantò dove non gli era lecito di mentire, favellando con la Regina de’ Cieli: non potè ottenere tanto favore, che volesse lasciargli pur nelle mani un guanto, che le aveva involato; d’una donna, che fu lungamente la sua delizia, che gli partorí una figlia bella, e virtuosa e ch’egli era obbligato d’amare come parte di se stesso, in tante delle opere, ch’egli compose nelle favelle toscana e latina, neppure con un tratto di penna lasciò registrato il suo nome per mandarlo alla memoria de’ posteri? Che vuol dir questo, signori? O quanto avrei da dire! Ma non posso parlare; e so che sono inteso».
Qui tacque Glisomiro, e i cavalieri lodarono fra di loro la sua modestia. Ma Alberta, con un tratto vezzosissimo disse:
«Non sarò venuta stanotte indarno ad alloggiare a Torcello, avendo trovato un sí valoroso campione per mia difesa. Ma per grazia, signor Glisomiro, poiché avete autenticata la vostra opinione della purità dell’amore del Petrarca, non lasciate ancora passare senza confermazione quella parte, che s’appartiene alla riputazione di Laura, mentre il suo impallidire in presenza dell’amato poeta, ha dato occasione a Vittorio di libare il suo onore, mostrandoci, che anche negli onesti amori possa una onorata dama impallidire, senza pregiudizio della sua onestà».
Qui Glisomiro:
«Signora, io lascerei volentieri questa parte alla signora Celinda, la quale trovatasi pochi giorni sono invitata a certa cerimonia in un seminario di donzelle, veduto, che il signor suo marito parlava con una di quelle belle dame, impallidi talmente, che pareva si avesse dato il belletto alla francese, benché sia sempre vermiglia come una rosa damascena».
Sorrise modestamente Celinda, e disse:
«L’immaginava certamente che non sarei partita di qui senza qualche mortificazione di questo diavolo; che se bene sia per altro tutto diverso da se medesimo, conserva in questa parte il costume della sua giovinezza di sempre motteggiar le dame, e me piú d’ogni altra. Ma se voi osservate i volti altrui; ben vi sono di quelli che osservano anche il vostro, e quelli ancora delle vostre dame. Ma non voglio io rivelare i vostri segreti in questo luogo, perché essendo a tavola non vorrei che qualcuno pensasse che il vino mi facesse parlare».
«Anzi sí, rispose Glisomiro, che dovreste rivelare i miei segreti alla mensa; perché stando nascosta nel vino la verità, tutti vi crederebbono; dove se volete parlarne a caso pensato, nessuno vi presterà fede, sapendo che le donne hanno ereditato dalla prima di loro virtú nobilissima di sapere inventar delle favole».
Ridevano gli altri; onde Celinda piccatasi di quello scherzo, tutta sdegnosetta rispose:
«Veramente le mie relazioni sarebbono favole, signor Glisomiro: ma perché impallidí Bianchetta quel dopo desinare, che vi trovò a corteggiar Bettina sua sorella? Non dico nulla di Laurina. Basta».
Alberta quasi offesa da questa parlata, presa la parola per Glisomiro disse:
«Aveva ragione d’impallidire Bianchetta sapendo d’averlo offeso fuor di proposito. E Laurina è una pazza da catene, e meritava anche peggio che d’infermare di disgusto».
Qui Placido:
«Non saltiamo, disse, di palo in frasca. Lasciate che Glisomiro risponda al vostro quesito, e poi contrastate fra di voi quanto vi piace».
E Glisomiro:
«Già la signora Celinda ha risposto per me; perché se Bianchetta impallidí fu pallore d’onesta dama per onesta cagione. E se Laurina cadde inferma, infermò per onesto amore. E ho veduto anche di quelle dame, le quali in presenza de’ fratelli, de’ padri, e de’ mariti non hanno stimato di pregiudicio alcuno alla propria onestà d’accompagnare col pianto, non che con le pallidezze i sinistri accidenti di quei cavalieri, da’ quali sapevano d’essere onestamente amate e servite. Che se bene amore è una voce di cattivo suono in bocca d’una dama, e massime maritata appresso il vulgo, s’inganna; perché i veri amori non sono punto pericolosi: sono bene pericolose le false amicizie; e un leal cavaliere prima d’ogni altra cosa ama l’onestà nella sua dama. E quando pure anelasse ad altri fini con essa: sapendo che il ben della donna è l’onestà, e’l male la disonestà; ancorché paia, che a prima vista le desideri anzi il male, che il bene; tuttavolta non le desidera alcuna vergogna, o disonore, anzi metterebbe mille volte la propria vita e fortuna ne’ precipizi per conservazione della vita di lei, e della riputazione. Quindi, perché sa quanto sia facile il vulgo a interpretare sinistramente l’altrui buona intenzione, suole il vero amante e prudente tener celati i suoi pensieri e disegni. E perché amore è una febbre dell’anima, che non si può nascondere in guisa, che d’ora in ora non ne apparisca agli occhi del mondo qualche parosismo, per celarsi all’altrui curiosità, fugge dalle conversazioni, ed ama la solitudine; come abbiamo pur dianzi veduto che faceva il Petrarca, il quale al pari d’ogni altro piú vero amante amò l’onore e la riputazione della sua bellissima donna. Né da lui allontanossi punto il nobilissimo Tasso, benché l’essere stato assai piú felice nell’amor suo, che non fu il Petrarca, gli cagionasse al fine un precipizio sí grande, che, oltre all’avervi lasciato parte del cervello, e perdutavi la libertà, vi lasciò quasi miseramente la vita. Fu però felice anche nel precipizio, essendo caduto da luogo altissimo; onde avendo egli stesso gran tempo avanti preveduta la propria caduta, generosamente cantò,
Meglio è cadendo accompagnar Fetonte.
E pur di nuovo consolidandosi con gli esempi d’Icaro e del medesimo Fetonte andava dicendo:
Se d’Icaro leggesti, e di Fetonte
ben sai come l’un cadde in questo fiume,
quando portar da l’oriente il lume
volle, e de’ rai del sol cinger la fronte.
E l’altro in mar, che troppo ardite e pronte
a volo alzò le sue cerate piume:
e cosí va chi di tentar presume
strade nel ciel per fama appena conte.
Ma chi dee paventare in alta impresa
se avvien, ch’amor l’affidi? E che non puote
amor, che con catena il cielo unisce?
Egli giú trae da le celesti rote
di terrena beltà Diana accesa,
e d’Ida il bel fanciullo al ciel rapisce».
«Grande ardimento, disse qui Leonello, fu veramente quello di Torquato, e potè ben dire col suo grande emolo
Se bene amor d’ogni mercede il priva,
posciaché ’l tempo, e le fatiche ha speso,
pur che altamente abbia locato il core
pianger non de’ se ben languisce, e more.
Ma essendo salito tanto alto, maraviglia non fu, ch’egli cadesse, avverando il suo proprio concetto,
che a’ voli troppo alti, e repentini
sogliono i precipízi esser vicini.
Desiderarei bene d’intendere da qual felicità nascesse la sua miseria, perché non mi ricorda d’aver mai letto cosa alcuna in questo proposito».
E Glisomiro:
«Hanno veramente dato qualche lume di questa verità quelli, che di proposito hanno scritto la vita di quel gran Torquato, e miglior cognizione se ne trae da chi avendo qualche cognizione della Corte di Ferrara di quel tempo, considera attentamente i sensi occulti delle sue divine composizioni. Ora benché con prudente, ma poco cortese avvedimento abbiano alcuni voluto rendere incerta questa verità, con avvilupparla nella controversia di tre Leonore (essendo paruto a qualcuno, che non ha saputo considerare ch’egli amò da filosofo, e scrisse da poeta; che il Tasso desiderasse talora piú di quello che la sua fortuna, e l’onestà della sua dama non gli doveva permettere) non v’ha dubbio, che la donna da esso unicamente amata, altra non fosse, che la principessa Leonora sorella del Duca Alfonso, che fu stimata a’ suoi tempi la piú bella, la piú graziosa, e la piú virtuosa principessa d’Europa. E quando io non ne avessi avuto relazioni, e notizie incontrastabili da nobili e virtuosi cavalieri, che non solamente conobbero di presenza il Tasso, ma l’ebbero in grado molto stretto di amicizia, e vissero lungamente a’ servigi di quella famosa corte; la sola qualità de’ suoi componimenti il darebbe a vedere insino a quelli, che apena sapessero che cosa fosse poesia, non che a quelli, che sanno penetrar piú addentro della scorza, e dar giudicio tra’l buon e’l meglio delle poetiche composizioni. Poiché tra le rime, ch’egli scrisse infiammato del celeste amore di quella gran principessa, e le altre, che o per servire all’occasione, o per compiacere agli amici gli caddero dalla penna; per dolcezza di stile, per vivacità di spiriti, per novità di concetti, e per sublimità di pensieri è quella differenza appunto, che si scopre tra il fuoco vivo, e’l dipinto. Amò dunque Torquato, e fu riamato da Leonora, ma con tanta prudenza, che fino gli proibí il nominarla ne’ suoi componimenti; ne’ quali però godeva (essendo ella dotata d’altissimo ingegno, e di finissimo giudicio) di vedersi adombrata. Ond’egli stesso in quel tempo, che l’Imperadore la chiese per moglie, cel diede a conoscere in quella nobilissima canzone, in cui se ne richiama ad amore, dicendo:
E se pur come volse occulto crebbe
il suo bel nome entro i miei versi accolto
quasi in feriti terreno arbor gentile.
E piú chiaramente altrove andava scrivendo,
Vuol che l’ami costei; ma un duro freno
mi pone ancor d’aspro silenzio.
Ma perché amore è una passione tirannica, che a mille segni, a guisa di fuoco chiuso in fornace svapora e discopre; ne fu in breve chiarissimo (non che la corte, che negl’interessi amorosi de’ Principi e de’ cortigiani ha gli occhi di lince) il medesimo Duca Alfonso. Tanta era nondimeno la opinione, che s’aveva da ciascheduno della onestà incomparabile di Leonora; e tanta la stima, che si faceva in quel tempo della virtú di Torquato, che per molti anni potè egli godere felicemente una fortuna veramente delle maggiori, che potessero toccare in sorte ad un cavaliere, al quale non restava altro patrimonio al mondo, che quello della nobiltà della nascita e della propria virtú. Poiché con perpetuo corso di favori insoliti, e che non si sarebbero conceduti al primo Principe di Cristianità, furono sempre alzate le portiere, e spalancate le porte delle stanze della Principessa a Torquato, non solamente nelle ore consuete dell’udienze e de’ corteggi, ma in tempo ancora, ch’ella tra le sue domestiche dame e donzelle si stava vestendo e adornando. Onde egli ebbe piú fortuna di servirla con sua estrema contentezza tenendole davanti lo specchio, mentre s’acconciava la testa, e in altri ministeri ordinari del culto della sua persona. E quindi egli prese occasione di scrivere oltre a diversi componenti d’ogni sorte, quei due bellissimi sonetti: il primo de’ quali incomincia
Chiaro cristallo a la mia donna offersi.
e l’altro
A i servigi d’amor ministro eletto
lucido specchio anzi ’l mio sol reggea.
Onde scrivendo nel tempo delle sue calamità una divina canzonetta alla medesima Principessa Leonora, e a Madama Lucrezia Duchessa d’Urbino sua sorella, e risvegliando la memoria de’ tempi felici, in lamentevoli accenti andava dicendo:
A voi parlo, in cui fanno
sí concorde armonia
onestà, senno, onor, bellezza, e gloria.
A voi spiego il mio affanno,
e de la penna mia
narro in parte piangendo acerba istoria,
ed in voi la memoria
di voi, di me rinovo.
Vostri affetti cortesi,
gli anni miei tra voi spesi,
qual san, qual fui, che chiedo, ove mi trovo.
Chi mi guidò, chi chiuse,
lasso, chi m’affidò, chi mi deluse.
Queste cose piangendo
a voi rammento, o prole
d’eroi, di regi gloriosa, e grande;
e se nel mio lamento
scarse son le parole
lagrime larghe il mio dolor vi spande.
Cetre, trombe e ghirlande
misero piango, e piagno
studi, diporti ed agi
mense, loggie e palagi,
ove or fui nobil servo, ed or compagno.
Liberiate, e salute,
e leggi (oimè) d’umanità perdute.
Arrivò insomma a poco a poco tant’oltre l’amor reciproco della Principessa e di Torquato, che essendo ella stata richiesta (come io diceva) in moglie dall’Imperadore; e già vociferandosi per la corte, che il maritaggio fosse vicino ad essere conchiuso, egli ne cadde in quelli spasimi di gelosia, che gli trassero dalla penna diversi componimenti piú teneri per avventura, affettuosi e pieni d’amorosa disperazione di quello che altri forse averebbe stimato non convenirsi alla purità dell’amore di temperato cavaliere verso una Principessa di sí alta fortuna. Ma essendo pervenuti alle orecchie di Leonora i lamenti, i sospetti e la disperazione di Torquato, ella per liberarlo dalla ingiusta oppressione di quel fiero cordoglio, trovatasi seco a ragionamento con eccesso d’amorosa gentilezza, gli disse che vivesse lieto, perché ella non averebbe giammai piegata l’altezza dell’animo suo per sottoporsi ad uomo alcuno, benché quello che la desiderava fosse per dignità il maggior principe del Cristianesimo. Ond’egli tutto allegro si mise a cantare:
Perché di gemme t’incoroni, e d’oro
perfida gelosia
turbar già tu non puoi la gioia mia.
Non sai, che la mia donna altro tesoro,
che la mia fé non prezza?
E se fosse ella pur vaga d’altezza,
chi n’ha piú del mio core
ov’ha il suo regno, e le sue pompe amore?
E fu allora forse, ch’ella per meglio assicurarlo della perpetuità del suo amore, il favorí di una grazia, che essendo stata maggior di quello, che per avventura potesse pretendere Torquato, cagionò col tempo la sua ruina. E fu, che l’onorò o di dargli, o di lasciarsi involare un bacio (che varia ne fu l’opinione) in occasion di servirla in qualche domestico ministerio: onde trovossi a caso con parte del seno discoperta. Tratto, che gli porse materia di scrivere quei versi, che ha portati Vittorio in prova delle sue illegittime pretensioni: benché io agevolmente mi persuada, che gli scrivesse piú tosto a compiacimento di qualche amico, o pure ad altra donna, che a Leonora. Ma siasi quel che si voglia di questo; se Torquato all’uso degli amanti, errò talvolta con la penna, e co’ pensieri; non errò con l’animo, e con le operazioni in amare quella eccellente Principessa; avendola sempre amata di purissimo, e sincerissimo affetto; né in altra guisa avrebbe trovato corrispondenza al suo amore nell’animo reale di quella serenissima vergine; dalla quale (chiarissimo indicio di questa verità) anche nel tempo delle sue miserie fu altamente protetto. Ben commise poi un mancamento Torquato, del quale io non saprei scusarlo: poiché avendo egli per tanti anni goduta una pienissima libertà di conversazione con Leonora, non fu mai necessitato da alcuno accidente sinistro; sí che per ricevere i favori della sua grazia, gli facesse mestiere di confidare ad altri che a se medesimo i suoi segreti, se però non lo scusasse l’affetto dell’amicizia, che l’indusse a non tenerli celati a un cavalier di gran nascita e di gran fortuna, con cui egli s’era unito in legame strettissimo d’amore e di confidenza. Il quale divenuto traditore all’amico, ne parlò in maniera, che pervenuta alle orecchie di Torquato medesimo la sua infedeltà, si vide sforzato a castigarnelo con la spada, e non lasciando ancora di dolersene con la penna in dolorosi e gravi componimenti».
Qui taciutosi Glisomiro, prese Celinda a parlare dicendo:
«Si meritò d’essere tradito da un amico chi non seppe osservar la fede alla sua dama, e dama tale, che se gli poteva ascrivere a gran fortuna, che non l’avesse castigato, e a grandissima che l’avesse compatito del suo ardimento, che non mostrasse con sí vivi contrassegni d’affetto la stima che faceva del suo amore e della sua virtú. Ma questa è l’ordinaria disgrazia delle donne d’essere assassinate, sotto il nome d’amore, dagli uomini, i quali trattando da ciarliere le femmine, non sanno essi tenere una parola in bocca non che un segreto nel seno. Anzi non che dicano il vero, vantandosi di grazie ricevute, ma ne inventano sovente di loro capriccio con eterno pregiudicio della riputazione di quelle infelici dame, che ingannate da’ loro artifici s’inducono a credere d’essere amate, e a corrispondere di leale affetto a chi barbaramente le tradisce».
«E pure, soggiunse Alberta, non vogliono molte di noi, benché si trovino continuamente ingannate e tradite dagli uomini imparare a proprie spese, ricadendo ogni giorno nelle medesime reti della mala ventura».
Rise Placido, e disse:
«Amano tanto le donne d’essere amate, ed è loro cosí dolce l’esca d’amore, che non è maraviglia, che si lascino con tanta facilità prendere all’amo, non che alle reti, che tendono gli uomini alla loro bellezza».
«Dite piutosto, proseguí Rambaldo, che quella disgrazia d’essere ingannate interviene ordinariamente alle donne, perché nell’elezion de’ soggetti s’appigliano sempre al peggiore di tutti quelli che le servono per favorirlo della grazia loro ad onta de’ meritevoli amanti. La qual cosa io non l’attribuisco tanto alla leggerezza del loro cervello, quanto alla giustizia d’amore, che vuol castigarle della loro ingratitudine con quel medesimo mezzo, che esse l’esercitano verso gli altri».
Rimasero piccate le dame di queste parole di Rambaldo; onde Celinda:
«Avete ragione, disse, di straparlar delle dame, perché sapete di non meritar l’amore fuor che di qualcuna di quelle sciocche femmine, che non sanno favorire fuor che degl’ingrati, e de’ cicaloni».
Fu piccante il motto di Celinda, e provocò il riso di tutti i convivanti; perché veramente Rambaldo in somigliante proposito non era il piú taciturno cavaliere del mondo. Ma Glisomiro per troncare sul principio cosí odiosa controversia, cessato in parte il riso degli altri, prese egli a dire:
«Veramente in materia di segretezza amorosa hanno le donne di che rimproverare giustamente gli uomini perché esse, non che mai ridicessero somiglianti interessi (parlo delle donne onorate) ma si lascierebbono scorticar vive prima di confessarli. E beato quel cavaliere, che può acquistarsi nell’animo della sua dama concetto di taciturno e di segreto. Ma se il Tasso fallí in questa parte, fallí per virtú d’amicizia, non per infedeltà verso la sua dama; e poteva, non che ad un amico, ma palesare senza alcun pregiudicio della sua riputazione a tutto il mondo la purità del suo amore favorito di qualche onesta grazia da quella eroica principessa; la quale con intendimento superiore al suo sesso, e con elezion nobilissima antepose alla fortuna di grandissimo Principe la virtú d’un privato cavaliere, amando piú tosto d’essere divinamente amata da Torquato, che posseduta in moglie da un Cesare. In confermazione del mio pensiero, oltre all’esempio del Petrarca e d’altri nobilissimi ingegni, che modestamente palesarono al mondo in dolcissimi componimenti le oneste grazie fatte loro dalle amate donne, diede assai chiaramente a conoscere di qual tempra fosse il suo amore il medesimo Torquato in quel nobilissimo sonetto, ch’egli scrisse dolendosi con amore, che la Principessa gli avesse proibito l’appalesarlo. Dice:
Uom di non pure fiamme acceso il core,
che lor ministra esca terrena, immonda,
chiuda il suo fuoco in parte ima, e profonda
e non risplenda il torbido splendore.
Ma chi infiammato di celeste ardore
purga il pensiero in viva face e in onda
non è ragion, che le faville asconda
senza parlar, ne tu’l consenti Amore.
Che s’altri (tua mercé) s’affina e terge,
vuoi, che’l mondo il conosca; ed indi impare
quanto in virtú di quei begli occhi or puoi.
E se alcun pure il cela, insieme i tuoi
piú degni fatti in cieco oblio sommerge,
e dell’alte tue glorie invido appare».
Applausero con lieto mormorio alla recita di questo nobile componimento i convivanti; ma Giustina interrotto con la dolcezza della sua voce quell’allegro bisbiglio:
«Non so, disse, se si parlasse d’altri che del Tasso, che è il suo occhio destro, volesse Glisomiro difendere i suoi mancamenti. Basta che fallí, e fallí cosí altamente, che ben meritate da lui possiam giudicare che fossero quelle sciagure, che dopo cosí gran mancamento l’accompagnarono fino alla morte».
Sorrise Glisomiro, e rispose:
«Anzi quelle sciagure manifestarono al mondo la sua innocenza, mentre la medesima principessa dopo la sua fuga dalla corte del Duca suo fratello, che per aver castigato l’infedele amico rivelator de’ suoi segreti l’avea fatto arrestare nelle sue proprie stanze; vel richiamò con sue lettere di consenso del medesimo Duca. E’l favorí, e’l protesse infino a che egli fu capace de’ suoi favori, e della sua protezione. Ma creda ognuno finalmente ciò che gli pare, certa cosa è, che dovranno tutti i secoli amare, ed onorar la memoria di Leonora, mentre per mezzo di lei goderanno i parti dell’elevatissimo ingegno di Torquato, il quale per altro di natura malinconica e di stile aspro anzi che no, risvegliato dalle fiamme del suo divino amore, e addolcito per compiacerla lo stile, scrisse con tanta felicità nelle materie d’amore, che se non ha superato (come stimano alcuni) il Petrarca medesimo l’ha almeno agguagliato; e fuor d’ogni controversia avvantaggiato ogni altro scrittore del nostro linguaggio, e nella moltitudine de’ componimenti, e nella dilicatezza, e nella vivacità, e nella maestà, e nella purità, e nella forza d’esprimere gli affetti amorosi. Onde egli stesso ebbe a cantare,
E in quelle osai, che fur segnate, e sparse
d’altrui lusinghe, e de’ miei propri errori.
Ma pur chi degli amanti i volti e i cori
colora meglio, e men dal ver si parte?
E aveva prima detto scrivendo all’Ardiccio per iscusa, che la principessa dotata di finissimo giudicio aveva censurati per duri i suoi versi.
Ardiccio, se ben miri
molle e dura è costei,
cosí son duri e molli i versi miei.
Molle è in lei quel di fuori
dentro ha marmi, e diaspri,
sol nella scorza i versi miei sono aspri.
Non senti come spiri
da’ loro interni ardori
spirto gentil, che intenerisce i cori?
Ha dunque avuto ragione la signora Alberta di celebrare la purità dell’amore del Petrarca e del Tasso, e di chiamarli due colonne del Tempio, e dirò io del Regno d’Amore. Oltre alle quali chi tenta di varcare, non trova certamente nell’Oceano della poesia italiana che o sirti o scogli, o mostri, o tempeste per naufragare fra l’onde o dell’ignoranza, o della lascivia. Parlo qui solamente delle materie d’amore; che so ben io, che il nostro secolo ha prodotto per altro ingegni eminentissimi, i quali avendo degnamente toccata la poetica lira, se non sono arrivati alle colonne del merito e della gloria piantate dal Petrarca e dal Tasso, vi si sono almeno con felice ardimento avvicinati. Ma d’oltrepassarle, come si sono scioccamente vantati alcuni moderni verseggiatori, che tanto hanno che fare col Petrarca e col Tasso, quanto ne hanno le lucciole con la Luna, sperano invano i mortali, se però non discendesse dal cielo qualche angelo in forma umana».
Mentre Glisomiro favellava era tornata da cenare in quella camera la servitú; ond’egli pervenuto a questo termine di ragionamento, e raggirando altri pensieri nell’animo, chiese in che stato si fosse il vento e la pioggia; e inteso, che essendo quasi cessata la pioggia incominciasse a bonacciare anche il vento; alzatosi, e seco tutti gli altri da mensa; avvicinossi al fuoco acceso nella medesima stanza; e pregata Giustina di cantare per trattenimento di quella nobile compagnia una qualchie arietta; ella non perduta l’occasione d’estrinsecare per questo mezzo qualche suo capriccietto; fattosi dare un picciolo lento, che portava seco di maravigliosa struttura; con una soavità da incantar le tigri prese teneramente a cantare questi versi:
Allor, che viva fiamma
alma gentile infiamma,
ed al suo dolce ardore
sente cortese amore
s’arman in van per lei destino e sorte,
che l’è gioia il martir, vita la morte.
Pur che m’ami chi amo,
che mi brami chi bramo
pur che viva nel petto
del mio solo diletto,
s’armino a’ danni miei destino e sorte,
che m’è gioia il martir, vita la morte.
O Filli, o di mia vita
vita, e morte gradita,
pur che’l tuo core, e’l mio
accenda un sol desio,
s’armino a’ danni miei destino e sorte
che m’è gioia il martir, vita la morte.
Nel recitar di questa ultima stanza volendo la giovanetta pronunziare il nome di Filli, parve che se le avvilupasse la lingua, e incominciasse un nome di maschio. Ma poi quasi ravveduta, ripigliato il verso pronunziò il nome di Filli; ma con un mezzo risetto voltò gli occhi nella faccia di Glisomiro, che le sedeva quasi dirimpetto. Terminata poi la sua canzonetta, presentò il leutino a Domitilla, la quale scusatasi di non saper toccare cosí picciolo strumento, data ad essa una carta, perché le suonasse un’aria di suo gusto, beatificò l’aure notturne, ma contaminò il cuore di Celinda, e di Glisomiro, recitando quei versi, che nel primo fiore degli anni aveva appunto scritti a Celinda, da cui li aveva ricevuti Isabella, e lasciatigli con altri suoi componimenti alla figlia. Disse:
Celinda io ardo, e l’ardor mio vivace,
che cresce allo spirar d’aura d’errore,
sí grande è già, ch’in lui ben puote Amore
alimentar la temeraria face.
Io ardo, io ardo; e l’ardor mio vorace
fatto immortal dal mio mortal dolore
scorrendo il seno, e penetrando al core
l’anima amante infievolisce, e sface.
Occhi rogo d’amor, che ardenti strali
nel sen vibraste, e spaziose porte
nel core apriste agli amorosi mali,
poiché il languir per voi m’è dato in sorte,
altre mercé non cheggio, occhi fatali,
che di sguardi pietosi alla mia morte.