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Girolamo Brusoni La gondola a tre remi IntraText CT - Lettura del testo |
SCORSA TERZA
Fu ventura di Celinda e di Glisomiro, che mentre cantava Domitilla fossero usciti da quella stanza Leonello e Ferrante per vedere anch’essi con altri di quella compagnia a che termine si fosse ridotta la marina, desiderando di ripassare, benché fosse ormai poco lontana la meza notte, a Venezia. Perché la dama vedutasi in qualche libertà, mossa la bocca in un riso infingevole e messo, ed esalato un tronco sospiro disse:
«Come vanno le cose del mondo! Chi m’avesse detto già cinque o sei anni, che dovessi riveder Glisomiro, l’averei trattato da pazzo; e pure è vero, che l’ho riveduto quando mi pensava che i venti se l’avessero portato cosí lontano, che mai piú venisse novella in queste parti di sua persona. Ma già no’l riveggo con quei pensieri, benché tenga i medesimi sembianti, che’l vidi nel piú bel fiore degli anni suoi. Allora era tutto celeste, ora mi sembra tutto terrestre, forse perché quel cielo che l’infiammò, oscurato dalla vecchiezza non ha piú né soli, né stelle per allettarlo, o per riscaldarlo».
Tacque ciò detto, e sorridendo Glisomiro rispose:
«Signora, i cieli non invecchiano, ma ben cangiano influssi. Io però non sono, né sarò mai diverso da me medesimo, benché la fortuna abbia cangiate con gli anni le mie fortune, e le mie inclinazioni».
Voleva rispondere Celinda, ma tornati in questo mentre in camera Leonello, Ferrante, Rambaldo, e Guglielmo, le chiusero le parole in bocca. Avendo però riferito, che cessata affatto la pioggia benché il mare tuttavia strepitasse, incominciava a rendersi praticabile la laguna; entrava già Leonello a licenziarsi con nobili ringraziamenti da quella compagnia; ma interruppe cosí fatto trascorso Celinda, che sentito Drusilla nominare per dimenticanza Domitilla (alla quale avevano posto nome Cateruzza) e già insospettita di sua persona, e per la somiglianza, che teneva con la madre, e per la recita del sonetto di Glisomiro a sé indrizzato; riconosciutala per quella che era, e trasportata dall’empito dell’affetto e della curiosità; non potuto celare nel petto questa notizia, venne a metter in campo una pericolosissima controversia. Perché riconosciuta la giovinetta anche da Leonello, e per essa discoperta Drusilla, diede negli strepiti, e contro le dame, e contro Panfilo, e contro tutta la sua compagnia. Anzi confidato nella propria autorità, senza riguardare che fosse quasi solo in quel luogo contra molti, passò dagli strepiti alle minaccie, e poco meno che alle violenze. Infmo a che la lite passò di parole, e Panfilo, e Vittorio, e Glisomiro si contennero ne’ termini della riverenza; ma quando trascorse nelle minaccie e alle violenze, oppostoglisi vivamente Panfilo disse, che essendo Domitilla sua moglie, ad esso e non ad altri ne toccava la cura, e che essendo Drusilla dama libera, poteva diportarsi come, e con chi le fosse piaciuto. Questa opposizione non che mitigasse, crebbe lo sdegno di Leonello, e prorompendo in nuove, e piú pregnanti ingiurie, mancò poco che quella camera ospitale non si cangiasse in campo di guerra. Ma frappostisi a quello strepito Placido e Glisomiro, tanto s’adoperarono con buone parole, che fatto Leonello capace se non delle ragioni di Panfilo, del proprio rischio, quietossi; ma non in guisa, che non volesse immantenente partire da quella casa; ma non essendo punto di questo umore né Celinda, né Alberta, gli misero mille intralci fra’ piedi aiutate da Glisomiro, che per proprio interesse e di Panfilo, non voleva, che passasse per maniera nessuna quella notte a Venezia. Ma che dovevano fare infino a giorno in quella casa con tanto incomodo? Perché se si fosse trattato d’abbandonarla per passare in terra ferma, era cosa certa, che Leonello ancora averebbe voluto partire per tornare a Venezia. Bisognò dunque giuocarvi di testa. Ma prima di toccar altro ci convien sapere a qual fine fosse stato chiamato Glisomiro fuor della mensa da Astolfo. Ella era stata Cate, che gliene aveva dato il motivo; con la quale trovatosi il cavaliere, ella gli parlò in questa guisa:
«Signore. Sono tante le obligazioni che vi professo, che non posso di manco di non palesarvi cosa, che penso vi riuscirà di molta consolazione l’averla intesa. Subito giunta qui, e restata sola con Giustina, la giovanotta entrata meco a dolersi della sua disgrazia, che le convenga passare in Alemagna con persona, che se ben le promette di sposarla, Dio sa quello che pensa di lei come l’abbia ridotta nel suo paese; è venuta insieme a confessarmi, che quando vi piacesse di trovare qualche invenzione di rapirla a Guglielmo, che si starebbe perpetuamente con voi, che possedete qualità veramente amabili; e l’avete cosí presa nel vostro amore, che si sente morire solamente pensando che dee allontanarsi dalla vostra gentile e cara persona, e conversazione. Io veramente non pensava di dovere trattar cosí presto con voi di questa sua voglia; ma l’avere di presente scoperto, che Rambaldo machina di farle un mal giuoco; m’ha posta in necessità di darvi questo incomodo, perché non venga a succedere qualche disordine prima che ne siate avvisato. Appena vi siete messi a tavola, che ho sentito nella camera qui presso, dove s’apparecchiavano le vivande, che il Moro, che voga nella vostra gondola, tratto Dietisalvi suo compagno in disparte gli ha dimandato se guadagnerebbe volentieri cinquanta ducati. Può fare il diavolo (ha risposto il villan traditore) venderei mia madre per cinquanta ducati. Che vuoi da me perché li guadagni? Il Moro allora gli ha detto, che Rambaldo promette ad ambedue cento ducati per dividerseli fra di loro, se vogliano accompagnarlo fino alla Motta, dove disegna di rubar Giustina a Guglielmo (col quale tien parola di passar nell’Imperio) e se gli riuscisse di rubargli anche i bauli, che porta seco, promette loro altri cento ducati, e piú ancora, secondo la preda che ne faranno, credendosi che abbia seco un buon valsente di robbe e di danaro. Dietisalvi ha pensato un poco sopra questa proposta, e finalmente instigato dal Moro ha risoluto d’esser con esso, pur che il delitto non si faccia nella Motta, ma in qualche boscaglia, dove dice che saprà condurli senza pericolo. Piú non s’è detto fra di loro, o se ne hanno parlato, non ho potuto intendere d’avvantaggio per essersi allontanati da questo parete di legno, e tutto pien di fissure, per le quali ho raccolte queste parole. Ora, signore, voi siete prudente, né vi lascierete voi fuggir l’occasione d’avere cosí bella giovanetta, che v’ama tanto a’ vostri piaceri: e vi dico veramente, ch’ella è una molto savia fanciulla, e benché innamorata, non credo però, che sappia ancora che cosa sia mondo. E quasi mi dò a credere, che Guglielmo, benché dorma con essa, non l’abbia fatta ancora donna, e quando pure l’avesse fatta, che importa a voi? Ad ogni modo ella non v’ha da servire che da piacere».
Qui tacque la vecchia. E Glisomiro, che all’intendere l’iniquità di Rambaldo, e la ribalderia del Moro e di Dietisalvi s’era tutto conturbato nell’animo; in udire queste parole di Cate, conosciuto che nel servire a Giustina procurava il suo proprio vantaggio per trattenersi appresso di lui, e trovarsi con Astolfo; tutto rasserenato disse:
«Insomma tu sarai sempre Cate, ma io non sarò mai diverso da Glisomiro. Giustina sarà moglie di Guglielmo, e non mia amica; ma sovra Rambaldo, il Moro e Dietisalvi averò il conveniente risguardo, perché non succeda qualche disordine. Nel rimanente ti ringrazio di questo avviso, e ti prego di fermarti con Giustina, perché ho speranza di fare ch’ella non passi in Germania, e resti moglie di Guglielmo; che quando ancora non fosse mio amico non è cavaliere da esser tradito. Tu non parlare con altri di queste cose, e metti da parte i tuoi umoretti con Astolfo, ch’egli è ormai tempo di pensare ad altro, che all’amor de’ ragazzi; che se bene tu non sii ancora dispregiabile, Astolfo non fa per te, né tu per lui. Lascia, Cate, lascia questi umoretti, e se non puoi lasciare il vezzo nel quale sei vissuta maritati, che non ti mancherà qualche ometto, che non guardi a scrupoli, e ti scuota il pelliccione a tua posta. E se m’ascolti Ghiandone farebbe molto a proposito, e vi potreste stare insieme al servigio di Guglielmo e di Giustina. Pensavi, che sarà ben fatto».
Detto questo, tornossi Glisomiro nella sua nobile compagnia dove succeduto quello che già sappiamo; voluto cessare ogni disordine, disse:
«Signori. Qui conviene mettere in pratica il consiglio, che ci diamo l’uno all’altro a giornata, facendo di necessità virtú. Partire di qui a quest’ora, e con la marina ancora torbida, non mi sembra buon partito. Per una mezza notte d’incomodo non si muore. In questa camera si possono adagiar le dame, d’un letto facendone due; e standovi come potranno il meglio. Alla medesima guisa si potranno accomodare in un’altra camera quelli, che non si sentissero di fare una notte da soldato. A’ padroni della casa resterà libera la stanza destinata al loro trattenimento, e la servitú potrà dormire nel portico, in cucina, e nelle barche a suo piacere. Chi meglio pensa, meglio proponga, ch’io m’accomodo per la mia parte ad ogni cosa».
Parve buono questo consiglio, e venne eseguito con molta felicità, avendo in quella ritiratezza Panfilo aiutato da Placido e da Vittorio placato Leonello con renderlo capace delle sue ragioni in avere sposato Domitilla senza il consentimento del padre suo. Intanto Glisomiro, che aveva già per mezo d’Astolfo fatta apparecchiare la gondola da tre remi, mettendo però in luogo di Dietisalvi uno de’ gondolieri di Panfilo a vogare, invitò fuori di casa Rambaldo con Ariperto (al quale aveva dato qualche motto di quella occorrenza) dicendogli:
«Signore: tengo di là da quest’acqua certo rigiro con una dama, al quale non desidero compagni, de’ quali non possa fidarmi in ogni fortuna. So, che voi siete cavallier di grand’animo, e però vi prego di fare una scorsa meco in quella parte».
Rambaldo, curioso per natura, e nullamente sospettoso allora di Glisomiro, subitamente disse che l’averebbe servito: onde entrati elli tre soletti in barca, Betto e’l gondoliere di Panfilo, secondo l’ordine ricevuto da Glisomiro, voltarono immantenente la prora verso Burano, Dove pervenuti, e smontati con maraviglia di Rambaldo, Glisomiro gli disse:
«Rambaldo, itene per la vostra via, che nella nostra compagnia non vogliamo persone, che paghino i benefici di tradimenti. Non vi dico di piú, che piú non meritate, e porto rispetto ad altri, che a voi. Andate; ma ricordatevi, che non sempre sono le malvagità fortunate; né tutti gli uomini son Glisomiri che sappiano pagare, a rovescio di voi, i tradimenti di benefici».
Voleva Rambaldo entrare col cavaliere in novelle, e far dell’incognito e del galantuomo; ma Glisomiro dettagli la buona notte senza piú lasciollo su la fondamenta, e tornato in barca disse a Betto, che tornasse a Torcello. E intanto Ariperto stupito della sua accortezza e generosità, entrò a lodarnelo con molta grazia. Ma il cavaliere, rotto cosí fatto ragionamento disse:
«Io non so trattare in altra guisa co’ miei nemici. E se m’inganni talvolta, mi giova di restare ingannato pur che non inganni me stesso. So che con due sole parolette, che avessi dette a Guglielmo averci potuto far le vendette delle mie proprie ingiurie senza che persona del mondo potesse mai sospettare che da me fosse venuto il colpo. Mai non per ciò mi celerei alla mia propria coscienza, e agli occhi di quel Dio che tanto gode del titolo di clemente, che l’antepone a quello d’onnipotente. E fuori ancora di questi sentimenti di pietà, io non vidi mai, che le vendette fruttificassero altrui che delle disgrazie, dove la clemenza non sa portare a chi l’adopera che benedizioni anche dagli stessi nemici. Ma parliamo d’altro. E che ne dite signor cavaliere delle novelle portateci da Leonello e da Placido del corso felicissimo, che han preso l’armi della Polonia? Quando vi diceva io l’anno passato, che la fortuna dello Sueco era una illusione, e che l’alienazione de’ grandi di quel Regno da proprio re per aderire al partito de’ suoi nemici, era un inganno: voi imbevuto della soverchia stima dell’armi svedesi vi ridevate de’ miei pensieri. E pur bisogna ancora considerare nelle rivoluzioni di Stato, che non basta che un capitano tenga un esercito agguerrito e veterano al suo servigio; perché bisogna vedere ancora s’egli abbia la ragione e la giustizia che militino con le sue bandiere. Il re Casimiro travagliato dalla guerra del Moscovita, e dalla ribellion de’ Cosacchi, acconsentiva a partiti anche pregiudiciali a se medesimo per mantenersi in pace con lo Sueco; ma il novello Gostavo pieno d’una vastissima pretensione d’assorbire non solamente la Polonia, ma la Boemia, d’annichilare ne’ Regni del settentrione ogni vestigio di religione cattolica: rotta la tregua non ancora terminata, e rifiutato ogni accordo di pace, ha portato l’armi piú ingiuriose che vittoriose nella Polonia; e bene, o per fortuna sua, o per tradimento d’alcuni grandi del Regno conseguí dapprincipio qualche vittoria; perché c’era qualche peccato nella Polonia, che meritava il flagello dell’armi straniere; ma conosciuto appena il proprio fallo, e rimessi ne’ termini del loro dovere, hanno richiamato quei Grandi nel suo trono il legittimo re, che le forze svedesi han dato da se medesime l’ultimo crollo. E tralasciate le ragioni della pietà cristiana, credetemi, amico, che per agguerrite che sieno, come voi sostenete, sovra tutte l’altre d’Europa, le soldatesche svedesi, che mentre non abbiano l’appoggio degli stessi Polacchi, niente potranno nella Polonia; benché sieno appoggiate da un principe cosí poderoso, com’è l’Elettore di Brandemburgo, che dopo tante disfatte ha rimesso con le sue forze in piedi il partito svedese. Stupiscono alcuni, che il fu re di Svezia facesse tanti acquisti nella Germania, e l’attribuiscono ad eccesso di valore nella sua persona, e nelle sue genti: né veggono, o non vogliono vedere, che infino a che militò solo nella Germania, trovossi battuto e stretto da poche genti imperiali a segno, che già offeriva per se medesimo patti d’accordo per ritornarsene donde era venuto. Ma la lega di Francia, d’Inghilterra e d’Olanda gli diede il modo di fermarsi, e l’unione di Sassonia, di Brandemburgo e d’altri principi dell’imperio gli aprí la strada a quegli acquisti nella Germania, che piú che della Svezia furono opra e fatica della stessa Germania. Nella medesima guisa procedono le cose del presente re nella Polonia, e senza la ribellione d’alcuni principi del regno, l’appoggio di Brandemburgo, e i soccorsi del Cromuel e d’altri potentati, a’ quali torna il conto che la Svezia stia con l’armi alla mano, si sarebbe veduto in pochi giorni soccombere allo sforzo dell’armi polacche».
«Veramente, disse Ariperto, conosco d’essermi ingannato ne’ miei giudici, ma nell’inganno di tutta Europa, che dava per disperato affatto il partito cattolico nella Polonia, e nella Germania sotto il ferro di questo re, che s’usurpa il titolo di capo e protettore de’ protestanti».
E Glisomiro:
«Due grandi nemici tiene a questi giorni la cristianità cattolica, Carlo Gostavo e Oliviero Cromuel, né puossi attribuire certamente, che ad operazione diabolica cosí fatta unione di due teste per altro piú fra di loro contrarie ne’ sentimenti, e ne’ dogmi delle loro eresie, che non sono gli eretici medesimi co’ cattolici, essendo lo sveco Luterano, e l’inglese Calvinista, e della piú disperata setta ancora de’ Calvinisti, benché sia opinione di chi l’ha conversato, ch’egli non abbia altra religione, che quella del proprio interesse; né per altro si faccia capo anch’esso, e protettore de’ protestanti, che per ragion di Stato a proprio sostentamento. Cosí sappiamo le pratiche che egli ha tenute con gli Ugonotti di Francia prima d’aggiustarsi con quella Corona, e quello che abbia operato a favor degli eretici della Val di Lucerna, a questo solo fine d’acquistarsi l’aura e’l credito appresso i popoli alieni dalla religione cattolica».
«Non mi negherete però (disse Ariperto) che il Cromuelo non sia il maggior uomo de’ nostri tempi, avendo saputo di privato cavaliere condursi con la sua industria all’assoluto comando di tre regni, onde è divenuto formidabile a’ piú poderosi monarchi d’Europa».
«La vita il fine, e’l dí loda la sera, rispose Glisomiro. Anche Diocleziano, che fu il peggiore di tutti gli uomini del suo tempo fu il maggiore di tutti i Cesari che furono prima, e che forse sieno stati dopo di lui. Ma osservate giusto castigo di Dio sopra l’Inghilterra. Arrigo Ottavo, e i re suoi successori per alienar quei popoli dalla fede cattolica e dall’obbedienza del Pontefice Romano, si sono serviti del braccio del Parlamento. Il Parlamento per abbattere la sovrana potestà dei re ha conculcata affatto ogni ombra di religione e di pietà cristiana, armando i popoli sovvertiti contro il medesimo re, e la sua posterità. I popoli armati dopo d’avere abbattuta l’autorità reale col sangue dell’ultimo re decapitato per man di carnefice e scacciato il clero e la nobiltà dal Parlamento e dal regno; introducendovi lo stato di repubblica popolare, hanno prodotto un nuovo mostro a destruzione della loro usurpata potestà; avendo il Cromuelo annichilata affatto l’autorità, la libertà, e la independenza del Parlamento, facendolo e disfacendolo a suo arbitrio, e ritenendo a titolo di protettore un’autorità non mai permessa a’ regi, di far guerra e pace, imporre tributi, assoldar genti, fabbricare armate, e far tutto quello che vuol dentro e fuori del Regno, senza che uomo del mondo ardisca d’aprir bocca senza presentaneo castigo, contro la sua persona e autorità. Dove debbia terminare cosí violenta mutazione di cose, non c’è chi possa presumerlo, non che saperlo. Chi v’ha interesse vi pensi, che a me basta di pensare a me stesso».
Fra questi ed altri ragionamenti tornati Glisomiro e Ariperto, donde erano pur dianzi partiti, si fece loro incontro la piú inaspettata novità del mondo: le dame sole, e tutte confuse, e scarmigliate, e alcune di loro piangenti. Fu la prima Alberta, che veduto entrare il cavaliere con Ariperto uscisse tutta lagrime e sospiri ad incontrarlo. Diede un guizzo d’orrore Glisomiro a questa comparsa, e veduto, che la dama con soverchia domestichezza si lasciasse cadergli in seno, dubitatosi di qualche e gran male nella persona di Placido, sospirando disse:
«O mia signora, che novità son queste? Dov’è Placido? Dove gli altri cavalieri?».
Niente rispondeva la dama, fosse o troppo cordoglio, o qualche amoroso artifício che la rendesse immobile e muta con la faccia appoggiata alla spalla sinistra del cavaliere. Finalmente trattasi avanti Drusilla, come quella che meno di tutte l’altre offesa dalla fortuna si sentiva trafitta l’anima dal coltello della gelosia d’Alberta, brevemente disse:
«Signore. Non vi saprei dir altro, se non che Cate, avendo rubati gli ori e le gioie di Celinda, d’Alberta e d’Eufemia, se n’è fuggita con Dietisalvi e un lavorante di questi orti sopra una barca di casa; e in traccia di essi si sono messi con le gondole qui restate tutti i cavalieri di nostra compagnia».
Crollò Glisomiro il capo a questa novella; e chiesta licenza alle dame d’uscire anch’esso alla medesima inchiesta, non glielo vollero permettere a patto alcuno, dicendo che per convenienza, e sicurezza loro dovesse egli almeno fermarsi con Ariperto e la sua barca. Parve giusta al cavaliere questa rimostranza; e fatto chiamarsi il Moro, senza dargli ombra di quello che sapesse di lui, gli comandò d’andarsene immantenente fuori di quella casa; e di non capitar mai piú in luogo alcuno dove sapesse, ch’egli vi fosse. Il Moro spaventato da quella minaccia, e percosso dal rimorso della propria coscienza, tutto tremante rispose:
«E dove volete, signore, che io vada a questa ora senza barca e per luoghi impenetrabili non essendo qui attorno che ortaglie, e seminati?».
E senza aspettare risposta dal cavaliere soggiunse:
«Ma signore, benché abbia fatto Dietisalvi di quello, che dovete sapere; poiché vedo che avete cacciato via Rambaldo e Dietisalvi è fuggito, sappiate ancora, che io non aveva però pensiero di fare il male che voleva Rambaldo; ma l’andava trattenendo insino che potessi essere in terra ferma; dove subito voleva abbandonarlo, e andarmene a casa mia».
«Queste sono favole, disse Glisomiro, e le cortesie che hai ricevute nella mia casa non meritavano che trattassi meco e co’ miei amici in questa forma. Orsú mi contento di condurti in terraferma; ma ti licenzio per sempre dalla mia casa; che se ben fosse vero, che io nol credo, che non pensassi di fare il male che macchinavi; basta per convincerti reo il non avermi subitamente avvisato delle machine di Rambaldo».
Queste parole misero in curiosità le dame d’intendere quello, che fosse appunto avvenuto di Rambaldo e ciò che avesse machinato a’ danni del cavaliere. Ma Glisomiro detto loro, che fosse tempo di riposare, non d’attendere a queste novelle, cangiò ragionamento per intendere esso come fosse succeduto questo disordine di Cate e di Dietisalvi.
Questa femmina indegna vedutasi tolta dal cavaliere ogni speranza della domestichezza d’Astolfo, o per disdegno, o per capriccio messi gli occhi addosso a Dietisalvi, giovine di primo fiore, e per villano, di bella faccia; tenne modo di favellar con esso mentre i cavalieri e le dame si trattenevano discorrendo, e cenava la servitú. E da meretrice vecchia e trista, conosciuto da’ suoi discorsi col Moro, che la vera strada di cattivarselo fosse quella del danaro, alzatasi di letto, e messolo in ciancie gliene esibí qualche quantità, e di fatto gli mostrò due o tre monete d’oro e d’argento; se avesse voluto acconsentire alle sue voglie, e tornarsi con essa a Venezia. Il giovine, che per uno scudo averebbe camminato ducento miglia, e che non avendo mai forse avuto pratica di femmine, gli pareva una bella cosa che una donna, che teneva ancora qualche apparenza di vaghezza gli cascasse in braccio, le promise tutto quello che volle come fossero pervenuti in terraferma; non sapendo allora come partire da quel luogo e da quella compagnia. Ma la fortuna, che voleva avviluppare un nodo di stravaganti avventure in quella casa, gliene diede la comodità assai prima di quello che potesse sperare. Perché lasciato in terra da Glisomiro, che per ragion di stato non volle condurre tutti e tre i congiurati seco; mentre stassi sornacchiando nel portico, ecco Cate che passa a svegliarlo dicendogli:
«Dietisalvi, se ti dasse l’animo di fuggirti or ora di qui, darebbe a me il cuore di farti ricco. Io ho messe in letto con Giustina alcune di queste dame, le quali nello spogliarsi hanno lasciato sovra un tavolino gli ori, e le gioie che portano in testa e nel seno. Queste io posso involare senza che persona se ne avveda. Tu vedi se ti basta l’animo d’uscir di qui, che siamo accomodati per un pezzo».
Non pareva buono al giovine questo partito, né voleva acconsentirvi, prevedendo con astuzia villanesca, che cosí fatte cose in poter loro gli averebbono, volendo farne ritratto, accusati del furto. Ma Cate impauritolo con dirgli, che avendo Glisomiro scoperto il tradimento che aveva ordito col Moro contro Guglielmo, si trovasse in pericolo di portarne le pene al suo ritorno, il trasse tutto spaventato dove le piacque. Ma non c’era per questo mezzo come partire: perché essendo le barche di Panfilo e di Leonello disparecchiate, non poteva prevalersene senza strepito in provvederle almeno di forcole e di remi. E quando ancora avesse potuto provvederle, non sapendo guidare gondole in poppa, come che tenesse pratica di vogarle a mezzo, non poteva assicurarsi d’altro, essendo tuttavia la marina inquieta, che d’andarsi a mettere in un precipizio. Cate intese le ragioni del giovine, e vogliosa pure di coronare le passate infamie della sua vita con questa nuova ribalderia, gl’insinuò, che se non sapesse poppeggiare in gondola rubasse un qualche battello agli ortolani, o di quella casa, o di quei contorni, col quale passando a Burano o a Mazorbo averebbono potuto trovare in quei luoghi qualcuno, che li conducesse per mercede a Venezia o in altra parte. Pensato un poco, e consultato fra di loro, presero finalmente partito di tentare un fanciullaccio, che serviva di lavorante casuale in quegli orti per indurlo anche per propria sicurezza a fuggirsi con essi con un batello del suo padrone. Cosí trovatolo, che dormiva in una stanza di legno e paglia fabbricata fuor della casa per uso degli orti, e fattigli toccar con le mani (perché era allo scuro) alcuni danari, che gli promisero per mercede di quel servigio, il trassero agevolmente dove bramavano; e tanto piú volentieri, che passato di pochi giorni a lavorare in quella parte, vi dimorava egli di pessima voglia. Or mentre Dietisalvi e’l lavorante apparecchiano il batello, entrata Cate nascostamente in camera delle dame, perché qualcuna d’esse ancora vegliava, fínse di mettersi anch’ella a riposo: e spento il lume se ne portò le gioie dov’era aspettata da’ giovini, co’ quali andossene alla sua ventura. Aveva l’ortolano maggiore sentito quel poco di strepito, che di necessità fecero costoro nel separarsi dalla riva, e dare de’ remi all’acqua, e conosciuto la maniera della voga che fosse di batello, non di gondola, e di gente mal pratica, insospettito di qualche furto fatto negli orti suoi, balzò di letto; e corso alla sua riva trovò mancarvi appunto il suo batello. Chiamato perciò il lavorante, né comparendo in luogo alcuno, svegliò la sua famiglia, la moglie e i figli, che per dare luogo agli ospiti dormivano nel soffitto della casa, e mise ogni cosa sossopra. Accorsero a questo rumore i gondolieri di Leonello e di Panfilo, e trovato mancare anche Dietisalvi crebbero il rumore a segno, che svegliatisi e usciti fuori i cavalieri ancora, che dormivano semivestiti, chiesero del motivo di somigliante novità. Li aveva già messi in apprensione la partenza di Glisomiro e di Rambaldo con Ariperto, come che s’avessero dato a credere, che per qualche loro capriccio giovinile avessero solamente passato l’acqua. Onde il sentire questa nuova ritirata, e che Astolfo andasse borbottando per casa, entrati in qualche peggior sospetto, chiesero al giovinetto, che stravaganze s’andassero machinando dal suo padrone. «Nol so, disse turbatamente Astolfo; ma forse Cate ve ne potrebbe dir qualche cosa». La curiosità e l’importanza del fatto spinse i cavalieri a chiedere della donna, ma chiamata, e richiamata alla porta della camera delle dame, saltò di letto Alberta, e semivestitasi andò a vedere che cosa si ricercasse. E fattosi dare un lume dal marito svegliò tutte l’altre dame; e non comparve già Cate, ma ben s’avvidero prestamente del furto fatto da lei; perché messo il candeliere sul tavolino venne a scoprirsi ignudo, dove nell’andare a letto l’avevano caricato d’un tesoro femminile. Questa veduta fece balzar di letto Celinda ancora, ed Eufemia, che insieme con Alberta erano state le danneggiate; che Domitilla e Giustina, benché in portamento di spose, non tenevano che qualche anelletto in dito e qualche cosetta al collo, che non s’avevano levata d’attorno. Passata ne’ cavalieri per li pianti delle dame questa novità, e trattandosi d’un grave danno di Leonello, di Ferrante e di Placido, considerato che gl’involatori inesperti e impacciati, poco potevano essersi dilungati, entrarono confusamente in barca, e avendo rinforzata la gondola di Panfilo l’ortolano, con due suoi figli, si misero Panfilo, Vittorio e Guglielmo verso la terra ferma, e Leonello con Placido e Ferrante verso Mazorbo e Venezia alla traccia dei fuggitivi.
Intesa Glisomiro parte di queste cose dalle dame e da Astolfo, perché i motivi della fuga erano ancora incogniti, e contristato di somigliante disordine, lasciate le dame con buone parole, voleva ritirarsi con Ariperto in altra parte. Ma Alberta aspettato che l’altre rientrassero nella propria camera, chiamato il cavaliere fermollo nel portico, ritirandosi a questo suono nella camera degli uomini anche Ariperto con Astolfo. Fermatosi il cavaliere per intendere che cosa gli comandasse la dama, ella guardatolo fissamente ammutí. E poi stata alquanto sovrapensiero sorrise dolcemente, e disse: «Voi m’avete raccontato stanotte, che Leonora favorisse d’un bacio Torquato. Gran premio a grande amore. Io non sono Leonora da poter favorire chi m’ama, ma credo bene d’essere Leonora in conoscere il merito di chi mi serve. E se bene non siate voi solo ad amarmi, siete però quel solo, che io ho eletto per oggetto del mio amore, che bene il merita una servitú di tanti anni, benché sappia, che non vi manchino ancora altri trattenimenti». E detto questo, e data un’occhiata attorno, né veduto pure ombra alcuna di chi potesse vederla, abbracciato il cavaliere ne’ fianchi, né avuto ardire di baciarlo, gli ripiegò la bella faccia in seno, dandogli comodità di prendersi esso quella ricompensa, che non ardiva di dargli essa stessa della sua servitú. Glisomiro vedutosi in quell’inaspettato cimento, e pauroso che qualche dama, o per gelosia, o per curiosità mettesse il capo fuor della porta ad osservare i loro trascorsi, dislacciatosi soavemente dalla dama, venosamente le disse:
«Adagio mia signora, per grazia, con i favori, perché io non sono piú Glisomiro, e voi non siete piú dama libera».
Sospirò allora Alberta, e disse:
«Voi non siete piú Glisomiro? E perché?».
«Perché, rispose il cavaliere, una volta averei stimato grazia suprema l’onore d’un vostro bacio; ora non so quello che mi facessi dopo che avessi avuto l’onore di baciarvi».
«V’intendo, v’intendo, disse tutta crucciosetta Alberta. La pratica di Minetta v’ha tutto cangiato da voi stesso. Quello che non faceste da giovinetto con Celinda e con Isabella, che tanto vi amavano, quello, che non avete mai preteso da Alberta nel piú bel fiore degli anni suoi, e de’ vostri, ora che Minetta v’ha contaminato il pretendereste da Alberta poco meno che vecchia?».
Rise il cavaliere di questo gentile sproposito della dama, e disse:
«Voi vecchia, mia signora, che siete nell’auge della beltà e della gloria donnesca? Certo, che s’io ben mi ricordo quando vi maritaste, voi passate di poco i trent’anni. E vi chiamate vecchia? Ma queste son favole. Voi siete mia signora, e avete voluto che tenga Placido per amico; e però contentatevi, che io v’ami e vi serva senza ricompensa, mentre non posso pretenderla senza offesa di chi avete fatto mio amico».
Mosse a queste parole la faccia Alberta in un gesto graziosissimo e guardato il cavaliere di sottocchio, soggiunse:
«E dite, che non siete piú Glisomiro? Questi sono i vostri delirj da giovinetto. Io veramente non pensava, che doveste offendere Placido con un bacio d’onore: ma poiché voi mi trattate su quest’aria, quando avessi ancora preteso da voi un bacio d’amore in che offendereste Placido? Io certo non per fare ingiuria a Placido, ma per far beneficio a me stessa l’avrei preteso. Ma poiché voi m’avete negato un bacio d’onore, non voglio nemmeno da voi un bacio d’amore».
Era una confusione questa parlata; e cosí parlano ordinariamente le donne, e massime innamorate, che vorrebbero anche senza parlare essere intese.
Trovossi pertanto oltremodo confuso il cavaliere ancora; onde le disse:
«Signora, non è questo luogo, né tempo da somiglianti trapassi. Io debbo essere in terra ferma per aggiustare gl’interessi di Panfilo e di Domitilla, e di Guglielmo, e Giustina, e forse ancora a visitar Laureta. So che potete ciò che volete con Placido, trovate però qualche invenzione per venir voi ancora con queste dame, che cosí saremo lontani da Celinda (che ben sapete, che bisogna guardarsi da lei) e parleremo insieme per aggiustare senza offesa d’alcuno la ricompensa meritata dal mio amore, ed esibitami dalla vostra gentilezza».
Voleva rispondere Alberta; ma uscita fuori Drusilla l’interruppe dicendole tutta turbatetta e confusa che fosse ormai tempo di lasciare andare il cavaliere a riposarsi. Alberta piú di lei confusa, e turbata di questo sovrasalto sdegnosamente rispose:
«Se avete sonno andate a dormire, che non vi mangierò mica il vostro amore. Sono quindici anni, che ci conosciamo, e voi siete venuta iersera; e benché diciate d’essere sua moglie, so bene che non siete: avendo egli altro in testa, che d’ammogliarsi. Andate, andate a dormire, se avete sonno».
Qui Drusilla quasi piangendo di stizza, disse:
«Se Glisomiro non è mio marito, può essere: e benché io non sia ancora sua moglie, stando però con esso non gli farei questo torto di far l’amore con altri, come fate voi, benché siate maritata».
Infuriata Alberta per questo rimprovero mancò poco, che non dasse in qualche impazienza; ma ritornata in se stessa dalla propria accortezza, con un riso amarissimo, disse:
«Orsú, andate, signora, a dormire, che avete ragione; e scusatemi, perché bisogna che dica due parole ancora a vostro marito, e verrò dopo a servirvi».
Ritirossi allora Drusilla. e Alberta soggiunse:
«Ho paura, che questo animale faccia per gelosia qualche sproposito, e tornato Placido m’accusi di questo mio abboccamento con la vostra persona. E se bene egli non pensa male alcuno di noi, tuttavolta non vorrei che la fortuna mettesse qualche disordine a campo per separare la nostra conversazione. Se m’amate punto, quietatela, e perché non possa tradirmi, prendetemi a parte della vostra confidenza con essa. Essendo innamorata e dama libera farà per voi tutto quello che vorrete. Io le darò ad intendere d’aver trattato appunto con voi per suo proprio servigio, e che v’ho ridotto a compiacerla in qualunque maniera le piacerà del vostro amore. Né mi trovate invenzioni per farmi credere, che non abbiate questi pensieri con essa; perché non sono piú cosí sciocca, che possa darmi ad intendere le vostre favole d’amori platonici e poetici; sapendo bene, che voi ancora avete rinnegata questa eresia, e che Minetta non v’ha provato cosí stolido come vi provarono Isabella e Celinda. E in quanto a me non mi farete ingiuria alcuna. So, che non m’avete mai amata a questo fine, e che quando ancora l’avete avuto; non debbo legar voi mentre sono disciolta dall’obligo di corrispondervi. Vi stupirete forse di sentirmi dopo tanti anni d’amicizia portata ne’ termini del rispetto, favellar con voi con questa libertà: ma voi ne siete stato cagione col perdervi nell’amore di Minetta, con la quale so tutto quello che avete fatto per bocca di Bettina, e di Lorenzetta. Orsú vi lascio».
E taciuto, non però partiva ma guardava tuttavia fisso il cavaliere. Il quale non saputo come rispondere a questi suoi propositi mentre non gli dava spazio di raccogliersi, e veduto che ella aspettasse pur di vedere da qual piede zoppicasse con essa, pensò di liberarsene con un bacio in fronte: ma la scaltra dama incontratolo con una maniera tutta amorosa, lasciollo con un profondo sospiro. E tornata in camera, benché tutta conturbata, disse scherzando a Drusilla:
«So che siete molto gelosa, signora mia. Non ve l’ho mangiato no, il vostro amore, per aver parlato con esso de’ vostri interessi».
Poi messale la bocca all’orecchio pianamente soggiunge:
«Drusilla, non perdere piú tempo che ti bisogna. Se lasci andar Glisomiro in terra ferma senza che ne abbi avuto da esso qualche contrasegno certissimo del suo amore, non sarà piú tuo. Io ho penetrato da’ suoi discorsi, ch’egli sia innamorato di Laureta, in casa della quale credo che si faranno le nozze di Panfilo e di Domitilla. Già si diceva, che quella dama volesse maritarsi con esso; e chi sa, che non vada a trovarla con questo fine? Mi conferma in questa opinione, perché avendogli io parlato di tua persona come di sua sposa, secondo quello che tu mi dicesti iersera, egli m’ha risposto, che non vuole ammogliarsi. Io però non credo a parole d’uomini, perché sempre ingannano le donne. Tu sei giovane, bella, e innamorata. In casa non c’è altri che quel Francese suo amico, dal quale non hai occasione di guardarti, perché egli attende a’ fatti suoi; e queste dame sapendo che tu vivi ora alla sua ombra non sospetteranno niente di male. Vattene a ritrovarlo, perché io ti sarò sempre buona amica, e ti coprirò con le mie vesti».
A Drusilla giovane innamorata, e benché di buona età, quasi inesperta delle astuzie femminili pareva che le volasse in seno la sua buona fortuna per quelle parole, tutte inventate dalla sua accortezza, di Alberta. E benché da una parte le dispiacesse il sentire questo segreto dell’amore di Glisomiro con Laureta, come pregiudiciale a’ suoi interessi; confidando per l’altra, che se prima di lei l’avesse avuto in sua balia avrebbe potuto promettersene un possesso stabile della sua persona e del suo amore, correva già col pensiero in braccio del cavaliere. Ma poi ritenuta dalla vergogna d’Ariperto, e dal timore dell’altre dame, torcendosi tutta disse:
«Sia maledetto quel Francese, e’l punto che è tornato seco in questa casa. Poteva pure Glisomiro lasciarlo andare in sua malora dietro la traccia dei fuggitivi».
Mentre qui delirano queste due dame, e Celinda ed Eufemia, benché afflitte dalla perdita delle loro gioie si lasciano occupare gli occhi stanchi dalla lunga vigilia da qualche ombra di sonno, Giustina, che vegliava sovra i loro andamenti, ed era forse piú di loro accesa della persona di Glisomiro, e già sapeva, che Cate gli avesse rivelati tutti i suoi pensieri, fatta ardita dal proprio genio, dall’amore, dalle tenebre, dalla gelosia, e dalla disperazione; uscita di là senza dir nulla, quasi che pensasse a qualche sua domestica occorrenza, passò nella stanza degli uomini, ove si stava Glisomiro ancora in veglia, e dormiva Ariperto. Qui assalito a spada franca Glisomiro, che rimase dolcemente confuso da quello inaspettato sovrassalto gli disse:
«Ebbene, Signor cavaliere, che risoluzione avete presa sovra la mia persona?».
«Quella che debbo, rispose Glisomiro. Guglielmo sarà vostro marito, e se non vi piace d’andare in Germania, procurerò, che si fermi in una condotta di sua professione in qualche terra di questo dominio: che se bene poco vaglia per me stesso, mi confido di trovargli per mezzo degli amici e de’ padroni questo ricapito. E in tanto vi potrete fermare ambedue nella mia propria casa, o dovunque vi piacerà».
Fu qualche cosa per Giustina questo primo incontro, che le dava buona parte di quello ch’ella desiderava. Onde non sapendo che replicarsi si stette immobile e muta con gli occhi a terra. Allora Glisomiro lusingatale con una mano soavemente una gota, piú soavemente le disse:
«Signora, vi prego di ricordarvi, che mentre Guglielmo vi sposi non avete di che dolervi di lui, come che abbiate per altro ancora di che lodarvene. Amatelo, e siategli fedele, ch’egli il merita».
La fanciulla incantata da quel tratto e da queste parole, data ne’ pianti disse:
«Purtroppo gli sono fedele; ma voi, signore, m’avete ammaliata, e non vorrei già, che Cate vi avesse detto qualche cosa di mio pregiudizio, perché io non ho avuto altro fine, che di pregarvi a favorirmi della vostra protezione per non lasciarmi partire d’Italia. Nel rimanente mi rimetterò sempre al vostro piacere».
Chi può darsi ad intendere la favella d’una donna (e quanto meno d’una fanciulla) innamorata? Il confessare d’essere ammaliata dall’amore del cavaliere, e di rimettersi alla sua disposizione come poteva aggiustarsi con l’essere fedele a Guglielmo, e con la negativa di quello che gli aveva fatto rappresentare a suo nome da Cate? Si può credere che il credersi assicurata dal cavaliere, e di restare in Italia, e d’esser moglie di Guglielmo la rimettesse in se medesima, come che pure l’amore, che portava a Glisomiro la tenesse perplessa nelle sue inclinazioni. Onde se non fosse stato piú potente in Glisomiro l’affetto dell’amicizia e’l riguardo dell’ospitalità, che l’amore della giovanetta e la propria compiacenza della sua eccellente persona (che veramente Giustina possedeva qualità da far prevaricare ogni anima costante) si può credere agevolmente, ch’ella ingombrata dalle fantasime d’amore non avesse saputo negargli cosa che avesse desiderata. E pur fu vero che usasse il cavaliere tanto riguardo con la fanciulla, e tanta lealtà con l’amico, che stimasse d’aver fatto anche troppo con lusingarle per confortarla il volto, e darle un bacio d’onore in mezzo la fronte. E se passasse piú avanti con Alberta, egli non teneva obligazione alcuna con Placido, non per altro avendo preso a conversarlo, che per instigazione della medesima dama, che avendo lungamente trattato seco ne’ termini d’un amore di virtú e di complimento; cangiata o per gelosia e per invidia, o per capriccio, o per comodità da se stessa; volle dimesticarsi con esso piú di quello che non le comportasse il suo debito, e farsi per proprio interesse anche ministra dell’altrui precipizio. A questi scogli rompono sovente la propria onestà quelle donne, che a qualunque pretesto se’l facciano, ambiscono la confidenza degli uomini, o che amano, o da’ quali vengono amate.
Tornata Giustina piú presto di quello che non aveva forse disegnato, e piú consolata che non avrebbe sperato Glisomiro, fra le altre dame; egli serrata la porta della sua camera gittossi alla ventura sul letto per prendere un breve momento di riposo. Ma egli aveva appena dormito un’ora, che tornato sul far dell’alba un figlio dell’ortolano con una barca di passeggeri, svegliò tutta la casa, portando ordine di Panfilo e di Guglielmo, che se Glisomiro fosse tornato con Ariperto in quella parte dovessero Domitilla ancora e Giustina mettersi con esso in viaggio per terra ferma, verso dove avuto spia che si fossero stradati i fuggitivi, si sarebbono trovati anch’essi per fare inchiesta di loro. Quell’ordine, che guastava tutti i disegni di Alberta, e forse ancora di Celinda, mise nuove turbolenze in campagna; perché non paruto loro di propria convenienza il fermarsi solette in quella casa, si dichiararono, che non avrebbono giammai permesso a Glisomiro d’abbandonarle infino a che non fossero tornati i loro mariti. Piaceva a Glisomiro questo incontro, che veniva a liberarlo dall’impaccio di Celinda e di Alberta: ma poi considerato anch’esso, che non fosse buon termine di partire infino a che non avessero sentito qualche cosa ancora di Leonello e di Placido, spinse il medesimo ortolano con una sua barca a ricercarne verso Mazorbo, e Venezia: portando loro parimente l’avviso della strada tenuta da i fuggitivi. Fatto questo, le dame, benché avessero poco dormito, e manco riposato, vollero vestirsi e acconciarsi, e comparve fra le altre Alberta in un portamento cosí ammaliante e lascivetto che ben diede a conoscere a Glisomiro che non si fosse punto dimenticata di quel che aveva trattato seco la notte. Drusilla altresí, benché si stasse taciturna e sospesa, faceva scintillare fuori de’ suoi begli occhi alcuni spiritelli amorosi, che davano chiarissimi contrassegni, che le parole d’Alberta l’avessero incalorita per metter l’ultima mano a’ suoi disegni. Drusilla era già sua preda, e tardi o per tempo poteva disporne a suo beneplacito: ma se Alberta se ne fosse andata quando mai piú si sarebbero accozzati in cosí favorevole congiontura? E’l bacio della preterita notte l’aveva conturbato in guisa, che sentiva già nel seno qualche solletico ingiurioso alla propria modestia. Entrò di mezzo a questa turbazione Celinda, la quale avvedutasi benissimo dal portamento d’Alberta tutto spirante di vezzi e d’amori del suo disegno, e tenendo già Drusilla in concetto peggior di quello che non era; trovato il cavaliere soletto si mise a proverbiarlo delle sue novelle amicizie, e a ricordargli qual fosse stato allora, che s’erano essi amati nel fiore negli anni del cavaliere, perché Celinda poteva quasi essere sua madre benché godesse ancora qualche privilegio di quella beltà, che nel colmo delle sue glorie trovò pochi paragoni fra le dame del suo tempo. Ora le parole furono molte da una parte, e dall’altra, e degne d’un’amicizia semplicemente amorosa; perché essendo pervenuta la bella dama
tra gli anni de l’età matura, onesta
che i vizi spoglia, e virtú veste e onore,
era loro permesso di
sedersi insieme, e dir, che loro incontra,
senza quelle perturbazioni e quei rischi che accompagnano gli anni freschi e fioriti.
Caduta tra questi ragionamenti e trascorsi (a’ quali intervennero per poco Domitilia ancora, ed Eufemia) l’ora del desinare, né comparendo messo alcuno, o ambasciata, non che alcuno de’ mariti di quelle dame: si presero cura Glisomiro e Ariperto del loro trattenimento qual si poteva in un luogo poco meno che deserto. Passò il desinare con molto giocondità; non ostante l’afflizione, che tuttavia conturbava Celinda, ed Eufemia per la perdita delle loro gioie (che Alberta teneva allora altro in testa, che gioie) sul fine del quale, perché Celinda e Alberta solite di frequentare il verno le accademie intesero da Glisomiro, che pochi giorni addietro si fossero celebrate alcune sessioni accademiche, alle quali per essere di stagione che non s’usa il mascherarsi, non erano esse intervenute, entrò Celinda a chiedere al cavaliere che cosa di bello si fosse trattato nell’ultimo di quei congressi.
«Di quello appunto, disse Glisomiro, che pur ora andavano discorrendo Ariperto e Giustina a causa della vita degli ortolani. Qual condizione d’uomini sia piú felice nel mondo?».
«Il pensiero è vulgare, disse Celinda, ma dalle cose ordinarie ancora si possano trarre molte singolarità di pensieri. E voi che diceste? Perché so che non averete tenuta la lingua fra i denti, benché non sia di Carnevale».
«Dissi anch’io poche parole, soggiunse Glisomiro, a caso, e alla ventura».
«E non ci potreste favorire, disse Giustina, di farci assaggiare anche in un’ortaglia un poco di trattenimento accademico; favellando nella medesima guisa, che fareste nell’accademia?».
«Questo è nulla, disse Glisomiro, e chi parla sempre a caso di queste faccende, non ha punto da penare in trovar parole; come fanno quei belli ingegni, che vanno a pesca di bisticci e d’equivochi, ch’essi chiamano spiriti: i quali per formar un bisticcio penano tre settimane in accozzar due parole equivoche, che pronunziate non riportano altro premio di tanta fatica, che d’una risata non so se d’applauso, o di scherno. Io parlai dunque, o con queste, o con somiglianti parole.
Voi chiedete, illustrissimo principe, una cosa quasi piú impossibile da ritrovare che l’oro, sempre invano promesso dagli alchimisti. Se il mondo altro non è che una valle di miserie, a che cerchiamo la felicità dove non può trovarsi? Dice quel grande, che non può mentire, e pur troppo cel conferma la nostra mortale caducità; che noi siamo peregrini sovra la terra. E qual fu mai quel peregrino, che si stimasse felice fuor della patria? La nostra patria è fra le stelle; ed ivi regna la vera felicità, che nel mondo non si trova stato alcuno felice, fuor che in apparenza, e per inganno e opinione degli uomini. Gli Epicurei mettevano la loro felicità ne’ piaceri del senso, ed erano piú miserabili delle bestie de’ campi. Gli Stoici si pensavano d’esser felici nella impassibilità degli affetti, e si vantavano beati anche nel toro di Falaride accompagnati dalla virtú; e nel disumanarsi diventavano anzi fiere che Dei, crucciati perpetuamente nell’anima dal fasto, dalla superbia e dalla spinosità delle loro speculazioni, con le quali s’ingegnavano di ostentar la fallacia de’ propri dogmi. Alessandro metteva la sua felicità in soggiogare il mondo, ed era cosí misero, che piangeva in sentire che ve ne fosse piú d’uno. Diogene la collocava in una botte, ed era cosí infelice, che non passava pur un atomo della sua vita senza perpetue calamità portategli dalle ingiurie delle stagioni, dalla insolenza degli uomini, e dalla impertinenza degli animali. Omero celebrava per felicità de’ mortali la vita coniugale, e Quinto Cicerone si stimava felice in un letto vuoto, e vengono ambedue riprovati dalla famosa impresa di quel grande ingegno, che applicò alla donna quel motto tratto dall’archivio d’una fatale necessità: Nec tecum, nec sine te. Io sentii una volta un gran baccalare, che abbagliato dal fumo dell’ambizione averebbe dato dieci anni di vita per esser fatto cardinale; e vi sono stati di quelli, che han riputato felicità il rinunziare allo stesso Ponteficato. Il soldato si reputa felice morendo in una vittoria, degli altri la stimano una pazzia, mentre resta nel medesimo istante privo della propria felicità, che in apparendo gli sparisce. Il cortigiano si reputa felicissimo se può arrivare con innumerabili stenti e fatiche a dominare il genio del suo padrone; e degli altri con avvedimento maggiore si credono fortunati in non accostarsi giammai alla persona de’ principi e de’ padroni; che a guisa del fuoco ne scaldano i lontani, e abbruciano i vicini.
I principi stimano propria felicità l’obbedienza de’ vassalli; e pure non vi mancano molti di loro, che amino d’averli disubbidienti per avere insieme occasione di spogliarli de’ loro privilegi e delle facoltà e della vita. I vassalli all’incontro si felicitano nell’abbondanza della pace, e pure si trovano molti che si stimano piú felici nelle turbolenze degli stati, magnificando a piena bocca, Rebuelta de rio ganança de pescador. Tutte le donne, benché sieno il piú infelice animal della terra si reputano felicissime in esser belle, o per meglio dire in darsi a credere d’esser credute belle: e pure non è questa loro bellezza, che una fatal miseria per esse, mentre continuamente languiscono, e si crucciano o negli artifici per conservarla o nel timore di perderla. Vi sono molte ancora di loro, che si reputano felici in aver molti amanti che le adorino; e pure nudriscono tanti nemici a propria infelicità. Delle altre, benché sieno pochissime di questa mente piantano le colonne della loro felicità nella costanza d’un solo amore, e precipitano ad ogni momento nell’oceano d’amarissimi pianti e singulti, fatte schiave de’ capricci d’un fierissimo tiranno della propria vita, tanto piú calamitose, quanto piú fedeli; e piú infelici allora, che s’incontrano in un genio amabile, mentre sviscerate da’ perpetui rancori della gelosia, e del timore di perderlo non trovano giorno e notte pure un momento di sollievo, o di respiro al cuore angustiato da crudelissimi affanni. Non parlo qui de’ letterati e de’ savi, perché non v’ha condizione di gente nel mondo piú di loro infelice. Qui addit scientiam, addit laborem. E dove è fatica d’animo e di corpo, che sarà colui, che possa pur sognare la felicità? Che in quanto alla fama che s’acquista con l’opere dell’ingegno, in vita non mai si gode, che accompagnata dalla perpetua infelicità del livore, dell’invidia, e della detrazione degli emoli, de’ nemici, e de’ malignanti: e nel rimanente se il latino, o’l greco
parla di me dopo la morte è un vento.
Insomma vivendo gli uomini sovra la terra d’opinione, e con l’opinione, o propria, o d’altrui: se pur si dia (ch’io nol credo) felicità nel mondo, stimo, che quell’uomo solo possa chiamarsi felice, che si reputa, o per parlare con proprietà maggiore, che si sogna vegliando d’esser tale.
Altro non mi restava che dire, illustrissimo Principe, avendo favellato improviso per obbedirvi: ma poiché veggio, che alcuni di cotesti signori ascoltanti, benché m’onorino d’un cortese silenzio, disentono co’ gesti del volto dal mio pensiero; mi farò lecito di chieder loro, che mi dicano in grazia, se sieno essi veramente del numero de’ felici, o pure si credano e sognino d’esser tali. Felice è colui, disse Bacchilide, al quale concesse Dio parte de’ suoi beni, e di condurre una doviziosa vita con prospera fortuna. E Sofocle parimente afferma che quelli sieno felici, che in vita loro non gustarono giammai pur minima apprensione di male. Ora se voi siate veramente, signori, del numero di costoro, pensatel voi, che io non vel credo. Credo bene col medesimo Sofocle, che negli orti solo di Giove regni la compita felicità. E con ragione; perché là su non germogliano gli affanni, né fruttificano le miserie. Ma qui nella terra, dove non seminano gli uomini che spine di travagli, né raccolgono che triboli di calamità, qual felicità troveremo giammai, se anche a parer di Diogene la felicità nasce dalla vera allegrezza? E se parlando da senno fuori delle bizzarie accademiche e delle vanità poetiche, solamente quell’uomo a parere di Giamblico può chiamarsi felice nel mondo, che, in quanto lice all’umana fragilità sarà simile a Dio; perfetto, semplice, puro e allontanato dal vivere comunale; chi è quello di voi signori, che possa veracemente affermar d’aver conseguita questa felicità, nel mondo? Scusatemi, niuno. E se l’uomo a sentenza d’Ippodamo Turio nel suo libro della felicità, come imperfetto per se medesimo ha bisogno per diventar felice d’aiuti esterni, perché non gli basta nemmeno di possedere la virtú, senza la quale non dassi apparenza di felicità sovra la terra, mentre non concorrano a felicitarlo ancora i comodi della fortuna, la pubblica tranquillità, la bontà de’ dominanti, l’osservanza delle leggi, l’amorevolezza de’ famigliari, la fedeltà degli amici, e la benevolenza universale de’ popoli; chi è quello di voi, signori, che possa vantarsi di possedere tante, e cosí rare prerogative dell’aureo secolo di Saturno,
quando al mondo innocente affanni, e mali
non ordivano ancor stelle sdegnate?
Sogni, sogni sono i nostri, signori, allora che ci pensiamo farneticando d’essere felici nel mondo. La felicità altro non è, se crediamo a Ippodamo, che una perfezione della vita umana. Questa vita consiste, e si forma di molte azioni, che vengono dalla felicità perfezionate. Ma tutte le nostre azioni, perché ne conducano a questa felicità, fa mestiere, che vengano guidate e rette dalla virtú o dalla fortuna. La virtú vien considerata nell’uso, la fortuna negli eventi. Per diventare adunque felice fa mestiere all’uomo, e dell’uso della virtú acquistato con gli atti virtuosi già convertiti in abito, come sostenta Crisippo; e della fortuna, che secondi con prosperi successi le nostre operazioni. In quanto alla virtú non entro, signori, a decidere se siate veramente felici, perché me ne rimetto al testimonio della vostra coscienza, ma in quanto alla fortuna, permettetemi pure, che io creda che non siate punto felici, mentre sento a giornata, che tutti vi lamentiate degl’infelici successi delle vostre azioni anche allora, che piú vi pensate vicini alla meta della felicità, e piacciavi insieme di credere con esso meco, che se pur vi trovi qualche condizione d’uomo felice nel mondo; quel solo sia piú felice degli altri, che si reputa, o sogna d’esser tale».
Tacciuto Glisomiro applaudito per loro cortesia, non per merito d’una casualità, dalle dame, riprese Alberta il favellare dicendo:
«Se volete farci il favor compito, usandosi di recitare nel fine delle azioni accademiche diverse poesie, vi compiacerete di replicarci ancora la recita di quei componimenti, che avete portati in quella nobile radunanza, benché qui non sia (trattone Ariperto e Astolfo) chi possa darne giudicio, e goderne, se non fosse Drusilla, che tiene umor di poetessa».
Rise Glisomiro, e soggiunse:
«Se mel ricorderò vi reciterò uno di due sonetti, che mi caddero dalla bocca in persona d’amante d’una dama prigioniera. E statosi alquanto pensoso disse:
Già di fresca bellezza i lieti ardori
fuggii, sprezzai con temerario zelo;
di misera bellezza or vuole il Cielo,
lasso, che io provi i disperati amori.
Se ben tronchi ha del crin gli aurei tesori,
e veste il molle sen d’orrido velo
la bella donna, ond’ora avvampo e gelo,
han però i crini e’l sen lacci, e fulgori.
Prigione ingrata, in cui languente spira
l’angelico splender di quel bel viso,
in cui ritratto il bel di Dio s’ammira:
quel, che per fede io veggio, in te ravviso,
che anche gli angeli a Dio caduti in ira
nell’Inferno piombar dal Paradiso.
Aveva appena terminate Glisomiro queste ultime parole, che Celinda ridendo disse:
«So a chi va questo sonetto senza interprete».
«A chi?», disse Alberta.
«A una dama, che porta il mio nome», disse Celinda.
«Tanto ne so, quanto ne sapeva», soggiunse Alberta.
«Ma può essere che v’inganniate, perché quella Celinda è ormai vecchia».
«Gliene averà scritta da giovane, disse Celinda, perché mi pare, che non tenga piú questi umori in campo, noi vedendo piú comparire in quella parte».
«Siasene ciò che si voglia, disse Domitilla, il sonetto mi piace, e perché nelle accademie s’usa oggidí anche la musica; accioché godiamo una vera imagine di trattenimento accademico, io pregherò la signora Giustina di cantare qualche componimento di quelli che le ha dati Glisomiro, che mi piacciono perché l’intendo anche io, se ben sono ignorante».
Giustina allora fattosi dare il suo leutino, piacevolmente disse: «Per servire a chi debbo, reciterò alcuni pochi versi di partenza, ch’egli dettò una di queste sere in piedi al clavicembalo a compiacenza d’un cavaliere mio paesano».
E ciò dicendo aggiustato il levitino dolcissimamente intuonò questi versi:
Tirsi partir volea
dalla sua bella Clori,
Clori per cui nudria
fiamma d’antichi ardori,
e perché invano il proprio duol premea
con flebil voce in mesto suon dicea.
Cor mio dove ti resti,
ed io dove n’andrò
leggiadri occhi celesti,
quando vi rivedrò?
S’io v’amo, e se v’adoro
sallo la terra, e’l ciel,
e pur parto, e non moro;
o mio destin crudel!
Cosí dicendo ancor tronco sospiro
ruppe il tenor del canto,
e’l varco aperse al pianto.
Sentí del suo fedele
la bella Clori il pianto, e le querele;
e nell’alma ferita
da saetta crudel d’aspro cordoglio
colei, che quasi scoglio
de’ sospiri, e de’ pianti a’ venti, all’onde
rigidissimo, e sordo
portò sempre d’amor l’anima ignuda,
con improvisi accenti
forieri di tormenti,
disse: Tirsi, o mia vita.
E poi quasi pentita
troncò la voce e tacque.
Ma tentò invan la semplicetta allora
di premere il desio, che l’innamora;
perché in vece del suon delle parole
il cuor gridò co’ suoi sospiri ardenti:
Tirsi tu sei mia vita
certo morrò se fai da me partita.
Ben se n’avvide il fortunato amante,
e repente cangiati
in gioie i suoi tormenti
fermò col cor le piante,
e disse: occhi beati
occhi dell’alma mia nido felice
poiché mirar mi lice
tra nubi di pietà raggi d’amore,
mitigato il dolor, fermato il piede,
in olocausto di perpetua fede
tra fiamme eterne vi consacro il core.
Questi versi recitati da Giustina con una grazia da incantar d’amore le pietre, contaminarono sí fattamente il cuore d’Alberta già divenuto esca d’un insano amore, che non potendo reggere alla obombrazione de’ suoi spiriti le convenne appoggiare la fronte su la mano sinistra ripiegata su la tavola. Poco meglio sentissi Drusilla, benché per la inesperienza non provasse cosí fervido il calore degl’incentivi amorosi. Quinci avvedutosi Glisomiro, già poco sano anch’esso, di cosí fatto disordine, terminato ch’ebbe il suo cantare Giustina alzatosi in piedi, dicendo che l’accademia fosse ormai troppo lunga recando incomodo agli ascoltanti, diede occasione ad Ariperto di ritirarsi, e alle dame altresí di ripassare (avendo desinato nel portico) nella propria stanza, fuor solamente Celinda, che turbata oltremodo di queste vedute, fermatasi con Glisomiro gravemente gli disse:
«Pensava bene qualche cosa del vostro amore con Alberta, ma ingannata dalle sue relazioni, che fosse amore di trattenimento accademico, non averei mai creduto di dover vedere quello, che vedo di voi. E vedendolo io, posso ben credere che degli altri ancora se ne accorgano. Né pensiate già, che voglia riprendervene, per gelosia che tenga della vostra persona per la nostra amicizia e corrispondenza; perché non sono cosí pazza, che voglia prendermi or che son vecchia quei fastidi, che non mi tolsi gran fatto da giovane. Ben mi spiace di vedere il poco rispetto che portate alla mia presenza, e certo che infino a che ella sarà meco, e con mia figlia, non permetterò, che mi facciate questo torto d’amoreggiarvi cosí scopertamente. Rientrate per grazia in voi stesso, e se nella vostra piú fresca gioventú ebbi occasion di lodarmi della vostra modestia, non vogliate darmi materia di dolermi della vostra licenza negli anni piú maturi. Fatemi però grazia di ritirarvi da noi infino a che tornino i nostri mariti; o se volete voi trattenervi qui, prestatemi la vostra barca, che anderemo noi altre donne in visita delle chiese di questi contorni. Che se bene stando queste dame sotto la mia custodia non possano concepire i loro mariti sospetto alcuno; tuttavolta stimo, che sia ben fatto il separarci».
Parve grave a Glisomiro questa rimostranza di Celinda; perché essendo passato ben addentro nel suo cuore lo strale amoroso vibratovi dagli sguardi e da’ baci di Alberta, si sentiva divider l’anima in separarsi da lei. Trovate però sue invenzioni appoggiate a qualche convenienza disse:
«Mia signora. Non so quello che vi pensiate di me, né voglio saperlo, dovendo obbedirvi con gli occhi bendati; che se bene sieno passati gli anni felici de’ nostri amori, non è però estinto il mio affetto verso la gentile vostra persona; e dopo dieci anni di lontananza v’ho riveduta co’ medesimi sentimenti de’ primi tempi della mia servitú. Che voi partiate di qui non mi piace; perché tornando il signor vostro consorte, non averebbe forse gusto di perdere il tempo in ricercarvi e aspettarvi, essendo ormai l’ora tarda, e disegnando di ricondurvi questa sera a Venezia. La mia partenza altresí non può essere senza quella delle spose di Panfilo e di Guglielmo, che essendo insieme con Drusilla raccomandate alla mia custodia, non debbo abbandonare pur d’un passo. Contuttociò se vi piace di restare con la vostra compagnia io partirò con la mia; se voi partirete con la vostra io resterò con la mia; altro piú non desiderando, che di servirvi».
Rimase grave Celinda a questa parlata; pur finalmente fosse, o soverchia gelosia d’amore (che mai non invecchia, ma ben si cangia in invidia nelle donne) o stimolo pungente d’onore, che ve la spingesse; determinò ella di partire in visita delle chiese di quel vicinato, pregando il cavaliere di concederle con la barca Astolfo, che la servisse. Tutto le concesse Glisomiro con estremo disgusto d’Alberta, che non potuto darsi pace di questa risoluzione, mentre Celinda e la figlia s’apparecchiano alla partenza, e Glisomiro fa apparecchiare la gondola da tre remi per servirle, scritti questi due versi sovra uno squarcio di lettera, glieli mandò per Giustina.
Tirsi tu sei mia vita
certo morrò se fai da me partita.
Sospirò Glisomiro a quella veduta, e preso il lapis le rescrisse i medesimi versi con la sola mutazione del nome
Clori tu sei mia vita,
certo morrò, se fai da me partita.
Alberta riletti questi versi di mano del cavaliere, sentissi oppressa da cosí fiera passion di cordoglio l’anima, che fu per dare in qualche precipizio. Ecco dove finiscono gli amori di virtú nelle giovani dame e ne’ virtuosi cavalieri. E veramente fu amor di virtú quello che amicò Alberta con Glisomiro; ma la soverchia amabilità del cavaliere formato all’aria del vezzo, non che della cortesia con le donne; cangiò natura a questo amore nel cuore d’Alberta, e’l cangiamento d’Alberta accompagnato da una soverchia libertà di tratto cangiò parimente d’opere e di pensieri Glisomiro; e benché fosse breve, fu però grande l’errore, che commise: essendo stato ancora beneficio piú tosto di fortuna, che sforzo di virtú il suo presto ravvedimento.