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Girolamo Brusoni
La gondola a tre remi

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SCORSA QUARTA

 

Servite Celinda, Alberta ed Eufemia fino alla barca tornossi Glisomiro con Domitilla, Drusilla e Giustina tutto conturbato in quell’infausto albergo, dove amore, che scherzando fa sempre daddovero l’aveva messo in un soprassalto, dal quale, benché volesse, non sapeva piú ritirarsi; tanto l’avevano i vezzi d’Alberta ammaliato, e cangiato da se medesimo. Drusilla veduta la sua turbazione, e tirandola per virtú d’amore a proprio cordoglio, gli si mise attorno per consolarlo, ma invano: perché se ben Drusilla non fosse donna da essere disprezzata in concorrenza d’Alberta, tuttavolta non avendola mai amata, che per complimento, e considerandola ancora o donzella, o presunta almeno donzella, andava pensando già che la fortuna gliela aveva messa per le mani di tenerla in luogo piú di sorella, che d’amica. Ora mentre si stanno fra di loro dialoghizzando, e Drusilla e Giustina mettono in ciancie Ariperto sopra le mode francesi; capitò di ritorno a quella casa Ferrante per ricondurre la suocera, la moglie, e Alberta a Venezia. Dove disperati di trovar le gioie loro involate cercati invano Burano, Mazorbo, e i luoghi circonvicini, s’erano ritornati inviando il giovine a ricondurvi ancora le donne, non voluto essi ritornare in quella parte: Placido per sentirsi poco bene del patimento della preterita notte: e Leonello sdegnato (benché avesse mostrato di quietarsi con Panfilo) perché avesse involata e sposata Domitilla sua parente contro la voglia del padre; e con Glisomiro, perché Drusilla pretendesse di ricoverarsi appresso di lui. Strano capriccio degli uomini! Non apparteneva punto alla sua casa Drusilla se non in quanto era parente di Celinda, e di Domitilla, e i suoi stessi congiunti, o per impotenza (essendo poveri) o per bizzarria della dama, che essendo libera voleva disporre di se medesima a proprio gusto, non si prendevano cura di lei; il padre di Domitilla la perseguitava insieme con la figlia come presunta cagione, e ministra della sua fuga con Panfilo; esso Leonello non voleva adossarsi questo peso del suo trattenimento: e nondimeno aveva preso a odiar Glisomiro; perché non per elezione, ma per fortuna la raccogliesse nella propria casa. Tornato adunque Ferrante con questa novità, e presentata una lettera di Leonello al medesimo Glisomiro, nella quale pareva, che pregandolo di separarsi dall’amicizia della donna il minacciasse di qualche castigo quando avesse continuato nella sua domestichezza; venne ad operare appunto a rovescio di quello che disegnava, tirando anche sopra se stesso di quello che non voleva. Perché il cavaliere, che era la stessa modestia e cortesia con gli amici, vedutosi indegnamente trattato, si mise in testa di quello che non aveva ancora pensato con Drusilla, e con qualche altra ancora. Intanto pauroso, che Leonello machinasse qualche risentimento a pregiudicio ancora di Panfilo, non per se stesso, ma per mezzo di Lelio, e de’ pubblici magistrati, voluto assicurarsene scese immantenente nella medesima barca di Ferrante con tutte e tre le dame, e con Ariperto, ad apparente disegno di trovar Celinda con le compagne, e complito con esse, cangiarsi di barca, e andarsene ognuno per la sua strada: ma veramente per trovare qualche invenzione, accioché non tornando né meno queste dame quella notte a Venezia, si dasse tempo a Panfilo di ritornare a Torcello per consultare insieme la maniera di governarsi in quella occorrenza. E di fatto essendo già tornato il figlio dell’ortolano spedito dall’inchiesta di Leonello e dei compagni, prima di uscir di casa l’incaricò di passare prestamente a trovarlo con questo avviso; a che tanto piú volentieri s’accinse il giovine quanto si trattava d’aver qualche nuova e del padre, e del fratello, e degl’involatori della sua barca. E quasi che volesse la fortuna secondare con gl’infortuni la intenzione di Glisomiro; perché si traesse i capricci, che gli andavano bullicando nel capo: avevano appena trovata Celinda con le compagne in visita d’alcune dame rinchiuse, e si stavano insieme ne’ complimenti con quelle dame; che passando per quei canali Rambaldo, venne a mettere a campo una stravagante novità. Era egli da Burano ripassato la preterita notte con barca di pescatori a Venezia, dove provveduto meglio che potè alle sue occorrenze, tornava per la medesima strada in terraferma, resoluto prima d’andare in esiglio, di vendicarsi (quando non potesse d’altri) del Moro e di Dietisalvi, che presopponeva rivelatori de’ suoi machinamenti a Glisomiro, e per esso a Guglielmo ancora, e a tutta la sua compagnia, che però presumeva nel suo concetto dichiarata nemica: veduto adunque nel passare da quella parte il Moro, che insieme con gli altri gondolieri (stando le dame e i cavalieri ne’ loro complimenti a coperto) passeggiava la fondamenta: senza cercar piú avanti di chi si ritrovasse in quei contorni, saltò insieme con un soldato, che aveva tolto a’ suoi servigi, di barca; e sovracolto il povero villano, che ogni altra cosa s’aspettava fuor che di vedere in quel luogo Rambaldo, si mise a maltrattarlo sí fieramente, che l’averebbe certamente ucciso; se accorsi prima i gondolieri, e poscia Ariperto e Ferrante in suo soccorso non gliele avessero tolto di mano per attaccare una piú fiera quistione con esso. Perché i cavalieri offesi, che si trattasse in quella guisa persona di loro compagnia e servigio, messo mano all’armi per rendergli il suo trattamento, il fecero risaltare piú presto che di passo col suo soldato in barca. Dove ancora voluto seguitarlo con troppa impetuosità Ferrante, venne a sdrucciolar dagli scalini della riva in acqua. Era corso (ma piú tardi degl’altri per essere allora occupato in leggere una scrittura datagli da una di quelle dame rinchiuse) a questo strepito anche Glisomiro, e giunse appunto su la fondamenta, mentre Ferrante sdrucciolava in acqua; e fu la sua salute; perché Rambaldo veduta questa nuova comparsa, e dubitatosi di peggio, non solamente si ristette dall’offenderlo; ma ritiratosi sotto il felze affrettò i suoi gondolieri alla partenza, e la necessità di soccorrere Ferrante perché non s’annegasse impedí Glisomiro e Ariperto dal pensare a nuove offese contro la sua persona. Salvossi adunque Rambaldo, e parmi, che stato qualche giorno ritirato in un monasterio, andasse, guarito che fu, a cercar sua ventura in altra parte, e la trovasse.

Intanto ricuperato Ferrante piú morto che vivo, bisognò pensare di tornare subitamente alla medesima casa donde erano partiti per provvedere alla sua persona, e al Moro altresí, che stava assai peggio di lui. Cosí fu fatto con estremo disgusto di Celinda, ma con supremo contento d’Alberta; perché essendo ormai caduta la sera, e trovandosi il cavaliere per quella agitazione, e per lo spavento preso nell’acqua, con febbre acuta, non bisognò pensare di muoversi, come che si rispedisse la sua barca a Venezia per darne parte a Leonello, e riportarne le cose necessarie per suo servigio. Ben è vero, che non avendo bisogno che di vestiti, e di simili occorrenze, avendo provveduto Glisomiro e Ariperto alle altre sue necessità da’ luoghi piú vicini; venne anche la barca per invenzione di Glisomiro spedita cosí tardo, che gli rimase quella notte a sua libera disposizione Alberta.

Adagiato intanto Ferrante, e datogli qualche ristoro; si misero a tavola ancora le dame con Glisomiro e Ariperto, e passò la cena per quello che comportavano il tempo e le contingenze assai lietamente, e con graziosi ragionamenti. La quale terminata nacque contrasto fra le dame su la maniera d’alloggiar quella notte; perché non essendo conveniente, che Celinda ed Eufemia si allontanassero da Ferrante, voleva anche Celinda ritener seco Alberta. Ma la dama, che teneva altro in testa che Ferrante, disse che averebbe dormito con Drusilla, e le altre dame nella camera degli ortolani; dove essendo tutti gli uomini lontani, non si trovava che la moglie del padron della casa. Sospettò per queste parole Celinda di qualche disordine, e voleva piú tosto vegliare tutta la notte, e lasciar ancora Ferrante con la moglie soletto per non abbandonare Alberta a’ suoi capricci; perché veduto, che Glisomiro sdegnato (ma non sapeva perché) con Leonello a cagion di Drusilla, trattava con essa in una maniera, che gliele faceva credere già contaminato; si dava ancora ad intendere, che se non aveva portato rispetto a una dama presunta donzella, meno l’averebbe portato una maritata. Ma Glisomiro penetrata simile controversia per mezzo di Drusilla, e conosciuto che Alberta conspirasse ne’ suoi medesimi sentimenti, mandolle dicendo, che s’aggiustasse al voler di Celinda, e dormisse pure con essa nella camera di Ferrante (che era quella appunto dove avevano dormito gli uomini la notte passata) che egli messa a dormire l’ortolana con le altre dame nella camera destinata al loro servigio, averebbe provveduto a quella occorrenza con sua satisfazione. Dato quest’ordine, e visitato Ferrante, e complito con le dame si ritrasse Glisomiro con Ariperto e Astolfo nella stanza degli ortolani; e lasciatovi ambedue a riposare con le porte ben chiuse, salí egli soletto nel soffitto di quella casa, dove dormivano i figli dell’ortolano. Aveva egli osservato, che in quella camera fosse una scaletta chiusa in un’armadio, per la quale non solamente si saliva nel soffitto della casa, ma si penetrava ancora in una stanza sotterranea, che portava fino ad un cavana dietro la casa, dove solevano gli ortolani tenere i loro battelli, e altre stoviglie; e come quello che sapeva supplire con l’accortezza dell’ingegno i difetti della fortuna, veduto l’intoppo, che frapponeva Celinda a’ suoi disegni, e piú vivamente impegnato in iscapricciarsi ad onta sua, e di Leonello; determinò di schernirla (se avesse potuto) senza che persona del mondo venisse a penetrare i suoi interessi con Alberta. Disceso adunque pianamente per quella scaletta, che appena il capiva, stette buona pezza osservando per un pertugio fatto con uno stilo in quelle tavole la contenenza di Ferrante, e delle dame. E veduto, che il cavaliere smaniando, tenesse impacciata la moglie e la suocera, e che Alberta si fosse colcata semivestita e tutta conturbata e pensosa sovra un letto casuale in vicinanza del medesimo armario; levatosi di là piú che mai contaminato dall’insano affetto, che aveva conceputo verso quella donna; trapassò nella stanza sotterranea verso la cavana. Dove penetrato, e aperta pianamente la porta, uscí a quel discoperto; e veduto dopo tanti giorni di pioggia e di nebbia un ciel sereno, e sentita la marina quietissima, concepí subitamente un pensiero veramente strano, e pericoloso; ma proprio d’amante, e d’amante, che acciecato dal desiderio di possedere la cosa amata, passa tra mezzo i precipizi senza vederli. Aveva il cavaliere osservato, che su la punta di quel grande isolato in bocca della marina stesse edificato un tugurio di tavole e di cannavera, forse per tenervi in tempo d’estate una guardia degli orti contro i furti, che in luoghi sí fatti vengono agevolmente praticati, e da’ marinari, e da’ passeggieri: ma il trapassarvi per terra riusciva impossibile affatto in tempo di notte ad una persona inesperta di quelle strade; dovendosi attraversare un’intiero paese d’ortaglia, e disseminato diviso da molti canaletti e fossi, e ricongiunto con ponti d’un solo trave, o di qualche tavola mal sicura. Bisognava adunque andarvi per acqua, ma con pericolo altresí manifesto, perché non vi essendo riva, ed essendo il luogo altissimo, averebbe convenuto rampicarvisi a guisa di gatto. Pensato adunque il cavaliere a questo luogo, e al suo desiderio, gli venne capriccio di trasportarvi Alberta senza che uomo del mondo se ne avvedesse, a disegno poi di levarnela ancora inosservata il seguente mattino per condurla in parte dove potesse tenerla senza impaccio a sua libera disposizione. Fatto cosí ingiurioso proponimento, sicuro d’essere seguitato ad ogni rischio dalla donna, tornossi in casa, e ripassato nella scaletta dell’armario, e veduto, che finalmente addormentatosi Ferrante appresso la moglie anche Celinda si fosse ridotta in letto, aspettò quasi un’ora prima che s’avvedesse, che fosse ella ancora addormentata. Solo Alberta non dormiva, benché il fingesse; perché incuriosita dalle parole dettele da Drusilla, e da qualche cenno fattole dal cavaliere, stava in aspettazione di qualche novità con tanta agitazione di spirito, che se bene avesse voluto le sarebbe stato impossibile di ricettare il sonno negli occhi. Onde in sentirsi soavemente chiamata dal cavaliere, diede un guizzo sí forte, che quasi svegliò Celinda. Ma dettole da Glisomiro, che passasse ad estinguere tacitamente il lume, che ardeva a capo del letto di Ferrante, aprí pianamente la porticella dell’armario solamente assicurata da un picciolo saliscendi; e data la mano alla dama, la trasse in quelle angustie tenebrose; nelle quali trovatasi gli mise subitamente le braccia al collo, standosi buona pezza appoggiata con la bocca sul collo di lui senza far’altro che sospirare dal profondo dell’anima. Ma il cavaliere liberatosi da quel soave impaccio, e rimessa la porticella a suo luogo, condusse la dama alla porta della cavana, chiedendole se volesse starsi con esso quelle poche ore di notte, o pure infino a che la fortuna gliele avesse permesso. Rimase attonita la dama di somigliante proposta: pur finalmente come innamorata daddovero del cavaliere disse, che l’averebbe seguitato in ogni fortuna; sicura che essendo egli cavalier gentile non l’averebbe mai trattata diversamente dal proprio debito. Inteso poscia il suo disegno disse, che non le piaceva d’avere a starsi sola pure un momento in quella grotta. Ma dettole dal cavaliere chi avesse voluto per compagno, o compagna in quelle poche ore, che avesse provveduto alla sua sicurezza, francamente rispose:

«Non voglio nessuno. Andiamo. Se anche partendo da me v’intervenisse qualche disastro sicché non poteste tornare non mi mancheranno scuse per far credere, che sia andata di mio capriccio per queste ortaglie».

Il cavaliere allora tolto un remo, e una forcola trovata a caso fra simili ordigni di quella stanza, acconciò meglio che potè la sua gondola da tre remi, ormai restata con un solo; su la quale montata Alberta ancora con animo franco, e veramente amoroso colcossi a’ piedi del cavaliere, che poco pratico di somigliante mestiere, andò sempre rasente la terra piú tosto spingendo, che vogando la barca fino al luogo destinato, che non era per quelle giravolte spazio minore d’un miglio. Fu sua ventura, che l’acque fossero allora assai alte, perché prima di pervenire alla punta dell’Isolato, trovato un fosso appena capace della barca, potè cacciarvela dentro, e smontare da quella parte senza fatica. Assicurata la barca con piantare il remo nell’acque, ne tolse fuori la dama; la quale con uno spirito veramente vivace, abbracciato e baciato il cavaliere gli disse:

«Anima mia; potremo noi ancora diventar materia di romanzi. Spiacemi veramente d’abbandonar Placido, ma l’acquisto, che fo del vostro amore m’è piú caro di cento Placidi. Duolmi ancora di non avere dieci anni di manco; pur mi consola, che se non sono cosí bella, com’era già dieci anni, saprò nondimeno supplire i difetti dell’età con la sovrabbondanza dell’amore».

Quello, che poi succedesse fra di loro in quelle tenebre, su quella barca, e in quel luogo deserto, non vi essendo stati altri testimoni che quel delle stelle, ad esse ne possono i curiosi chieder conto, già che appresso gli astrologhi e i poeti sono tutte quelle celesti immagini abitate da uomini e da animali veggenti e parlanti. Si può ben credere, che Alberta non si sentisse punto di male; perché volendo il cavaliere inoltrarsi verso quella casuccia, gli disse, che stava piú volentieri con esso a quel discoperto, che non sarebbe stata rinserrata soletta in quel tugurio. Ma non ebbe pure questo disgusto; perché voluto entrarvi, e trovata quella abitazione ben chiusa, ne rimasero gli amanti altamente storditi. Quindi sentito laddentro un poco di strepito, venne capriccio a Glisomiro di veder chi abitasse in stagione impropria quel rustico abituro; e come quello, che viaggiando portava sempre seco la comodità d’accendere il fuoco, battutolo prestamente, e fatto con una carta coperchio ad una candeletta, la imbrandí con la mano sinistra; e fatto che Alberta si coprisse bene il volto con la bauta, impugnò con la mano destra la spada ignuda, e dato d’un piede quanto potè nella porta, di semplici tavole, e cannevere, venne a spalancarla con rovesciare insieme gli ordigni, che vi stavano appoggiati per meglio assicurarla. Saltarono a questo strepito in piedi due uomini seminudi, e una femmina, che si stava colcata sovra un letto parimente di cannevere, e semivestita anch’essa si nascose la faccia fra quei viluppi.

«O cieli, gridò Glisomiro, e che mostri veggio io?».

Erano costoro Dietisalvi, e’l lavorante di quegli orti, e la femmina Cate; alla quale paruto, che la compagnia di Dietisalvi dovesse lasciarla raffreddare in letto gli aveva permesso di prendere per compagno a lavorare ne’ suoi poderi il lavorante degli orti. Ma se Glisomiro stupí di cosí inaspettata comparsa, quali crediamo che rimanessero Dietisalvi, e’l lavorante in discoprire il cavaliere con la spada ignuda alla mano quasi per ucciderli? Gittatisi a’ suoi piedi gli dimandarono in grazia la vita.

«Io per me ve la do, disse il cavaliere, che non imbratto la spada in sangue di villani; ma sciagurati che siete, e come avete ardimento, che la indignità che avete commessa vi porta un laccio al collo?».

Allora Dietisalvi, benché tutto tremante di paura, gli raccontò, che nello stradarsi la preterita notte per fuggirsene in terraferma, erano stati dal vento e dalla loro inesperienza respinti nella laguna verso Durano, dove scoperta di lontano la sua barca appunto, che tornava da quella parte, s’erano cacciati in certi paludi, dove stati nascosti buona pezza, e usciti di là senza sapere dove s’andassero, la corrente dell’acqua gli aveva portati a perdersi in certo secco lungo le mura d’uno di quei monasteri, dove statisi fino alla crescente dell’acqua con quei batticuori, che si poteva presumere in persone di loro qualità, avevano veduta nel muoversi per altra parte la barca di Leonello, che andava verso Mazorbo; onde voluto essi girare verso il Deserto e Sant’Erasmo per cercarvi qualche ricovero, s’erano trattenuti in quella parte quasi tutto il giorno, e intanto desiderando pur di passare in terraferma; avendo Cate tenuto parlamento con un giovine lavorante di quegli orti, e paesano di Dietisalvi, l’aveva indotto con promessa di donargli uno scudo a montare esso in poppa del battello per guidarveli. Quinci partiti per quella volta, e scoperta sul far della notte una barca di zaffi per sola necessità di non essere fermati, quasi che portassero attorno qualche contrabbando s’erano cacciati per quei canali con doppio rischio. Dove parimente vedutisi perseguitati dalla medesima barca insospettita della loro fuga, avevano risoluto di rientrare per quella punta, e cacciarsi in quei fossi. Dove smontati intorno a un’ora di notte, e sicuri, che per quasi tutta quella notte sarebbono attesi al varco, e sorpresi; avevano risoluto di rinchiudersi essi ambedue con Cate in quella cannevera, dove sapevano che allora non capitava persona del mondo, rimandando il poppiere con qualche danaro a provvederli da mangiare e da bere a Mazorbo, o Burano. Donde non era ancora comparso, benché avesse promesso di tornare avanti giorno, e veduta libera la laguna dalla barca de’ zaffi, di levarsi di là e condurli finalmente in terraferma.

Mentre Dietisalvi raccontava villanescamente queste cose a Glisomiro, aveva egli fatto levare e rivestir Cate, alla quale chieste le gioie, che aveva involate alle dame, né voluto discoprire Alberta, se le tolse tutte in salvo egli stesso. Poi detto a tutti tre, che non voleva incominciar da loro a far male a nessuno, gli avvertí, che se fosse tornato il poppiere a levarli, non in terraferma dove Panfilo, Vittorio, e Guglielmo li averebbono sorpresi e castigati, ma passassero verso Venezia per cercare in altra maniera il loro scampo. Poi motteggiata Cate per la doppia ventura, che s’aveva fatto dar quella notte da quei briganti, lasciolli tutti e tre con tratto veramente cortese alla ventura e donati di qualche poco danaro, tornandosi con Alberta alla sua barca, la quale meglio che quella della fortuna l’aveva condotto a ricuperare il tesoro perduto, oltre all’avervi acquistato il possesso d’Alberta, alla quale non piacque già troppo cosí fatto incontro, benché vi riacquistasse le sue gioie. Perché non essendo piú sicura la sua dimora in quel luogo, le conveniva ritornare a casa, e con Placido. In cosí breve spazio di tempo si cangiano le fortune, e le volontà degli uomini. Ritornato Glisomiro a casa mentre rilegata la barca, e chiusa la porta della cavana stassi consolando d’altro che di parole Alberta: sentissi strepito per casa; perché svegliatasi Celinda, e vedutasi allo scuro; e chiamata, e non trovata Alberta, non potè aver pazienza di tacere: ma soprafatta dall’empito della gelosia d’amore, e dell’onore, trapassò nella camera delle dame per ricercarvela. E qui acceso il lume dall’ortolana, mentre stanno dialoghizzando fra di loro sopra questa novella, e Celinda racconta d’aver trovato la porta della camera serrata, ma non Alberta in camera, l’ortolana passata col pensiero dove non poteva arrivar Celinda, s’avvide benissimo, ch’ella dovesse essere salita nel soffitto, e per di là (come credeva) nella sua camera, dove s’erano ricoverati i cavalieri. Tacque nondimeno con senso maggior di donna, perché obbligata alla cortesia di Glisomiro, non teneva sentimento di tradirlo, anzi se la sua sorte gliele avesse permesso, averebbe invidiata Alberta della sua fortuna. Non era già di questo pensiero Drusilla, e agitata anch’essa dalle furie della gelosia non faceva che sospirare, e lagnarsi di questa avventura, che le faceva credere Alberta in braccio di Glisomiro. Dopo molto detto, e fatto, né paruto buon termine alla stessa Celinda di ricercare Alberta nella camera de’ cavalieri, tornossi servita dall’ortolana col lume nella sua camera; dove gittati gli occhi sul proprio letto, e vedutavi Alberta come vi s’era colcata la sera semivestita, diede un guizo d’orrore e di timore insieme; e voluto dir gran cose, ammutí. Pur finalmente rotto il silenzio:

«Dove diavolo, disse, sei tu stata fino a quest’ora?».

«Io?», disse Alberta.

«Sí, tu», replicò Celinda.

«Dove mi vedi», rispose Alberta.

Poi vedutole al collo, e alle mani, e in testa le sue gioie, quasi disvenuta di meraviglia, sospirando soggiunse:

«Che prodigi son questi?».

Sorrise Alberta, e trattesi dallato le gioie di lei, e d’Eufemia gliele porse dicendo:

«Prendi, e taci: e rendimi il mio onore; perché son piú donna dabbene, che non sei tu».

Qui Celinda:

«E donde le hai tu avute queste gioie?».

«Altro non saprai», disse Alberta. «Tienti quello, che è tuo, e rendimi quello che è mio; perché Glisomiro è un cavalier fedele, e io sono dama d’onore».

Intese allora Celinda, e abbracciata, e baciata di gioia Alberta soggiunse:

Io crederò quel che tu vuoi; ma come hai fatto ad aver queste gioie stanotte da Glisomiro, e con la porta chiusa? Avete voi fatto qualche incantesimo per ritrovarle?».

«Sí, sí, disse Alberta: abbiamo incantata la nebbia. Orsú tienti le tue gioie, e lasciami andare a dormire con Drusilla. Ad ogni modo tu vedi, che so andare invisibile anche a porte serrate».

Pareva a Celinda (come son facili le donne a credere a somiglianti vanità) che Alberta anche scherzando dicesse daddovero, e che sapesse fare qualche incantesimo; onde permessole di passare fra le altre dame, alle quali restituí quel poco, che di ragion loro aveva Cate involato: se le mise attorno sensatamente perché insegnasse anche a lei, come avesse fatto a trovar quelle gioie, e ad uscire da quella camera a porte chiuse. Alberta, che era un’amore giocondissimo di donna, e per le consolazioni avute con Glisomiro brillava tutta di gioia; voluto prendersi giuoco della saviezza di Celinda, le disse:

«Cara amica, io non m’intendo di queste cose. Basta, che sono andata invisibile, e che ho ricuperate le nostre gioie. Glisomiro ti vuol bene. Tu sei ancora una bella dama. Va, dormi tu ancora con esso, che ti potrebbe insegnare questa virtú d’incantar le porte per passarle senza che nessuno se ne avvegga».

«Questo non farò io, disse Celinda. Basta una pazza per casa».

«Io pazza? disse Alberta. Sei pazza tu, che fai della savia. O che vuoi imparare, o no. Se vuoi imparare, statti la notte che viene in letto soletta, e allo scuro con le porte serrate, e se (quando ti piaccia) non viene Glisomiro a trovarti, cangiami nome, che tel perdono».

«Sí ch’egli deve essere un negromante», disse Celinda.

«Io non dico questo», rispose Alberta. «E parvi, ch’egli abbia viso da negromante, che pare un giovinetto di quindici anni?».

Ora furono tali e tante le ciancie di queste dame, che Alberta (già ch’era svanito il disegno di fuggirsi con Glisomiro) voluto far cadere per interesse di averla cooperatrice a’ propri falli, dov’era essa caduta, Celinda; le seppe, e potè con tutta la sua saviezza persuadere di provare questa ventura, che un cavaliere, che l’aveva tanti anni amata e servita, come un simulacro d’onestà femminile, entrasse nella sua camera a porte serrate, e andasse a trovarla fino al letto con quei rischi, che ben poteva presumere nella sua bellezza e nell’amore del cavaliere. Tanto l’insana curiosità, e l’insano affetto affascina, e inganna anche le donne piú oneste e piú savie del mondo. In questa conformità tornossi Celinda a dormire, e dormí parimente Alberta un lungo sonno appresso Drusilla. Glisomiro altresí, che aveva passata quasi tutta la notte in veglia non si svegliò, che a giorno ben grande, né si sarebbe levato indi a gran pezza, se non l’avesse svegliato il ritorno di Panfilo, di Vittorio, e di Guglielmo con Ghiandone, e alcuni pacchetti di lettere per lui medesimo. I cavalieri inteso che avesse ricuperate le gioie delle dame senza però saperne la maniera, e insieme i disordini succeduti in quella breve lontananza, e i sospetti, che s’avevano di Leonello; volevano immantenente partire da quella casa; ma Glisomiro allacciato dall’amore d’Alberta, non sapendo come appagar se stesso e la dama di quella partenza, trovate sue scuse mise intoppò a questa risoluzione. S’avvide benissimo Panfilo da questa mutazione di volontà nel cavaliere, che qualche suo interesse amoroso il ritenesse contra sua voglia in quella parte, mentre aveva esso consigliata la sua partenza e di Domitilla, e richiamatolo a questo fine in quella parte. Né tacque i suoi sospetti e le sue necessità, rappresentandogli insieme, ch’essendosi fatto complice del suo fallo con addossarsi la custodia di Drusilla, veniva insieme a correre con esso un medesimo rischio, quando si fosse piú lungamente fermato. A cui Glisomiro:

«Amico. Altri accidenti, altri pensieri. Quando seppi che Ferrante era venuto qui per condurre la suocera e la moglie a Venezia, stimai necessaria la nostra partenza da questa casa. Ora che Ferrante è qui inchiodato dal male insieme con la moglie e la suocera, non posso credere che Leonello machini cosa alcuna di nostro pregiudicio. Pure facciasi quel che si vuole; di violenze private non abbiamo di che temere; la pubblica giustizia non entra senza esservi chiamata in queste cause: e quando fosse sollicitata da’ nostri nemici, tanto potrà chiamarci qui, quanto in altro luogo a presentarci nelle sue forze. Nelle quali non volendo ridurci vi consiglio di sposare prima che altro avvenga solennemente Domitilla: con che si verrà a correggere il vostro fallo, perché non essendo ella stata rapita, ma uscita di propria volontà dalla casa paterna, potete celebrare quando vi piaccia le vostre nozze».

«Farò quel che volete, disse Panfilo, ma guardate bene che l’amor di Celinda, piú che a voi de’ piaceri, non porti a noi de’ travagli».

Sorrise il cavaliere, e disse:

«È passato il tempo (anzi era venuto) che Celinda mi faccia correre. Orsú definiamo prima, e poi ci parleremo».

Cosí fu fatto: e intanto tornata la barca di Leonello con qualche servitú, e le cose che facevano mestiere a Ferrante, portò con qualche lamento che si fosse anche fermata la notte, ordine espresso a Celinda di montare subitamente in barca di ritorno, con la figlia, e col genero, benché infermo, a Venezia; perché non potendo di manco di non partecipare a Lelio dove si trattenessero la figlia e Drusilla, non voleva che essa presente venisse a nascere qualche disordine; o che paresse almeno, ch’eglino approvassero l’errore delle dame e di Panfilo, e la usurpazione che di Drusilla faceva Glisomiro, mentre non volendo sposarla veniva a passare in concetto di sua donna. Questa commissione conturbò oltremodo Celinda e Alberta, e quasi piú di Alberta Celinda, tanto s’aveva lasciata penetrar nell’animo con la curiosità di vedere qualche incantesimo la compiacenza della persona di Glisomiro con altri sentimenti da quelli, che in tanti anni d’amicizia e d’amore aveva forse provati. Persuasa finalmente da Alberta di consigliarsene con Glisomiro, trovatasi col cavaliere, e chiamatasegli obbligata per la ricuperazione delle sue gioie, che riconosceva dalla sua gentilezza, venne a dirgli l’ordine ricevuto dal marito col dispiacere che aveva di lasciarlo; pregandolo insieme d’avvisar Panfilo del suo pericolo, e di Domitilla, e di provvedervi. Non sapeva ancora nulla di Glisomiro della pratica tenuta fra Celinda e Alberta; onde ringraziata cortesemente la dama della sua amorevolezza, disse che in quanto all’obbedire agli ordini del marito non era cosa da mettere in consulta con altri, che con la sua propria prudenza. Che nel rimanere averebbe provveduto a’ suoi interessi e degli amici in buona forma. Spiacere anche ad esso oltremodo quella separazione, che’l privava della presenza di persona, che aveva fin dal primo giorno che la conobbe singolarmente amata: ma essere ormai tanto avezzo alle lontananze e alle disgrazie, che gli pareva anche miracolo d’aver potuto godere due giorni intieri per solo beneficio, e insperato, di fortuna, la consolazione di servirla. Celinda per queste parole del cavaliere proferite con molta soavità e incantamento d’affetto non era piú in se stessa: onde sospirando gli disse:

«O troppo amabile Glisomiro, quanto pagherei non avervi mai conosciuto!».

Il cavaliere veduta la dama commossa, proseguí dicendo:

«O quanto a me costa, signora, l’avervi conosciuta!».

Voleva piú dir Glisomiro, ma frappostasi a quei ragionamenti Alberta, diede occasione a Celinda di ritirarsi. E poi raccontato a Glisomiro quanto avessero trattato insieme la notte, gli diede materia di riso e di disgusto. Di riso per l’inganno, che prendeva con tutta la sua saviezza Celinda; di disgusto, perché le avesse manifestati i loro trascorsi.

«Se ho fatto male, mio danno, disse Alberta, e voi se averete cervello, accioché non possa parlare a mio pregiudicio, le chiuderete la bocca facendo con essa quello, che avete fatto meco. Ad ogni modo non ho paura, ch’ella mi tolga il vostro amore: perché son piú giovine di lei, vezzosa, e innamorata: dove ella, benché sia bella è però sciocca, e dispettosa; e ha dieci anni di piú di me, sí che quando ella sarà vecchia, io sarò ancora giovane».

«Questa è una politica, disse Glisomiro, da disperato; e io non sono cosí sciocco, che voglia arrischiare la vostra grazia in cosí fatto cimento. No, no, signora, non mi tentate. Sono vostro, né posso essere d’altrui».

Sorrise la dama, e disse:

«Neppur di Drusilla? Di questa doverei io avere qualche gelosia, che vi starà sempre appresso, ed è nel piú bel fiore degli anni suoi, non di Celinda, con la quale non vi troverete forse una volta all’anno, e incomincia a invecchiare. Orsú trovate pure qualche invenzione d’essere con Celinda, e di fermarla qui stanotte, che al rimanente saremo fra di noi sempre d’accordo; avendo piú discrezione, che non pensate».

Qui Glisomiro:

«Signora, è impossibile che qui vi possa servire, perché essendo tornati con questi cavalieri i padroni della casa io non averò piú comodità di passare per lo soffitto nella sua camera; né ella potrà starvi soletta, dovendo alloggiarvi insieme tutte le dame, che in quanto a Ferrante l’accomoderemo in altra parte».

«Questo è nulla, disse Alberta. Fate pure, che quella camera resti libera da Ferrante; perché io dormirò con Celinda, e la farò travedere insieme con tutte l’altre donne».

Non poteva la modestia del cavaliere piegarsi a tanta libertà di conversazione, e restava tuttavia con qualche dubbio di non poter spuntare della sua pretensione con tanti impacci per casa. Che in quanto alla persona di Celinda, essendo già caduto con Alberta, sentiva, che l’antico amore portato a quella dama incominciava a cangiar natura per desiderare di possederla in altra guisa da quella, che aveva lungamente preteso nel servirla. O misera umanità! Cosí è pur vero, che perdi sovente in un momento d’errore quanto hai con lunghe prove di virtú faticosamente acquistato. Glisomiro amò da giovinetto Celinda nel fior degli anni, e nell’età piú matura, che doveva amarla con riverenza di madre, la desidera in luogo d’amica. E Celinda che aveva negato fino un bacio d’onore nell’età piú fresca a Glisomiro, che aveva con tanta lealtà generosamente amato; cangiata da se medesima per una vanità impossibile e sciocca; e da qualche impulso di gelosia d’altra donna, e d’opinione d’amabilità nel cavaliere, si conduce a far prova della sua pudicizia con esso, in una età, che spogliando i vizi veste la virtú e l’onore? O misera umanità!

Ma passiamo con tutta questa comitiva di dame, e di cavalieri, essendo già apparecchiato il desinare, a tavola; e perché le vigilie notturne provocano la sete, aveva appena Glisomiro assaggiata una vivanda, che chiesto da bere ad Astolfo invitò Alberta ancora, e avendogli essa corrisposto trovossi a fronte una tazza di vin di Cipri vecchio di molti anni: onde assaggiatolo, come quella che solea bere piú tosto acqua colorita, che vino, tutta si riscosse per la gagliardia di cosí spiritosa bevanda, e chiese dell’acqua per temperarla. Ma Glisomiro: «E cosí dunque, disse, volete voi, signora

 

effeminar d’un maschio Nume i doni,

 

e farmi questa ingiuria di tenermi un invito d’acqua?».

Rise Alberta, e rispose:

«V’intendo; ma ve ne pagherò certamente».

E votata generosamente la tazza, le convenne asciugarsi le lagrime, che le espresse dagli occhi la poderosa virtú di quel preziosissimo vino. E poi soggiunse:

«M’avete fatto piangere, ma io ho pianto di gioia, guardate voi di non piangere di dolore».

«Ci vorrà del buono, disse Guglielmo, a farlo lagrimare di cordoglio».

«So, disse Alberta, che egli è imbizzarito della setta stoica, e celebra quei pazzi filosofi, che pretesero con incredibile arroganza d’emulare in terra lo stato degli dei, ma guardisi pure

 

che nel disumanarsi

non diventi una fera, anzi che un Dio;

 

anzi che non diventi peggior delle fiere, le quali pure hanno sentimento d’allegrezza, e di doglia. E per non andare molto di lontano a ricercarne le prove, dicagliele il suo Fiorino, che quando talvolta mel lascia per qualche ora, con tutte le carezze che io sappia fargli; stassene sempre meco malinconico e mesto, e come il vede comparire, diventa tutto allegro e festante, e non v’è mezzo che possa tenerlo sí, che non mi salti di braccio per corrergli in seno a ricompensare la noia ricevuta dallo star meco con la gioia di vedersi con esso».

«E che direste, signora, soggiunse Giustina, se il vedeste quando Glisomiro riceve qualche visita di rispetto, che non gli permette d’attendere alle sue carezze? Poiché come s’avvede, ch’egli stia troppo a dirgli qualche cosa, gli si getta tutto sconsolato a’ piedi, e geme, e si lagna come se avesse sentimento umano? E non c’è mica pericolo, che alcuno possa entrargli in camera per confidente che sia, ch’egli nol senta, mentre vi sia Fiorino; perché se dorme corre subito a svegliarlo, e se veglia non lascia che passi le porte se nol sente prima chiamar da lui. E certo, che è una cosa maravigliosa il vedere come quella gentil bestioletta mai chiuda occhio mentr’egli dorme, e a guisa d’Artofilace all’Orse tenga gli occhi sempre fissi nel suo volto, e che quando veglia mai gli esca di camera: oltre a che piú tosto si morrebbe di fame, che prendere il cibo da altra mano, che dalla sua mentre sia in casa. E non bisogna già fingere di mangiare per fare ch’egli si cibi, perché se ne avvede benissimo, e gemendo, e latrando fiuta, e gitta via tutte le cose, che conosce che non sieno state libate dalla sua bocca».

«Tutto questo è niente, disse Guglielmo. Bisognerebbe veder Fiorino quando Astolfo veste Glisomiro, che il giovinetto pena a difendersi le gambe, sí che nol morda per invidia di non poter esso esercitare quel ministerio verso la sua persona. E non occorre già per farlo disperare, che gli metta le mani in capo, o su le spalle, e finga di fargli carezze, perché Fiorino s’alza di botto su le sue zampette, e meglio che può gli si rampica su per la vita; e se avesse forze eguali alla sua volontà il mangierebbe vivo, perché non gli togliesse la grazia del padrone».

«Questa è propria naturalezza de’ cagnoletti, disse Glisomiro, e non è solo Fiorino, che ami il padrone. Potrei io raccontare mille bizzarie di somiglianti bestiolette; poiché essendone sempre state molte per la mia casa, ho avuto occasione d’osservare in loro cose non solamente prodigiose, ma incredibili, e che potrebbono mettere in credito a chi non avesse lume di fede la trasmigrazione dell’anime sognata da Pittagora uomo per altro sapientissimo, ma in questa parte poco lontano dalla comunione delle bestie. Ma se in cosí fatti animaletti, che operano per solo instinto di natura, è cosa graziosa il vederli e mesti e lieti, e contenti e addolorati: nell’uomo però, che caratterizzato nell’anima del lume divino della ragione conosce la vanità de’ mali e de’ beni di questa vita, è cosa insopportabile affatto la soverchia malinconia e la soverchia allegrezza. E però non furono punto arroganti gli Stoici, i quali procurarono di disumanar gli uomini per condurli alla impassibilità delle umane perturbazioni; ma modestissimi, e per lo secolo in cui vissero religiosissimi; poiché leggiamo di loro appresso il grande Stridoniese, che facevano ordinariamente la loro vita ne’ Templi per apprendere dalla santità dell’albergo di non occupare il pensiero fuor che nella contemplazione delle cose divine. E con pochissima mutazione (inquanto ai costumi) si ridurrebbono i dogmi di quella severissima setta a’ purissimi sentimenti della nostra religione. Confesso però, che fin da’ piú teneri anni sopra tutte le sette degli antichi filosofanti amai sempre e stimai la Stoica e la Platonica; e mi diportai piú volentieri nel portico, e nell’Accademia, che nel Liceo, o in qualunque altra scuola piú rinomata nella vana sapienza degli antichi».

«Non fu maraviglia, disse Guglielmo, perché essendo sempre stato innamorato all’antica vi conveniva essere Stoico ne’ costumi, e Platonico nella contemplazione».

«Mi fate sovvenire, disse Alberta, di quel che ho letto ne’ Discorsi Accademici del Mascardi, che un’amante sia il ritratto d’uno Stoico. Bizzarria veramente graziosa, ma da non prestarsele fede alcuna, vedendosi continuamente, che gli amanti operano appunto a rovescio degli Stoici; mentre questi volevano gli uomini impassibili; e gli amanti sono perpetuamente lacerati da mille fierissime perturbazioni, che non che gli tormentino nell’animo, gli affliggono anche nel corpo a segno di farli infermare, e sovente ancora morire. Quindi non si sentono altre voci, né si leggono altre composizioni d’amanti, che di sospiri, di pianti, di mestizie, di dolori, d’afflizioni, di miserie, d’infelicità, e piú in quelli, che piú vivamente, e dirò ancora, che piú onestamente amano».

«Mercé, disse Glisomiro, della benigna inclinazione delle donne, le quali d’altro piú volentieri non si pascono che de’ tormenti, delle lagrime, e de’ sospiri degl’infelici amanti, godendo a guisa di fiere sitibonde di sangue umano, di sbranar loro il cuore co’ morsi della loro crudeltà. Ma non perciò merita minor credenza l’autorità del mio dolcissimo Mascardi; perché in verità altro non è un vero amante, che un vero Stoico; e se si trova qualche vero amante che pianga, piangerà certamente per altro, che per dolore; e se per dolore, non per dolor d’amore. Ma perché dove ha sudato la maravigliosa eloquenza dell’eruditissimo Mascardi, non conviene che lingua vulgare presontuosa venga a discorrere: senza rendere altra ragione della mia compiacenza, mi dichiaro e mi glorio d’essere, e come amante e come tinto di qualche colore di filosofia, seguace della setta stoica, e della socratica».

Qui Vittorio:

«Guardate, signor mio, che questa mescolanza di Socrate con Zenone, non riesca come un nastro di canape e di seta, sí che la mala qualità del canapo logori la seta, e distrugga un composto cosí stravagante».

«Sarà piú tosto, replicò Glisomiro, un nastro tutto di finissima seta, ma di colori diversi insieme uniti alla guisa delle cordelle di raso d’invenzion francese, come è quella appunto, che serve in forma di galano per ornamento del seno alla signora Eufemia, nella quale non si saprebbe discernere se sia diverso il colore vermiglio dall’incarnato, il cangiante dal colombino, il turchino celeste dal ceruleo marittimo, essendo con tanto artificio fra di loro tessuti e congiunti, che vengono a formare una sola vaghissima mistura di piú colori indistinti».

«Sí che, disse Celinda, Glisomiro non vuol piangere né per dolore, né per amore. Non per dolore, perch’egli è stoico; non per amore, perché suol dire, che

 

Amor dov’egli incende, e dove ancide

Amor vero non è, ma fiamma, e fuoco;

Amore è là, dov’egli scherza, e ride.»

 

«Parmi ch’egli l’intenda, disse Ariperto: perché finalmente ella è una sciocchezza, non che una vanità, l’attristarsi di quelle cose che non hanno rimedio; e son pazzi da catena quegli uomini, che in vece di godere vogliono penare in amore».

«Questa, disse Alberta, sarà una nuova sorte d’innamorati; quasiché noi non sapessimo, che essendo ogni amante geloso, e non essendo altro la gelosia, che timore, col quale va quasi sempre accompagnato o dolore o aspettazion di dolore, è impossibile che un vero amante non pianga, e per amore e per dolore insieme».

E Glisomiro:

«Gran campo per discorrere ci aprite, signora, ma non possiamo trattenerci a tavola in cosí lunga disputazione. Io però stimo assolutamente, che un vero amante possa amare senza gelosia, e però senza dolore, e senza lagrime; e per conseguente sia vero Stoico».

«Non ha già, disse Vittorio, questa opinione quel poeta, che scrive,

 

che un amante senz’oro è sempre in doglia».

 

«Parla da quello, ch’egli è, disse Alberta; e non è amante, ma dissoluto, mentre ama una donna vile e venale, per la sola compiacenza del senso. Noi parliamo de’ veri amanti, che amano la bellezza dell’animo, e quella del corpo ancora delle donne loro in quanto è obbietto degli occhi; tra’ quali avendo tenuto principalissimo luogo il Petrarca, l’Ariosto e’l Tasso, che sono stati, non solamente grandissimi poeti, ma grandissimi innamorati, mi giova questa volta di credere anzi con loro, che col signor Glisomiro, il quale forse piú per vaghezza di contradire, che per dirne quello che sente, mostra d’aver’opinione, che si possa amare veramente senza dolore, sapendo egli troppo bene, che come

 

Pasce l’agna l’erbette, il lupo l’agna,

il crudo amor di lagrime si pasce,

né se ne mostra mai satollo».

 

«La colpa, disse Glisomiro, non è d’Amore,

 

di sua natura placido, e benigno;

 

ma della crudeltà delle donne; onde ebbe molta ragione il satiro di Corisca, quando disse:

 

O feminil perfidia a te sí rechi

la cagion pur d’ogni amorosa infamia.

Da te solo deriva, e non da lui

quanto ha di crudo e di malvagio Amore».

 

«Non vi si risponde a proposito, disse Alberta, perché si sa, che non parlate da senno; non avendo voi occasione alcuna di lamentarvi delle donne, essendo cosí felice amante, che non potete addolorarvi, né piangere».

Qui Guglielmo:

«Io non so veramente quali sieno le avventure amorose, né quale la vera opinione di Glisomiro, ma se dagli altrui discorsi e componimenti si possa trar notizia per formare una giusta sentenza; non avendo io mai veduto, o sentito, ch’egli nel trattare, o parlando, o scrivendo le sue passioni amorose, si sia mostrato in alcun tempo geloso; posso credere ancora, ch’egli ami senza dolore, e che sia vero stoico, e vero amante insieme».

«Sarà stato, disse Alberta, eccesso o di modestia, o di buona fortuna, o forse un capriccio d’opinione. Ma siasi quel che si voglia de’ suoi discorsi, o componimenti, in questa parte io non gli credo; perché insomma sento un Petrarca verissimo amante, che grida:

 

Di sua bellezza mia morte facea

d’amor, di gelosia, d’invidia ardendo.

 

Sento un Ariosto verissimo amante, che parlando d’Amore come per arte, esclama:

 

Qual dolce piú, qual piú, giocondo stato

saria di quel d’un amoroso core;

qual viver piú felice, e piú beato

che ritrovarsi in servitú d’amore?

se non fosse l’uom sempre stimolato

da quel sospetto rio, da quel timore,

da quel furor, da quella frenesia

da quella rabbia detta gelosia?

 

E sento un Tasso, che dolorosamente si lagna:

 

Geloso amante apro mille occhi, e giro

e mille orecchi ad ogni suono intenti,

e sol di cieco orror larve, e spaventi

quasi animal che adombre odo, e rimiro.

S’apre un riso costei, s’in dolce giro

lieta rivolge i begli occhi lucenti,

se tinta di pietà gli altrui lamenti

accoglie, o move un detto, od un sospiro;

temo che altri ne goda, e che m’invole

l’aura, e la luce; e ben mi duol, che spieghi

raggio di sua bellezza in alcun lato.

Si nieghi a me purché a ciascun si nieghi,

che quando altrui non splenda il mio bel Sole

ne le tenebre ancor vivrò beato».

 

Glisomiro lodato la memoria e la grazia d’Alberta nel recitare, soggiunse:

«Non so, signora, se abbiate ben considerati gli ultimi versi di questo amoroso e leggiadro componimento».

«E che dicono?», rispose Alberta.

«Quello appunto, proseguí Glisomiro, che dico io parimente, che un vero amante può amare senza dolore. E però quando il Tasso fu assicurato, che la sua eccellente Leonora per amor suo ricusò di maritarsi scacciò immantenente dal suo cuore la gelosia».

«M’avete colta, ma non abbattuta, disse Alberta. E se pure io conchiudessi con voi, che un vero amante riamato possa amare senza gelosia, bisognerebbe ancora, che io conchiudessi, che non sieno stati veri amanti, né riamati il Petrarca, l’Ariosto e’l Tasso; essendo tutti e tre stati gelosissimi delle donne loro. Ma perché furono e veri amanti, e veramente riamati, e si vede in mille luoghi dell’opere loro, che amarono sempre con gelosia; io crederò, che un vero amante sia sempre geloso, e non mai stoico, mentre amando, teme e spera, s’addolora e si rallegra in punto medesimo, nonché in un istesso giorno. E perché so, che voi stimate il Dio de’ poeti il Tasso, e passate per irretrattabile la sua autorità in materia d’amore, tralasciato quello, che potrei apportare del Petrarca e dell’Ariosto, fatemi grazia di mettervi a memoria quella sua vaga e amorosa canzonetta sopra la gelosia, la quale io reciterei qui tutta volentieri per essere tutta a mio proposito, se non temessi di noiare con le mie ciancie questa nobile conversazione. Conchiuderò per tanto con la sola sua conchiusione la seccaggine del mio ragionamento, ove dice:

 

Canzon pria mancherà fiume per verno,

che nel mio dubbio core

manchi per gelo Amore;

 

che altro non vuol dire se non che un vero amante è sempre geloso, e come tale e teme, e s’addolora, e piange, e lasciata agli stoici la loro sognata impassibilità grida col buon vecchio Linco

 

Uomo sono, e mi pregio

d’essere umano».

 

Qui Drusilla:

«Se voi chiedevate a me dapprincipio se Glisomiro sia quello stoico amante che si vanta d’essere v’averei data la causa vinta, senza che punto v’affaticaste; essendomi io stessa veduta abbandonata da lui (e mi scusi la sua gentilezza) per un solo vano sospetto di gelosia».

«Questo non basta, signora, disse Giustina per convincerlo; perché se pur fu vero, che v’abbandonasse, può essere ch’egli il facesse non per gelosia, ma per generosità; o se pur commosso da qualche passione, da quella dell’ira; passion cosí nobile, che da molti uomini saggi viene stimata, o virtú, o cosa somigliante a virtú. Certo è, che nascendo dal fonte dell’irascibile, la quale tra le potenze dell’anima meno di tutte l’altre s’allontana dalla nobiltà della mente, come è ben regolata, opera azioni sovrumane ed eroiche; e però da’ piú sublimi e giudiziosi poeti vediamo descritti iracondi e sdegnosi quegli Eroi, che prendono a immortalare col volo delle loro penne divine».

«Questo però non conchiude affatto contro Drusilla, disse Vittorio, e potrebbe anche dire la signora Alberta, che mentre egli ammette l’irascibile nelle sue azioni, dalle quali viene esclusa dagli stoici, egli non sia perfetto stoico, né in conseguenza vero amante senza dolore e senza gelosia».

«E questo appunto, soggiunse Giustina, è quello che pur dianzi egli diceva d’essere agevolmente seguace del Portico, dell’accademia; perché se gli stoici escludono l’irascibile dalle operazioni, i platonici per lo contrario la stimarono ministra e compagna della ragione. Sí che egli a guisa de’ fabbricatori di queste cordelle di raso i quali nel tesserle insieme di vari colori vengono a formare un sol colore indistinto, componendo di due sette una sola, e tempera con la piacevolezza accademica la stoica severità, e con l’agrestezza del Portico mortifica la dolcezza dell’Accademia, facendone risultare in se stesso un sol composto di vero stoico amante senza alcuna mistura di perturbazioni

 

Venti contrari a la serena vita;

 

amando quelle donne, che meritano d’essere amate senza gelosia, e lasciando d’amar quelle, che si mostrano indegne d’essere amate senza dolore».

Drusilla allora sfavillando dalla bocca e dagli occhi tutta la grazia d’amore, sorridendo disse:

«Io, signora, non sono mai stata segretaria o discepola di Glisomiro, né tengo per marito un filosofo e un accademico, che m’addottrini nelle scienze, per potervi rispondere su questo tono, non avendo altra cognizione di filosofia, che di leggere e di scrivere i miei bisogni. Vi so ben dire per cosa certa, che Glisomiro m’abbandonò senza cagione, e con mio cordoglio, essendosi ingannato ne’ suoi pensieri, che me gli dipinsero indegna del suo affetto. Ma s’egli poi credesse d’avere occasione d’abbandonarmi, e mi prevalse della sua affezione senza dolore, il lascierò pensare a chi ha fior d’intelletto: trattandosi d’una dama delle mie condizioni, che se ben povera di beni di fortuna, mi trovava però allora nel mio bel fiore di diciotto anni. Vi so dir parimente, che tanto è lontano, che io lo stimi amante senza gelosia, che anzi non conosco, e per mia poca intelligenza, e per altrui relazione il piú geloso cavalier di lui. Che se bene egli il disimuli, o per prudenza, o per gentilezza, fa egli però con gli occhi e co’ pensieri una squisitissima anotomia delle azioni delle sue dame; e ne ho conosciuta una, la quale amando lui di perfetto amore, mi confessava di tremar tutta quando il vedeva comparire per la paura, che aveva, ch’egli osservasse in essa qualche cosa che lo ingelosisse e gli dispiacesse».

Qui Alberta sorridendo:

«Io non voleva, disse, rivelare gli altrui segreti a tavola, ma chi m’ha fatto bere il vino senz’acqua, non si dolga di me, ma di se stesso, se la verità, che sta nascosta nel vino, mi facesse per ventura sua sacerdotessa. Ditemi in grazia, signore stoico amante, per qual cagione avete voi lasciato di servir quella dama che sapete, se non perché ella vi dava crudelissime sferzate di gelosia con la varietà del suo procedere? Ma voi non l’amavate veramente, perché un vero e ardente amore, a testimonio del vostro Tasso

 

per timore non gela,

né s’estingue per ira, o per disdegno;

 

e un verace amante prova con esso

 

che temprato dal gel piú l’arde il fuoco».

 

«Graziosamente, disse Glisomiro; ma favoritemi in grazia, signora sacerdotessa della verità, di dirmi donde nascano negli amanti le lagrime, i sospiri, i lamenti e le gelosie?».

«Dall’appetito sensuale senzaltro», disse Alberta.

«Adunque quel solo sarà vero amante, che amerà senza dolore e senza gelosia. Adunque non furono veri amanti il Petrarca, l’Ariosto e’l Tasso, vivendo in gelosia e cordoglio per le amate donne; avendole amate per possederle nella compiacenza de’ sensi, non per amarle nel contento dell’animo. Adunque sarà vero stoico amante quello, che amerà senza gelosia donna degna d’essere amata; e lascierà d’amare senza dolore donna immeritevole del suo affetto. Adunque io amava veramente la dama vostra amica, perché l’amava a ragione, e ho lasciato di servirla per isdegno, ministro della ragione».

Qui Guglielmo:

«Questo è assai, disse, ma non m’appaga intieramente, vedendosi pur troppo alla prova, che amore per puro e legitimo ch’egli sia, va sempre accompagnato da lagrime, da sospiri, da sospetti, da timori, da martiri e da pene; e vediamo, che gli stessi mariti, i quali senza incontinenza o intemperanza amano le proprie mogli, non vanno esenti dalle perturbazioni d’amore».

«Questo, che voi dite, replicò Glisomiro, non fa punto di forza contro la mia proposizione; perché l’amor de’ mariti è anzi benevolenza, che amore; non cadendo nel marito già posseditore della cosa amata, gelosia d’amore, ma gelosia d’onore; perché egli non teme di perdere il possesso della moglie; ma teme di perdere il proprio onore con la parte, ch’ella facesse ad altri di se stessa: e però non la custodisce con tormento di gelosia amorosa per conservazione de’ suoi diletti; ma con apprensione di giusto timore per sicuranza della propria riputazione. Ma se pur si trovassero mariti amorosamente gelosi, non veri amanti, ma bisognerebbe crederli incontinenti e intemperanti anche nell’uso del legitimo amore, o piú dolcemente parlando amanti imperfetti, non amando nell’amata donna che la bellezza del corpo in quanto è ministra delle compiacenze del senso, non in quanto è obbietto degli occhi per amarla nelle bellezze dell’anima. Che in quanto poi a quelle pene, delle quali disse anche l’Ariosto

 

Gravi pene in amor si provan molte

di che provate io n’ho la maggior parte;

 

un vero stoico amante non le sente, non che se ne dolga; anzi volontariamente le abbraccia come stromenti di beatitudine amorosa, e a guisa d’oro nel fuoco affina in loro la propria fede. Andava però dicendo lo stoico amante Mirtillo:

 

Questo solo mi resta

tra tanti affanni miei dolce conforto,

arda pur sempre, o mora,

o languisca il cor mio,

a lui sien lievi pene

per sí bella cagion pianti, e sospiri,

strazio, pene, tormenti, esigilo, e morte.

Pur che prima la vita,

che questa Fé si sciogliti,

che assai peggio di morte è il cangiar voglia.

 

Quindi il poeta ferrarese, che tanto provò, e seppe delle passioni amorose conchiuse, che un vero stoico amante,

 

se bene amor d’ogni mercede il priva,

poscia che’l tempo, e le fatiche ha speso,

pur che altamente abbia locato il core

pianger non dee se ben languisce e more.

 

Insomma pur che sappia l’amante amare senza gelosia, invano per addolorarlo congiurano contro di lui il cielo, la terra, gli uomini e la fortuna: poiché egli non meno dello stoico, che trovava la beatitudine anche nel Toro di Falaride, fra i tormenti e le morti sempre lieto e festante trova la sua vera felicità amorosa, e grida col fido amante:

 

M’è piú dolce il penar per Amarilli,

che’l gioir di mille altre.

Tutti questi pur sono

amorosi trofei della mia fede.

Trionferò con questa

del cielo, e della terra

della sua cruda voglia

delle mie pene, e della dura sorte,

di fortuna, del mondo e della morte.

 

Cosí diceva il generoso e stoico amante infino a che amò senza gelosia ma non sí tosto per le maligne invenzioni della perfida Corisca si lasciò entrar nel seno quello inquieto spirito, e degenerante; che immantenente caduto dal cielo della sua felicità, dove gioiva negli affanni, e si beatificava nelle miserie, nell’abisso della disperazione, incominciò a provare fierissimi dolori e intollerabili, e ad essere il piú infelice di tutti gli amanti. E però andava dolorosamente esclamando:

 

O piú d’ogni infernale

anima tormentata

tormentato Mirtillo,

non stare in dubbio piú, la tua credenza

non sospender già piú: tu l’hai veduta

con gli occhi propri, e con gli orecchi udita.

La tua donna è d’altrui;

E tu vivi meschino? E tu non mori?

Mori, Mirtillo, mori

al tormento, al dolore,

come al tuo ben, come al gioir sei morto.

Mori morto Mirtillo.

Hai finita la vita

finisci anco il tormento.

 

Ma vediamo questa verità meglio ancora insinuataci da un oracolo di Parnaso, che non può essere che veridico, essendo pieno del piú puro spirito d’Apollo. Eccovi un sonetto di monsignor dalla Casa, nome che a se stesso è corona di gloria.

 

I’ mi vivea d’amara gioia e bene

dannoso assai, ma desiato, e caro;

ne sapea già, che’l mio Signore avaro

a’ buon seguaci suoi fede non tiene.

Or l’angeliche note e le serene

luci, che col bel lume ardente, e chiaro

lieto piú che altri in festa mi menaro

sí lungo spazio fra tormenti e pene.

E’l dolce riso ov’era il mio refugio,

quando l’alma sentia piú grave doglia,

repente ad altri amar dona, e dispensa.

Lasso, e fuggir dovria da questa spoglia

lo spirto oppresso dalla pena intensa

ma per maggior mio mal procura indugio».

 

«E dove lasciate, signor cavaliere, disse qui Giustina, il vostro divinissimo Tasso?».

«Sodisfate voi per me, disse Glisomiro, che io sono ormai stanco d’adoperar la bocca solamente per favellare».

E ciò detto chiese da bere; e Giustina soggiunse: «Eccovi un suo bellissimo sonetto nella medesima materia di quello del Casa». E recitò:

 

Quel puro ardor, che da i lucenti giri

dell’anima immortale in me discese,

sí soave alcun tempo il cor m’accese,

che nel pianto gioiva, e ne’ sospiri.

Come minacci amor, come s’adiri

quali sian le vendette, e quai le offese,

per prova seppi allor, ne piú s’intese

che beassero altrui pene e martiri.

Or ch’empia gelosia s’usurpa il loco

ove sedeva Amor solo in disparte,

e fra le dolci fiamme il ghiaccio mesce;

m’è l’incendio noioso, e’l dolor cresce

sí che io ne pero, ahi lasso. Or con qual’arte

se temprato è dal gel piú m’arde il foco?

 

«Esortava però con molta ragione (prosegui Glisomiro) il medesimo poeta la sua donna a discacciare dal suo seno cosí pestifera cura perturbatrice de’ nostri riposi, e contaminatrice de’ nostri diletti, anzi ucciditrice, non fomentatrice (come piace alla signora Alberta) d’amore, essendo ella madre e nutrice della disperazione: onde un platonico poeta ebbe a cantare.

 

O di tema, e di bel figlia infelice

dopo Amor nata d’un medesimo padre,

e innanzi all’odio dell’istessa madre,

della disperazion madre e nudrice.

 

E ne abbiamo pur’ora veduto l’esempio nel geloso Mirtillo caduto nell’insania di voler morire, perché era precipitato nella disperazione cagionatagli dalla gelosia. Ma udiamo (e terminiamo questo trascorso ) il consiglio dato dal Tasso alla sua donna,

 

S’amate, vita mia, perché nel core

tema e desire è nell’istesso loco?

Se l’uno affetto è gelo, e l’altro è foco,

il ghiaccio si dilegui al vivo ardore.

Né in petto giovinil paventi amore,

né ceda nel suo regno a poco a poco,

gelida amante, e non prendiate a gioco

come i vostri diletti il mio dolore,

Io tutto avvampo, e voi credete appena

che si riscaldi agli amorosi rai

quel possente voler, che nulla affrena.

Gran fede, e moderato ardire omai

voi d’inganno fuor tragga, e me di pena,

perché io gioisca quanto già sperai».

 

«Questo è un sonetto, disse Valerio, da far sudar la fronte a quei barbassori, che avendo il giudicio dell’animal di Mida antepongono i cucoli ai rossignuoli».

«E pure, disse Giustina, non è de’ piú belli e spiritosi sonetti del gran Torquato».

«È almeno de’ piú dotti, e de’ piú artificiosi, soggiunse Glisomiro; e io conosco uno de’ piú eminenti letterati del nostro secolo, il quale dopo d’aver fabbricato un’opera intiera, e consumato il fior dell’ingegno nella interpretazione di questo brevissimo componimento confessa di non finire ancora di bene intenderlo. Cosí scriveva d’un’aria lontana dal vulgo de’ verseggiatori il grandissimo Tasso».

«Insomma, proseguí Guglielmo, le poesie di quell’uomo divino non sono cibo per gli stomachi deboli di poetastri vulgati, o d’accademici falliti; ma vogliono per essere bene intese e digerite complessioni robuste d’uomini consumati in ogni genere di filosofia, e d’erudizione antica e moderna. E scrivano pure gl’invidi della gloria del Tasso quanto vogliono, che con le migliaia de’ loro componimenti non arriveranno giammai a mettere insieme pur’una picciola parte di quei lumi d’erudizione, che risplendono in un solo sonetto, in una sola canzonetta, non dirò fabbricata studiosamente da quello elevatissimo ingegno, ma casualmente caduta da quella eruditissima penna. Confessassero almeno la propria ignoranza, giacché non possono nasconderla agli occhi del mondo letterato. Ma la presunzione, l’invidia, la malignità e l’ingratitudine sono i contrassegni ordinari della ignoranza. Cosí dopo d’essersi alcuni verseggiatori arricchiti delle spoglie del Tasso, dopo d’avergli rubato le invenzioni, i concetti, e fino gl’intieri componimenti, non si vergognano di lacerare ne loro goffissimi scritti e ragionamenti la fama immortale di quell’uomo incomparabile, e veramente divino».

Con questi e somiglianti discorsi pervenuto a debito fine il desinare, Glisomiro, che nell’accortezza del suo ingegno andava meditando qualche mezzo per impedire senza disordine e scandalo il ritorno di Celinda e d’Alberta per quella notte alle proprie case, mise in nuovo trattenimento le dame e i cavalieri facendo cantare a Domitilla e Giustina diverse ariette, tra le quali riuscí gratissima alle dame questa canzonetta dell’Amore artificioso, scritta già da Glisomiro, e di presente recitata da Domitilla.

 

Amor, ch’è fanciulletto

nel natural suo stato

non mai cresce al diletto

da l’Arte abbandonato.

Cresce ne l’arte Amore,

un finto vezzo è vera fiamma al core.

Tosto langue quel foco,

che non risveglia il vento,

languisce a poco a poco

piacer senza tormento.

Sa quell’alma d’Amore,

che tesse in dolci frodi i lacci al core.

Vibri strale penoso

l’occhio tremante, e tardo,

scocchi'l labbro vezzoso

tinto di mele il dardo,

e svegli eterno Amore

artificio gentil nel dubbio core.

Porta vanni tarpati

bellezza d’arte ignuda;

strali ha di fuoco armati

bellezza ad arte cruda,

schietta bellezza Amore,

o non conosce, o non trasporta al core.

Severità di gelo

celi d’Amor la face,

de la menzogna il velo

copra il disio verace;

per ben goder d’Amore

al fin si cangi il novo Proteo il core.

 

Dietro la recita di questa canzonetta incominciossi per invenzione d’Alberta e suggestione di Glisomiro una danza che fu l’ultima ruina di Celinda. La quale veduto Glisomiro appunto, che si tratteneva con molta domestichezza danzando con Eufemia, entrata in subita gelosia della figlia non vide l’ora, che separato dalla giovanetta potesse metterlo in parole per chiedergli con soverchia semplicità, che cosa pensasse d’Eufemia, che trattava cosí dolcemente con essa. Il cavaliere messa ad un sorriso la sua gelosia piacevolmente le disse:

«Mia signora, non si possano diffamare i frutti mentre s’ama quell’albero, che gli ha prodotti. Io chiedeva ad Eufemia se piú si ricordasse quando Lucietta me la porgeva al di sopra alla muraglia della mia terrazza, e veniva a dimandarmi de’ fiori per la signora madre. Ed ella m’ha risposto di no, e che non tiene altra cognizione di mia persona che d’avermi veduto, dopo che è maritata, il verno all’Accademia, per le feste. Tutto questo però non vuol dir altro, se non che io fui pazzo allora a non sapere incontrar l’occasione di far la strada, che faceva Eufemia, sopra quella infausta terrazza, che mi tolse di pace e mise in guerra». Sospirò Celinda, e disse:

«O spietata memoria! Ma voi, signore, siete ancora nel fior degli anni, io vengo cacciata dal mondo da mia figlia».

«Purché voi, mia signora, non cacciate lei, disse Glisomiro, perché a giudizio di chiunque vi mira, voi siete piú bella ancora di Eufemia, che non ha già corrisposto alla mostra, che dava nella sua infanzia d’essere un nuovo Sol di bellezza. Ella non è già brutta, ma non è già bella come la madre».

«Voi mi schernite, disse Celinda; e non sono già cosí sciocca, che voglia credere a queste novelle, che una madre vicina a quaranta anni sia piú bella d’una figlia di diciassette».

«Signora voi mi cambiate le carte, disse Glisomiro, io parlo della bellezza, non della età. Se Eufemia è piú bella per esser piú giovane, voi siete piú bella di lei, benché attempata. Ma queste sono ciance. Fermatevi qui stanotte, e conoscerete qual di voi stimi piú bella».

Sospirò nuovamente Celinda, e disse:

«Guardate bene, che non venga a nascere qualche disconcio, perché conoscete l’umor di Lionello. E poi, quando ancora mi fermassi, che pensareste di fare? Ricordatevi, che io sono Celinda».

Voleva replicar Glisomiro; ma venne interrotto (e cessarono insieme le danze) dall’arrivo della barca, e d’un cameriere di Placido, che portò sue lettere, e commissioni ad Alberta. E intanto ch’ella attentamente ascolta il cameriere, e legge questa lettera del marito; Glisomiro parimente trascorse quelle che aveva a lui portate Ghiandone, che non meno di quelle d’Alberta portarono materia di nuove stravaganze d’amore, e di fortuna.

 

 

 





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