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Girolamo Brusoni
La gondola a tre remi

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SCORSA QUINTA

 

La prima lettera, che dasse nelle mani a Glisomiro nel disfacimento d’un piego non conteneva, che queste poche parole.

 

Signore. Per affare di mia grandissima premura vi prego di prendervi l’incomodo di venire per un solo momento a favorirmi della vostra presenza e del vostro consiglio; essendo a questo sol fine di vedervi tornato a casa. La vostra gentilezza, che mi dà confidenza di pregarvi, mi trovi scusa dell’ardimento che mi prendo di darvi fastidio; e ricordatevi, che sono Vostra serva Laureta.

 

Questa lettera gli troncava il pretesto, col quale coloriva Glisomiro il suo viaggio in terra ferma per visitare appunto questa dama, ma piú gagliardo motivo per ritornare a Venezia gli diede una lettera di Cillia, che’l richiamava instantemente a casa per la comparsa in quella parte d’Eugenia e di Beatrice moglie, e figlia d’Ariperto; volendo ogni termine di convenienza, che passasse di persona a complire con due dame moglie e figlia d’un cavaliere, che già molti anni teneva in grado strettissimo d’amicizia, benché diversi viluppi di fortuna avessero messo intoppo alla cordialità della loro corrispondenza. Or mentre participa ad Ariperto questa occorrenza ecco Alberta, che tutta confusa e conturbata viene a presentargli una lettera del marito, che trovò dettata con quella precisa formalità di concetto.

 

Signora. Per convenienti risguardi, che toccano l’onor mio, mando la barca, perché veniate subitamente a casa. E se Celinda occupata nella infermità di Ferrante non potesse accompagnarvi, chiedete a Glisomiro, che vi conceda la compagnia di Drusilla; e se venisse egli ancora con voi, non mi dispiacerebbe. Placido.

 

Stette buona pezza il cavaliere pensando su questa lettera, né saputo che si risolvere da se stesso, messo ad esame il cameriere su la novità di questa ambasciata, e veduto, che gli parlasse d’un’aria, che mostrava bene di saper qualche cosa, ma di non poterne favellare: tanto seppe, e potè aggirarlo con buone parole mescolate di qualche promessa, e di qualche minaccia, che finalmente gli trasse di bocca, che essendo passata a mezza mattina una femmina a trovarlo gli avesse riportata qualche novella d’esso, e d’Alberta; perché ragionando fra di loro aveva inteso nominare Alberta, Glisomiro, e Torcello. Ma nel finire di questo ragionamento avesse detto Placido alla donna:

«Tu sei una sciagurata, e dopo d’aver fatto una cosí grande ribalderia, com’è stata quella di rubar le gioie a quelle dame per fuggirtene con due facchini; posso credere, che per sola perversità di genio, e per vendicarti di Glisomiro, che t’ha tolta di mano cosí ricca preda, sii venuta ad accusarmi mia moglie. E quando ancora fosse vero quello, che tu mi dici, l’onor mio non dipende da’ capricci d’una donna». E ciò detto, fatto chiamare un gondoliere, gli comandò di caricar la femmina in premio della sua accusa, di cosí buona soma di bastonate, che le era convenuto farsi portare per misericordia all’ospitale per esservi governata e provveduta.

«Non poteva fare altro fine, disse Glisomiro, benché non meritasse tanta pietà questa ribalda», che ben s’avvide, che altra non poteva essere stata costei che Cate; la quale per ricompensa del beneficio fattole in consigliarla di ripassare a Venezia per isfuggire il castigo della sua trufferia; avendo a qualche barlume degli abiti riconosciuta Alberta, passò ad accusare ambedue al marito di congressi illegittimi. Questa notizia però mise a campo una noiosissima controversia. Che se ben Placido avesse fatto caricare di bastonate la femmina, e voluto darle a credere, quando ancora le avesse prestato fede, di non curarsi de’ trascorsi della moglie, né Alberta intendeva di fidarsi di lui, e meno pensava Glisomiro d’accompagnarla insieme con Drusilla; potendo sospettar con ragione, che gli facesse un qualche giuoco doppio. Non perché dubitasse della sola persona di lui, che oltre all’essere piú atto a tenere a ciancie le femmine, che a far paura agli uomini, aveva di che assicurarsene; ma per dubbio, che intesosi con Leonello e con Lelio, gli machinasse un qualche publico sovrasalto a cagion di Drusilla. Oltre a che pensava, che separandosi da Domitilla e da Panfilo, e conducendo seco Ariperto e Guglielmo, veniva a lasciarli quasi soli, e piú facilmente esposti alle insidie de’ loro nemici. Dopo molto pensato e molto consultato con Alberta, non parutogli per onor suo di favellarne con altri, prese di suo proprio moto partito di provvedere con un colpo solo a questo disordine, fermando insieme Alberta e Celinda; e già che si vedeva scoperto di confessare il suo fallo, ma in altra guisa da quella che aveva Cate veracemente divulgata. Partecipato però anche a Celinda quello, che gli parve conveniente di questa occorrenza, scrisse a Placido di propria mano in questa forma.

 

Signore. Mi dice la signora Alberta, che dovendo in esecuzione de’ vostri ordini tornare prestamente a casa, averebbe gusto che io l’accompagnassi con Drusilla, mentre non possa tornar con essa Celinda. In quanto a me verrei piú che volentieri a servirvi; ma né Drusilla stanca d’avere vegliato meco tutta notte per la ricuperazione di queste gioie si sente in termine di far viaggio; né io posso trasferirmi per istasera e Venezia, essendo chiamato da convenienza inevitabile in altra parte. Celinda altresí, benché tenga ordine dal marito di venire subitamente a casa, non può servirla; perché avendo io obligato la mia parola a chi m’ha rivelato dove stassero gl’involatori delle gioie, perché potessi ricuperarle, di dargli trecento ducati; non le par conveniente di partire da questa casa prima che sia satisfatto a questo debito. Nel rimanente sarò sempre quello che sempre fui, vostro buon’amico e servidore. Glisomiro.

 

In questa medesima conformità fece scrivere Glisomiro anche a Celinda, che s’espresse col marito in questa guisa.

 

Mio Signore. Non vedo l’ora, d’esser fuori di questo tugurio; ma la ricuperazione fatta da Drusilla e da Glisomiro delle vostre gioie, mi tiene qui inchiodata a mio dispetto; perché avendo essi promesso al rivelatore de’ ladri, trecento ducati in premio di questa sua buona opera, non mi par di dovere il partire se prima non abiamo pagato effettivamente questo debito; perché non paia, che vogliamo satisfarlo di parole. Alberta ne scrive a suo marito, e Ferrante a suo fratello, perché rimettano qui la parte, che tocca loro di questo danaro; perché se ben Glisomiro e Drusilla volessero satisfar essi a questo debito, non ci è parso bene d’accettare una cortesia, che ci metteva in servitú. Ha proposto ancora Glisomiro accioché potessimo venire subitamente a casa, di farci prestare da Ariperto e da Guglielmo questi danari, dicendo, che averemmo poi dato loro satisfazione a nostro comodo; ma né questa esibizione abbiamo voluto accettare senza prima darvene parte. Aspetteremo adunque qualche vostro avviso in questa parte per tornare subitamente a casa; essendo già tutta questa compagnia in procinto di partire. Vostra consorte e serva Celinda.

 

Fece questa invenzione il colpo disegnato appunto da Glisomiro; perché e Placido cavalier generoso, di genio libero e senza pensieri, non solamente credette che Drusilla fosse veramente stata presa in cambio di Alberta da Cate; ma rispedí subitamente il cameriere con cento ducati alla moglie; e Leonello uomo avarissimo inteso che avessero la moglie e la figlia ricuperato le loro gioie, e che Glisomiro si fosse esibito esso di satisfare a questa convenienza, scordatosi per cosí picciolo interesse di tutto l’odio conceputo contro la sua persona, e deposto il pensiero di nuocere insieme a Panfilo, non si curò di rispondere cosa alcuna alla moglie, e meno di rimandare la barca per ricondurla a casa, volendo senza parlare essere inteso, che non gli piacendo questa musica di sborsare cento ducati, dovesse ella Celinda accettare l’esibizione di Glisomiro di pagare esso il danaro, o di fargliele prestare, perché non gli venisse mai piú pagato.

Intanto perché Ferrante si sentiva poco meglio della sua febbre, e quella casa era troppo angusta per tanta gente, prese Glisomiro a dar qualche motto con gli amici di partenza per lo seguente mattino; e in questo mentre di passar quella notte con Ariperto in altra parte, dove non potevano capitar le donne. Dispiacque somigliante proposta a Panfilo e a Vittorio, e vi contradisse apertamente Drusilla, affermando di volerlo seguitare dovunque s’andasse. Onde il cavaliere, che tutto sensualeggiato dalla conversazione d’Alberta, non pensava che a mettere un saldo fondamento a’ suoi capricci con tirar Celinda dove forse non pensava ancora di pervenire; cangiato suono finse di quietarsi; e intesosi con Alberta, si mise attorno a Guglielmo pregandolo, e di consolar Giustina sposandola, come le aveva già dato intenzione, e di non partire per allora d’Italia, con esibirgli non solamente la propria casa per suo trattenimento, ma di procurargli prestamente impiego adeguato al suo presente bisogno. Guglielmo lusingato dal genio dell’amicizia, e tolto a se stesso da una certa affettuosità di tratto, con la quale pareva che Glisomiro incantasse le persone con le quali domesticamente conversava; lasciossi condurre dove gli piacque. Ritiratisi adunque in una parte i cavalieri, e nell’altra le dame a’ loro trattenimenti per aspettarvi il ritorno delle barche di Leonello e di Placido, e l’ora di cena, volle Glisomiro saper da Ghiandone quello che gli fosse avvenuto dopo la sua caduta in canale con la Rossa avendogli Cillia scritto non so che sovra questo punto, che l’aveva incuriosito di sua persona. Il povero tedesco, che se ben fosse caduto in acqua non aveva però digerito ancora il vino troppo ingordamente bevuto, trovatosi con questa femminella e con un’altra sua compagna, che se gli misero attorno facendolo spogliar bello e ignudo ed entrare in letto per asciugargli i panni; trovossi il piú imbrogliato uomo del mondo. Ma come che s’andasse la facenda, increscendo alla buona femmina di lasciarlo solo in letto, mentre le pareva un uomo da fatti non da parole; benché egli avesse piú voglia di dormire, che d’altro, il tenne seco tutta la notte. Poi conosciutolo dopo ch’ebbe consumato il fumo del vino, dolce di sale, pensò di cavargli le penne maestre con certe sue invenzioni puttanesche, sovra le quali non ci par bene di fermar la penna. E perché il giovine incominciò a questo suono a torcersi dicendo quello che n’era il vero, che fosse stata ella colei che l’aveva tirato dove non pensava d’andare, entrata con la compagna nelle furie il minacciò di farlo metter prigione quando non le avesse dato satisfazion conveniente a una donzella sua pari. Ghiandone come nuovo pesce, impaurito di somiglianti minaccie incominciò a raccomandarsi dicendo che fosse un povero giovine servidore, né potesse darle altra ricompensa di quel notturno servigio, che d’alcune poche lire che aveva pur dianzi tirate dal suo salario. La Rossa a questo suono fintasi placata, gli trasse prima i danari di mano, e poi tornata negli strepiti e nelle pretensioni il caricò di nuove minaccie quando non l’avesse meglio satisfatta di quella sua vaccaggine. E di fatto avendogli tolto il cappello, il saltimbarca, la spada, e’l fagotello delle sue robbette, che aveva tratto di barca per mutarsi, il serrò mezo ignudo in una camera, donde non poteva fuggire, quasi che pensasse di consegnarlo, venuto il giorno, alla giustizia per farlo punire della violenza usata a cosí nobile donzella. Il giovine vedutosi in quella camera soletto, né sapendo come fuggirsene, essendo quelle finestre a terreno chiuse di ferro, né avendo ardire, di fare strepito, trovata al barlume dell’alba una canevetta di buon vino con alcune marzoline di Romagna, e alquante coppie di pane bianchissimo, tutte cose donate il giorno addietro da un marinaro suo gallano alla Rossa, si mise a mangiare e bere a buon conto de’ soldi, che gli aveva tratti di mano la putanella. E quindi riscaldato dalla forza del vino prese animo, e cuore; incominciò a fare un poco di rumore cercando la via d’uscire da quel labirinto. Mentre stassi in questa apprensione, e tuttavia l’amor della canevetta, che andava asciugando, il trattiene irresoluto, sentí strepito di voci d’uomo in quel vicinato, ed ecco aprirsi improvviso la porta di quella camera, ed entrarvi due bravacci drudi della Rossa e della sua compagna, i quali armati di celata, giacco, manopole, stocco e targa, come se avesse voluto andare a sfidare a battaglia il Gran Tamberlane, si misero attorno al povero Ghiandone, e maltrattandolo tutto a piattonate, e fiancate, il cacciarono cosí nudo e malconcio fuori di quella casa minacciando d’ucciderlo se avesse pur mosso parola di quella tresca. Ghiandone misero e cattivo, e quasi in camicia, ma ben carico di busse, si mise a camminare verso la casa di Glisomiro, dove pervenuto, che già l’alba incominciava a cangiarsi in aurora, picchiò per esservi ricevuto secondo l’ordine lasciatogli dal cavaliere. Ma Cillia intesa questa novità, né sapendo che si credere di sua persona, non volle accettarvelo. Uscí a questo moto per curiosità femminile di vedere i fatti altrui alle finestre della sua casa una certa vedovella abitante nella medesima contrada, la quale conosciuto Ghiandone, col quale aveva tenuto piú volte ragionamento, mossa a compassione della sua disgrazia l’invitò cortesemente ad albergo, e fattogli accendere un buon fuoco, e rivestitolo de’ panni del suo defonto marito, e parutole, che gli riuscisse dentro un bel fusto, volle ricompensarlo di quel notturno disconcio facendogli una bonissima accoglienza, e donandogli in premio d’averle fatta una buona carità, tre volte tanto danaro, quanto aveva egli dato alla Rossa, oltre al vestito, che pur egli donò assai migliore di quello, che gli aveva involato quella grimalda.

Intese queste cose parte dal medesimo Ghiandone, e parte dalla lettera di Cillia, entrò Glisomiro in ciancio con le dame fino all’ora di cena, non lasciando intanto di machinare il discioglimento de’ viluppi de’ suoi amici, e l’avviluppamento di qualche accidente, che mettesse in suo potere le persone di Celinda e d’Alberta. Ma passiamo per ora a tavola, dove Alberta e Giustina, passati i primi trascorsi di complimento tengono in una dolce maraviglia assorti i convivanti col contrastar fra di loro. L’occasione però de’ loro amichevoli contrasti fu quale si poteva aspettare, propria d’ingegni feminili, essendo caduta Alberta a biasimar Giustina, che portasse una divisa di color di mare, chiamandolo colore riprovato nelle scuole amorose per essere contrasegno della incostanza. Ma Giustina a cui non dormiva la lingua in bocca ritorse sovra Alberta il suo biasimo, dicendo esser vana l’opinion di quelli, che chiamano il mare incostante, mentre con perpetuo e infallibile corso contenendosi ne’ propri confini prescrittegli dalla natura conserva la fede alla terra, che d’ogn’intorno l’abbraccia. Che se talora imperversasse, la colpa non essere del mare, ma de’ venti, che flagellandolo il mettono in furore. Tale essere appunto la natura del mar d’amore sempre costante e benigno; ma la instabilità de’ capricci degli amanti, quasi venti contrari alla vita serena, suscitar le tempeste de’ disgusti, che’l mandano sovente sossopra, mettendo a pericolo di naufragio ne’ flutti della disperazione l’anime innamorate, che dietro la tramontana di due begli occhi intraprendono un viaggio felice per se medesimo, ma sfortunato per la incostanza degli umani appetiti. Quindi sí come i venti, che sconvolgono il mare, non nascono dal mare, ma dalla terra; cosí le perturbazioni, che seguitano l’amore, non provenir dall’amore, che ha la sua sede nell’anima, ma da capricci degli amanti, che germogliano loro nella fantasia; o pure dalle imperfezioni della propria natura male inclinata e abituata nelle bassezze: poiché gli animi nobili e generosi sí come non s’innamorano, che per giudiciosa elezione; cosí sempre sono stabili in amare per costante ragione. Portare ella adunque una impresa di color di mare per dimostrare non la sua instabilità, ma la sua costanza in amore, perché sí come il mare con infallibile corso si raggira attorno la terra ad esso con nodo indissolubile congiunta; cosí ella pretendeva di raggirare tutti i suoi pensieri attorno quella sola persona, che il cielo, e la sua elezione le avevano destinata per consolazione della sua vita. E sí come il mare non s’altera, che flagellato dai venti, cosí ella non averebbe giammai provato altre apprensioni di travagli, e d’inquietudini nell’animo, se non in quanto dalla durezza del cuore di chi doveva fedelmente amarla si fossero alzati i venti delle vane perturbazioni a conturbarla. Risoluta però, in quella guisa che’l mare per travagliato che sia non trapassa giammai i suoi termini naturali, di non mai rompere il corso della sua fede e della sua costanza per disdegni, o capricci del suo signore, ma di sempre mantenersi e in bonaccia, e in tempesta un solo leale e perpetuo amore. Perché sí come dopo le procelle seguita la tranquillità nel mare, cosí alle tempeste de’ travagli succede in amore la calma delle consolazioni ad un’anima costante e fedele. Non sarebbero mancati lumi di ragioni ad Alberta, e a qualche altra ancora per dissipare le ombre delle opinioni di Giustina, ma né quella graziosa dama, né alcuna dell’altre volle replicar cosa alcuna contro i concerti di quella bella bocca, nella quale sarebbe divenuta amabile la stessa menzogna; anzi accompagnando con applauso il suo ragionare si mostrarono persuase piú dalla muta eloquenza della sua grazia, che convinte dalla spiritosa forza della sua favella dolcissima ed amorosa. Solo Glisomiro tacendo ogni altro, proseguí il ragionamento dicendo:

«Veramente non credo, che tra le cose create se ne trovi alcuna piú somigliante ad amore del mare; onde per tralasciare il nascimento di Venere favoleggiato nel mare, cosí spesso leggiamo negli amorosi poeti le vaghe comparazioni tratte da cosí nobile elemento, e da’ ministeri, che vi s’esercitano in dimostrazione delle proprie passioni, e delle qualità degli animi loro. Parmi però, che quasi sempre venga presa in mala parte una sifatta somiglianza; e però con ragione gli antichi favoleggianti collocarono sovra i lidi del mare biancheggianti d’ossa insepolte le Sirene per dimostrar i naufragi, che fanno gli uomini nel mar d’Amore».

«Bisogna, che sia un dolce male (disse Giustina) il morire fra le Sirene, mentre lo stesso Tasso, che fu cosí sobrio e casto poeta, s’andava augurando

 

almen tra le Sirene

sia la mia morte, e non tra scogli, e sirti».

 

Rise Glisomiro, e disse:

«Non è però, ch’egli non conoscesse il suo male, ma vaneggiava allora ne’ desideri mal sani,

 

e sembrava nocchier, che poggia, ed orza

ne l’onde d’Adria alterna, o nel Tirreno,

mutando il corso ov’è soverchia forza».

 

Si era alzato pur dianzi di letto Ferrante piú per impazienza, che per miglioramento della sua indisposizione; che se bene per opera di Guglielmo fosse libero dalla febbre, si stava tuttavia fortemente oppresso da una straordinaria fievolezza. E per curiosità o per gelosia s’era posto a sedere in vicinanza della mensa dietro ad Astolfo, e ad altra servitú, che assisteva a i convivanti; onde in sentire queste parole di Glisomiro, messa avanti la testa, sorridendo disse:

«Non vaneggiava punto il povero Tasso: ma piú forza aveva la bellezza di Leonora, che tutta la sua filosofia».

Rise Glisomiro, e voltosi a Ferrante disse:

«Se m’avete lasciato mangiar quest’ala di piccione ne l’averei io detto ancora, e finito insieme il suo concetto

 

Ma per turbato cielo, e per sereno

prender con ogni vento al fin si sforza

solo un tranquillo porto un dolce seno.

 

E ciò dicendo ferí con un solo colpo de’ suoi sguardi l’anima di Celinda e d’Alberta; che ne rimasero, e piú quella che questa, attonite, non che fulminate. Ma Giustina guardato Ferrante, che si era tratto piú avanti vezzosamente disse:

«Bisogna che il signor Ferrante sia venuto egli ancora a pescare nel mar d’Amore, ma dovrebbe ricordarsi, che

 

questo mare è celeste, e luci d’oro

e bianche perle ha questa nobil riva,

e le virtú son raggio al fido porto».

 

Parve acutissimo a chi l’intese il tratto di Giustina, che seppe con le altrui parole, e lodare con gentile allusione alcune di quelle dame, e pungere dolcemente Ferrante, che fosse passato di nascosto a vagheggiare qualcuna di loro. E forse non era senza ragione questa puntura, perché le donne in questa parte sono di vista piú che lincea. Ma Ferrante sentitosi pungere con dolcezza, e volendo far conoscere forse per proprio interesse, che se pur fosse stato amante averebbe amato senza pregiudicio del rispetto dovuto all’onor della dama e dell’amico, voltatosi alla giovanetta le disse: Signora,

 

Passa la nave mia, che porta il core

sotto un sereno ciel di stelle adorno

per queto mare, e sta la notte, e’l giorno

spiando i venti al suo governo Amore.

Ha ciascun remo un bel desio d’onore

non teme di fortuna oltraggio, e scorno;

empie la vela, e rasserena intorno

aura di gioia, e tempra il dolce ardore.

Nebbia non lenta mai di feri sdegni

le sarte, che di fede, e di speranza

ha di sua mano il mio Signore attorto.

E scopro i due lucenti amici segni,

e vive la ragione, e l’arte avanza,

tal ch’io già prendo il desiato porto.

 

Ebbe appena finite queste parole Ferrante, che Glisomiro proseguí dicendo:

«Bisogna, che Ferrante abbia mentre farneticava nella febbre veduto gli occhi di qualche gatta, che incomincia a fare dell’innamorato. E però meglio averebbe detto, già che si trova nel mar d’amore

 

Tal’io mi volgo, o bella gatta, in questa

fortuna avversa a le tue luci sante,

e mi sembra due stelle aver davante,

che tramontana sian ne la tempesta».

 

«Se cosí è, disse ridendo Giustina (che bene intese il motto) guardisi il signor Ferrante, che nel voler prendere il desiato porto, in vece di solcare felicemente

 

un bel, dolce, tranquillo e cheto mare

con alghe di smeraldo, e rena d’oro,

 

non si trovi col volto graffiato dalla sua dama».

Risero i circostanti, e massime le donne, e volti gli occhi nella faccia di Ferrante, il fecero un cotal poco arrossire, perché essendo cavaliere assai modesto vergognossi d’avere tanti occhi di bellissime dame insieme con quei della moglie fissi nel volto. Mentre stassi in quel sovrasalto, ecco entrare in quella stanza con Astolfo il cameriere di Placido tornato a volo da Venezia, e con essi una bellissima giovane, che se bene dogliosetta, e piangente, e con la faccia semicoperta, venne immantenente riconosciuta da Glisomiro. Era nel portamento ordinario della gente bassa di quei contorni, ma con qualche leggiadria straniera. Teneva in testa un piccolo drappo di zendado turchino co’ merletti d’argento. Un velo bianchissimo di seta con larghe liste tessute di vari colori e d’argento e d’oro le copriva il seno, e le spalle; su per le quali, come anche dalle tempie, su per le guancia e’l petto scorrevano alcune serpi de’ suoi biondissimi capelli. Aveva per donna plebea una faccia gentile. La fronte nobile, libera, e spaziosa. Gli occhi negri, dolci e lascivetti. Le guancie dilicate, pienotte, biancuzze, e di vero color naturale di donna, la bocca piccioletta, vermigliuzza, e vezzosa. Il collo e’l seno bianchissimi e senza difetto. Le mani bellissime. L’aria bizzarra, e capricciosa, e’l portamento disinvolto, vivo, spiritoso, e con qualche dolce inquietudine. Era insomma tutta a rovescio del bisogna di suo marito, e a tutta a diritto per lo trattenimento d’un’amante. Ora Glisomiro in vederla, tutto se ne conturbò, non potendo immaginare qual turbine di sinistra fortuna la portasse in quell’ora e in quel portamento in quella casa. Disse il cameriere, che licenziato subitamente da Placido per quella volta, essendo passato alla propria casa di Glisomiro per recapitarvi una sua lettera, e riportargliene la risposta di Cillia, insieme con la lettera, che gli presentò, gli aveva comandato di condurgli insieme con la governante di Alberta nella stessa barca di Placido quella giovanetta. Glisomiro tolta la lettera, e postasela in seno senza moltiplicare in novelle, raccomandò la giovanetta all’ortolana proseguendo la cena con vari e graziosi motteggiamenti e scherzi, come che la comparsa di Lodovica avesse non solamente nell’animo del cavaliere, ma di Celinda ancora, e d’Alberta svegliato un fiero tumulto di tristi pensieri. Terminata la cena, avendo il cameriere rimesso ad Alberta co’ danari di sua ragione la risposta della lettera di Glisomiro, nella quale con ringraziarlo della ricuperazione delle sue gioie, l’avvisava di rimandare la barca con la donna di governo d’Alberta, acciocché non potendo né Drusilla, né Celinda accompagnarla, potesse ella ricondursi fatto giorno a Venezia; qui si vide il cavaliere troncate tutte le sue speranze in erba, perché non solamente bisognava separarsi fra poche ore da Alberta; ma la comparsa ancora di Lodovica e della governante della dama interrompeva tutti i suoi disegni con Celinda. Statosi adunque per poco sovrapensiero, e preso parola da Alberta, che averebbe fatto tutto quello, che gli fosse piaciuto; chiamati a consulta Panfilo e Vittorio, disse:

«Amici, ci convien fare per necessità quello, che dovremmo eseguire per elezione; perché crescendo continuamente il numero della gente non possiamo piú fermarci qui senza incomodo e disturbo. Ma dove dobbiamo andare? Il nostro disegno era in terraferma a casa di Laureta; ma Laureta è di presente a Venezia, e mi vi richiama per non so quale affare d’importanza; e dovendo tornarvi anche Alberta, che per qualche suo interesse vorrebbe, che non me ne allontanassi per qualche giorno, che altro ci resta da fare se non seguitare tutti insieme la fortuna dove ci chiama? Io tengo tanta confidenza nella gentilezza e nella lealtà di Laureta, che potremo valerci della sua casa con ogni libertà, e senza pericolo. Se la mia casa fosse capace di questo onore io non penserei ad altro, che a servirvi; ma trovandomi già impegnato con Guglielmo, e con Ariperto, la cui famiglia già vi si trova tutta ridotta, non saprei dove alloggiarvi senza incomodo e rischio di tutti. Vi consiglio pertanto di trattenervi appresso la medesima dama, insino a che si sieno aggiustati i vostri interessi con Lelio, appresso il quale mi confido d’ottenere ogni cosa per lo mezzo d’Alberta, e di Celinda».

Parve dura cosí fatta proposta a i cavalieri. Poi molto pensato, e molto detto fra di loro, conchiusero finalmente di rimettersi alla disposizione del medesimo cavaliere. Ma duro intoppo venne ad attraversare questo disegno; perché avendo Glisomiro participata questa sua risoluzione a Celinda con esibizion di lasciarle la propria barca, accioché potesse ricondursi comodamente con la figlia e il genero a casa, ella dettogli, che questa sua partenza prima d’aspettar la rimessa di Leonello, e del fratel di Ferrante, averebbe potuto scoprir l’invenzione adoperata per farli travedere insieme con Placido; e veduto, che stasse fermo nella sua opinione, affermando che satisfatto Placido, poco gl’importava Leonello, sapendo già troppo bene, che averebbe rimesso alla sua borsa quel debito immaginato, e meno ancora Ferrante, al quale averebbe mostrato di satisfare per esso senza dargli altro incomodo; ella entrata in subita e grandissima gelosia d’Alberta; e risvegliati insieme gli spiriti della ingenita alterigia sdegnosamente gli disse:

«Ah cavalier traditore! Conosco le tue falsità. Dopo d’avermi tirata dove non crederei giammai d’arrivare ti fai scherno di mia persona, e vuoi abbandonarmi per poterti vantare di avere avuto Celinda pieghevole a’ tuoi capricci?».

E qui soprafatta dallo sdegno si tacque con gli occhi turbatamente fissi nel volto del cavaliere. Il quale per questo trapasso conosciuto, che fosse già quella dama caduta col pensiero, dove dubitava ancora di non poterla ridurre; lieto di cosa, della quale averebbe dovuto contristarsi, presale una mano, e baciatagliela dolcemente disse:

«Mia signora; quietatevi, e andiamo via di qui, che vi giuro su la vostra vita, che dimane troverò maniera per essere con voi senza incantesimi, quanto vi piacerà».

«E dove?», disse Celinda.

«Dove potremo, soggiunse Glisomiro. Basta, che saremo insieme».

Non si appagava di questa generalità Celinda, e dubitando pure d’essere schernita per amore d’Alberta o di Lodovica, disse:

«Facciamo cosí. Lasciate che partano tutti gli altri, e restate voi qui per ultimo con la vostra barca, della quale servendomi, metteremo mia figlia con suo marito alla sua casa, e di là poi mi condurrete insieme con Lodovica (senza però lasciarvi vedere da Leonello) alla mia propria abitazione».

Glisomiro subito:

«E perché non prima alla mia?».

S’arrossí Celinda, sospirò e tacque. Onde il cavaliere non voluto perdere una occasione, che mai piú forse gli sarebbe venuta; trovatosi con gli altri cavalieri, ordinò con essi la partenza, benché fosse di mezza notte, in quella forma. Panfilo insieme con Domitilla, Drusilla, Vittorio e Astolfo, sarebbe passato per sua maggior sicurezza con la barca di Placido a casa di Laureta, alla quale averebbe Astolfo presentata una lettera di Glisomiro, nella quale gli raccomandava l’alloggio di quella nobile comitiva. Non voleva Drusilla ridurvisi intenzionata di passare a casa di Glisomiro: ma le convenne bere questo calice, perché il cavaliere teneva allora altro in testa, che Drusilla. La barca poi di Panfilo averebbe servito ad Alberta, riconducendo insieme a casa di Glisomiro Giustina (a cui pareva di saltare in cielo) con Guglielmo, e Ariperto. Ma nella gondola da tre remi si sarebbono ricondotti a Venezia Celinda, Eufemia, Ferrante, e Glisomiro con Lodovica. E perché di tre remiganti s’era ridotta ad un solo; non voluto Glisomiro per certa sua fatale osservazione in questo viaggio accrescere, né minuir questo numero, riprese in luogo di Dietisalvi, Ghiandone, e del Moro (che venne cortesemente rimandato dal cavaliere alla propria casa) un figlio dell’ortolano chiamato Busca. I primi adunque a montare in barca furono Alberto e Panfilo, con la loro compagnia; ma Celinda veduto che toccasse ad essa ancora di montarvi, con improvviso consiglio si ristette su la riva, e poi volta a Ferrante, che afflitto dal male aveva piú voglia d’andarsi a letto, che di viaggiare in quell’ora, disse:

«Caro figlio; m’è venuto un pensiero in testa, che credo non vi dispiacerà. Se Glisomiro viene con noi, ragion sarà, che subito giunti a casa gli si facciano consegnare i danari dovutigli per la ricuperazione delle nostre gioie. Di vostro fratello non dubito, che immantenente non me gli sborsi; ma il non avere veduto risposta alcuna da mio marito, e la conoscenza, che tengo del suo genio, mi fa dubitare di qualche disordine a nostro carico. Scusiamoci adunque dall’andar con esso a pretesto d’aspettare la risoluzion di Leonello, col ritorno della nostra barca; e se Glisomiro volesse andarsene, se ne vada».

A Ferrante non parve dapprima cattivo questo pensiero, non tanto perché stimasse ben fatto d’aspettar qualche avviso di suo fratello, quanto per lo desiderio, e forse per la necessità, che aveva di tornarsi a letto: ma poi pensato, che se lasciava partir Glisomiro senza la dovuta satisfazione averebbe potuto concepir sospetto, che a questa cagione appunto di non satisfarlo si separassero dalla sua compagnia: disse, che non gli pareva buono questo disegno, dovendosi o partire, o restarsi con esso. Altro appunto non andava cercando Celinda; e chiamato Glisomiro in presenza del genero, il pregò di sospendere fino al seguente mattino la sua tornata a Venezia; non tanto per aspettare qualche avviso di casa loro, quanto per non esporre Ferrante nell’incomodo di quel viaggio notturno nello stato in che si trovava.

«Farò quel che vi piace, disse Glisomiro; ma che diranno, non mi vedendo gli amici?».

«Dicano quel che si vogliano, rispose Celinda; per quattro o sei ore non casca il mondo».

Quietossi il cavaliere; ma poi ritiratosi Ferrante per tornare a letto egli disse alla dama:

«Signora, vi siete mal consigliata. Non vedete, che con questa Lodovica per li piedi siamo piú imbrogliati, che non saremmo stati a Venezia?».

Sospirò Celinda, e disse:

«Io l’ho fatta per bene questa risoluzione. Provvedetevi meglio che potete, e tenetela appresso di voi; ad ogni modo è una femmina pleblea, e poco importa, che si creda piú il male che il bene di sua persona».

Detto questo, e non aspettato altra risposta si ritrasse con la figlia nella sua camera; e Glisomiro passato con Lodovica nella camera già delle donne, piacevolmente le disse:

«Scusate, bella giovane, questo poco di disconcio per lo capriccio di Celinda, e se ben mi vedete qui solo non vi prendiate fastidio alcuno, perché so quale sia il mio debito e verso Laureta, e verso di voi».

Sospirò la giovanetta, e guardato il cavaliere vezzosamente disse:

«Io non ho che dividere con Laureta, e poiché quel frasca di Romano m’ha tolta a mio marito, son donna libera, e voglio far di me stessa quel che mi piace».

Rise il cavaliere, e disse:

«Veramente Romano è stato un pazzarello a levarvi di casa di vostro marito con iscandalo della gente, e con suo e vostro pericolo, quando averebbe potuto trovarsi con voi in tutta sicurezza senza cosí fatti imbrogli».

«Bene, disse Lodovica, ma io ancora non voleva piú stare con quello sporco di mio marito, che oltre all’essere cosí brutto e malfatto, ed esercitare una professione cosí fetente, che mi faceva nausea solamente in vederlo: mi dava per la maledetta gelosia piú bastonate, che bocconi di pane».

E Glisomiro:

«Ma quando pure aveste avuto di questi pensieri in testa di fuggirvene con Romano, potevate farlo senza scandalo del vicinato, e vostro pericolo».

«Tutti non hanno (disse la giovanetta) il vostro giudicio, e se voi non m’aveste burlata, non saremmo in questi termini. Ringrazio però la mia fortuna, che m’ha portata per accidente dove sarei venuta di mia elezione».

Sorrise Glisomiro, e guardata la giovanetta, soggiunse:

«Dite voi daddovero, o mi schernite?».

«Cosí non fosse, disse Lodovica, che voi m’avete burlata; perché se non m’aveste tenuta su le sberetate e su i complimenti, ma aveste detto daddovero, io sarei venuta in casa vostra prima di Cillia, e non averei acconsentito a Romano di menarmi via da mio marito. Ma poiché la fortuna non ha voluto che io stia seco; veduto che Laureta mi voleva far mettere tra le donne mal capitate, tanto l’ho pregata, che finalmente s’è contentata di mandarmi a casa vostra. E questo era l’affare, sopra il quale voleva trattar con voi; ma non avendovi trovato a casa, né volendo tenermi appresso di sé fino al vostro ritorno, m’ha pure contentata di lasciarmi venire a trovarvi; perché vediate (come v’ha scritto) d’aggiustarmi con mio marito: il quale avendo bisogno di voi, farà tutto quello che voi vorrete. Ma se voi mi volete punto di bene, farete in maniera che mai piú lo veda; perché l’ho tanto in odio, che farò certamente qualche pazzia, se torno nella sua casa. Ed è pur meglio che stia con voi piú tosto, che mettermi alla mala vita con questo e quello».

«Orsú, disse Glisomiro, si vedrà di consolarti, e se io avessi potuto pensare, che tu avessi questi pensieri, non ti averei lasciato precipitare, perché altri si cogliesse quello, che ora non può essere piú mio».

«Questo è niente, rispose la giovanetta; perché Romano non m’ha fatto altro che baciarmi, mentre era seco in barca per andare a casa di Laureta; perché nel medesimo punto che scendevano in terra, ella ancora giunse alla sua riva di ritorno di villa per certa lite; che ben sapete, che per altro non sarebbe tornata a Venezia fino a Carnevale».

«È stato doppiamente pazzarello Romano (disse Glisomiro) e con levarti da tuo marito con questo scandalo, e con menarti in casa della zia, mentre averebbe dovuto provvederti d’ogni altra abitazione».

«Egli pensava (disse la giovinetta) d’esservi sicuro; sí perché non si coprisse dove fossimo fuggiti, sí perché sapeva, che Laureta doveva stare per un mese ancora in Friuli. Oltre a che essendo stata quasi improvvisa la sua risoluzione, e trovandosi con pochi danari (che ben sapete, che i figli di famiglia non ne hanno mai dovizia) vi bisognavano molte cose per formarmi casa».

«E dove trovasi ora il tuo amore?» disse Glisomiro. E la giovanetta crollando il capo:

«Il mio amore? Il mio diavolo, che lo porti. Romano veduta appena la zia, lasciatami sola su la riva della casa, andossene per altra strada come il fumo in vento; credo però, che sarà passato in Friuli; perché disegnava di condur me ancora in quella parte. Ma vada dove si vuole, io sono bene allogata: e se Cillia non mi volesse in sua compagnia, so che non vi mancherà luogo dove tenermi senza che mio marito sappia niente della mia persona. O via spogliatevi, che è tardi; e io vi servirò di cameriera in vece di Cillia».

Rise il cavaliere, e disse:

«Te sei troppo giovanetta per servirmi di cameriera; e chi ti vedesse meco direbbe, che piú tosto mi servissi di camerata».

«Io non so tante cose, disse Lodovica. Dica chi vuoi dire. Cuor contento, e schiavina in spalla; chi non ha letto dorme su la paglia».

Rise di cuore Glisomiro alla prontezza della giovanetta, che accompagnava tutti i suoi gesti e parole con una grazietta piú da nobil dama, che da donnetta vulgare e poi le disse:

«Di questo parleremo un’altra volta. Ora chiama Ghiandone a servirmi in luogo d’Astolfo, perché debbo raccomandargli ancora certo servigio, che tu non puoi fare».

«So, disse la giovanetta, so, che avete qualche rigiro con Celinda. Andate, andate, che non mi cambierei con sua figlia, non che con essa. E che pensate di fare con quella vecchia imbellettata?».

«La conosci male, disse Glisomiro. Celinda non porta belletti».

«E pure, disse Lodovica, sua figlia, che non ha diciasette è tutta bianca; ed ella, che ne ha forse quaranta è tutta rosa. Come va bene questa faccenda? Voi travedete, signor mio. Questo volto, questo non porta belletto».

E si lisciò, cosí dicendo, con una mano ambedue le guancie. Godeva Glisomiro della dolce libertà della giovanetta; e benché, o per genio di nascita, o per inganno d’opinione non sapesse amare in luoghi sí bassi, pure avendo cara per altro la giovanetta, e sentendosi amato da lei con tanta cordialità; incominciava a lasciarsi raggirare il cervello dal desiderio della sua eccellente bellezza. Ma poi ricordatosi di Celinda, né voluto mancare alla presente occasione, perché è instinto della nostra natura il desiderare le cose, che si conseguiscono con fatica e rischio, e di curarsi poco di quelle, che ci cascano volontariamente in seno; mandata la giovanetta a dormire (che non v’andò già troppo volentieri) e chiamato Ghiandone gli comandò d’andargli chetamente ad aprire la porta della cavana; per la quale entrato, e lasciatovi il giovine alla guardia infino a che tornasse; penetrò per quella stanza sotterranea nella camera di Celinda; dove veduta una grande oscurità, e sentito un alto silenzio, stette buona pezza ad osservare quello che vi si facesse. Finalmente aperta la porticella dell’armario, e messa dentro la testa, e una mano verso il letto di Celinda; la dama in sentirsi toccare senza sapersi da quel parte, il seno, diede un guizzo, e si trasse in disparte. Sapeva Glisomiro i propositi tenuti da Celinda con Alberta, ma non sapeva già, che avesse Celinda determinato d’aspettarlo in letto, credutosi di doverla condurre, come Alberta, in altra parte per trattenersi con essa in piena libertà. Errori degli uomini di darsi per inteso l’un l’altro in quelle cose che pensano, quasi che sieno di comune consenso determinate. S’era nel medesimo instante alzata di letto Eufemia; la quale benché facesse della incognita e della sempliciotta era però nel primo fiore degli anni piú astuta della madre; e basta dire che fosse allevata in un Seminario, e tenesse domestichezza d’Alberta per darci a credere, che non fosse punto sciocca e melensa. Aveva ella osservati benissimo gli andamenti di Alberta e della madre; e forse Drusilla per gelosia femminile le aveva dato qualche motto da insospettirla d’ambedue. Onde veduto, che Celinda si fosse fermata dopo la partenza degli altri col cavaliere, e avesse tenuto seco qualche segreto ragionamento, si mise in chiaro, che si trattasse d’altro che di parole in questa pratica. Ma quello, che le aprí affatto gli occhi fu l’osservar, che la madre prima d’andarsi a letto si stasse qualche poco ritirata con l’ortolana a’ suoi servigi, e si facesse accomodare il letto in una maniera piú squisita da quella che aveva fatto la notte precedente, che aveva dormito con Alberta. Postasi adunque a letto col marito, e veduto, che la madre avesse per ultimo contrassegno di sospetto spento il lume si mise in testa di non dormire per vedere quello che sapesse fare in quella notte Celinda. E perché non potesse il sonno occuparle a suo dispetto le ciglia, sentito il marito addormentato, alzossi mezza sul letto; e perché la stagione incominciava a inasprire si rimise, per non agghiacciarsi, il busto, e stette in quella guisa forse lo spazio d’un’ora prima che sentisse strepito alcuno. E’l primo suono, che le percotesse gli orecchi (tanto s’era Glisomiro introdotto quietamente laddentro) fu il guizzo, che diede nel sentirsi toccare Celinda. Onde venutole capriccio di chiarirsi della verità de’ suoi sospetti (e a che non riduce la curiosità, l’invidia, e la gelosia una femmina?) balzò pianamente di letto; e cosí co’ piedi ignudi, e con una sola sottana indosso, inoltrossi al letto della madre intenzionata di finger con essa qualche suo bisogno, e venne appunto a dar di petto in Glisomiro; il quale credutosi, che fosse Celinda, che si fosse alzata di letto per andar con esso; presala per mano pianamente le disse all’orecchio:

«Signora, seguitatemi, e non temete».

La giovanetta riconosciuto il cavaliere, lusingata dal tocco della sua mano, e paurosa scoprendosi di sdegnar la madre e di svegliare il marito, gli si mise dietro senza parlare. E’l cavaliere avuto appena pazienza di riserrare lo sportello dell’armario, si tolse la giovanetta in braccio; la quale tutta tremante di freddo, di paura, d’affanno, e di sospetto, e soprafatta, o dalle debolezze della natura, o da qualche incentivo d’amore conceputo fra quelle domestichezze verso il cavaliere, non saputo né che si fare né che si dire il mise in qualche apprensione di sua persona. Poi chiarito dalle parole stesse d’Eufemia (benché potesse appena per la soverchia ansietà che l’opprimeva articolar le voci) del suo errore, tanto fu lontano dal ritenersene, che compiacciutosene, come se la trattasse ella sel seppe. Fatto l’errore il riconobbe; ma non ci era piú luogo d’emendarlo; perché essendo già tratto il dado con Eufemia, e non vi restando piú mezzo di satisfar Celinda, e Glisomiro trovossene oltremodo confuso, ed Eufemia quasi disperata; perché non essendole mai dispiaciuto il cavaliere, le piacque tanto in quel notturno errore, che si sentiva morire in solamente pensare d’abbandonarlo. Mentre si stanno in queste apprensioni, e la giovanotta per non mettere i piedi ignudi in terra stassi a sedere in grembo del cavaliere tenendogli ambedue le braccia al collo; Celinda veduto sparire il suo bramato contento, alzossi di letto tutta crucciosa, e aperta la porta della camera, che sporgeva nel portico passò a quella di Glisomiro, e trovatala solamente socchiusa entrovvi dentro, e veduta di primo occorso Lodovica addormentata sovra un letto a parte, né trovatovi Glisomiro, con tratto di femmina disperata andò a colcarsi nel proprio suo letto. E’l cavaliere udito quel poco di strepito, ch’ella fece nell’aprir la sua porta; pauroso, che si venisse a scoprire il disconcio d’Eufemia, pregolla di lasciarsi ricondurre in quella camera. A che avendo, benché di mala voglia, acconsentito; e cercato per indizio di Glisomiro (che già dubitava di quello, che n’era succeduto) il letto della madre senza trovarvela; egli fermatala nel medesimo posto andò a chiudere nuovamente la porta, perché non vi potesse tornare senza essere sentita; e si trattenne forse due ore ancora con la medesima giovinetta. La quale benché sentisse il marito, che due, o tre volte girandosi per le piume andava forse cercando di lei, niente si mosse parendole di star troppo bene con Glisomiro. Il quale conosciuto che fosse ormai poco lontano il giorno, licenziatosi con promessa di trovarsi nuovamente seco da Eufemia, e tolta seco la sopraveste di Celinda, tornossi per la strada della cavana nella sua camera; e vedutala addormentata nel proprio letto, né voluto svegliarla, e meno colcarsene appresso, collocata sul capezzale la sua sopraveste, gittossi alla ventura sul letto di Lodovica per prendere un momento di riposo. S’estinse intanto il lume, e Celinda svegliata dalle proprie doglie, aspettò tutta conturbata e pensosa, che passata la notte s’aprisse il giorno in quella stanza, che apparso e scoperto il cavaliere appresso Lodovica; e appresso di se stessa la sopraveste, e subitamente riconobbe che fosse stato Glisomiro nella sua stanza dopo di lei, e sentissi morir d’angoscia in vederlo al lato a cosí vaga giovanetta. Pure considerato tra le insanie d’amore, che avesse prudentemente operato in non avvicinarsele in quello stato col testimonio di quella donna appresso, e che avesse ella stoltamente operato in lasciare il proprio letto per venire in quella parte; perdendo in questa guisa l’occasione di trovarsi con esso, oltre al pericolo d’essere discoperta dalla figlia, e dal genero; tornossi prestamente nella sua camera riaperta dal cavaliere prima che ne partisse. E trovate ancora le finestre chiuse, e sentito la figlia e’l genero profondamente addormentati (e avevano ambedue di che dormire, l’uno per la stanchezza del male, l’altra per la passata veglia d’amore) si rimise nel proprio letto, per trovarvi in vece di riposo una perpetua inquietudine; perché non solamente all’odore lasciatovi dal cavaliere, per una collanetta di pasta odorifera, che portava su la camicia, ma per avervi trovati due aghi da testa d’Eufemia, s’avvide benissimo, che l’uno e l’altra di loro fosse stato sopra quel letto. Cognizione, che riempiutala d’un doppio cordoglio la fece ritornare in se stessa per conoscere il precipizio nel quale volendo essa cadere aveva dato occasione di precipitare alla figlia. Né sapendo che si credere di questa avventura; certa che fino allora non avesse tenuto Eufemia corrispondenza alcuna, non che domestichezza con Glisomiro, determinò di tacere e d’osservare i loro andamenti; non potendo ancora deporre affatto dall’animo il desiderio conceputo di trovarsi col medesimo cavaliere. Ma era ne’ fati, che Celinda conservasse illibato se non di pensieri, almeno d’opere, quel fiore di pudicizia, che l’aveva resa fino allora ammirabile fra le donne, e le avvenne per inopinato beneficio di fortuna. Perché Eufemia offesa nella dilicatezza de’ suoi sensi dalla rigidezza del freddo, che l’aveva nel camminare co’ piedi ignudi per quella camera umida molto sovrapresa; e nella fievolezza dello spirito dalla novità de’ suoi trascorsi fra cosí nove apprensioni di timore, di sospetto, di patimento, e di gioia; svegliatasi nell’accesso d’una gagliardissima febbre, mise e la madre e’l marito e l’amante in altri pensieri, che di vanità d’amore. Chiamato adunque da Celinda e da Ferrante Glisomiro a consulta sovra quella occorrenza penetrò egli immantenente con l’acutezza dell’ingegno nella verità di cosí fatto disconcio e come quello che per virtú de’ passati trascorsi si sentiva tenacemente unito in amore alla giovanetta, ne sentí un estremo disgusto. Pure disimulando, né voluto per vedere la dama in preferenza del marito per dubbio di qualche disordine; il consigliò, già che si sentiva esso sollevato in buona parte dalla sua languidezza; di trovare in quei contorni una peotta, su la quale accomodato un letto per l’inferma consorte potesse farla trasportare comodamente a casa, prima che cresciuto il male la tenesse confinata in quella parte. Conosceva Glisomiro, che sarebbe stato termine di cortesia maggiore l’andare esso di persona in quella funzione; ma perché non c’era altro mezzo di parlare alla dama senza il testimonio del marito, venne a questa risoluzione di consigliarlo su quest’aria. Partito Ferrante nella gondola a tre remi, passò Glisomiro con Celinda alla visita d’Eufemia; e appena egli era entrato in camera, che cessarono tutti i dubbi di Celinda; restando pur troppo chiarita, che Eufemia l’avesse prevenuta nelle sue pretensioni con Glisomiro. La giovanotta in vedere il cavaliere tutta si riscosse, e guardando con due occhi immobilmente fissi nel suo volto e senza parlare avrebbe dato ad intendere fino alle pietre quello che non sapevano di loro che le notturne tenebre di quella stanza. Celinda a questa veduta diede in un pianto dirotto; e Glisomiro toccata la fronte e’l braccio della fanciulla (che presa la sua mano se la strinse teneramente al seno) trovossi quasi tra Scilla e Cariddi angustiato da una doppia passione di cordoglio e di amore. Pure essendo per altro cavaliere giudizioso e discreto né disperò Celinda né consolò Eufemia e mise in pace ambedue (perché Celinda non voleva piú vedere la figlia) con tanta grazia, che e Celinda gli crebbe affetto, non che glielo minuisse, cangiando però l’amore d’amante in amore di figlio: ed Eufemia, benché si vedesse disperata d’aver mai piú alcuna buona notte con esso, non seppe dolersene. Voleva Celinda obligare il cavaliere con giuramento, che mai piú in alcun tempo averebbe cercato dalla figlia di quello, che gli aveva dato senza che lo ricercasse la fortuna. Ma Glisomiro, benché non pensasse punto di rinovare sí fatti scherzi, deluse piacevolmente somigliante richiesta, dicendo che si vedesse prima a che termine si riducesse la infirmità d’Eufemia e poi si trattasse di giuramento. Durò questa conversazione (non avendo mai voluto Celinda lasciar soletti gli amanti) fino all’ora del desinare; che non essendo ancora comparso Ferrante desinarono soli Celinda e Glisomiro, ma nella medesima stanza dell’inferma. Dopo che ammollito per poco il suo rigore lasciolli (senza però uscir di camera) in qualche libertà, della quale si servirono con tanta riserva e modestia, che Celinda ancora racconsolata in parte de’ suoi disgusti, che (fuori de’ concetti della virtú) tornavano con maggior convenienza a contento della figlia, prese a novellare con Glisomiro de’ passati avvenimenti della loro piú fresca giovinezza per accozzare questi successi con quelli, ne’ quali trovossi la medesima Celinda schernita, benché in altra forma da Isabella e da Bianca, che vennero da essa paragonate ad Alberta, e ad Eufemia, se non in quanto il trascorso d’Eufemia l’escludeva affatto da ogni pretensione amorosa col medesimo cavaliere.

Interruppe questa dolce conversazione il ritorno di Ferrante con la peotta, su la quale comodamente collocata la giovanetta, che non fece già di troppo buona voglia questo passaggio, volevano Celinda e Ferrante ritener con essi Glisomiro ancora; ma il cavaliere, che sapeva quello, che soglia operare Amore nella vicinanza dell’oggetto amato; contento d’aver provocata fino a questo segno la fortuna; complito cortesemente con essi, e con gli ortolani, partí prima di loro verso Venezia, dove per essere l’ora tarda, non pervenuto, che in su la notte, non alla propria casa, ma passò dirittamente a quella di Laureta. La quale uscitagli incontro con Domitilla e Drusilla il riempie di molta consolazione con ringraziarlo dell’onore, che le aveva fatto della sua confidenza, raccomandandole l’alloggio di cosí nobile compagnia. Quindi saliti nell’appartamento superiore egli ebbe incontro Panfilo e Vittorio, che vi stavano di guardia per non essere discoperti, e ricevettero anch’essi un estremo contento della sua comparsa. Il cavaliere dato loro parte delle cagioni della sua dimora in quella forma che gli piacque, e che avesse concertato con Celinda e con Alberta l’aggiustamento de’ loro interessi con Lelio, voleva ritornare subitamente alla propria casa; ma non volendo permetterglielo Laureta infino a che non avesse almeno cenato con essi; il cavaliere per la molta confidenza, che teneva con quella dama, graziosamente disse:

«Signora, in un paese che non è mio non dassi da cena senza dormire, e io mi trovo qui con una compagnia, che so, che non vedereste troppo volontieri».

Rise Laureta, e disse:

«Se non avete altri con voi, che Lodovica, fatene quel che vi piace, che ben vi sarà un letto, e per voi, e per essa».

«Non c’intendiamo», disse Glisomiro.

«Troppo v’intendo, disse Laureta. Ma so che burlate, e che non volete far questo torto alla vostra sposa».

E Glisomiro: «Mia sposa? E chi»?

«Drusilla», disse Laureta.

Rise Glisomiro, e soggiunse: «Drusilla? Ella farnetica».

E Laureta: «Ella non farnetica punto a cercare il suo bene. Ma se voi non la volete per moglie, a che vi prendete questo impaccio per li piedi? Io avendo intesi tutti i vostri accidenti, e veduto il grande amor che vi porta, aveva pensato veramente di pregarvi a consolarla d’un legitimo fine de’ suoi desideri: ma inteso ancora da Panfilo, che non vi pensate; e sapendo benissimo, che stando appresso di voi, sarà impossibile, che in tanta bellezza, amore e gioventú non diate in qualche disordine, ho pensato di provvedere almeno alla vostra quiete e al suo onore maritandola. E perché vedo, che ella non dispiace a Vittorio, giaché egli è stato a parte de’ suoi errori, vorrei che gli dassimo ancora una parte di penitenza in fargliela sposare. Che se gli dasse fastidio l’essere ambedue mal provveduti di fortuna faremo tutti insieme qualche cosa per loro, e col mezzo ancora di Celinda e d’Alberta procureremo qualche cosa alla sposa da’ suoi parenti, i quali vedendola collocata con un cavaliere nobile e virtuoso averanno di che contentarsi della fortuna».

Qui Glisomiro: «E Drusilla v’inclina?».

Sospirò Laureta, e disse: «Voi sete un demone, che incantate le femmine. Io già le ne ho dato qualche motto, ma ella sta fissa nella sua opinione di voler piuttosto essere vostra amica, che moglie di Vittorio, o di chiunque stia meglio di lui. So come son fatti i capricci di noi altre donne, perché io ancora piuttosto che maritarmi vorrei morire. Ma pure chi sa? Datele ad intendere, che le sarete sempre buon amico, che forse si lascierà condurre a sposar Vittorio ancora».

Intese Glisomiro dove ferisse il colpo di Laureta, ma non v’acconsentendo la sua ingenuità francamente disse:

«Signora, Vittorio è mio amico, e dargli una moglie a questa condizione, sarebbe un tradirlo, non un beneficarlo. Tenterò la fortuna, e se riuscirà il colpo riesca. Altramente bisognerà aver pazienza, e Drusilla starà meco come le piacerà».

«Sí, disse Laureta, se volete che rompiamo l’amicizia ben daddovero».

«Questa è bella, disse Glisomiro. Non vi dispiacerebbe, che tenessi meco Lodovica, e vi spiacerebbe che vi stasse Drusilla?».

«Maissí, disse Laureta. Lodovica è maritata; e quando fosse ancora senza marito, ella è una femmina plebea, che non può aspirare all’onore di vostra moglie. Ma Drusilla è donzella ben nata, libera e non indegna di voi. O sposatela, o lasciatela stare».

Rise il cavaliere, e disse: «E da quando in qua siete divenuta protettrice di Drusilla, e mi volete obbligare a quello, da che m’avete sempre dissuaso?».

«Orsú non tante parole, disse Laureta. O sposate Drusilla, o datela a Vittorio. O se non volete sposarla, né darla altrui, non capitate mai piú nella mia casa, che io non guarderò mai piú dove voi siate».

Strano capriccio era questo di Laureta; ma cosí trattano le donne che amano, a qualunque fine sel facciano: che non sanno mai quel che si vogliano, e vogliono quello che apprendono nella loro fantasia, sia torto, o diritto; bene, o male; con ragione, o senza. Ma Glisomiro vedutosi con questo impaccio a fronte, e voluto declinarlo senza rottura in quella contingenza di cose, riprese piacevolmente a dire:

«Signora, queste non sono risoluzioni da far su le dita. Datemi un poco di tempo per pensare su questa proposizione, che voi mi fate, e poi ci parleremo; che ben sapete quanto desideri di servirvi. M’ha detto Lodovica, che non volevate trattar meco, che de’ suoi interessi, e voi m’avete scritto che per altro non siate tornata a Venezia, che per vedermi, che poi tratteremo ancora di Drusilla».

Crollò a questo discorso il capo Laureta, e disse: «No, no, signor mio bello. Voi non mi farete saltare da poppa a prua. In una parola, io voleva trattar con voi di Lodovica, ma sono venuta ancora a Venezia per vedervi, e vi vedo. Questa lite è accordata. Ora bisogna trattar di Drusilla. O sposatela, o datela a Vittorio, o rimandatela donde è venuta».

Qui Glisomiro: «Signora, sposarla non voglio, darla a Vittorio non posso, discacciarla non debbo».

Conturbossi tutta Laureta a cosí fatta risposta; e variando mille colori a un tratto voleva dir gran cose, e non disse nulla. Veduto le dame e i cavalieri che Laureta e Glisomiro favellassero in una maniera che non doveva essere ascoltata, s’eran ritirati dalla sala, dove essi ragionavano, in una delle stanze destinate al loro trattenimento; onde rimasti soletti, e nato questo contrasto, Laureta lasciato Glisomiro appoggiato ad un tavolino quasi in faccia della scala, si mise a passeggiare borbottando fra i denti, e secondo gli passava davanti gli fissava gli occhi nel volto, e sospirando trascorreva. Era Glisomiro cavaliere di piacevolissimo genio, e cosí inclinato alle altrui compiacenze, che per satisfare altrui non si curava di danneggiar se stesso; ma era insieme di spirito cosí vivo e risentito, che non bisognava punto aspreggiarlo o sforzarlo; perché sarebbe piuttosto morto mille volte, che far mai cosa alcuna per violenza, o puntiglio. Veduta adunque la turbazion della dama, e sapendo d’essere veramente amato da lei, e che questo capriccio non era che effetto di gelosia per tentarlo, sicuro che tanto l’averebbe disgustata con ritenere appresso di se Drusilla, quanto con isposarla, benché mostrasse di desiderarlo; né potendo darla a Vittorio mentre né essa v’acconsentiva, né il cavaliere era forse in termine allora di riceverla: lasciatala passeggiare cinque o sei volte, procurò di fermarla e di quietarla dicendole che aveva il torto a non ascoltare le ragioni di chi tanto l’amava e desiderava di compiacerla. Laureta allora fermatasi alzò la voce, e rimproverando il cavaliere con disperazion femminile, l’oltraggiò vivamente in parte sensibilissima al suo spirito e cuore. Onde non potuto sofferire un colpo cosí penetrante e sí grave, altro non disse, che: «Signora, buona notte», e chiamato Panfilo ad alta voce, soggiunse che l’aspettava con tutta la compagnia nella sua propria casa. Laureta allora riconosciuto in parte il proprio fallo, richiamato il cavaliere per nome, mentre scendeva la scala, tentò di ritenere ancora, ma invano, Drusilla, che a questo suono gli correva dietro piú che di passo. Ma Glisomiro veracemente sdegnato, altamente rispose:

«Signora, io non so servire chi mi paga d’oltraggi».

E data la mano a Drusilla, che se ne sentiva saltare il coresino di gioia, discese su la fondamenta, aspettando per poco Domitilla, Panfilo e Vittorio. Ma non comparendo essi, perché Laureta gli scongiurava di non fare quel torto alla sua persona e casa, d’abbandonarla in quella guisa, assicurandoli insieme, che il disgusto preso da Glisomiro non fosse che un empito della sua naturale sdegnosità; né voluto piú trattenersi in quella parte, lasciato nuovo ordine alla servitú della dama che li aspettasse a casa, montò con Drusilla in barca per ritornarsene appunto alla propria abitazione su la medesima barca con la quale se n’era in fatal punto allontanato.

 

 

 





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