Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Girolamo Brusoni La gondola a tre remi IntraText CT - Lettura del testo |
SCORSA SESTA
Grande era veramente il contrasto, che facevano nell’animo di Panfilo e di Vittorio, e la convenienza verso Laureta, che gli aveva con tanta gentilezza raccolti nella sua casa, e’l dovere dell’amicizia e della congiunzione degl’interessi con Glisomiro; ma prevalse finalmente il dovere dell’amicizia e della necessità alla convenienza cavalleresca, allora che fu considerato, che se non erano stati ricevuti in quella casa che per amore di Glisomiro, dovevano ancora allontanarsene per suo amore, non toccando loro d’investigare se a torto, o a ragione se ne fosse partito. E perché aveva già Panfilo licenziata la barca su la quale era tornata Alberta a Venezia perché non si sapesse a che parte si fosse inviato, né gli pareva ben fatto d’incomodare nel partire dalla sua casa Laureta, gli convenne trasferirsi a casa del cavaliere sovra una barca, che casualmente transitava per quei contorni. Vi era giunto assai prima su la sua gondola da tre remi Glisomiro, e perché era fatale, che mai si movesse questa barca, che non trovasse o non portasse qualche novità, aveva il cavaliere appena complito con Eugenia e Beatrice, e ragguagliato Ariperto e Guglielmo de’ suoi accidenti, che Cillia gli presentò una lettera inviatagli poche ore prima da Alberta nella quale l’avvisava di tenersi ben guardato, perché avendo il trattamento fatto da Placido a Cate messo in chiaro qualche cosa degli avvenimenti di Domitilla e di Drusilla, anzi di loro stessi (Alberta e Glisomiro) che era stata confermata, o dalla facilità di Leonello, o dalla imprudenza de’ suoi gondolieri e di quelli di Panfilo, era già corsa la querela di Lelio contro tutti e tre, Panfilo Vittorio e Glisomiro. Consigliarlo però di rimettere appresso lei stessa Drusilla e di provvedere che non nascesse qualche disconcio ancora a Panfilo e a Domitilla. Rise Glisomiro di questo avviso; non che se ne conturbasse, e chiamato Astolfo mandollo subitamente da Placido e da Alberta pregandoli di trovarsi fra due ore con esso a cena per consultare con gl’interessati sovra le presenti occorrenze. Fatto questo, come quello che era il piú capriccioso cavalier del mondo, e fra le contrarietà appunto degli uomini e della fortuna, faceva maggiormente spiccare i tratti o della prudenza, o della bizzarria: tratta Drusilla nel suo proprio gabinetto, sensatamente le disse:
«Signora, che pensate? Io non voglio piú tenervi certamente in questa guisa. Leonello, Lelio, Laureta e cento altri parenti, amici e invidiosi vorrebbono che v’allontanassi dalla mia casa e dalla mia persona. Dalla mia casa sarebbe facile l’allontanarvi, ma dalla mia persona non sarà mai vero che io vi separi contra il vostro piacere. Siete capitata a caso e per fortuna in mio potere, ma il mio debito e’l mio capriccio non vuole che ve ne allontani a patto alcuno. Quello che vi posso promettere è di non abbandonarvi giammai. Se non potrò tenervi appresso di me, vi terrò in luogo di mia disposizione. E se mi convenisse perciò allontanarmi da questa città, a persone di mia condizione tutto il mondo è patria. Resta, che m’assicuri del vostro amore, e che ad onta di quelli che ci vogliono separare m’unisca per sempre con voi. Questa è la mia risoluta volontà».
E qui si tacque. Altro appunto non desiderava Drusilla. Pure, o fosse la inesperienza di quei sovrasalti, o la verecondia natural delle donne, o qualche altro suo riguardo che la sorprendesse si stette buona pezza tacita e pensosa. Finalmente rotto il silenzio, turbatamente disse:
«Farò quel che vi piace: ma vi supplico di rimettere a dimane questa voglia». Glisomiro tutto cangiato da se medesimo dalla bizzarria di possedere a dispetto de’ suoi avversari una cosa che non aveva mai stimata degna del suo amore; non perché Drusilla non fosse una bella donna, ma perché non gli piaceva il suo tratto; risolutamente disse:
«Signora, o stasera, o mai piú. Chi sa quello, che porterà dimane la fortuna? Stasera siete in casa mia. Dimane potremmo essere lontani di qui cento miglia. Voglio cosí».
Che poteva far Drusilla innamorata morta del cavaliere? Bisognò cadere: e se la venuta d’Alberta e di Placido non avesse dato occasione a Cillia d’entrargli in camera, e d’avvisarlo di questa occorrenza, penso, che non si sarebbe ricordato di cenare con gli ospiti in tutta notte. Comparso fra di loro in un sembiante lietissimo, e tutto spirante amori, delizie e capricci, Placido voleva subito metterlo in ciancie sovra il suo pericolo e de’ suoi amici, e consigliarlo di ritirarsi con gli altri fuori di quella casa troppo sospetta. Ma il cavaliere messi ad un sorriso i suoi consigli, si trasse una carta da lato, e gliela porse dicendo: leggete quello che m’ha dettato stamane mentre mi vestiva il capriccio poetico sopra questi accidenti. Placido presa la carta, e datala ad Alberta, che leggeva meglio di lui il carattere di Glisomiro udí insieme con gli altri questa breve canzone, vero contrasegno dell’animo e del genio del cavaliere.
sarà sempre mia vita? E voi tiranni
astri, che al nascer mio pregni di foco
torbido, minacciante
mi pioveste sul crin groppi d’affanni,
che raggirate al fin? S’incurvi Atlante,
e caschi a danno mio l’eterea sfera
porto in seno costante anima altiera.
Dalle Iperboree tane a i lidi Mori
andrò ramingo, e in povertà fallita
degli avi il fasto aspergerò d’orrori,
In carcere dannato
morto a i raggi del Sol trarrò la vita;
e’l sangue mi berrà ferro spietato.
Che sarà poi? Calpesta, anima forte
esigilo, povertà, prigione e morte.
Dell’arsa Patria il miserabil busto
lascia in lacera vesta e faccia irsuta
sol di se stesso il gran Biante onusto.
Socrate s’imprigiona,
egli stempra in bevanda aspra cicuta.
Socrate prigíonier di Dio ragiona;
e se fiero Tiran di rabbia carco
pesta il corpo senil, gode Anassarco.
Stillate pur stillate affanni e mali
stelle funeste, e’l Fato ordisca, e arroti
nel mio seno, al mio piè catene e strali:
turbine di fortuna
mi levi in Ciel, nel Tartaro mi roti,
e copri il nome mio Letea lacuna;
Stelle, Sorte, Destin, vi sfido a guerra,
e se terra sarò, nacqui di terra.
Letti questi versi non senza qualche alterazione di spirito, soggiunse Alberta:
«Voleva meravigliarmi, che non pensaste a qualche precipizio. Ricordatevi signor cavaliere, che non siete piú giovinetto, e che dovete pensare anche a quelli che dipendono da voi, non a’ vostri capricci».
Rise Glisomiro, e disse:
«Per grazia, mia signora, non mi predicate, perché stanotte prenderei a litigare col Gran Turco, non che co’ miei nemici».
«E chi sono questi nemici, disse Alberta. Forse i vostri capricci?».
«Cosí parlano gl’innamorati, disse Panfilo, che chiamano nemiche le amate donne. È sdegnato con Laureta, e però la vorrebbe con tutto il mondo».
Qui Alberta maravigliando: «Sdegnato con Laureta?».
«Signora si, disse Panfilo. Ci ha tolti tutti di casa sua; imaginate il rimanente».
In questo dire comparsa in quella parte con Domitilla e Giustina, Lisa una bella dama amica d’Alberta, che trovavasi con Diomede suo marito in visita della medesima Alberta, gli aveva ella voluto condurre seco, come amici, a questa cena, mise in apprensione Glisomiro; il quale non avendo fatto provvedere che per una cena domestica, si vedeva sovracolto da tanto numero di dame e di cavalieri. Pure non perdutosi d’animo, e complito gentilmente con essa e con Diomede si restrinse con Ariperto e con Guglielmo raccomandando loro l’ordine di quel trattenimento; perché tenendo esso altro in capo, non voleva quell’impaccio per le mani. E perché egli non era mai piú lieto e capriccioso d’allora, che teneva appunto qualche travaglio in testa, chiamate a cerchio le dame e i cavalieri, graziosamente disse:
«Già che la fortuna m’ha fatto con travagliarmi questo onore di radunare nella mia casa cosí nobile compagnia di miei amici e signori, voglio a suo dispetto moltiplicare le nostre allegrezze. Guglielmo ha da sposar Giustina; e perché Dio sa quello che sarà dimane di noi, vorrei prima che ci separiamo godere di questa consolazione di vederli sposi. Mandisi adunque a chiamare il pievano, che la festa è apparecchiata».
Fu opposto a Glisomiro, che non si potesse venire a quest’atto senza la permissione de’ superiori ecclesiastici per essere Guglielmo e Giustina stranieri; onde vi facea mestiere di molte chiarezze, che non si potevano in cosí breve spazio di tempo praticare.
«Faremo quello che si potrà, disse Glisomiro, e nel caso che noi siamo di presentaneo pericolo, la legge dispensa l’osservanza di molti riti, che peraltro si ricercano alla validità di somiglianti misteri. A me basta che Guglielmo dichiari Giustina sua moglie in presenza del sacerdote e di cosí nobil radunanza. Al rimanente suppliremo a suo tempo».
«E perché, disse qui Alberta, non si possono sposare ancora Domitilla e Panfilo?».
«Non me ne impaccio, disse Glisomiro, e son troppo obbligato a Lelio per disgustarlo. Se ne tratti con esso».
«Io già ne ho parlato seco, disse Placido. E se degli altri avessero saputo tacere, il colpo era fatto. Egli sa bene, che non c’è altro mezzo di ristorar l’onore della sua casa che questo; ma le male lingue gli hanno imbrogliato il cervello per farlo querelare non solamente Panfilo e Vittorio ma chi non tiene colpa alcuna in questo errore».
«Facciasi quel che si voglia, disse Glisomiro; io gli sono troppo obbligato per dispiacergli. Se m’ha querelato, l’ha fatto per giustizia, e io l’amo per debito. Insomma
del presente mi godo, e meglio aspetto;
E se venisse di peggio, so vivere da pertutto».
Comparve in questo mentre il pievano e Guglielmo per piacere a Glisomiro dichiarò Giustina sua moglie. Tanto bastò per obligarli, e la giovanetta, che riconosceva dalla mano di Glisomiro questo favore, andò a baciargliele in presenza di tutta quella nobile compagnia. Il che fatto, già che quella cena era divenuta convito di nozze, piacque a Glisomiro d’invitarvi alcune dame e cavalieri suoi amici, e abitanti nella medesima contrada. E benché vi contradicessero Alberta e Placido, egli volle cosí, replicando la sua canzone: Dio sa quello che sarà dimane. Tra questi invitati adunque comparvero Vincenzo e Alvisetta, Paolo e Dora, e Catarino e Bella mariti e mogli; e Glisomiro raccomandato ad Alberta e Lisa il trattenimento delle dame, e a Placido e Diomede quello de’ cavalieri, non volle altro impiego, che quello de’ propri pensieri. Prima però che s’andasse a tavola, per invenzione del medesimo cavaliere, che voleva dar tempo ad Ariperto e Guglielmo di crescere qualche abbellimento alla mensa, presero le dame, (toccando Drusilla un clavicembalo) a fare un passo e mezzo e qualche altro balletto; nel quale avendo Vittorio servito Beatrice la bellissima figlia d’Ariperto, nel volersi mettere a tavola, pensava ancora di ricever l’onore di servirla. Ma la fanciulla trattasi appresso Glisomiro lasciollo schernito. Il che veduto dal cavaliere accennò a Vittorio di servire Alvisetta. Onde Placido lodato in se medesimo il tratto di Glisomiro disse a Vittorio che poteva esclamare piú dolcemente di Temistocle: era rovinato se non rovinava.
A cui Vittorio: «Tutto questo è, disse, grazia di buon’amico, che adempie il difetto della mia fortuna».
E Placido: «Se tutti i cavalieri avessero cosí buon giudicio di conoscere se medesimi, e la propria fortuna, non si vedrebbono a giornata tanti disordini, che mettono in confusione il mondo».
Tacevano gli altri, e Vincenzo disse: «Voi desiderate una cosa quasi impossibile, che di veder le aquile settentrionali d’Olao Magno, che portano gli elefanti per aria: perché quale è quell’uomo, che conosca intieramente se stesso, e la sua fortuna?».
«So, rispose Placido, che la piú diffícile di tutte le scienze è quella di conoscere se medesimo. Ma io non intendo di parlare di quella cognizione spirituale, che ne conduce dalla propria cognizione di se stesso misero e miserabile creatura alla cognizione del suo beato e beante Creatore: né di quella cognizione altresí ho io inteso di favellare, che ne insegna a conoscere, e distinguere le virtú dai vizi per liberarci l’anima da questi, e adornarla di quelle; ma di quella cognizione io parlo, che versa intorno la vita civile degli uomini per conoscere quello che si convenga al proprio stato, e all’altrui condizione, alla propria sorte, e all’altrui fortuna. Scienza agevolissima da conseguirsi da ogni persona ben nata, che non sia in tutto priva di giudicio. E poiché uno scherzo che è incontrato a Vittorio m’ha dato occasion di conoscere, ch’egli è legittimo possessore di questa scienza, e sono in luogo dove posso parlare con ingenua libertà, mi prenderò licenza di dichiararmi per via di scherzo in una materia, che non è punto da scherzo a chi non sa praticarla. Ho io dunque osservato che Vittorio, essendo stato favorito dalla signora Beatrice in su le danze, era entrato in speranza di ricevere questo onore ancora di servirla alla mensa. Ma ella ottima conoscitrice del proprio merito, voluto parimente far conoscere a Vittorio che a lei tocca il dispensare i suoi favori, non ad altri il pretenderli, lasciato lui, ha favorito della sua grazia Glisomiro. Un altro, che non avesse avuto il buon giudicio di Vittorio s’averebbe per avventura recato ad affronto il tratto di quella dama, e forse estrinsecato ancora il suo dispiacere. Ma Vittorio ottimo conoscitore del suo stato e dell’altrui condizione non solamente non se l’ha preso ad affronto, ma l’ha stimato favore; e non che mostratone dispiacere, con riverenza d’atti e di parole ne l’ha ringraziata. Eccovi adunque Vittorio con pochissima fatica possessore di questa scienza della cognizion di se stesso acquistata da lui nella scuola della civile conversazione, sotto la disciplina del suo buon giudicio. E perché rare volte avviene, che gli atti della virtú non incontrino ne’ cuori generosi la dovuta ricompensa siccome le azioni indegne ne chiamano sempre il castigo, Glisomiro, che in quella scienza ha forse pochi pari al mondo, volendo far conoscere la cognizione ch’egli ha de’ suoi meriti, ha ricompensata la sua prudenza d’una grazia da lui sommamente desiderata. Grazia però, che Vittorio bene ammaestrato nella cognizion di se stesso, conoscendo superiore alla sua fortuna, essendomi io congratulato seco di questo onore; egli con nobile espressione della sua osservanza, ha intieramente riconosciuta dalla sola gentilezza di chi gliela ha conceduta».
Applausero unitamente le dame e i cavalieri al ragionamento di Placido lodando esso egualmente e Vittorio, e disse fra gli altri Paolo, che sarebbe stato cosa desiderabile, che le dame facessero sovente di simili disfavori a i cavalieri; perché se ne vedessero cosí nobili tratti di prudenza e di generosità, e se ne ascoltassero di cosí graziosi discorsi.
«Sí, disse Vincenzo, se in ogni luogo si trovassero de’ Glisomiri, de’ Placidi e de’ Vittori, che possedessero questa scienza di conoscere se stessi, gli altri, e la propria e l’altrui fortuna».
«Tutto va bene, disse Paolo, ma io credo certamente, che questa civile filosofia di Placido non faccia punto a proposito per noi; perché non è altro che un dare libero campo alle dame di trattarci senza discrezione, perché impariamo la conoscenza di noi stessi».
Risero i convitati, e disse Alberta: «Se avesse detto a nostro modo, pazienza, perché siamo da tempo immemorabile in questa giurisdizione di trattarvi come ci pare senza averne da render conto a nessuno: ma quel senza discrezione è una giunta senza derrata; e però potete mettervela in seno, e farvene un buon farsetto, che vi riuscirà molto a proposito».
Rise Paolo, e disse: «Pensate, signora, di farmi ingiuria, e date la sentenza contro di voi: perché se mi fa bisogno d’un farsetto, è ben chiaro contrasegno, che mi conviene armarmi per difendermi dalle stoccate della vostra indiscrezione».
Quí Lisa: «Dite della indiscrezione di vostra signoria, se parlate con Alberta, perché noi non vogliamo costei per avvocata, non che per principale in questa causa».
Parve acuto il motto di Lisa avendo ferito egualmente Paolo e Alberta. Ma Vincenzo rivolto a Lisa: «E perché, disse, non vi piace di mettere questa causa in testa d’Alberta dama cosí savia e virtuosa, e tanto parziale del suo sesso?».
«Perché, rispose Lisa sorridendo, ella si accorderebbe per poco co’ nostri avversari, avendo fatto lega con Glisomiro per guerreggiare contro le nostre vanità. E vuoi, che siamo tante savie Sillibillie, mentre chi volesse levare la vanità alla donna, la ridurrebbe di nuovo nelle coste d’Adamo, dalle quali fu tratta».
Risero tutti i convitati di cuore al motteggiar di Lisa, che il faceva con grazia incredibile storpiando i nomi propri con dolcissimi vezzi. Ma Paolo: «Ha ragione, disse, la signora Lisa; e tiene dal canto mio; perché per altro non fu creata d’una costa la donna fuor che per darci a conoscere quanto ella abbia duro e ostinato il cervello, e però sia senza discrezione».
E Lisa: «Grazioso siete certo signor Paolo, a servirvi delle mie armi contro di noi: ma guardate bene, che nel lanciarle non v’abbiano insanguinata la mano: perché le aveva prese per la punta. Che se la donna fu creata d’una costa dell’uomo nel paradiso, fu per darvi ad intendere, ch’ella avesse da essere il suo cuore, la sua anima, la sua delizia, e’l suo paradiso terreno, e però da essere amata, e accarezzata, onorata, e riverita; ma voi strappazzandola in opere e in parole, vi fate apertamente conoscere nati di terra fra i sassi e i triboli di quelle indiscrezioni, che sí spesso si sentono praticarsi da voi altri Rodomonti in credenza con le povere donne, che per esser nate fra le delizie d’un paradiso non sanno trattare altre armi per vendicarsi di tanti strapazzi, che di tenerezze amorose».
Qui Placido lodata artificiosamente la difesa di Lisa, soggiunse: «Veramente tutta la ragione è dal canto delle donne; e però furono formate d’una costa del lato sinistro dell’uomo; perche si conoscesse, che non per altro nascevano di lui, che per apportargli una sinistra fortuna».
Qui Dora: «Che ne dite di questo del difensore delle donne! Orsú pigliate, e tacete (e gli porse ciò dicendo il bicchiere ch’ella aveva già preso per bere) perché se dite un altro di questi spropositi, perderete tutto il credito che vi siete acquistato col farvi conoscere ottimo conoscitore della vostra condizione e dell’altrui fortuna».
Placido preso sorridendo il bicchiere, e ringraziata Dora del favore bevve in sanità della sposa augurandole un felicissimo maritaggio. Onde Paolo: «Che poca cosa fa prevaricar un uomo! Adamo si precipitò per un pomo, e Placido ha precipitata la nostra causa per un bicchier di vino».
Voleva replicar Lisa, ma Alberta disse: «Taci, cara sorella, che ad ogni modo io m’aspetto di veder Paolo rinegar la pazienza per manco d’un capello. Che io il metterò alle mani con persona, che saprà fare le nostre vendette».
«Non sarà maraviglia, disse Placido, che una donna metta discordia tra marito e moglie, se una donna seppe metterla fra Dio e gli uomini».
«E pur qui, disse Dora. Che fa Glisomiro, che non serra una volta la gola a questa cicala, che vuole intronarci le orecchie tutta la notte?».
Paolo subito:
«Come si ha cattiva causa per le mani si ricorre a’ protettori per difenderla con la spada; perché non si può con la ragione. Ma che volete che dica Glisomiro per farmi tacere? Forse, che la donna fosse formata da una costa dell’uomo (materia dura e torta), perché egli imparasse come dovesse raddrizzarle il cervello travolto senza andare al Ponte dell’Oca; dove Salomone appresso il Certaldese mandò quel pover uomo provveduto di cosí discreta moglie?».
«Questo non dirò io, rispose Glisomiro: anzi
Parmi non sol gran mal, ma che l’uom faccia
contro natura, e sia di Dio ribello
chi s’induce a percuotere la faccia
di bella donna, e romperle un capello.
E però diceva a ragione un gran Padre, che’l maggior castigo d’una ben nata donna sia quello d’una sola aspra parola pel proprio marito. Quinci il nostro Poeta consigliando il suo parente, che voleva prender moglie prudentemente gli scrisse
Falle carezze, ed amala con quello
amar che vuoi, ch’ella ami te: aggradisci,
e ciò che fa per te paiati bello.
Se pur talvolta errasse l’ammonisci
senza ira, con amor, e sia assai pena,
che la facci arrossir senza por lisci.
Né peraltro (già che siamo in questo proposito) fu da Dio formata la donna della costa dell’uomo, che per darci ad intendere l’amore e la concordia, che dee regnare fra i mariti. Formò Dio dell’uomo la donna, perché egli l’amasse come parte di se stesso; ed ella ricordevol del luogo donde fu tratta, a lui corrispondesse in amore, riconoscendolo prima origine del suo essere. Quinci Adamo vedutasi accanto formata di se stesso la prima e la piú bella di tutte le donne, pronunziò quella memorabile, immutabile, ed eterna sentenza: Costei è ossa delle mie ossa, e carne delle mie carni; e però chiamerassi Viragine (o come si potrebbe dire vulgarmente Hominesca) perché è tratta dall’uomo. Lascierà pertanto il marito il padre e la madre per amor della moglie, e saranno due anime in una carne. Apprendano adunque i mariti e le mogli dalle eterne e sagrosante leggi della natura quale sia il debito loro; ed essendo pur troppo vero, che nessuno odiasse giammai le proprie carni, ancorché deboli, inferme, e deformi, imparino ad amarsi e compatirsi n’ loro difetti. E se la moglie sia ritrosa, altiera e superba; sopporti volontieri il marito, ed accarezzi benché gli dolga, la propria costa; e procuri di ridurla alla sanità con la dolcezza de’ lenitivi del buon mutamento, non con l’asprezza del ferro e del fuoco de’ rimproveri, delle minaccie e delle percosse. E se il marito sia sdegnoso, iracondo, precipitoso, e incontentabile; non perciò prenda ad odiarlo una ben nata e discreta moglie, ma riconoscendo le sue imperfezioni come infirmità delle proprie carni, le sopporti in pace, e con i piacevoli rimedi della mansuetudine, della pietà, e dell’amore s’ingegni di sollevarsene, di renderle tollerabile, e di risanarlo. Ho io conosciuto cavalieri di pessimi costumi ridotti a bonissimo stato dalla soavità, dalla modestia, e dalla pazienza delle proprie consorti; ed altresí dame di cervello torbido, inquieto e diavoloso, ridotte a piú mansuete e care d’un cagnoletto dalla sola gentilezza e discrezion de’ mariti. Questo benefício però non altronde si deriva, quasi rivo di fonte, che da quella scienza pur dianzi insegnataci da Placido di conoscere se stesso ed altrui, e con la propria la fortuna degli altri. Considerino adunque il marito e la moglie la propria origine, e conoscendo quello, che si convenga al proprio stato, secondo questa convenienza formino la propria vita, e che o eglino soli, o nessuno saprà giammai che cosa sia felicità a questo mondo. Onde quel gran Cieco, che tanto ebbe a sentenziare nessuna cosa essere piú soave tra gli uomini della concordia del letto maritale. Sappia l’uomo d’essere capo della donna: conosca la donna d’essere fianco dell’uomo. Regga il marito, obbedisca la moglie: ma non tiranneggi il marito, non sia schiava la moglie. Conosca l’uomo la nobiltà del capo per essere direttor de’ suoi membri, conosca la donna la debolezza del fianco per lasciarsi reggere senza contrasto. Conosca l’uomo, che la donna è nata dal suo fianco per abbracciarla, accarezzarla, proteggerla, e ristorarsi delle sue fatiche nelle delizie del suo seno. Conosca la donna, che l’uomo è il suo capo e il suo braccio, e godendo d’essere da lui governata, protetta, e accarezzata procuri di rendersi con la sua mansuetudine, con la sua fede, e con la sua onestà il suo paradiso terreno: né pensi giammai di sottrarsi a questo legittimo imperio, e da questa amorosa protezione, perché di quanti passi per ritrosia, per superbia, e per presonzione s’allontanerà dall’affetto, dalla stima, e dalla riverenza del proprio marito, d’altrettanti s’avvicinerà al precipizio della vita, dell’onestà e dell’onore. E finalmente (perché voglio anch’io cenare) sappia l’uomo, che per imperfetta, di poco spirito, inferma e deforme abbia la moglie, e non ha mai, fuor che per causa d’infamia, occasione legittima di separarsi da lei: e sappia la donna, che per cattivo, misero, indisposto, e impraticabile sia il suo marito, non ha mai giusta cagione (trattane la medesima causa d’infamia) d’abbandonarlo. Altramente cascherebbono ambedue nella medesimi (e forse peggior) colpa di colui, che tentasse di separare la testa dal busto dell’uomo; non essendo altro il fare divorzio tra marito e moglie, che a sentenza del savio un aprir le porte alla morte, e all’Inferno».
Diede questo ragionamento di Glisomiro piú satisfazione a’ mariti, ch’alle mogli che l’ascoltarono; alcune delle quali non sapendo se le sue parole fossero conformi a’ suoi pensieri, le interpretarono a pregiudicio de’ propri interessi. Ma tacendo tutti, benché egli piú non parlasse, e guardandosi l’un l’altro prese Dora a dire:
«Lodato Dio, che è pur caduta dal cielo la rugiada, che ha ferrato la gola alle cicale; sí che potremo finir di cenare senza fastidio».
E ciò detto preso il bicchiere invitò Vittorio a bere in salute di Beatrice. Vittorio ringraziata la dama del favore sodisfece all’invito, e Glisomiro disse:
«È poca cosa un bicchier di vino, ma s’egli ha da bere in sanità di Beatrice gli conviene bere ancora sette volte, essendo otto le lettere, che formano il suo bel nome».
«Sarà maniera poetica, disse Alberta, il votare tanti bicchieri, quante sono le lettere del nome della sua dama; avendo io letto una canzonetta, nella quale un valoroso poeta scrive d’avere in costume di vedere il fondo a tanti calici di Falerno, quante sono le note, che formano il nome della sua donna».
«È maniera antichissima questa, soggiunse Ariperto, di bere in salute della dama e del principe altrettanti bicchieri di vino, quanti sono caratteri de’ nomi loro; e da’ Greci passata a’ Romani s’è propagata alle altre nazioni d’Europa, e massime ne’ paesi settentrionali dove
è sacrilegio il non ber molto, e schietto,
e in sanità de’ príncipi e delle dame, si guastano gli uomini la propria salute in guisa, che alcuni gran capitani, e gran principi, che non poterono morire nei fiumi del sangue che diluviano dalle battaglie, han fatto naufragio della vita e della riputazione ne’ pacifici torrenti del vino».
Qui Glisomiro sorridendo, disse:
«Veramente ella è cosa giocondissima il vedere i cavalieri oltramontani riscaldati dal vino, e non credo d’aver avuto a’ miei giorni cosí gentil piacere come ebbi allora, che trovatomi giovinetto alla corte di principe grande, contrassi stretta amicizia con alcuni nobili fanciulli oltramontani, i quali quando potevano uscire di corte, e venirmi a trovare col loro maestro (che se bene italiano sapeva però bere alla tedesca) facevano col bicchiere in mano le piú care pazziette del mondo; ed io perché bevessero alla mia salute, feci asciugare loro tanti boccali di vernaccia, che quelli che avevano cura di provvedermene, stupiti di vedere consumato a giornata tanto vino, che sarebbe bastato a molte famiglie di quel paese, nel quale si vive con sottigliezza mirabile, ne parlavano come di cosa miracolosa. E dove prima ci trattavano da lupi lombardi incominciarono a proverbiarne d’otri tedeschi. E veramente ella era una cosa giocondissima il sentire quei nobili giovinetti dopo che avevano bevuto venticinque e trenta volte alla mia sanità, e a quella della mia dama e de’ miei amici parlare in un linguaggio, che non era mica di Linguadocca, cosí parlavano arguto, e stringato».
«Doveva essere lingua boccalesca», disse ridendo Catarino. E Lisa:
«E che domine si pensavano di fare quei giovinetti con venticinque, o trenta bicchieri di vino in corpo?».
«Era una delizia, rispose Glisomiro, e uno scherzo amoroso il bere di quei nobili garzonetti. Io conobbi nel medesimo tempo un principe grande oltramontano, che visitò quella corte di passaggio, il quale votava ordinariamente quaranta tazze di purissimo vino per ogni pasto. E come che io per diversi riguardi mi compiaccia della conversazione de’ cavalieri oltramontani, che studiano in queste parti, mi dà un supremo gusto il praticarli; perché non si fa con essi altro che bere e studiare. E non occorre già, che quando viene qualcuno di loro a favorir la mia casa abbia da perdere il cervello, o da votar la borsa in cercar varietà di vivande preziose, e stravaganti; perché con un prosciutto vicentino, un buon pezzo di formaggio parmigiano, e quattro piatti d’ostriche, e di confezioni veneziane, posso tenerli tutto un giorno ed una notte a tavola».
Qui Alberta:
«Mi piace, disse, d’intendere, che tra le vostre virtú possediate anche questa d’esser un solenne bevitore».
E Vittorio:
«Veramente per essere buon poeta fa mestiere d’esser buon bevitore; poiché i fiumi di Pindo e di Permesso portarono invece d’acqua preziosi vini; e non è altro quel furore apollineo, che agita le menti de’ poeti, e fa lor dire e inventare tante belle cose, che spirito di vino. E per tacere d’Omero, d’Anacreonte, d’Ennio, e d’Orazio, il diletto di Glisomiro Torquato Tasso soleva dire, che la malvagía gli dava spirito di poetare divinamente».
«Se questo è vero, soggiunse Giustina, il signor Glisomiro non fa pensiero di non esser mai gran poeta; perché se ben gode di veder gli altri a bere, bee egli però cosí poco, che non passa mai quattro volte al desinare, e tre alla cena».
E Alberta:
«Come son grandi i bicchieri? Perché in quattro volte si può ben votare un grandissimo boccale».
«Son cosí grandi, disse Giustina, che farebbono vergogna a un cardellino. Val piú un sol bellicone tedesco, che quattro de’ suoi bicchieri».
Qui Panfilo:
«Per quello che io abbia osservato de’ costumi di Glisomiro facendo egli poche cose senza misterio, mi dà a credere, che il suo bere cosí numerato porti seco qualche occulta curiosità».
«Sarà per avventura, soggiunse Alvisetta, che il nome della sua dama venga formato da quattro lettere».
«Sarebbe infausto, proseguí Alberta, e di mal augurio un cosí fatto nome di quattro lettere, e non saprei quasi trovar donna di cosí misera nominazione, che non passasse un numero tanto infelice». «Non mi parrebbe, disse Giustina, anzi mel crederei numero fortunato, e di buon augurio, poiché se bene per dinotare l’altrui miseria, o d’ingegno, o di fortuna, si dice in proverbio: egli è nato in quarta luna; sappiamo ancora, che da valenti scrittori viene l’uomo virtuoso e giusto chiamato quadrato: indicio chiarissimo della perfezione di questo numero. E benché il lirico Venusino chiamasse rotondo l’uomo savio e dabbene, trovo nondimeno appresso di buoni autori piú lodato il satirico d’Aquino, che’l chiamò quadrato. E parmi ancora d’avere osservato, che gli antichi dipignessero la Fortuna, che è un’aborto della Ignoranza con un globo sotto i piedi, e la Sapienza sedente sopra una pietra quadrata. E se mi fosse lecito di portar la mia lingua sciocca, non che inesperta, nelle materie sacre, troveremmo agevolmente il numero quaternario pieno d’altissimi misteri. E si verrebbe forse a conoscere, che se ben disse quell’antico poeta, che Dio gode del numero dispari; quanto allo stesso ternario tanto celebrato dagli scrittori debbia essere anteposto il quaternario. Che se sia vero, che maggior perfezione possieda il contenente, che il contenuto, chi non vede, che nel quarto contenendosi il Tre, e l’Uno, egli viene a comprendere in se medesimo tutte le perfezioni dell’Unità, e della Trinità?».
Sollevò gl’ingegni e l’attenzione de’ convitati il parlar di Giustina, e tacendo Alberta, proseguí Vittorio dicendo:
«Grazioso è veramente il pensiero della signora Giustina, e degno della nobiltà del suo spirito; ma benché non si neghi che nel numero quaternario non si nascondano altissimi misteri, e naturali e divini, tuttavia vediamo in prova, che non solamente dagli scrittori profani, ma da’ sacri altresí viene sovente preso in mala parte; non tanto perché essendo composto di due numeri pari, che disgiungono la Unità, e guastano la Trinità egli meriti d’essere dannato come autore di divisione e di discordia; ma non v’è scienza, o mondana, o divina nella quale questo numero non sia riconosciuto per infausto, e di cattivo augurio. Onde il Cielo stesso padre d’ogni bene, come riguarda in aspetto quadrato la nascita di qualcuno, non sa influire sopra di lui che miserie e infelicità. Ma per tornare a’ nostri primi ragionamenti, e lasciare a gli accademici e ai cabalisti somigliante disputazione, se paia a Panfilo, che Glisomiro bee numeratamente per onorare il nome della sua dama, io mi prenderei piacere di congiugnere il numero quaternario della mattina col ternario della sera, facendone sorgere il settennario; che è forse il piú perfetto di tutti i numeri per riconoscere onorato il bellissimo nome d’una dama, che lo essere da lui servita, pieno d’altissimi sensi e misteri, non solamente per la perfezione del numero; ma per la qualità delle lettere, tre vocali e quattro consonanti mute e liquide ordinate con tal magisterio di natura, che un nobile ingegno ha potuto da cosí misterioso nome ritrarre un’ideal cognizione delle sue incomparabili qualità».
Cosí fatto trascorso di Vittorio mise in curiosità tutta quella nobile radunanza per investigare del nome, e delle qualità della dama da esso accennata. Onde il cavaliere voluto troncare cosí fatto ragionamento prese a dire:
«Mi piace che anche da’ miei capricci altri s’ingegni di trarre dei concetti, e dei misteri che non sognai in alcun tempo, non che pensassi di praticarli. Bevo quattro volte la mattina, e tre la sera quando mangio solo, e domesticamente; perché alla mia complessione calda e umida è bastante cosí fatta bevanda, che quando la compagnia e la convenienza mel richiede, so anch’io diventar tedesco, e non ho paura della faccia del boccale».
Rise Guglielmo, e disse:
«Ben ne posso io far fede, poiché essendo capitati pochi giorni sono a visitarci alcuni cavalieri miei paesani, benché si trovasse convalescente, avendogli invitati a bere non si finí la festa, ch’egli in meno di un’ora si bevve tredeci bicchieri di prosecco, di moscato, e di malvagía. Dopo che avendoli accompagnati in barca fino al loro alloggiamento, e nuovamente bevuto, ci tornammo a casa, e cenò con la sua solita sobrietà con tre tazze di vino ordinario, e poi levatici da tavola, ce ne andammo a casa di certa dama, dove trattenutici, e giuocando e discorrendo, e bevendo fino all’aurora, ce ne ritornammo qui; e prima di andare a letto, venutogli appetito, egli volle desinare, e poi se ne andò a dormire insino a mezzogiorno».
Ridevano tutti del parlare di Guglielmo; ma Alberta voltatasi con la solita spiritosità al cavaliere scherzevolmente gli disse:
«Ditemi in grazia, signor Glisomiro come vi stava la testa quella notte? E quante lucciole vedeste per l’aria? Luceva il sole, o la luna?».
Sorrise Guglielmo, e soggiunse:
«Nol vidi mai, signora, né piú temperato negli scherzi, né piú grave nel tratto, né piú accurato nel giuoco di quella notte»..
«Ben bene, disse Alberta. Non averò occasione di maravigliarmi, che porti nel volto il colore degli oltramontani mentr’è divenuto imitatore de i loro costumi. E non vorrete poi, che vi dolga sovente lo stomaco e la testa se desinate avanti giorno?».
«Questo non sarebbe punto di male, disse Guglielmo, perché il mangiare quando viene appetito, e’l dormire quando s’ha sonno, è bonissima regola per conservare la sanità, e Glisomiro la pratica con molto suo profitto: ma ben diede una grande maraviglia anche a me stesso, come si potesse trovar quella notte in tanta tranquillità di spirito, bevendo naturalmente sí poco, che per mio consiglio ha cresciuto il quarto bicchiere al desinare».
Qui Ariperto:
«Stupisco veramente che Glisomiro sia divenuto cosí valoroso nel bere; poiché mi ricorda fin d’allora che camminammo il mondo insieme che non soleva bere che due o tre al volte al piú, e sovente ancora acqua tepida; onde mi diceva talvolta una dama sua favorita di restare maravigliata di tanta sobrietà in un giovine e capriccioso cavaliere».
Qui Vincenzo:
«Allora faceva quaresima, e ora fa carnevale».
Rise Alberta, e disse:
«Era piú tosto termine d’accortezza per non iscandalezzar la sua dama; perché se l’avesse conosciuto per gran bevitore averebbe potuto stimarlo anche un dormiglioso, e perdergli l’affetto».
Sorrisero gli altri, che intesero il motto di Alberta, e prosegui Vincenzo. «Pare a me però, ch’egli avesse dovuto bere allegramente, quando si trovava a desinare, o a cena con la sua dama: sí perché il vino è ottimo rimedio contro le passioni amorose; sí perché non ci è miglior partito per un’amante, che di trattar con la sua dama alla tedesca. Onde quel Poeta ebbe a dire
Bacco è fratel d’Amore
e se l’un co’ martir l’anime ancide,
con le dolcezze sue l’altro le avviva:
e l’esempio d’Alatiele appresso il Boccaccio agevolmente cel può persuadere».
«Il consiglio non era a proposito, disse Glisomiro; sí perché tocca agli amanti infelici l’inebriarsi per mandare in oblio le proprie sciagure; sí perché non si tratta alla tedesca con quelle oneste dame e donzelle, che per loro bere si contentano d’acqua: non vi essendo al mondo per una onorata dama il piú pericoloso commercio di quello di Bacco. E però con molta ragione Pintia pitagorica eroina celebratissima fra gli antichi filosofanti nel suo divino libro della Temperanza donnesca consigliava le madri di famiglia d’astenersi dal celebrar le feste di Bacco, non tanto perché fossero feste proibite dalle leggi, quanto per lo pericolo che correvano in somiglianti cerimonie, che riscaldano gli spiriti e alienano, come ella dice, la mente, di precipitare in quei abissi, da’ quali non è mai piú possibile che si rilèvino».
«Voleva maravigliarmi, disse Placido, che non entraste in qualche anticaglia per censurar le donne. È passato il tempo delle Pintie pittagoriche; e però i suoi precetti non hanno spaccio nella piazza moderna de’ costumi donneschi».
Qui Eugenia:
«Se è passato il tempo delle Pintie pittagoriche è venuto quello delle donne cristiane, e dovremmo veramente vergognarci, che una femmina idolatra sapesse meglio il dovere di una onorata madre di famiglia, che non mostrano di sapere molte donne cristiane. E io per me da che il signor Glisomiro mi lesse un frammento dell’opera di quella eccellentissima eroina, mi sono trovata la piú confusa donna del mondo».
Si conturbarono tutte le dame a somigliante trapasso d’Eugenia; onde Alberta, che non teneva orecchie per somigliante sermone, con un sorriso tinto nel fele della ironia e dello sdegno, prese a dire:
«E che insegna poi di bello qualla signora filosofessa?».
S’arrossí un cotal poco Eugenia avvedutasi, che le sue parole erano state mal intese. Pure non voluto mancare a se stessa placidamente rispose:
«Io signora, non potrei dirvi in un fiato tutto quello che raccolsi da quel prezioso frammento; ma v’accennerò brevissimamente alcune poche cose, che per essere delle piú leggieri, ho facilmente ritenute a memoria. Dopo dunque d’avere con precetti nobilissimi insegnato alle donne, che la propria loro virtú è la temperanza, con la quale devono amare e riverire il proprio marito, allevare virtuosamente i figli, reggere la famiglia, e coltivar la pietà e la religione; passando a insegnarci il governo della propria persona, parla con somigliante pensiero.
In quanto alla coltura del corpo approvo quella maniera, che è pura, semplice, e non punto soverchia. Non porti la onorata madre di famiglia vesti trasparenti, varie, colorate e di seta; poiché in questa guisa fuggirà il soverchio ornamento, lusso e artificio, né sveglierà impuri desideri negli uomini. L’oro e le gemme sieno da essa affatto bandite; sí perché troppo costano; sí perché sono indicio di superbia. La faccia, non di straniero e ricercato, ma di nativo, e proprio colore s’adorni. Con acqua pura si lavi, e sovra tutto s’abbellisca di verecondia. Che cosí facendo renderà piú onorata se stessa, e’l proprio marito».
Taceva Eugenia ammirata col silenzio da tutti; e proseguí sorridendo Placido:
«Questa è una lezione, che se le nostre dame volessero intenderla, non darebbono ogni giorno occasione al Senato di far nuove leggi per moderar le pompe donnesche».
A cui accordandosi Diomede disse:
«Veramente sarebbe cosa desiderabile, che si proibissero alle donne le vesti e gli ornamenti di seta e d’oro, e piú ancora le pietre preziose; che certo è una cosa barbara il vedere, che tra la testiera il collo e le mani assorbiscano l’intiero patrimonio delle famiglie».
«Sí di grazia, disse graziosamente Dora, torniamo a mettere in uso anche le vesti di pelle, che portarono Adamo ed Eva, che pareremo una bella cosa. Si dolgono i mariti di spendere quattro soldi attorno alle mogli, e non pensano ai tesori che loro portano in casa con la dote».
«Ora sí che l’avete indovinata, disse Diomede. E quali sono quelle sultane regine, che portano i tesori a marito? E quale è quella dama, che se ha diecimila ducati di dote non ne voglia ventimila attorno di gioie, e d’altre vanità peggiori?».
Glisomiro per interrompere cosí odioso ragionamento, e massime nella persona di Diomede in concetto di sordido, non che d’avaro; non lasciatolo andar piú avanti, disse:
«Non finiremmo in tutta notte se volessimo mettere a campo i disordini del lusso donnesco nelle acconciature o negli abiti. C’è però di che dolersi con piú ragione, che della spesa degli ori e delle gioie, che essendo finalmente sempre oro e gioie, con piccolo discapito se ne può far ritratto; e si vede in prova, che le onorate mogli ne’ bisogni delle famiglie sono le prime a spogliar se medesime per sovvenire a’ mariti. Ma non so già come dia il cuore a un onorato marito di sopportar, che la moglie gli si cangi di donna in idolo di lusso con portare in testa una catasta di teschi di morti, con dipignersi il volto di mille sporcizie, e con andar per le strade e per le chiese carica di mille frascherie, che disdirebbono ad una cantimbanca, non che ad una gentil matrona, e col seno e con le spalle scoperte alla lascivia degli occhi della gioventú dissoluta».
Taceva il cavaliere, e disse Giustina:
«Stupisco veramente, che il signor Glisomiro abbia tanta avversione al belletto delle donne; e pure il suo gran Tasso, che nella sua gioventú fu cosí gentil cavaliere ed amante, non se ne mostrò punto schifo, anzi ebbe a celebrarlo con un leggiadrissimo sonetto».
«Per grazia, disse Alberta, se ve ne ricordate, compiacetemi di farcene parte, che non potrà essere che cosa molto curiosa il sentirlo».
«Eccovelo», disse Giustina, e con una grazietta da incantare i basilischi recitò:
La beltà vostro pregio e mio diletto
È miracol d’amore e di natura,
dell’arte vostra e del mio studio è cura
alto del doppio stile, e solo obbietto.
Né il color vago, onde il vezzoso aspetto
pinger solete il suo nativo oscura,
cosí la bella man tempra e misura
l’ostro, che tigne il dolce avorio schietto.
Né quello, ond’io spargo l’interna imago
fa men belli i suoi pregi, e i propri onori,
ma il vostro cade, e si dilegua al pianto.
Il mio per lagrimar mai tanto, o quanto
non si consuma; anzi divien piú vago
qual tra rugiade in ciel raggi ed albori.
Taceva Giustina; e disse Panfilo:
«È bellissimo questo componimento, e degno di quella famosissima penna, che lo scrisse. Ma se il belletto della dama del Tasso era cosí dolcemente temperato, che si dileguava al suo pianto; quello de’ volti di molte dame che io conosco non cascherebbe pure con un secchio di ranno forte, essendo cosí spesso e sodo, che sembra una ricoperta di creta invetriata».
Onde Paolo:
«Se un antico poeta tornasse vivo in vedere cosí fatti volti di dame, potrebbe dire, che non portano una faccia di donna, ma una maschera. Maschera veramente, e maschera di vituperio. Quindi ebbe occasione di scrivere quel piú moderno poeta a una donna sí fatta
Quanto ti splende intorno
è tua vergogna, e scorno.
«Parlava degli abiti e delle acconciature (disse Panfilo) non del belletto, che è piú necessario sovente alle donne, che l’ornamento delle vesti».
«Non alle donne, ma alle sfingi e alle chimere è necessario il belletto» disse Lisa.
Risero i convitati, e Glisomiro chiesto del vino invitò Bella a bere in sanità di Lisa. Qui Alvisetta ridendo disse:
«Dirò come quel Fiorentino: crepo se non lo dico. E mi dovrà essere perdonato, perché la tavola è il tormento del segreto. Glisomiro beve alla salute di Lisa, perché vedendola bianchissima, pensa che non porti belletto: e s’inganna, perché è cosí bene belletto il bianco come il rosso».
«Sia quel che si voglia, rispose Lisa; io non lascierò però mai le guance delle mie amiche tinte di cinabro quando m’occorrerà di baciarle».
Rise Alvisetta, e arrossí in sentirsi punta dove le doleva; e poi disse:
«Chi la fa l’aspetta. Ma, signora mia, è passato il tempo delle pazzie».
«Non potevate parlar meglio, disse Lisa; perché in verità la maggior pazzia, che possa fare una donna è quella dell’imbellettarsi. Ogni altra vanità porta seco qualche scusa, e trova qualche compassione; ma come la donna arriva alla pazzia di sporcarsi la faccia sedia della verecondia (che è la propria virtú della donna) e ritratto delle bellezze celesti; ella non è piú donna, ma un simulacro della sfacciatezza, e una pittura diabolica. E che cosa si può sperar di bene da colei che adultera il proprio volto? Da colei, che guasta in se medesima la imagine di Dio? E non si dovrà dire, che sieno tanti sepolcri intonacati di bianco e di vermiglio, che celano dentro le polveri e i vermi degli impuri pensieri d’un’anima morta alla vita dell’onore, e infracidita nel lezzo delle sensualità? Insomma io non potrò mai credere, che una donna mascherata di volto abbia un animo schietto, e che colei che porta i veleni in faccia, non tenga avvelenato il cuore da sentimenti lascivi».
«Non tanta risolutezza, signora Lisa, disse Placido, che può essere ancora motivo di buona intenzione l’imbellettarsi in una donzella per aiutare in parte la disgrazia del proprio volto, e trovare piú facilmente marito; e in una moglie ancora per conservarsi l’amore del suo consorte».
«Per grazia parliamo d’altro, disse Lisa. E tralasciato il ragionare delle donzelle (se può chiamarsi donzella colei, che adultera la propria sembianza) se quelle pazze mogli, che s’imbellettano, e si caricano d’un mondo di lussi il facessero per amor de’ mariti com’esse burgiardamente s’infingono, si liscierebbono, e s’adornerebbono ne’ giorni di lavoro quando attendono alle bisogne della casa sotto gli occhi de’ loro consorti; non ne’ giorni di festa, quando deono comparire in pubblico a farsi idolatrare dalla gioventú disoluta, e a provocare il riso degli uomini sensati; i quali tanto è lontano che possano compiacersi di quei loro volti invetriati, che anzi le abbominano come la peste. Amano gli uomini, che hanno fiore d’ingegno, amano nella donna i purissimi fregi della natura, non gl’imbrattamenti dell’arte; che la trasformano di donna in un mostro. Voglio bene, voglio, che una donna gentile vada leggiadramente vestita, e nobilmente ornata secondo la sua condizione e l’uso della sua città: ma che hanno che fare con una gentildonna due braccia di zoccolo sotto i piedi (che ben vi sono di quelle, che non vogliono abiurare ancora l’antica eresia di camminar su i trampoli) e un monte di capelli posticci in testa carico d’un intiero mercato di frascherie? Se questa non è una solennissima pazzia, io non so vedere chi al mondo meriti il nome di pazzo. La natura adunque, anzi Dio stesso padre della natura, m’ha dato i capelli per ornamento del mio capo e del mio volto, e io me gl’infrascherò di teschi di morti? M’ha dato i piedi per camminare, ed io vorrò montare su due braccia di zoccoli perche mi servano di piedi le braccia delle mie serve? La Fortuna, anzi il voler di Dio m’ha fatto nascer libera, e io goderò d’incepparmi? M’ha fatto nascere gentildonna, e io vorrò trasformarmi in un cantimbanco, prostituendo il mio volto, che non dovrebbe esser veduto da altri che da mio marito, alle censure e alle lascivie degli occhi del vulgo? O io veramente pazza, e meco pazze tutte quelle donne, che possono praticare un eccesso di cosí enorme disolutezza».
Si guardavano l’un l’altro in viso a somigliante trapasso di Lisa le dame e i cavalieri, e benché vi fosse qualcheduna che si sentisse punta nel piú vivo del cuore; quelle nondimeno, che in petto femminile nudrivano spiriti maschi ne rimasero edificate. Glisomiro altresí confermatosi nella buona opinione, che portava della sua virtú, le crebbe affetto, riverenza e stima. Avendo egli poscia invitato a bere Vittorio alla sua salute, ella che aveva diligentemente raccolti gli altrui discorsi, ringraziato il cavaliere di quell’onore, vezzosamente soggiunse:
«Guardisi però Vittorio, che non gli venga capriccio di bere secondo le lettere del mio nome, perché egli è infausto e di cattivo augurio».
«Anzi, signora, è felicissimo per un’amante (rispose Vittorio) il numero quaternario, ma io non m’arrogo tanta licenza, e contento di bere una volta, lascierò questo pensiero a Glisomiro, che meglio di me s’intende de’ misteri de’ numeri e de’ nomi».
Qui Diomede:
«Parmi che Vittorio l’intenda, perché veramente nella formazione del quattro congiungendosi il due, non può essere che di felice augurio ad un’amante il numero quaternario insinuandogli la congiunzione del suo cuore con quel dell’amata».
«Ora intendo, disse Giustina, quello che lessi una volta nell’opere d’un eruditissimo cavaliere, che ciascuno degli amanti si fa due; cioè amato, e amante; e il due duplicato fa quattro; sí che ciascuno di loro è due, e tutti due sono uno e quattro.».
E Vittorio:
«Questa filosofia, disse, è a proposito per Glisomiro, che non si pasce che d’amori ideali, e ama lo spirito delle donne. Ma io per me stimerei felicissimo quell’augurio, che mi portasse la congiunzione dell’anima, e del corpo insieme della mia dama».
Risero gli altri; e soggiunse Lisa:
«Allora non sareste amante, ma lascivo; e però indegno anche della congiunzione dell’animo d’una onorata dama».
«Anzi (rispose Vittorio) sarei verissimo amante, non essendo altr’amore che desiderio d’unione per compiacimento di bellezza».
«Dite contro di voi (replicò Lisa) perché se bene due sono gli amori, l’uno celeste, e l’altro terreno, nondimeno il solo celeste merita il nome d’amore, trapassando egli dalla bellezza del corpo a quella dell’anima, e quindi per la scala delle bellezze terrene e delle celesti fino in grembo al padre d’amore, Dio. Dove il terreno fermo solamente nella compiacenza de’ sensi s’acquista per proprio merito il nome di libidine, non d’amore. E mi ricorda a questo proposito, che trovatami già qualche mese sovra una festa di nozze sentii Glisomiro il quale discorrendo con alcuni giovani cavalieri, che facevano gl’innamorati, provò loro con molte ragioni, e autorità, che dove è libidine non si dà amore, e che se erano veri amanti, doveva loro bastare di posseder la grazia delle dame loro senza pretendere d’avvantaggio».
E Vittorio:
«So benissimo, signora, che se un uomo desidera d’unirsi con una donna, o per istinto di natura, o senza alcuna elezione di particolar soggetto, egli non deve chiamarsi amante, ma incontinente; ben vero amante è quello, che per compiacimento d’una particolar bellezza, che essendo umana gli ha generato un amore umano nel cuore, desidera d’unirsi amorosamente con essa; non essendo altro l’amore umano, che cupidità d’abbracciamento per compiacimento di particolar bellezza. Che se questo non fosse, né amanti delle mogli sarebbono i mariti, e pur le amano, e son veri amanti, e perfetti; e s’ingannano di gran lunga quelli, che portano opinione che non sia amante quel che possiede la cosa amata. E colui che chiunque si fosse, definí amore desiderio di generare il bel nel bello, abbastanza diede ad intendere, che l’amore umano merita cosí bene come il celeste il nome d’amore; e insieme, che i mariti sieno veri amanti delle mogli, e le mogli altresí de’ mariti. La qual verità ci viene, oltre alle ragioni, confermata ancora dagli esempli (per tacer di tutt’altri) d’Orfeo, e d’Artemisia; mentre quello passò coraggiosamente fino all’inferno per ricuperare l’amata moglie Euridice; e questa seppe fare con ingegnosa prova d’amore del proprio seno un vivo sepolcro alle ceneri dell’amato marito Mausolo».
Qui tacciutosi Vittorio, Giustina disse:
«Da somigliante ragionamento mi si fa chiaro un luogo delle rime del gran Torquato, il quale in una sua nobilissima canzone, dove introduce in contrasto fra di loro l’amor celeste e’l terreno mette in bocca di questo quelle parole:
Non siam però gemelli: ei di celeste,
io nacqui poscia di terrena madre,
ma fui il padre l’istesso, o cosí stimo.
E ben par, ch’egualmente ambo ci deste
un raggio dí beltà, che di leggiadre
forme adorna, e colora il terren limo,
Egli s’erge sovente, ed a quel primo
eterno mar d’ogni bellezza arriva,
onde ogni altra deriva,
Io caggio, e in questa umanità m’immergo
pure a voci canore
talvolta, ed a soave almo splendore
d’occhi sereni mi raffino, e tergo».
«Questo pensiero platonico del Tasso (soggiunse Panfilo) venne meglio espresso a favor di Vittorio da un nostro accademico; il quale in un congresso dove si ricercava qual fosse il padre d’amore dimostrò non esservi altramente due amori; ma questa platonica distinzione indicare la varia natura dell’amore umano; poiché dalla doppia forza dell’uomo, della intelligenza, cioè della generazione, due Veneri accompagnate da altrettanti Amori, cioè due diversi affetti procedenti però da una sola cagione, necessariamente si formano. Quinci se agli occhi vostri apparisce la maestà d’un volto leggiadro, la mente che è la Venere superiore partorisce un affetto celeste, abbracciando come una imagine della beltà divina la veduta bellezza, e per le sue orme, quasi per gradi s’innalza alla contemplazione dello stesso Dio. Ma la facoltà generativa percossa e lusingata da i raggi della gradita beltà genera un affetto semplicemente umano, che desidera di formare una bellezza a lei somigliante. Uno pertanto è l’amore in se stesso, benché sembri diverso per le varie sue operazioni, ora sollevando la mente alla contemplazione, e ora invitando i sentimenti alla generazione».
«Sarei dunque io ancora (conchiuse Vittorio) verissimo amante, quando per compiacimento della sua bellezza desiderassi d’amorosamente unirmi con la mia dama».
«Sarebbe piuttosto, soggiunse Lisa, suo nemico, che amante, mentre non la prendeste per moglie come fecero Orfeo e Mausolo, Euridice ed Artemisia».
E Vittorio:
«Già voi, signora, mi chiamate piú avanti che non vorrei, perché se vi confessassi, che gli amanti sieno nemici delle donne amate, potrei mettere in testa a qualcuna di queste dame qualche pensiero pregiudiciale alle sodisfazioni di qualche sfortunato amante. Pure perché la verità è figlia del vino avendo io questa notte sacrificato a Bacco nessuno dovrà dolersi di me perché dica il vero. Nemici sono gli amanti, signora, e nemiche le donne amate, ma con questa differenza, che dove le altre nemicizie sogliono essere amate e odiose, quella degli amanti e sempre dolce ed amabile. Quindi il nobilissimo Casa.
Dolci son le quadrelle, onde Amor punge,
dolce braccio le avventa e dolce e pieno
di piacer, di salute è il suo veleno,
e dolce il nodo, ond’ei lega, e congiunge.
E’l divinissimo Tasso:
Dolce; è mia fiamma, dolce
mia pena, e mio tormento,
dolce è il languir, dolce è il martir che io sento.
Dolci sono i tuoi raggi, e le faville,
e mentre a mille e mille
passano in questo core
dico s’egli si more,
il suo morir non prezza
né morrà per dolor, ma per dolcezza.
Fulmini pure quanto le piace una bella nemica dall’arco delle ciglia infocate avvelenate saette di sdegno, che un vero amante in vece di fuggir i colpi mortali, porta volontariamente il petto disarmato e ignudo per riceverle tutte nel cuore».
Qui tacque Vittorio e Lisa disse:
«Se tutte le nemicizie degli amanti fossero di tal qualità, fortunato sarebbe alle donne l’amare, e l’essere amate. Ma o non ci intendiamo, o non ci vogliamo intendere».
«V’intende troppo bene (disse Giustina) ma tace per vergogna, e non vorrebbe dire, che gli amanti desiderino piú di male alle donne che amano, che non farebbono a chi avesse loro amazzato il padre sotto gli occhi. Leggeva appunto a questi giorni un dialogo di complimento cavalleresco del Tasso, dal quale (per non dir’ altro) imparai che l’amante desidera l’amata e imprudente, e timida e senza grazia di parole, e rozza d’ingegno, e oltreaciò, che sia povera, priva di parenti e d’amici, e in una parola vorrebbe potere farla altrui cara e odiosa, onorata e disonorata, stimata e dispregiata. Che piú? Desidera di privarla di quell’onore senza il quale una donna, né donna è piú né viva». Qui Drusilla, che sapeva quello che avesse pur dianzi provato con Glisomiro:
«Io non so, disse, tante cose. So, che quando la pazzarella di Silvia disse a Dafne, che odiava Aminta, perché l’amava, dicendo
Odio il suo amore,
che odia la mia onestate; ed amai lui
mentre ei volse di me quel, ch’io voleva;
la buona vecchietta le diede una risposta da savia con dirle
Tu volevi il tuo peggio. Egli a te brama
quel, che a sé brama.
Onde se il male e il bene è comune in amore, non so vedere, perché una dama debbia avere a sdegno d’aver de’ nemici, che le desiderino quel male che bramano a se stessi».
Risero tutti alle parole di Drusilla, ch’ella accompagnò con un tratto graziosissimo e amoroso. E soggiunse Placido:
«Meritano veramente compassione gli amanti de’ loro insani desideri; perché essendo infermi non sanno quel che si vogliano. Ed hanno pure fra i deliri del senso questo lume di ragione, che se bene desiderano anzi il male, che il bene alle donne loro, non desiderano però loro, né vergogna, né disonore alcuno. Anzi un uomo ben nato, e un gentil cavaliere portato dalla sua fortuna e dalla corrispondenza d’amore al possesso della sua donna; tanto è lontano, che perciò le desideri male alcuno, che anzi metterebbe mille volte la vita in compromesso per conservazione della sua persona, e per sostentamento della sua riputazione; non cadendo nella eterna miseria dell’infamia se non quelle infelici dame, che da’ ciechi appetiti si lasciano scapestratamente condurre nella compiacenza d’uomini vili e indegni; i quali allora si stimano da qualche cosa, che si vanno lavando la bocca con aspergere di vituperi il nome di quelle sfortunate dame, che mettono ciecamente non meno che vilmente in loro arbitrio l’onestà e la vita».