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Girolamo Brusoni
La gondola a tre remi

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SCORSA SETTIMA

 

Mentre cosí parlava Placido, e già condotta a debito fine la cena, cadevano le sette ore della notte, passò a conturbar l’allegrezza di cosí gentile conversazione una cameriera di Celinda, che capitata a quella casa sovra una barca usuale, fingendo d’essere una giovane paesana di Cillia, fece per suo mezzo penetrare a Glisomiro una lettera di quella dama, che aperta trovossi dettata in questa forma.

Signore. Accompagnata alla sua casa Eufemia, che pare si senta assai meglio, e cordialmente vi saluta; e tornata alla mia propria abitazione, v’ho trovata una stravagante novità. Laureta sdegnata con Voi, né so di che, è passata di persona ad accusarvi a Lelio, che abbiate raccolto nella vostra casa i rapitori di sua figlia, e di Drusilla. Lelio infuriato a questa novità è venuto subitamente a consigliarsene con Leonello, minacciando qualche brutto scherzo contro tutti voi. Io capitata a casa in cosí fastidiosa congiuntura non ho mancato di mitigare l’acerbità del suo disdegno; ma con poco frutto. Solamente placato verso la vostra persona, continua nel suo furore contro Domitilla e Drusilla, e vuol rovinati Panfilo e Vittorio. Io tratto Leonello ne’ miei sentimenti ho stimato di far bene con fermar qui Lelio a cena per fargli passar l’umore, ma non ho già potuto ritenervelo a dormire. È partito adunque con manco alterazione che non è venuto; ma non però senza pensiero di vendetta. Io non sapendo come avvisarvi a quest’ora del pericolo de’ vostri amici ho aspettato che Leonello si vada a letto, e poi fatto chiamare un gondoliere della contrada nostro conoscente gli ho comandato di condurre alla vostra casa questa mia cameriera a titolo d’una paesana di Cillia; e vi prego d’averne buona guardia fino a dimane, perché non può ritornare di presente a casa, dovendosi serrare tutte le porte. Signore, cosí paga Celinda chi l’ha tradita. Mi scordava quasi di dirvi, che Ferrante m’ha consegnato cento ducati per quel che sapete; ma io gli ho dati ad Eufemia, perché se ne serva a suo piacere. Con Leonello farò l’incognita, e lascieremo correre il tempo, già che per altro non tratta mal con voi. A Dio.

Letta cosí importante scrittura, e rallegratosi Glisomiro dello stato d’Eufemia, e della cordialità di Celinda, contristossi per lo pericolo de’ suoi amici, che di se stesso non aveva finalmente di che temere in questa parte; se non inquanto correva rischio di ricevere qualche disgusto a causa loro, quando non si fossero prestamente allontanati dalla sua casa. Gli spiaceva altresí il privarsi di Drusilla, pure avendosi già tratto il suo capriccio con essa, e bisognando provvedere al suo onore e alla sua sicurezza determinò di far da sezzo e di sua volontà quello che aveva ricusato dapprincipio a compiacenza altrui maritandola a Vittorio: che se bene l’avesse già posseduta, ella non era però la prima, che andasse a marito senza la dote della verginità. Fatto questo pensiero, e comunicatolo prima d’ogni altro con Alberta e Placido, ne venne da loro altamente lodato, con esibizione particolare d’Alberta (ma nol seppe già Placido) di dare ella in sua parte trecento ducati, e qualche gioia alla dama. Tanto le importava l’allontanarla da Glisomiro. Fatto questo, e dato parte a gl’interessati di questa occorrenza; si conchiuse, che nel medesimo istante a confusione de’ loro nemici dovessero Panfilo e Vittorio sposare Domitilla e Drusilla. Vittorio già guadagnato da Laureta, e presentemente persuaso da Alberta e da Placido vi concorse di buona voglia; ma non voleva già intendere questo suono Drusilla. Pur finalmente impressionata del suo pericolo, della convenienza del suo stato, e del ristoro della propria riputazione senza sapersi quasi quello che si facesse (e qual’è quella donna, che’l sappia?) v’acconsentí, e se ne trovò per le cortesie di Alberta, di Laureta e di Glisomiro piú contenta che non isperava. Ma quando si pensava già il negozio conchiuso, cascò una pietra nel cembalo, che quasi il rovinò: perché chiamato il pievano ad assistere a questa funzione, pauroso di qualche disordine non volle piú tornare a casa di Glisomiro. Allora il cavaliere complito con le dame, e co’ cavalieri della contrada, e fattili accompagnare alle proprie case, montò con Drusilla, Domitilla, Panfilo, Vittorio, e Ariperto nella sua gondola a tre remi, ed entrati nella propria barca Alberta e Placido con Lisa, Diomede e Guglielmo, passarono tutti insieme a casa del pievano della contrada propria di Panfilo; il quale chiamato dal cavaliere, e nullamente sospettoso di questa occorrenza essendo calato a riceverlo; egli e Vittorio dichiararono in sua presenza per loro spose Domitilla e Drusilla. Fatto questo, si mise in consulta a qual parte si dovessero ritirare per propria sicurezza gli sposi. Rise Glisomiro, e disse:

«A casa di Laureta».

Parve uno sproposito alle dame e a’ cavalieri questa parlata; ma egli soggiunse:

«Signori, cosí vanno le cose del mondo. Gli accidenti della fortuna non isforzano già le volontà libere degli uomini, ma le raggirano, e le mutano secondo i loro appetiti, o interessi. Se per non aver voluto acconsentire a Laureta di sposar Drusilla a Vittorio l’ho sdegnata, la placherò dopo che vedrà sposata Drusilla a Vittorio. Io non voleva già impedire questa consolazione a Vittorio, né questa fortuna a Drusilla, ma teneva allora degl’impacci fra i piedi, che essendo stati levati da benefício inopinato di fortuna, ho potuto fare di mia elezione quello, che non poteva fare a compiacenza di Laureta».

Non però s’appagavano Panfilo e Vittorio, i quali essendo partiti di casa di Laureta in una maniera che poteva recarselo ad offesa, non tenevano fronte per comparirle nuovamente davanti. Oltre a che se ella li aveva per isdegno traditi a Lelio, ben averebbe per qualche nuovo disgusto potuto tradirli ad altri nemici. Qui Glisomiro:

«Io conosco meglio di voi Laureta. Non per tradire alcun di voi, ma per levarmi Drusilla ha tramato questa rivolta. Come si mette una cosa in testa, vuoi satisfarsi, o per amore, o per dispetto. Fate a mio senno. Vadano prima a trovarla Alberta e Lisa con Placido e Diomede, e dato loro parte del vostro maritaggio senza motteggiarle cosa alcuna del suo tentativo con Lelio, la preghino di questo favore; e vedrete, che verrà ella stessa ad incontrarvi a braccia aperte, e vi terrà gli anni intieri, non che pochi giorni nella sua casa».

«Questa è una cosa da nulla, disse Alberta. Già che siamo fuori di casa, un’ora piú, e un’ora meno è tutt’uno. Andiamo».

Cosí fu fatto, e intervenne loro appunto quello, che aveva divisato Glisomiro. Spogliavasi allora Laureta per andare a letto; onde inteso che Alberta e Lisa chiedessero di lei, imaginato parte di quello che n’era, gittatasi una zimarra indosso, che si strinse ne fianchi con una traversa, discese immantenente le scale per incontrarle. Intesa poscia la novità che le portavano, senza curarsi punto degli sposi, sorridendo, ma d’un’aria sdegnosa, disse:

«Dov’è quel traditore di Glisomiro?».

Le dame e i cavalieri guardatisi l’un l’altro non sapevano che si rispondere, ond’ella detto a Placido, che facesse scendere in terra gli sposi, e lasciata Lisa col marito, trasse Alberta in disparte dicendole:

«Signora, so che possedete la confidenza di Glisomiro. Ditemi in grazia; è ammogliato? Vuole ammogliarsi? Che pensa?».

Intese Alberta il motto, e di rimando rispose:

«E voi signora, siete maritata? Volete maritarvi? Che pensate?».

E Laureta:

«Ditemi prima quel che sapete di Glisomiro, e poi non averete di che dolervi di me».

Alberta, a cui non tornava il conto che Glisomiro s’ammogliasse; perché ricordevole di quello che fosse passato fra di loro a Torcello, non aveva ancora deposto il pensiero di fare qualche scappata con esso; risolutamente disse:

«Per quello che io ne so Glisomiro non pensa a moglie per non legare la libertà del suo genio. E ben sapete, signora, che i cavalieri avvezzi a girare il mondo e far di tutto, malvolentieri si tolgono impacci di donne. E quando pur Glisomiro pensasse d’ammogliarsi penso, che essendo innamorato d’una bella fanciulla l’anteporrebbe ad una dama attempata».

S’offese Laureta di cosí fatta rimostranza, perché se ben contasse piú di trenta anni su le dita voleva però passar anch’essa per giovanetta. E veramente il suo sembiante ingannava gli occhi, e i giudici; perché o fosse il merito della sua continenza, o la dilicatezza della sua complessione, che la conservasse in quel posto, non avereste creduto in vederla, ch’ella toccasse i venti anni. Ella era stata questa dama negli anni piú freschi, destinata da’ suoi parenti ad altra maniera di vita; ma rimasta per la morte loro in piena libertà, e con una ricca dote; e però chiesta da molti per moglie; aveva sempre rifiutato ogni partito, dicendo, che sapeva benissimo, che non chiedessero Laureta, ma la sua dote, per servirsene nella pratica d’altri amori, che della moglie. Governava però se ben donna e sola la propria casa con molta prudenza, e manteneva un posto forse piú alto della sua fortuna. Teneva conoscenza antica di Glisomiro per essere stato molto amico d’un suo fratello, e gran servidore d’una dama appresso la quale era stata allevata, ed era già qualche anno volata in cielo. Passava però fra di loro qualche corrispondenza, ma cosí capricciosa e stravagante, che non si saprebbe trovarle agevolmente un nome proprio; perché ella era corrispondenza d’amicizia, di convenienza d’obbligo d’amore, di studio, e di conformità di geni e di pensieri; in tutta questa confusione non appariva barlume alcuno de’ disegni dell’uno, o dell’altra. Ma insomma la gelosia è quel paragone, che scopre l’oro della occulta intenzion della donna. Infino a che Laureta pensò che Glisomiro non piegasse l’animo che a qualche affetto volante e di trattenimento, non d’impegno, non si prese mai fastidio di sua persona. Ma penetrato prima l’amor che faceva con la fanciulla di presente motivatole ancora da Alberta, e credutone il peggio di quello che n’era, aveva incominciato a provare qualche torbido ne’ suoi affetti; e poi vedutasi in casa Drusilla con circostanze da ingelosire ogni anima piú costante, precipitò nella risoluzione di voler sforzare il cavaliere a dichiararsi per essa. Ora succedutone quello, che già sappiamo; portata dall’empito della gelosia, che è quella passione che fa impazzire le femmine, a solo fine di levar Drusilla di casa del cavaliere, senza pensare a’ disordini che ne potevano succedere a danno altrui; corse a manifestare a Lelio tutta questa occorrenza, senza manifestargli l’inclinazione di Drusilla a Glisomiro, né quello che dubitava che fosse già succeduto fra di loro. Ora trovatasi in cosí breve spazio d’ora consolata della sua pretensione, sentí, che tutti gli affetti della sua corrispondenza col cavaliere, e tutti gli sdegni concepiti contro la sua persona per l’affronto, che le pareva d’aver ricevuto, s’erano singolarmente ristretti in questo solo desiderio di piacergli, e di compiacersi di lui, e rinnegata la sua ostinazione di non maritarsi, non avrebbe ricusato di sottoporre il collo a questo giogo quando avesse potuto sperare di conseguir Glisomiro per suo consorte. Trovatasi dunque con Alberta per investigar de’ pensieri del cavaliere sapendo bene (ma non sapeva già l’occulta intelligenza, che passava fra di loro) qual fosse la confidenza che teneva seco, e con Placido; e sentitasi trattare da donna attempata, e confermatasi nell’opinione, che Glisomiro amasse la fanciulla, che per solo trattenimento amoreggiava, ammutí; e celato il suo disdegno, e taciuto il suo pensiero, voltossi ad incontrar gli sposi, co’ quali complito, chiese nuovamente di Glisomiro. Ma egli sbarcati gli sposi, e tolti seco Ariperto e Guglielmo se n’era andato per la sua strada. Perché se bene avessero gli ofici di Laureta sdegnato Lelio, sapendo però, che quelli d’Alberta e di Celinda l’avessero in buona parte satisfatto, determinossi ad una risoluzione degna della sua bizzarria, e della sua accortezza. Passato adunque con la gondola da tre remi a casa di Lelio, e chiesto udienza dal cavaliere, gli venne per la stravaganza dell’ora, e per li correnti sospetti cortesemente negata. Ma Glisomiro smontato in terra:

«Non è questa, disse, la prima notte, che m’è stato aperto in questa casa; e se non vi sia piú Isabella, si tratta di servire ancora nella sua figlia Isabella. Dite a Lelio, che tengo qui Domitilla, e che bisogna che in ogni maniera si vesta, e venga a vederla».

Che poteva qui far il buon vecchio? Levossi a questa novità, e semivestito e sonnacchioso corse dabasso; ma non veduto che Glisomiro armato, e accompagnato da due compagni del portamento d’Ariperto e di Guglielmo; sorpreso da ragionevole sospetto si ristette. Ma il cavaliere trattosi avanti con generosa confidenza gli disse:

«Signore. La fortuna ha voluto mettermi a parte di cosa, che non averei mai voluto intendere, non che vedere. Domitilla rapita da Panfilo? Ma che? Son colpe umane, e colpe usate, dalle quali non vanno esenti pur le famiglie de’ Cesari, non che de’ cavalieri privati. Se hanno fallito, hanno ancora emendato il loro fallo, Panfilo ha sposato Domitilla, e Drusilla si trova accasata con Vittorio. E perché non vi gravi questo doppio maritaggio, non vi tocca pensiero alcuno di Drusilla, non vi mancando chi la provveda in guisa che non averete che da lodarvene. Vi pensate forse, che questi sieno deliri? Elle sono merissime verità: che ben sapete, che Glisomiro non mente con nessuno, e meno d’ogni altro con Lelio. Se non credete alla mia relazione, venitevene meco; che in meno di mezz’ora vi fo trovar Domitilla sposa d’un nobile e virtuoso cavaliere; che se v’abbia offeso con rapirla contro la vostra volontà, è pronto ancora a spargere il sangue per vostro amore. Parlo secondo i sensi del vulgo; che in verità questi sono favori, non offese. Chi ama non offende, onora mentre l’amore venga regolato dal desiderio di possedere a legittimo fine la cosa amata. Panfilo non è piú vostro nemico, è vostro genero. Non è piú rapitore... è marito di Domitilla. E voi ricuserete di perdonare a un vostro genero, d’abbracciare il marito di vostra figlia? Ah no, che siete padre di Domitilla».

Parve che le parole di Glisomiro dassero la vita al buon vecchio; cosí divenne a poco a poco giocondo in viso, e lieto ne’ sembianti. Accarezzato pertanto paternamente il cavaliere, disse:

«Insomma voi siete nato per mio tormento, e per mia consolazione. Ma si taccia di travagli, ora che siete qui per consolarmi. Verrò con voi alla cieca; perché so, che Glisomiro sa conservar la fede anche a’ suoi nemici».

Che scherzo era questo? Lelio in potere di Glisomiro? O amore d’anima gentile! e quali meraviglie non fabbrichi tra’ mortali? Lelio vivente Isabella, machina la morte a Glisomiro, e Glisomiro morta Isabella adula Lelio della vita, e quando poteva in un momento vendicar mille offese l’obliga co’ benefici? Ma passiamo a casa di Laureta; donde per la incertezza dello stato di Glisomiro, e delle sue risoluzioni non erano ancora partite co’ loro mariti Alberta e Lisa. Qui tornato il cavaliere, e fatta chiamar l’entrata a suo nome, corsero ad incontrarlo Placido e Diomede, e dietro loro gli sposi. Ma quali si rimasero quando invece di Glisomiro si trovarono incontro Lelio lasciato solo dal cavaliere su quella riva! Io non saprei darvi ad intendere sí fatto incontro. Panfilo e Vittorio a questa veduta si nascosero, onde rimasti soli Placido e Diomede, e inteso da Lelio tutto conturbato lo scherzo di Glisomiro, rasserenarono l’animo suo assicurandolo della verità de’ suoi racconti; e che per solo sdegno d’amore egli ricusasse allora di entrare in quella casa. Ma se era stata grande la turbazione di Panfilo e di Vittorio, e delle dame altresí in sentire che Lelio fosse comparso in quella parte a quell’ora; fu ben assai maggiore la consolazione che ricevettero in veder Lelio, che abbracciata la figlia e’l genero, e accarezzata Drusilla e Vittorio, e perdonò loro i falli commessi, e dichiarassi risoluto di non partire da quella casa se non gli avesse condotti seco alla propria abitazione. Pareva che non acconsentissero a cosí fatto invito gli sposi; ma inteso quello che avesse operato per essi Glisomiro, si lasciarono ridurre dove gli piacque, e Laureta penetrato il colpo di Glisomiro lietamente turbata disse:

«Ah cavaliere traditore! So che non bisogna scherzar teco. Tu m’hai presto pagata della mia sciocchezza. Io voleva mortificarti nella tua casa; tu m’hai mortificata nella mia. Ma lodato il Cielo, che cosí dolce cambio mi danno le tue mortificazioni mentre veggo terminati i travagli di tante dame e cavalieri miei amici».

Ma seguitiamo Glisomiro, il quale messo Lelio a casa di Laureta tornossene di volo alla propria abitazione. Dove assegnata al trattenimento di Ariperto e di Guglielmo la parte piú nobile della casa, si ritrasse egli nella parte destinata al domestico trattenimento della famiglia. Non conteneva però questo appartamento, che tre camere con una picciola sala, in una delle quali aveva Cillia collocata Beatrice la figlia d’Ariperto assistita da una sua serva; nella seconda Lodovica con la cameriera di Celinda; ma la terza aveva riserbata per se medesima, e qualche altra domestica servitú. Venuto adunque pensiero a Glisomiro di ceder il suo appartamento ad Ariperto e a Guglielmo, nel quale non si trovando che tre altre camere da letto, disegnava che la sua propria stanza ricadesse a Beatrice, si trovarono confuse queste donne; e perché già Beatrice si stava a letto nella camera assegnatale da Cillia discesero nel gabinetto del cavaliere, cedendogli la propria stanza Lodovica, e la cameriera di Celinda. Postosi a letto Glisomiro come quello che ne aveva un’estrema necessità, subitamente addormentossi. Ma non potè già chiuder occhio Beatrice; la quale avendo fino da fanciulletta conosciuto, e per gli anni suoi amato Glisomiro per le carezze che le faceva; trovatasi nuovamente nella sua casa in una età di tredici in quattordici anni, e vedutolo piú bello, piú gentile e piú cortese che mai, sentissi svegliare nel coresino una passione piú conforme all’età, senza però conoscere ancora quel ch’ella fosse. Crebbe la sua confusione l’avere per poco danzato seco, e goduto buona pezza del suo servigio alla mensa. Uscito poscia il cavaliere di casa con tutta quella compagnia ella si rimase con la madre e con Giustina tacita e mesta; e mandata finalmente da Eugenia a letto, con imperiosità di donna non che di fanciulla comandò alla cameriera di ritirarsi, e di non darle impaccio. Ritiratasi adunque la cameriera si stette con l’altre donne in ciancie infino a che tornato Glisomiro si ritrasse ella ancora a dormire a’ piedi della fanciulla. Era questa cameriera giovanetta di sedici anni, bella e graziosa, e di spiriti piú vivi di quello che comportasse la sua condizione. Osservato però che la fanciulla non facesse che sospirare, e volgersi per le piume; entrata in sospetto di qualche male balzò dal suo letticello, e andò a vederne. La risposta di Beatrice fu un sospiro, e un dirle che tornasse a dormire, perché ella non aveva male alcuno. Ma la cameriera abbracciatala e baciatala, le disse:

«Bisogna certamente mia signora, che vi troviate indisposta, benché mel neghiate. Ditemi la verità, siete voi innamorata di qualche bel cavaliere, che sospirate cosí forte?».

Beatrice a somigliante interrogazione torcendo cruciosetta il caro viso ad altra parte, confermò col suo tenero disdegno nel suo pensiero la cameriera. Ond’ella, che sapeva per prova quello che possa amore negli animi semplicetti delle fanciulle, abbracciatala di nuovo, e baciatala soggiunse:

«Mia signora, vi prego di non aver a male, che io vi parli con quell’affetto di riverente servitú, che debbo alla vostra persona. Io benché sia cosí giovanetta, che tocchi appena i sedici anni, sono però stata lungamente innamorata, e secondo la mia condizione, potei vantarmi d’amore bene impiegato. Ma perché non ho mai avuto ardimento di palesarlo, me ne sono trovata con tanti affanni e cordogli, che m’ho creduta piú volte di morire. Guardate però voi ancora, che il voler celar’ il fuoco d’amore nel seno non vi arda, e vi consumi il cuore e la vita. Ditemi, vita mia dolce, sareste mai per ventura innamorata di Glisomiro: che io ho ben veduto, che nel partire pur dianzi da voi v’ha fatto tante carezze, che io mi chiamerei beata della metà?».

La fanciulla tremò tutta a queste parole della cameriera, e non potuto piú contenersi si mise fanciullescamente a piangere. La cameriera a questo contrasegno già certa di quello di che già dubitava, asciugando le lagrime alla donzella:

«E che occorre, disse, il piangere dove non giovano i pianti? Signora, se voi amate Glisomiro, ed egli ami voi, come si può credere alle dimostrazioni che v’ha fatte; voi piangete, e siete felice. Fate animo, e cuore; e poiché avete la fortuna propizia, non la sprezzate. Egli dorme qui appresso. Le camere sono aperte. Andatelo a trovare, ch’egli è tutto cortese, e vi consolerà di quello che desiderate».

Beatrice stupita, e consolata insieme di queste parole, ma pure come fanciulla e amante piena di timori e di sospetti, rispose:

«E s’egli mi sgridasse, e mi mandasse via?».

Rise la cameriera, e disse:

«No, no, signora, non vi prendete questo fastidio. Egli non vi sgriderà punto, e non vi scaccerà, ma v’abbraccerà, e vi terrà in letto. O perché non sono io ancora nata come voi, che vorrei corrergli in braccio, sicura che mi consolerebbe d’altro, che di parole».

Pareva già a Beatrice di vedersi prevenuta dalla cameriera, onde sospirando disse:

«No, fermatevi».

Rise la giovanetta del suo timore, e proseguí Beatrice:

«Ma che altro vorreste voi da Glisomiro, che parole? Io mi contenterei di stargli appresso, e di consolarmi favellandogli del mio amore per sapere se veramente mi ami».

«Queste sono cose da fanciulle scioccarelle, disse la cameriera. Io vorrei di quello, che potrebbe farmi contenta».

«E che cosa è questa?, disse. Insegnatemela».

Sorrise la cameriera, e disse:

«Quando era ne’ vostri anni, e prima ancora, io sapeva queste cose senza maestro; perché la natura stessa ce le insegna».

E qui contate sue favole alla fanciulla voleva per proprio interesse condurla dal cavaliere. Ma stando tuttavia Beatrice ritrosetta e vergognosetta, la scaltra cameriera soggiunse:

«Orsú, poiché voi non volete andare da Glisomiro v’anderò io per voi».

La fanciulla percossa nel cuore da queste voci:

«Fermatevi, disse, sfacciata che siete. Voglio dimane dir queste alla signora madre, e far che vi mandi via dal mio servigio».

La cameriera conosciute queste minaccie per empiti di gelosia, e risoluta di mettere a suo profitto la donzella in braccio del cavaliere (cosí trattano le serve, e raro è chi vi pensi) prestamente rispose:

«E se voi mi farete cacciare dal vostro servigio, e io mi vestirò da maschio, e mi metterò a servir Glisomiro, e cosí il goderò a vostro dispetto. E però, o risolvetevi di andar voi a trovarlo, o che v’andrò io».

Temeva e sospirava la fanciulla, e benché si sentisse dall’empito dell’amore accalorito forse dall’abbondanza de’ cibi e delle bevande prese nel passato convito, e certo dalle parole della cameriera, trasportare nel desiderio del cavaliere; oppressa nondimeno da’ timori fanciulleschi non sapeva prendere cosí inopportuna e intempestiva risoluzione. Ma la cameriera voltatasi a lusingarla, ve la persuase finalmente dicendole:

«Mia signora. Se mi promettete di non dir cosa alcuna alla signora madre, io v’assicuro, che non toccherò mai Glisomiro, e che metterò voi sola nelle sue braccia senza ch’egli ve ne sgridi, e ve ne discacci giammai. Su alzatevi, che or’ora ve gli porto in seno; ma voi ditegli, che gli siete andata da voi stessa, altramente non vi ci porterò piú».

Beatrice lusingata, e placata da queste dolci parolette, gittò le braccia al collo della cameriera, ed essa portatala pianamente in camera di Glisomiro oppresso dal primo sonno, gliele mise appresso, e serrate astutamente le porte, tornossene piena d’amorosa invidia sul proprio letto. Ma Beatrice confusa d’animo, e ardente di cuore, e non senza le solite paure non sapeva che si fare nella vicinanza dell’amato cavaliere. Pure assicurata dal vederlo dormire incominciò a scherzargli attorno i capelli levandoglieli dalla faccia, e a lusingargli le guancie e’l collo, e a dargli insieme qualche fievole bacio. Il cavaliere svegliato dalla soavità di quelle carezze aprí gli occhi gravi di sonno, e tirate le cortine del letto per dar luogo allo splendore d’un lume, che gli ardeva in camera, ravvisò la tenera donzella, che spaventata da quell’incontro, tremante di paura, e di vergogna, quanto piú tentava di nascondersi sotto l’ombra del seno amato, tanto meglio veniva a scoprire le sue vezzosette bellezze. Stupito il cavaliere di quell’incontro, lusingata anch’esso la fanciulla piacevolmente le chiese chi le avesse insegnato d’ingannarlo con quella dolce accortezza. Beatrice a cosí care parole e lusinghe, fugata dall’animo l’apprensione dell’affanno che l’opprimeva, fievolmente rispose:

«Amore».

Fedeltà verso la propria serva incredibile in una fanciulla di quegli anni. Ma Glisomiro, benché ammaliato da cosí dolce parola, e da cosí spiritosa bellezza; ricordatosi nondimeno di se medesimo, non lasciò che gli penetrasse nel cuore la fiamma degli illeciti desideri con una figlia d’Ariperto e d’Eugenia suoi ospiti e amici. E sovvenutogli parimente d’Ermanno un gentiluomo paesano della fanciulla, che la desiderava per moglie; passò a dimandarle s’ella avesse avuto gusto di lasciarsi maritare in quel cavaliere. Rispose prestamente di no: perché non voleva mettere il suo amore in altri, che in lui; onde il supplicava di farle grazia di sposarla. Ma inteso dal cavaliere, che si trovasse obligato di parola ad altra donna; pensato alquanto, e sospirato soggiunse:

«Signore, fatemi questa grazia almeno di non lasciarmi andare con mio padre in Levante, tenendomi appresso di voi in quella maniera che vi piacerà».

«Di non andare in Levante, disse il cavaliere, penso che resterete consolata, disegnando Ariperto prima di partire di maritarvi, e di lasciare ancora la signora vostra madre appresso di voi; sí che non occorrerà far’altri disegni».

E la fanciulla:

«Ma s’io non voglio maritarmi, anderà in fumo questo disegno; e bisognerà pure, che non mi facciate questa ingiuria di scacciarmi dalla vostra casa dopo che sono stata nel vostro letto».

Non piacque punto a Glisomiro questa parlata: onde risolutamente disse:

«Signora, se potessi io servirvi ne i termini dell’onore, non vi potreste lamentare di me in conto alcuno. Ma già che mi trovo ohligato ad altra donna, e l’amicizia che professo ad Ariperto non mi consente di tenervi in altra guisa, che di legitima consorte; compiacetevi, mia signora, che facciamo un cambio d’affetto; e in vece d’amante tenendomi in luogo di fratello, acconsentite di sposare Ermanno; che in questa guisa ne non anderete in Levante, e averete sempre occasione di comandarmi ne’ termini dell’onestà ogni vostra satisfazíone».

Sospirò dal profondo dell’anima Beatrice, e disse:

«A che duro termine m’ha condotta una serva! Io dunque dovrò sposare altr’uomo dopo di essere stata nel vostro letto? E voi rifiuterete anche per amica una mia pari?».

Sospirò Glisomiro ancora, e pauroso che la disperazione conducesse la giovinetta in qualche precipizio, che venisse a manifestare somigliante trascorso, soavemente disse:

«So, mia signora, che amore non conosce riguardo alcuno di amicizia, d’ospitalità, di sangue, e di religione; perché legge a se stesso di se medesimo, non vuole né cerca né guarda che quello che gli diletta. So ancora, che è debito mio di servirvi già che non posso come marito, come amante obligato alla vostra affezione e confidenza. E son qui per farlo. Ma se possiamo satisfarci senza pericolo e senza scandalo, a che vogliamo provocare gli strepiti, e le disgrazie? Sposate prima Ermanno, e poi restando voi qui, e partendo Ariperto, cesseranno ancora i riguardi dell’amicizia, e dell’ospitalità, che mi tengono a freno per non tirarmi addosso l’infamia d’averli convertiti in tratti di nemicizia, e d’ingiuria».

La inesperienza degli anni, e la debolezza del sesso non lasciarono apprendere a Beatrice il doppio inganno di queste parole: perché veramente Glisomiro prese a sedurla in questa guisa per tenerla in fede: sicuro, che quando avesse sposato Ermanno, le sarebbono cessati questi umoretti: e quando ancora avessero continuato a travagliarla non gli sarebbono mancati pretesti di liberarsi da cosí fatto impegno. Ma dall’altra parte quando anche avesse il cavaliere pensato di satisfarla; che inganno era questo di lasciarsi obligare a un marito per aver comodità di compiacersi d’un’amante? Ma questi sono inganni propri di femmine, e femmine inesperte, e innamorate; onde non fa maraviglia, che Beatrice ancora su la speranza d’una futura consolazione si lasciasse privare della presente comodità di fruire il suo amore; rendendo in questa guisa il suo affetto di scusabile, dannato. Che se pure allora fosse caduta, degno di compassione, come di fanciulla semplice, invaghita e sedotta sarebbe stato il suo errore: ma cadendo dopo d’avere sposato Ermanno, chi non l’averebbe condannata di sciocchezza, d’indignità, di sceleraggine? Quietatasi dunque, né tolto e dato per pegno di quella illegitima fede, che qualche bacio: tornossi tra mesta e consolata nel proprio letto; e Glisomiro chiamò la cameriera, che aveva per le parole della fanciulla conosciuta colpevole di quel disordine, per obligarla a tacerlo: comparsa solamente cinta ne’ fianchi d’una sottil sottoveste col seno scoperto, e i capelli vagamente scarmigliata, Glisomiro rimase abbagliato da questo nuovo sol di bellezza, che gli portava di notte un doppio giorno nello scintillante splendore de’ suoi begli occhi. E come quello che non aveva ancora osservata la giovanotta, dolcemente la richiese di sua condizione. La cameriera modestamente arrossita di questa dimanda, e mossasene a una dolce sorriso:

«Insomma, disse, è pur vero, che voi altri cavalieri non tenete memoria di noi altre povere donzelle. M’avete veduta mille volte, e non mi conoscete? M’avete parlato altrettante, e non mi raffigurate? Io sono Agnesina figlia di Prudenzia, che stava già vicina alla vostra casa quando abitavate di sopra a Celinda, e ci davate da lavorare per amore della medesima signora, che vi ci aveva raccomandate, avendo mia madre dato il latte ad Eufemia».

Glisomiro allora fattosi portare piú da vicino il lume, e contemplata da capo a’ piedi la bellissima fanciulla, la riconobbe con suo piacere; e poi le disse:

«Non è maraviglia, cara Agnesina, che io non t’abbia riconosciuta dopo tanto tempo che non pratico le tue contrade; e che sei divenuta cosí grande e bella, dove allora parevi una lucertola; cosí eri scarmetta, e tristarella».

Rise la giovanetta, e soggiunse:

«E chi altri che voi mi fece diventare una lucertola?».

E voluto dir d’avantaggio, si vergognò, e fermossi.

«E perché?», disse Glisomiro.

Sospirò Agnesina, né voleva parlare; ma importunata dal cavaliere, finalmente disse:

«Perché avendovi un giorno portati alcuni panni lini lavorati da mia madre, essendo voi a tavola, mi faceste grazia di tenermi a desinar con voi, e poi m’accarezzaste, e mi baciaste donandomi un anelletto, e mettendomi tanto fuoco d’amore in seno, che tutta mi consumò».

Rise Glisomiro a questa prontezza della giovanetta, e vezzosamente le disse:

«E tanto tempo sei stata a scoprirmi questa infermità, che ti cagionai, perché non potessi risanartene? Ma chi t’ha servita di medico, che sei guarita sí bene, che ne sei divenuta la piú bella cosa del mondo?».

«La vergogna, rispose Agnesina, e la inesperienza dal canto mio; e la vostra qualità, e’l sapere ch’eravate morto d’amore per altra donna dal canto vostro, mi fecero tenere le fiamme chiuse nel petto insino a che ebbi fortuna di vedervi, e di parlarvi qualche volta. Ma essendovi poi partito dalle nostre contrade m’ha servito di medico per guarirmi il tempo, avendomi fatto inghiottire l’amara medicina della disperazione».

«Sí che, disse Glisomiro, tu non mi vuoi piú bene?».

«Non dico questo», rispose Agnesina,

«Bisogna almeno, soggiunse Glisomiro, che tu abbi avuto qualche altro medico ancora, che t’abbia risanata, perché tu mi parli d’un’aria, che non è già di fanciulla tessitrice, e cordelliera».

«Quasi che, replicò sdegnosamente Agnesina, per esser nata povera, sia nata senza giudicio; sí che non sappia dire quattro parole in croce. Se Dio mi guardi, che se ben sono una povera serva non mi cambierei in conto alcuno (fuor che di fortuna) con quante dame sono state iersera in questa casa. Che mi manca perché non possa comparire fra le altre donne?».

«O tu grandeggi molto, disse Glisomiro. E ben dico io, che bisogna, che qualche medico del tuo male amoroso t’abbia messa in testa questa superbia».

«Che superbia?, disse tutta crucciosetta Agnesina; e che medico m’andate voi trovando? Credete, che non v’intenda? Vi dico cosí, che sono donzella onorata, e che non so di queste cose».

Teneva la giovanetta favellando una mano su la sponda del letto; onde Glisomiro voluto prendersi giuoco di farla dire, soggiunse:

«Certo, che tu non fai lenzuola, coltre, matterazzi, e lettiere; ma bene io ti conosco a gli occhi, che tu hai avuto un medico, che ti ha guarita del tuo mal d’amore».

Agnesina a queste parole quasi piangendo di slizza, pietosamente esclamò:

«Oh Dio, dove sono venuta stanotte! Sí, che sono donzella».

«E io non tel’ credo», disse Glisomiro.

Qui Agnesina incominciando daddovero a piangere:

«Oh, che uomo, disse, che siete? Mi fareste per disperazione dare l’anima al Nemico, e gittarmi da una finestra»,

«Tu faresti la bella prova della tua donzellaggine, disse Glisomiro. Come non me ne dai miglior segno, che di romperti il collo, io non ti credo punto».

«E che segno ne volete voi?, disse Agnesina. Eccomi qui. Fate quel che vi piace. E se non mi trovate donzella, mandatemi in malora, che me ne contento».

Rise Glisomiro a questa offerta della giovanetta, e accarezzatala, e baciatala; mentr’ella abbracciò e baciò con tanto affetto, che gli parve cosa mirabile, l’ammaestrò della maniera, che doveva tenere con Beatrice, per ridurla dove disegnava, pregandola di ritirarsi appresso la fanciulla per non insospettirla con troppo lunga dimora. Ma Agnesina assicurata dalle sue lusinghe, e dal vedere che non le avesse ordinato di chiudere la porta; aspettato soltanto nella sua camera che Beatrice s’addormentasse, ritornò che già si avvicinava l’aurora a svegliare il cavaliere. Il quale trovatasi appresso tremante di gioia, d’affanno, e di desiderio questa nuova bellezza, che non teneva di vulgare fuor che la nascita; come se ne sentisse altri sel pensi; che noi lasciandolo di nuovo addormentato passeremo a trovare Alberta. La quale insospettita per le parole dettele da Laureta, che ella aspirasse al maritaggio di Glisomiro, tornata a casa dopo la partenza di Lelio con gli sposi, non fece altro che farneticare insino al giorno sovra qualche invenzione per troncare dalle radici questa sua speranza. Pensò finalmente, che se avesse tentato ella il guado, averebbe potuto rendere sospetti e però inefficaci i suoi uffici; onde passando una stretta confidenza con Lisa, disegnò di valersi del suo mezzo per mettere qualche sinistra impressione della vita e dell’onestà di Laureta nell’animo del cavaliere. Comunicati adunque seco nel seguente mattino i suoi sentimenti, pregolla di trasferirsi a pretesto di visitar Eugenia, Beatrice e Giustina a casa di Glisomiro per insinuargli quello che stimava a proposito per la sua intenzione. E cascò cosí aggiustatamente questa cabala, che appunto Laureta aveva pregato (per non potersi fidare d’Alberta) Lisa di recapitare al medesimo cavaliere una sua carta. Lisa vaga di servire Alberta sua buona amica, e piú forse d’obligarsi Glisomiro, non fu lenta ad intraprendere questa ambasciata. E perché era appunto quel giorno festivo, uscite ambedue di casa, si rimase Alberta in certa chiesa, e andossene Lisa a casa del cavaliere nel medesimo punto, che vi capitava ancora Celinda per levarne la sua cameriera. Ma non c’era piú la cameriera che tenesse radice in quella casa; perché avendo Lodovica participati a questa giovane i suoi accidenti, il dubbio, che aveva d’essere da Glisomiro restituita al marito, e la poca speranza, che per vederlo impegnato in altri amori teneva di tirarlo dove desiderava, le aveva tanto predicato la notte in testa, che l’aveva persuasa d’andarsene con essa; e quando non avessero potuto trovar Romano d’aprire insieme bottega, sicure che essendo due belle giovani non sarebbono mancati avventori, che comperassero ben cara la loro mercatanzia. Niente però si sapeva in quella casa di questo disordine. Perché mentre Glisomiro stanco di tante vigilie dorme in seno di Agnesina, Lodovica fattosi chiamar Betto, e quasi d’ordine del cavaliere ordinatogli d’apparecchiar la gondola a tre remi, ma con un remo solo, a pretesto appunto di ricondurre la cameriera a casa di Celinda se n’era andata con essa a cercar sua ventura a casa di Romano. Ma inteso, che il giovine si fosse ritirato in un monasterio, passò in quella parte ancora, e finalmente parlatogli, il persuase di montare con essa in barca, perché teneva bene tanti ori e danari, che averebbono potuto starsi qualche mese insieme senza pensiero. Lasciamogli alla buon’ora; e torniamo con Lisa e Celinda a casa del cavaliere. Che svegliato per questa doppia comparsa da Cillia, levossi immanentente e vestissi per complire alle sue parti con esse. Trovolle con Eugenia, Beatrice a Giustina a ragionamento de’ passati accidenti degli sposi, portando insieme novella, che avesse Lelio determinato di celebrare la medesima sera le nozze della figlia e di Drusilla con un privato trattenimento di dame e di cavalieri amici e parenti; al quale invitarono le medesime dame ancora co’ loro consorti, e Glisomiro. Col quale trovatasi prima Celinda, e chiesto della sua cameriera, si venne a discoprir la sua fuga e quella di Lodovica, benché non venisse creduta fuga per la fama lasciata in casa, che si fossero incamminate a casa della medesima Celinda. Ma perché questa partenza (e massime di Lodovica) senza sua saputa e consenso, le convinceva di reità, avendo Glisomiro ricercata la propria camera, trovò mancarvi alcuni danari, due anelletti, e una collanetta, lasciativi la notte precedente da Alberta per servigio di Drusilla. Questo colpo scopri il motivo della fuga delle giovani; pure essendo partite nella barca del medesimo cavaliere non volle pubblicar cosa alcuna infino al ritorno di Betto. Voleva Glisomiro passare con questa occasione alla visita d’Eufemia insieme con Celinda e Giustina; ma non gliele permise Celinda dicendo, che se voleva andarvi v’andasse a sua posta, e a suo rischio con chi volesse; ma seco non vi pensasse punto; perché non era cosí sciocca, che volesse farsi mezzana de’ suoi deliri con la figlia, benché amasse lui come figlio. Rimasi in questa discordante concordia; ascoltò il cavaliere la vaga Lisa: la quale presentatagli la carta di Laureta, egli apertala non vi trovò che questi pochi versi.

 

Dopo due lustri intieri, in cui mia fede

tra fiamme eterne ti consacra il core,

idolo ingrato al mio costante amore

rendi d’aspri martir dura mercede?

Né quel, che’l volto inonda, e’l sen mi fiede

parte de l’alma lagrimoso umore,

vale a stemprar l’indomito rigore,

che ad onta di Natura in te risiede?

Ben del ferro è piú rigido e tenace

se del mio lungo amor nel foco ardente

il tuo cor freddo e impenetrabil giace.

E piú di selce dura è la tua mente

se non la move, intenerisce e sface

de le lagrime mie l’onda corrente.

 

Conturbossi tutto il cavaliere alla lettura di questi versi; e Lisa veduta la sua turbazione, e voluto fare il colpo additatole da Alberta, disse:

«Signor cavaliere, guardate dall’impacciarvi con questo diavolo di donna, perché vi metterà in qualche precipizio, non avendo essa altro affetto, né altra fede, né altr’anima, che quella della propria vanità. Ed è peccato, che in un corpo sí bello abiti un’anima cosí deforme, che piú brutta non penso, che possa essere quella d’una turca e d’una saracina. Perché le maomettane credono pure in qualche maniera in Dio, ma costei non conosce altro Dio che il proprio capriccio. Vive però una vita peggiore di una epicurea. Si ride dei voti e della religione, e le chiama invenzioni degli uomini per interesse di Stato, e per accomodare le proprie famiglie a costo della libertà delle donne. Credo ancora che sappiate, che se bene ella sia sana come un pesce d’acqua marina, trova però mille scuse e invenzioni per aver licenza di mangiar carne tutto il tempo dell’anno per solo vizio di gola, e per non ismagrire, e perdere la bellezza ormai pregiudicata dagli anni. Ella è poi di genio cosí dissoluto, che fin d’allora che viveano i suoi parenti, e si stava nel seminario a spese si vantava di avere imparato con due scuti come le donne si trasformino in uomini per iscapricciarsi a dispetto di chi le priva della libertà. Insomma guardatevi, signor cavaliere, da costei; perché se vi lasciate guadagnare da’ suoi artifíci in vece d’una gentil donzella, qual essa è nata, vi trovereste alle mani una femmina dissoluta, quale ella vive. E vorrei giuocarmi un occhio, che se vi potesse ridurre a sposarla, non si contenterebbe già del vostro amore e della vostra persona, ma farebbe parte di se stessa a chi ne volesse; perché ella suol dire, che’l bello e’l buono intanto è buono e bello, in quanto è comunicabile, e che l’intendono quelle donne le quali a guisa di Corisca fanno degli amanti quel che si fa delle vesti

 

Molti averne, un goderne, e cangiar spesso,

che’l lungo conversar genera noia».

 

Qui fermossi la bella dama, e Glisomiro, che aveva attentamente raccolto il suo trascorso, con termine di modestia e di gentilezza placidamente le rispose:

«Signora, io non so che mi credere di quello che vi piace dirmi di Laureta, non avendo interessi con essa che mi spingano a voler sapere le qualità della sua persona. Io la tengo per dama onorata, e quando non fosse ella vi pensi. Né perché abbia usato meco termini impropri debbo dolermene, perché so, che quando le donne sentono qualche cosa di proprio disgusto, essendo di natura debole, e però facili a sdegnarsi, sogliono di leggieri dimenticar se stesse, non che i tratti della convenienza, e del dovere. Vi ringrazio dell’onore, che vi piace di farmi con somiglianti avvisi, giovandomi di credere che vi ci abbia indotta il zelo della mia riputazione: e dove io vaglia a servirvi, procurerò di farvi conoscere, che io non sono ingrato a chi mi favorisce della sua grazia. Ben vi prego, signora, a non parlare di queste cose con nissuno, se non per altro, per onor di voi stessa; perché non tutti gli uomini possiedono la virtú di saper tacere».

Qui la gentildonna ammirando la modestia del cavaliere:

«Certo, disse, che io non ne parlerei con persona vivente; e se ne ho parlato con voi, mi v’ha spinta l’amor che da quel primo giorno che vi conobbi ho portato alla vostra gentilezza. Ma se non credeste alle mie parole informatevi delle condizioni di costei da Alvisetta, da Dora, e da Bella, che sentirete di piú bello di quello che io non averei ardimento di raccontarvi».

Non si passò piú avanti in questo ragionamento, perché tornato a casa Betto portò piú vive apprensioni al cavaliere di quelle, che non gli davano le parole di Lisa. Aveva egli creduto alle parole di Lodovica portategli da Ghiandone, onde la messe in barca con la cameriera di Celinda per condurle a casa di quella dama: ma veduto, che prima con diverse invenzioni si facesse condurre a casa di Romano, e poscia al Monasterio, dove si stava ritirato, e che entrato in barca gli comandasse di gittarlo a certo luogo sospetto di ruflianesimo: ricusò d’obbedirlo dicendogli, che non tenesse altro comando dal suo padrone, che di portare quelle donne a casa di Celinda. Romano giovine altiero e sciocco, e poco amico per altro di Glisomiro diede nelle minaccie e ingiurie contro il gondoliere, ma niente giovando le parole per muoverlo, intraprese Lodovica di sedarlo col danaro, offerendogli due scuti. Peggio trovossi Betto di quella cortesia, che delle ingiurie, e insospettito di quello che n’era, girò la barca per ricondur le donne donde le aveva levate, dicendo a Romano, che dovesse smontarne in ogni modo, non conoscendo altri padroni su quella barca, che Glisomiro. Si fermarono al rumore due gondole, che scorrevano per quei canali; onde Romano scoperto in una d’esse un cavaliere suo amico, chiamatolo per nome, montò d’un salto nella sua barca, e tenuta ferma quella ancora di Betto, volle farvi passare insieme le donne. Ma facendo primiera quel tragitto la cameriera di Celinda, Betto sdegnato di questa violenza, allontanò si fattamente con l’urto d’un piede e del remo la sua dalla barca del cavaliere, che la cameriera se non fosse stata soccorsa da Romano e dal gondoliere di mezzo, sarebbe caduta in acqua; e Lodovica trovossene cosí lontana, che perdette la speranza d’uscire da quell’impaccio. E tanto piú che il cavaliere insospettito per le parole di Betto (che all’uso de’ barcaioli si faceva valere con la lingua), di qualche disordine, si mise attorno a Romano e alla cameriera per intendere i molivi di quella novità. Inteso però che fosse colei serva di casa di Leonello, e si fosse partita con Lodovica da quella di Glisomiro, dov’era passata la notte per un’ambasciata di Celinda; non voluto cosí fitto imbroglio tra’ piedi, mise in terra ambedue, dicendo loro, che si provvedessero, non essendo quello un conto da far su le dita. Trovatisi in terra i giovini, disse la cameriera:

«Signore, se non vi dispiace il cambio venite meco a casa di mia madre, che vi saremo sicuri infino a che si trovi qualche casetta per mio trattenimento, dove sarete sempre padron di venire quando vi piacerà, non volendo io piú servire a nessuno, ma fare della mia vita quel che mi piace».

Piacque il partito a Romano, che si moriva di voglia di cosí fatta avventura; e scordata Lodovica mise il suo cuore nell’amor di costei. Ma come poi riuscisse loro in bene questa domestichezza a noi poco importa di saperlo: basta di sapere che poco di bene possono aspettare al mondo le meretrici, che dalla condizione di serve passando in un baleno al titolo di signore veggono all’altezza di questo grado inevitabilmente congiunta la scala, o del Ponte, o dell’Ospitale.

Ma che fa intanto Lodovica? Ella tornossi bene per mera necessità a casa di Glisomiro, ma perché Betto lasciolla scioccamente scendere in terra prima di lui, messasi immantenente la strada fra i piedi, gli sparí in un baleno dagli occhi serrandosi nella casetta d’una donna sua amica della medesima contrada, non essendo guari distante da quella ancora di suo marito. Spiacque però cosí fatto disconcio a Celinda e a Glisomiro; non per quello che avevano rubalo in quella casa, o che due femminelle di quella sorte diventassero bordelliere; ma perché avendo la cameriera, posseduta la confidenza di Celinda e Lodovica, penetrato qualche cosa degli andamenti di Glisomiro con essa e con Alberta, potevano a ragion dubitare di qualche sinistra fama a danno loro. Ma perché le femmine in questa parte degli errori amorosi, sono anzi difensore che accusatrici l’una dell’altra, mentre o la gelosia, o il dispetto non le faccia parlare; niente di male perciò se ne intese. E finalmente Lodovica pentita di quei trascorsi mandò la donna sua amica a restituire al cavaliere quello che aveva involato di sua ragione, o di Drusilla; e tornati piú amici che mai, rappacificossi col marito ancora, ma non in guisa, che di quando in quando non facesse qualche scappata in casa della medesima donnetta, dove può essere che capitasse talvolta anche il cavaliere, al quale non dispiaceva punto la persona, se non piacevano i costumi della giovanetta.

Intanto Celinda perduta la speranza di ricuperare la cameriera, tornossene di mala voglia appresso la figlia per coprire con questa lontananza dalla propria casa l’allontanamento della giovane; e Glisomiro partita Lisa con Eugenio, Beatrice e Giustina, che vollero andare tutte insieme quella mattina al tempio, si restrinse con Ariperto. E perché non ad altro fine egli aveva appunto fatta venir la moglie e la figlia di Lombardia a Venezia, che per aggiustare i suoi interessi prima d’andare alla guerra, né gli permetteva la convenienza d’aggravare troppo lungamente la casa dell’amico con quell’alloggio, si venne subitamente alla risoluzione di maritar Beatrice ad Ermanno, che aveva di poco tempo addietro (terminata la sua condotta nel pubblico servigio) tolto casa nella medesima città, per aspettarvi nuove occasioni d’impiego. Per Guglielmo trovossi parimente impegno a Venezia; perché Giustina, che di troppo mala voglia s’allontanava da Glisomiro, tanto s’adoperò con le sue preghiere, che deposto il pensiero di trovargli recapito in terraferma, il ritenne per qualche giorno ancora appresso la sua persona, e partendo ancora dalla sua casa si rimase di abitare nella medesima contrada. Ma prima che queste cose prendessero sí fatta piega, nuovi disturbi ruppero la quiete di Glisomiro; perché avendo Cillia raccolto benissimo il ragionamento fatto da Lisa al cavaliere contro Laureta; ella, che obligata dalle sue cortesie passava una strettissima confidenza con quella dama; appena dopo desinare egli diede le spalle per uscir di casa con Ariperto, e trovarsi con Ermanno, le spedí con questi avvisi Astolfo. Di che altamente disgustata Laureta, e punta daddovero dallo stimolo dell’amore, del dispetto e della gelosia, senza pensar piú avanti, montò subitamente in barca, e passata a casa del medesimo cavaliere informossi pienamente da Cillia di questi andamenti. E perché le donne libere e innamorate non operano mai, che con empito e con precipizio, inteso ancora, che dovesse il cavaliere trovarsi quella sera alla festa degli sposi in casa di Lelio, determinò ella di trovarvisi mascherata per osservare (già che Cillia non conosceva Lisa) qual fosse questa dama che teneva seco tanto d’autorità e di confidenza; mentre né Celinda, né Alberta s’arrogavano tanto sovra di lui. Andata per la sua strada Laureta, tornossi sul cader della sera a casa Glisomiro, e participato insieme con Ariperto ad Eugenia e Beatrice quello che avessero conchiuso con Ermanno, si rimase d’accordo che andassero esse e Giustina con Ariperto e Guglielmo a quella festa, dove sarebbe capitato anch’esso mascherato per non mettersi in alcuno impegno con gli sposi. Quinci rimaso solo, e datosi a rivoltare certi suoi scartabelli, gli venne casualmente alle mani una canzonetta, che aveva in altri tempi scritta a compiacimento di Laureta scherzando sovra il suo nome, e ricordatosi degli ofici passati seco da Lisa, e insieme del sonetto mandatogli dalla dama, pensò di darle risposta con questa medesima canzonetta per tentare di che senso l’avesse ricevuta in quella congiuntura, che si trattava d’altro che di scherzi. Chiusala pertanto in forma di lettera mandolla a Laureta per Ghiandone, che trovolla appunto che si stava mascherando da maschio, nel qual portamento riusciva di vita leggiadrissima e ben disposta. Presa la dama questa lettera con quella avidità, che farebbe un febbricitante un bicchier d’acqua fresca, aprilla con impazienza, e lesse.

 

Deh se l’Aura tu sei

donna gentil, com’io

il tuo bel nome risonare ascolto

tempra nel petto mio

quello ardor, che vi nutre il tuo bel volto.

Deh se l’Aura tu sei

del mio gran pianto il mare

che nembo di dolor turba, e raggira

prenda prenda a calmare,

il venticel d’Amar, che in te respira.

Deh se pur tu sei l’Aura

disgombra il nero verno,

di quel timor, che nel mio cor soggiorna,

e porti aprile eterno

il ventilar della speranza adorna.

Deh se pur tu sei l’Aura

non temperar l’ardore,

non tranquillare i flebili tormenti,

non fugare il timore

s’altro dar non mi déi che fiori e venti.

 

Letta questa canzonetta stesse Laureta alquanto sopra di sé, e poi tornato a leggerla piú volte, fermossi sull’ultimo verso

 

S’altro dar non mi déi che fiori e venti;

 

ed esalato un profondo sospiro disse:

«I fiori e i venti in amore altro non sono che speranze e desideri; e forse, baci e parole. Ma che altro vuoi tu da una donzella? Sposami, e ne averai quello che brami. Ma tu sei un traditore. Tu mi schernisci. Il tuo cuore è in altro seno, che in quel di Laureta. Ma che dico? Tu tieni piú amorose in seno, che capelli in testa. Orsú ti vederò stanotte, e poi ci parleremo».

E ciò detto si mise in vestirsi a cantare il seguente madrigaletto, indicio chiarissimo di quel che covasse nel cuore, essendo veramente innamorata degli occhi negri e fiammanti del cavaliere.

 

Chiare amorose luci

tramontana gradita

dell’errante mia vita,

deh raggirate ormai

luci soavi e liete i vaghi rai

a consolar d’un sol baleno il core

pericolante nell’Egeo d’Amore.

Dolce oggetto bramato,

dolce oggetto adorato,

anche d’Amor nell’ire

sarà, sovra mercé, vita il morire.

 

Nel terminare queste parole grondarono dagli occhi della bella dama alcune poche lagrimette, le quali asciugatesi sospirando, si chiuse il volto con la maschera, e tolta seco una sua serva nel medesimo portamento di maschio, e Ghiandone, passò per barca alla casa di Lelio, dove a porte chiuse si celebrava quella privata allegrezza. Onde perché le fosse aperto senza darsi a conoscere, le venne molto in acconcio l’aver condotto seco Ghiandone, che come dipendente da Glisomiro, venne senza opposizione introdotto con quella compagnia da un cavaliere parente di Vittorio, che assisteva alla porta. Ella era appena entrata, che ecco appunto Glisomiro alla medesima riva. Dove introdotto con una maschera sua camerata salí nell’appartamento superiore, dove già si riduceva la nobiltà invitata. Qui postosi tra le altre maschere andate solamente a veder quella festa, aspettò che uscissero con gli sposi le dame e i cavalieri del loro corteggio a principiarla.

 

 

 





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