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Girolamo Brusoni
La gondola a tre remi

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SCORSA OTTAVA

 

All’uscir degli sposi nella sala levossi un confuso e giocondo sussurro della maravigliosa bellezza di Domitilla, non vi essendo dama che non ne la invidiasse, né cavaliere, che non ne sospirasse. A Glisomiro altresí, che non l’aveva fin’allora guardata con altri occhi che di padre per amore d’Isabella, parve in quel portamento la piú bella cosa del mondo. Ma e Drusilla, e Alberta, e Lisa, e Celinda, e (che gli parve piú strano) Eufemia, e altre dame il chiamarono ad altri pensieri, che di vagheggiar Domitilla. E ben qui si potè vedere quanto sieno anche i mali nelle femmine capricciosi non meno de’ loro cervelli; mentre Eufemia, che il giorno addietro pareva si volesse morire di sorverchia doglia e angoscia, comparve su questa sala in un sembiante non che giocondo e lieto, spiritoso e bizzarro: tanto l’aveva amore in cosí breve spazio cangiata per le sue dolci avventure da se stessa. Sedutesi le dame a’ luoghi loro, passeggiarono secondo l’uso della patria con regolati passi la sala primieramente le spose; dopo che fatta una danza o passeggio accompagnate da altre dame e cavalieri, rimase libera la sala a chiunque danzar volesse. Allora Glisomiro, che s’era travestito in una maniera da non essere conosciuto, andò a levare in danza primiera la cara Eufemia. Dirò maraviglia d’amore! Appena la bella dama gli aveva data la mano, ben che coperta dal guanto, che’l riconobbe; e sfavillando dagli occhi giocondissime fiamme d’amore, dolcemente gli disse:

«Cosí dunque, signore, schernite chi v’ama? Pensavate adunque di celarvi alla cognizione d’Eufemia?».

E trattosi, ciò dicendo, il guanto, gli porse ignuda la dilicata mano e sentissi quasi svenire di soverchia tenerezza. Dispiacque quel dolce tratto d’amore a Glisomiro, che voleva almeno confermarsi incognito agli altri, già che amore falsamente creduto cieco l’aveva scoperto alla troppo amorosa giovanetta. Pregolla pertanto di ricoprirsi la mano, e di tenerlo celato, ma non potè a patto alcuno ottenerlo: perché essa gloriosa di quel contrassegno d’amore d’essere stata la prima favorita, quanto durò la sua danza, non fece mai altro che favellar con esso con tanta famigliarità, che avendo messo in apprensione della sua persona Celinda, bisognò per levarle i sospetti dall’animo participarle il segreto di quella maschera. Il che fatto la tenera Eufemia che non teneva senso per altri trattenimenti dove era l’anima sua, trattolo seco seguitata da Celinda (fu ventura, che Ferrante non era su quella festa) e da Agnesina (la maschera che accompagnava Glisomiro) nelle stanze di Domitilla, il pregò di levarsi la maschera per consolarsi un momento nella vista serena del suo bel volto. Qui sopragiunto Lelio, Panfilo e Vittorio si condolsero col cavaliere perché non gli avesse favoriti in miglior maniera della sua presenza, mentre da lui solo riconoscevan tutta quella consolazione. Fu facile lo scusarsene a Glisomiro sovra i sinistri accidenti, che l’avevano in quel giorno travagliato, e corrisposto alla gentilezza de’ cavalieri, li pregò di lasciarlo per allora incognito, ond’essi licenziatisi immantenente, il misero in libertà. Ed egli, che aveva veduto su la festa fra le altre dame Bettina la moglie d’un cavalier geloso, per cui era stato altre volte a pericolosi cimenti, e moriva di voglia di dirle una parola, disse ad Agnesina, che levatala in danza trovasse qualche pretesto per condurla un momento in quelle stanze. Uscite Celinda ed Agnesina per servirlo secondo il suo desiderio, egli si rimase a consolare di scherzi amorosi la giovanetta pregandola di ritornare anch’ella su la festa ad assistere alla cugina. Ella si torceva, e non voleva spiccarsi da lui; ma finalmente il pretesto della propria riputazione ve la persuase. Partita Eufemia trapassò il cavaliere in una vicina stanza, dove si stavano cianciando alcune dame, le quali non conoscendo, benché fosse da molte di loro conosciuto, cortesemente salutatele voleva ritornasene. Ma Aselida una dama attempata, non troppo bella, ma tanto piú adorna, sorridendo gli disse:

«Dove fuggite, signor Glisomiro?».

Voltossi il cavaliere a questa voce, e fissati gli occhi nel volto di quella donna, la riprovò nel suo cuore, conosciutala alla procacità degli sguardi e alla lascivia del portamento indegna dell’amore d’un’anima gentile; non pertanto disimulando fermossi per attendere i suoi motivi. Ond’ella soggiunse:

«Venite qua, che vogliamo parlar con voi».

Glisomiro andò là sorridendo, e Aselida incominciò a metterlo nelle piú strane novelle del mondo; ma con tanta affettazione, ch’era una seccaggine l’ascoltarla. Pareva appunto, che ella parlasse con persona già sua domestica di molti anni; e arrivò finalmente a segno, che essendosi il cavaliere voltato a rispondere a certa dimanda d’un’altra graziosa dama, che gli sedeva di fianco, ella fingendo di piegarsi per non so che, gli strinse con una mano il braccio, e’l percosse con un ginocchio. Voltossi il cavaliere a quel sovrasalto, e Aselida se ne mosse a riso, e fingendo di parlare con un’altra dama venne a dargli ad intendere in qual parte della città ella abitasse. Poteva far di manco; perché Glisomiro non comperava femmine al mercato; e mentre vuol liberarsi da quella noia, dicendo fra se stesso, che la sua gondola da tre remi gli avesse quella notte portato poco buona ventura, ne venne improvvisamente liberato da uno strepito sollevatosi nella sala per sua cagione.

Tornata Agnesina con Celinda su la festa, e statasi alquanto in discorso con essa e con Alberta sovra le novità della sua fortuna; perché Glisomiro obligato al suo amore, e voluto ristorarla del danno della sua integrità, l’aveva chiesta ad Ariperto per tenerla appresso di sé infino a che avesse potuto maritarla; andò a levare in danza secondo l’avviso del cavaliere Bettina. L’abito della giovanetta era di soldato francese con armacollo superbo, spada dorata, e cappello piumato con diversi gallani ad uso di giovinetto morbido e delizioso. Ella sosteneva il mantelletto col braccio sinistro, appoggiato in arco sul fianco, e con l’altra mano serviva vezzosamente la dama. E perché la leggiadria della ben disposta sua vita, il portamento vivo e spiritoso, e l’altezza della sua gentile statura aiutata dalla moderna usanza di portare uno scagnetto di mezzo palmo sotto le scarpe, non lasciavano credere di lei altro da quello che mostrava nell’apparenza, il geloso marito di Bettina insospettito dell’aria d’una maschera di quella qualità, che passeggiando con la moglie non si guardava di favellar con essa, incominciò a borbottare con gli amici chiedendo chi si fosse quel cavaliere, che si prendeva tanta licenza con le dame altrui. Ma non ritraendone contezza alcuna, ebbe finalmente ricorso a Vittorio suo parente; il quale benché avesse riconosciuta in camera la giovanetta; sí per non pubblicare i segreti di Glisomiro, sí per prendersi giuoco del geloso, rispose di non conoscerlo, ma poter giudicar dal portamento, ch’egli fosse cavaliere di qualche riguardo mentre si trattava da camerata con Glisomiro. Furono uno stilo nel cuore queste parole di Vittorio al buon geloso memore de’ passati accidenti con Glisomiro; il quale aveva altre volte danzato e favellato con la moglie con suo disgusto e sospetto. Onde postosele dietro tutto confuso, diedesi a raccogliere le parole d’Agnesina, e udí appunto, che le diceva:

«Signora: voi dovete essere ormai stanca di questo passeggio; ma io non saprei dove mettervi a sedere, essendo occupati tutti i luoghi. Penserei pertanto, che dovesse essere di vostra satisfazione, il ritirarvi per poco nelle stanze delle spose, dove si trattengono delle altre dame».

Niente rispose Bettina, ma il geloso entrato in sospetto di sua persona, nel girar che fece la moglie in capo della sala, trattosele davanti le disse, che se fosse stanca si mettesse a sedere, ch’egli le averebbe trovato luogo. Non gli rispose Bettina, e Agnesina avvedutasi da quel tratto chi si fosse quell’uomo, fingendosi sdegnata per dargli di quello che andava cercando, rivoltò prestamente Bettina ad altra parte, e seguitò nel suo passeggio. Il marito cattivo, e dolente di quel tratto

 

tanto peggio stimò ne’ suoi concetti

 

della persona di Agnesina, e tornato da Vittorio gli raccontò pazzamente quello che aveva inteso, aggravando d’indiscreta la fanciulla a tener tanto in ballo con sua pena e fastidio la moglie. Pregarlo però d’operare egli con quel cavaliere, perché la lasciasse in pace. Rise Vittorio, e disse che l’averebbe servito, e trattosi dietro ad Agnesina l’avvertí pianamente di quel disordine. Agnesina che era un diavoletto di femmina da non finir per poco quello che incominciava da scherzo, né daddovero; bizzarramente sdegnata di quel termine, e voluto compiacer Glisomiro divenuto l’anima sua; accennato ad Astolfo, che gli diede il primo fra’ piedi d’aprire la strada fra la calca de’ cavalieri e delle maschere s’avviò con essa verso le stanze di Domitilla. Il geloso, che perdea gli occhi dietro la moglie, veduto che dalle parole si passava all’esecuzione del consiglio di levarla dalla festa, trattosi a quella parte disse alla moglie che si fermasse. Agnesina a questo colpo non potè piú aver pazienza; ma strappatasi dal volto la bauta di sottilissimo velo:

«E dove, disse, cavalier villano, hai tu imparati i termini di conversar fra dame e cavalieri?».

E ciò dicendo datagli una mano sul volto impugnò una daga risoluta di maltrattarlo, cosí era questa fanciulla bizzaretta e risoluta. Ma trattisi oltre ad Astolfo in quella parte Vittorio, Guglielmo e Ariperto ne la impedirono frapponendosi fra il geloso e lei. E perché Agnesina strepitando piú da soldato, che da femminella voleva in ogni maniera affrontarsi con esso, e castigarlo; trattisi al rumore anche Lelio, Placido e Panfilo con altri cavalieri amici, si diedero a pregarla di rimetter del suo sdegno per non conturbare l’allegrezza di quel trattenimento con sí fatti disordini; mentre se avesse ricevuto qualche disgusto, erano là tutti per procurarle ogni desiderata satisfazione. Qual fosse intanto la maraviglia delle dame e de’ cavalieri al discoprirsi del volto bellissimo, e tanto piú bello quanto piú bizzarro e sdegnato di Agnesina, non è da raccontarsi. Basta che se bene il geloso avesse diversi amici e parenti su quella festa, tanto fu lontano che si movessero a favorirlo; che anzi non potendolo immaginare fuorché colpevole ne’ disgusti di cosí bella fanciulla, e dubbiosi di peggio nella sua persona che d’un risentimento femminile, s’avanzarono con destra maniera per metterlo in salvo. Ma il geloso, che oltre al non poterli dare ad intendere che Agnesina non fosse un cavaliere, si sentiva col dolore della ricevuta ingiuria occupata l’anima dal timore che la moglie volasse via senz’ale, dicendo d’esser’assassinato nell’onore e nella persona, non voleva lasciarsi consigliare al suo meglio. Ondeggiando in questa confusione la sala, mentre una parte de’ cavalieri s’affatica a placare Agnesina, e un’altra in consigliare il geloso; comparve improvviso Glisomiro, il quale al primo suono di quella novità, lasciato il cianciar delle dame che’l trattenevano, corse a vederne e, per quanto potesse, provvedervi. Parve che a questa comparsa quella faccia di mar tempestoso divenisse un’ombra di pittura, cosí tutti nell’ondeggiamento de’ propri pensieri tranquillarono le esterne azioni. Egli adunque trattosi avanti assistito da Ariperto e da Guglielmo volle intendere il motivo di quella novità, onde Vittorio, che n’era meglio d’ogni altro informato, gliele raccontò con riso de’ circostanti, e confusione grandissima del geloso, il quale avendo a suo dispetto riconosciuta Agnesina per donna, doppiamente scornato, e della sua stolta gelosia, e della ingiuria ricevuta, non avuto ardimento d’alzar la faccia in un congresso di tanta nobiltà, andò da se medesimo a nascondersi. Quinci ritornata ne’ cuori delle dame la sicurezza, e negli animi de’ cavalieri l’allegria, si ripigliarono le danze; e Glisomiro già discoperto, dopo d’avere scherzato alquanto con Agnesina, e con Alberta e Celinda, andò egli stesso a levare in danza Bettina, altrettanto confusa della imprudenza del marito, quanto consolata dalla cortesia del cavaliere, che le disse tutto quello che volle senza sospetto. Lelio intanto e Panfilo trattarono l’aggiustamento del geloso e di Agnesina; ma dichiarandosi la fanciulla e per bizzarria, e per artificio irreconciliabile, ed essendo troppo grave dall’altro lato l’affronto ricevuto dal cavaliere; sopissi per allora somigliante controversia per non moltiplicare i disordini, essendosi dichiarati per Agnesina con Ariperto, Guglielmo, Panfilo, Placido e lo stesso Vittorio (benché parente del geloso) tutti gli amici di Glisomiro lusingati dal bell’umore di quella fanciulla, che da pochi conosciuta veniva da tutti stimata damigella di condizione; tanto l’aveva la vivacità del suo spirito e la forza d’amore ingentilita e nobilitata.

Satisfatto ch’ebbe Glisomiro a se stesso, voluto cessare i disgusti, si tolse con Agnesina da quella sala, riducendosi nuovamente con la fanciulla, che per questa sua bizzarria era divenuta tutto il suo amore, nelle stanze degli sposi; mentre Laureta osservati i suoi andamenti quanto le piacque, uscita anch’essa di là andava machinando un’altra bizzarria d’amore nella sua propria casa. Ma poco potè per allora godere di questa ritiratezza Glisomiro. Aveva egli donato per contrassegno d’amore alla vaga Eufemia il suo ritratto rinchiuso in un ovato d’argento dorato in sembianza d’una mostra francese; che la inesperta giovanetta e troppo innamorata, portava quella sera pendente in fascia di zendado incarnato sotto il braccio sinistro all’uso appunto, che le dame oltramontane portano i loro piccoli orologi. Bizzarria, che essendo stata osservata da un tal mariuolo passato mascherato su quella festa, forse piú che per vaghezza di beltà di dame o di trattenimenti di danze, per somigliante qualità di tristizie gli cadde in pensiero d’involargliela, essendo la piú facil cosa del mondo in quella confusione di dame e di cavalieri, e nel danzare, e nel complir fra di loro. Né gli andò lungamente fallito il suo disegno; poiché levata in passeggio la giovanetta da un cavalier suo parente, il furbacchiotto trattosele dietro, seppe con tanta destrezza tagliar la fascia di seta, che’l sosteneva, che gli cadde in mano senza che alcuno, non che la giovanetta intenta al suo passeggio e a’ complimenti del suo parente, se ne avvedesse. Ben se ne avvide Eufemia nel risiedere; poiché allargatasele davanti al seno la fascia la vide miseramente vedovata del suo caro tesoro; e fu cosí grande il cordoglio che la sovraprese in vedersene priva, che data in un pianto disperatissimo mise le dame e i cavalieri in apprensione della sua persona. Accorsero tutti pertanto a consolarla, e Lelio prima d’ogni altro dolcemente la richiese della cagione di cosí disperato dolore. Eufemia potendo appena per soverchio affanno proferir parola, mostratogli la cinta troncata, singhiozzando rispose esserle stata involata la piú cara cosa che, dopo la persona di suo marito, ella avesse al mondo. Rimasero attoniti con Lelio gli altri cavalieri, che in luogo di tanto rispetto, e verso una dama di tanto merito, fosse stata commessa una tanta indignità; ma ben parve cosa mostruosa affatto il sentire la tenera giovanetta a soggiungere, che offeriva cento ongari in dono a chi le avesse restituita la borsetta involatale, e altrettanti a chi le avesse accusato l’involatore, e dichiararsi e giurare, che non avrebbe mai perdonato a colui che avesse avuto ardimento d’aprirla e di guastargliela, ma l’averebbe fatto gittare in pezzi a cani. La qualità del premio e del castigo proposti da Eufemia, e piú la fierezza ancora del suo cordoglio, mise con ragionevole sospetto un’apprensione grandissima nell’animo de’ cavalieri della importanza della cosa perduta. Incominciarono pertanto a consultar fra di loro la maniera di consolarla, e propose Placido il primo, che si facessero serrar le porte della sala per dar la caccia alla volpe, che aveva osato d’infamare cosí nobile radunanza con tanta ribalderia; poiché non essendo guari di tempo, che mancava ad Eufemia la sua gioia, potevasi agevolmente con l’esame delle dame e de’ cavalieri che l’avevano seguitata nel passeggio ritracciarne l’involatore. Piacque agli altri il consiglio di Placido, e chiuse immantenente le porte, chiesero prima all’addolorata giovanetta se sapesse da cui fosse stata seguitata nell’ultima danza, e intesolo, si diedero a esaminare segretamente le dame e i cavalieri nominati da lei per intendere se qualche persona incognita se le fosse appressata. Nessuno de’ cavalieri seppe che si dire, perché intenti a trattener le dame che servivano, non avevano avuto disposizione alcuna a pensare agli altrui interessi. Ma dalle dame, come quelle, che o per vaghezza, o per invidia, o per naturalezza di genio osservano curiosamente gli altrui andamenti, ebbero qualche lume di cosí fatto rigiro, e piú di tutti da Alberta, che ingelosita di sua persona per la domestichezza che passava con Glisomiro, faceva con diligentissimi sguardi quasi anotomia de’ suoi gesti e delle sue parole. Intanto Eufemia incapace di sofferire lo spietato cordoglio, che la consumava, toltasi di sala passò accompagnata da Eugenia e da Gelinda nelle stanze di Domitilla. Dove fattosele incontro Glisomiro, la giovanetta gittatasegli senza riguardo alcuno d’Eugenia e d’Agnesina, in braccio, voleva participargli l’asprissima cagione del suo grave cordoglio; ma soprafatta dal pianto non potè articolare pure un minimo accento. Glisomiro, sostenendo e accarezzando la dolente signora, chiese egli stesso a Celinda la cagione di cosí dolorosa novità; e intesala turbossene egli ancora oltremodo, e per l’estremo dolore della cara dama, e per la riputazion d’ambedue posta in pericolo dallo scoprimento de’ loro affetti. Pregatala pertanto di non affliggersi, perché gli dava l’animo di ricuperarle in breve il tesoro perduto, lasciolla raccomandata alla madre e ad Eugenia, e tornato prestamente in sala informossi brevemente dell’occorrente disordine: e poscia col pretesto dell’ora tarda, fatte col consenso di Lelio e degli sposi terminar le danze; ordinò che i cavalieri scoperti con l’altra gente civile parimente scoperta si traessero da una parte della sala (dalla quale sgombravano ancora tutte le dame per complire nelle loro stanze con le spose) e dall’altra si raccogliessero tutte le maschere, e poi consigliatosi con Ariperto prese in questa guisa a parlare:

«Signori, vi supplico di non imputarci a mancamento quel termine, che ne sforza a praticar con voi la necessità di consolare una dama afflitta per la perdita non d’una gioia, che non vale la metà di quello ch’essa vuol donare a chi gliela restituisce; ma della piú dolce memoria ch’ella conserva forse del suo sposo e signore, e però a lei piú cara della stessa vita. Chi di voi, signore maschere, è cavaliere gentile, e persona ben nata, e però incapace d’una tanta indignità, non dovrà riputarsi certamente ad ingiuria lo scoprirsi il volto in cosí nobile radunanza; ma se pure qualcheduno si trovasse tra di voi, che dubitasse scoprendosi di correre qualche pericolo, Lelio, Panfilo, Vittorio e tutti noi altri loro amici e servidori prendiamo sovra di noi il difenderlo e’l proteggerlo, ancorché fosse per altro nostro capital nemico, infino a che egli averà intorno l’abito di maschera, e farà dimora in questa casa. Compiacetevi pertanto, signori, di scoprirvi il volto, soltanto che noi vi vediamo, che vi rimetteremo immantenente nella vostra libertà o di trattenervi o d’andarvene a vostro piacere».

Aveva appena pronunziate Glisomiro quesle parole che già la maggior parte de’ mascherati s’era discoperta; tra quali essendo alcuni cavalieri amici, o di Lelio, o degli sposi, o di Glisomiro; essi nuovamente complito seco, e scusatisi di quella loro necessaria indiscrezione; diede Glisomiro accompagnato da Ariperto una scorsa con gli occhi da un capo all’alto della sala; e osservata una faccia d’uomo torbida e macilente, con due occhi quasi tinti di fuligine, e co’ capelli neri, crespi, curti e disordinati, saettatolo con uno sguardo terribile, e dicendo non so che parole, il fece tremar tutto da capo a’ piedi, e conobbe immantenente esser colui l’involatore del suo ritratto. Guardatolo poscia con fronte manco turbata prese con un amaro sorriso a dirgli:

«Meriteresti veramente, che s’eseguisse contro di te la sentenza pronunziata da Eufemia, perché piú non tornassi a infamare le adunanze delle dame e de’ cavalieri con le tue ladrerie; ma non vogliono questi signori funestare con un sangue sí vile l’allegrezza di questo giorno. Restituisci adunque le gioie involate, e vattene alla tua malora, e guarda bene di non di capitar mai piú sotto li occhi, perché non sarà sempre tempo di nozze».

Rimasero attoniti i circostanti: a somigliante giudicio di Glisomiro, ma il ladro era per la paura, e per la vergogna cosí fuor di se stesso, che non sapeva in qual parte del mondo fosse caduto. Onde Glisomiro e Ariperto fatti chiamarsi alcuni servidori di bassa lega comandarono loro di levargli d’addosso il furto, e di condurlo fuori di quella casa. Obbedirono, e non solamente la borsetta col ritratto di Glisomiro, ma gli trovarono ancora alcuni pezzetti d’argento e diversi ornamenti da donna rubati per quelle stanze, e a quelle dame. Questa veduta commosse a tanto sdegno quella nobile radunanza, che incominciarono ad esclamare essere opera di misericordia il far castigare un uomo tanto indegno, e scelerato. Ma Glisomiro lasciatolo alla discrezione della servitú, che a forza d’urti, di percosse e di villanie il trasse fuori di quella casa, tolta la sua borsetta, e detto ad Ariperto che provvedesse che le altre gioie fossero restituite alle padrone, passò volando dalla cara Eufemia, alla quale avendo presentata la sua carissima bizzarria, ella restò sovrapresa da tanto eccesso d’allegrezza, che fu vicina a trasmortire; ma ravvivata dalle carezze del cavaliere, si diede a ricevere con lietissima tranquillità di spirito le congratulazioni di Alberta, di Lisa, d’Eugenia, e d’altre dame amiche; e Glisomiro voluto satisfare in parte al disgusto, che potesse aver ricevuto qualcuno de’ cavalieri mascherati in discoprirsi con le loro dame; operò con Lelio e con gli sposi, ch’essi ancora participassero degli effetti della sua cortesia facendoli ricevere in una camera a parte a un nobile rinfrescamento di confezioni e di vini, quali in cosí breve spazio di tempo poterono apparecchiare. Dopo che non tolto seco che i suoi ospiti con Agnesina, si rimise in barca per tornare alla propria casa, chiedendo intanto ad Ariperto, che di bello avesse discorso su quella festa con alcuni cavalieri virtuosi suoi amici.

«Siamo, disse Ariperto, venuti a ragionamento sovra le rivoluzioni della corte ottomana, da che incominciò questa guerra, che Dio sa quando mai finirà; avendo io loro dato a vedere quanto si sieno ingannati gli scrittori della mossa d’Ibraino nel racconto di molti successi; perché essendomi trovato di persona a Costantinopoli, quando mancò Amurathe e gli successe Ibraino, e qualche anno dopo, ho avuto molta occasione di ridere d’alcune leggerezze, che ho trovate in cosí fatti racconti, tra le quali m’ha portato qualche ribrezzo il vedere Isuf Selectar, che fece la impresa di Canea, trattato da favorito d’Ibraino, quasi che essendo suo paggio egli abusasse della sua persona, mentre egli aveva forse piú anni d’Ibraino, o non di nazion croato e nato cristiano, ma dalmatino e turco nativo passasse a quella corte per altro, che per paggio del gran signore».

Qui Guglielmo soggiunse dicendo:

«E voi dite a noi ancora quello che ne sapete, se cosí ci piace, di questa novità».

«Dirolvi, soggiunse Ariperto. Nacque Isuf povero contadino del distretto di Vrana baronaggio d’Aliberi sangiacco di Licca, che venne con la prigionia del medesimo Aliberí presa, e distrutta dall’armi venete. Cresciuto alla fanciullezza e divenuto spiritoso, molto apprese di leggere e di scrivere. Onde venne dall’agente d’un Bassà; di cui di presente non mi ricordo il nome, ma certo suo nazionale, chiesto alla madre, perché passasse a servirlo con questo poco di virtú stimata oltremodo fra quella gente barbara e ignorante, per le loro domestiche occorrente. Partito Isuf di casa de’ suoi parenti cosí male in arnese, che camminava co’ piedi ignudi, ed alloggiato col suo condottiere in casa d’una povera donna del paese; ella mossa da zelo d’onore della sua nazione rimproverò a quell’uomo perché conducesse il fanciullo scalzo nella corte del gran signore, perché dovesse essergli un giorno rinfacciato, che vi fosse passato senza scarpe in piedi E di fatto il calzò secondo la sua povertà, e mandollo alla sua ventura. Pervenuto Isuf alla corte visse per qualche poco di tempo in qualche stima appresso il padrone; che mancato, e secondo l’uso di quella barbarie, dispersa la sua famiglia, ebbe Isuf tanto di fortuna, che potè passare come giovine forzuto, e ben disposto a servire di portalegne nella cucina del gran signore. Nel quale impiego durato qualche anno venne per grazia suprema trasportato nell’Ordine de’ giardinieri; gente, che si può nella sua bassezza chiamare la favorita del gran signore, perché tenendo con tutti gli altri suoi schiavi il supercilio barbarico, co’ soli giardinieri s’addomestca, tratta, e ragiona. Anzi che tenendo sovente consiglio ne’ medesimi giardini, dove si propongono quasi tutte le risoluzioni, che vengono poi maturate nel Divano; niente che abbiano costoro di spirito e d’accortezza, diventano pratichissimi degli arcani di stato di quella potentissima monarchia, ch’escludendo ogni ombra di nobiltà da’ suoi regni, porta i suoi medesimi schiavi alle piú eminenti dignità di quel vasto imperio. Mentre Isuf lavorava nel sudore del suo volto la terra de’ giardini reali, stava Ibraino rinchiuso in una Torre del Serraglio con tanta strettezza, che non avendo che una sola femmina mora e muta per suo servigio, ed essendogli morta in camera, gli convenne sopperire insino a che vi durò l’orrenda puzza del suo cadavere putrefatto. In cosí misero stato di fortuna s’affacciava talvolta l’infelice Ibraino a una ferrata riguardante sovra i giardini, dove osservato piú volte Isuf, vedutolo un giorno soletto gli disse: «Amico, io non voglio pregarti di favellarmi, o di farmi qualche servigio; perché so, che sarebbe un procurarti la morte dallo sdegno del re mio fratello. Obbedisci pure a’ suoi comandi, ma ben ti prego insieme di parlare talvolta teco stesso, e di cantar come sai, perché possa almeno conoscere se io sia fiera od uomo, vivo o morto». Isuf mosso a compassione di tanta miseria di sí gran principe, incominciò a ore inosservate a capitare in parte dove potesse essere inteso da Ibraino, e quasi favellando, e cantucchiando fra se stesso gli dava qualche avviso delle cose del mondo, e talvolta ancora il regalava di fiori e di frutti di quei giardini con gusto grandissimo d’Ibraino. Venne intanto a morte di soverchia crapula e bere Amurathe, che trattane l’ebrezza e la crudeltà sarebbe stato, vivendo, il maggior principe, che mai fiorisse nella casa Ottomana. Dopo che andati i Grandi della corte con questa novella alla prigion d’Ibraino (il piú infelice schiavo della terra diventa in quella casa in un attimo il maggior principe del mondo) l’uomo astuto, non pazzo, come veniva creduto, imaginato, che questa ambasciata fosse un’arte del fratello per farlo ammazzare, come aveva fatto gli altri suoi fratelli prima che andasse alla guerra di Persia: gravemente disse: «Conservi il grande Iddio lungamente il re mio fratello». Ma replicandogli i Bassà, ch’ei fosse morto, e che a lui toccasse la eredità di cosí vasto imperio, niente si mosse, continuando nella sua ritrosia e nelle preghiere a Dio per la conservazion d’Amurathe. Finalmente veduta la ostinazion dei Bassà in volerlo condurre fuori di quella prigione per acclamarlo re, disse: «Conservi lungamente il grande Iddio il re mio fratello; e quando pur fosse morto, che Dio non voglia; portatemi qui il suo cadavere». Gli fu portato, e Ibraino non credendo agli occhi propri volle toccarlo con le mani piú volte, e fino alitargli in bocca per sentire se tenesse piú spirito nelle vene. Pure al fine conosciutolo morto, alzatosi in piedi disse: «È morto un gran principe, ma insieme un gran tiranno». Acclamato imperadore Ibraino, il Gran Visire d’allora, che lo passava tuttavia per uomo stolido, voluto perpetuar se stesso nel supremo comando, dissipata la corte d’Amurathe in lontane cariche e governi, circondò la persona del novello gran signore di ministri, e servidori tutti dipendenti da se stesso in guisa, che Ibraino non teneva quasi altro d’Imperadore, che’l nome. La qual cosa riuscendo insopportabile a quella gente, non v’era però chi ardisse d’aprir bocca per non provocarsi la disgrazia. Finalmente operò il caso quello che non poteva la prudenza; perché postosi un giorno Ibraino a favellar domesticamente con un vecchio giardiniere, venne costui a insinuargli con una semplice libertà, ch’ei fosse di schiavo del fratello divenuto schiavo d’un suo proprio schiavo. «E come», disse Ibraino. E il vecchio: «E chi vedi tu, signore, appresso la tua persona de’ ministri, e servi del re tuo fratello? Tutta la gente, che ti serve è dipendente dal Gran Visire, che ti tiene in questa guisa assediato per dominare nel tuo Imperio a suo talento». Raccolte ch’ebbe Ibraino queste parole, le sepellí nel proprio seno senza darsene per inteso con persona del mondo. Non era ancora stata provveduta la carica di Selectar, che vuol dire soggetto assistente alla persona del Re nel suo domestico servigio; onde Ibraino voluto far prova della sua autorità, comandò, che s’apparecchiassero solenni feste nella sua corte, perch’egli voleva creare il Selectar. Novella, che portata al Primo Visire il mise in una strana apprensione di se medesimo. Passato adunque subitamente alla Corte, né voluto impugnare apertamente la risoluzione del principe, prese a rimostrargli, che non convenisse alla maestà reale il fare tante allegrezze d’un suo schiavo, quando erano solamente dovute alla coronazione del principe, e alle prosperità della sua casa. Ascoltò freddamente Ibraino questa rimostranza, e poi disse: «E che? Non posso io nobilitare chi mi piace?». E di fatto gli comandò, che si dovesse apparecchiare questa solennità, perché voleva creare in ogni maniera il Selectar. Fatta questa risoluzione, e ricordatosi de’ favori ricevuti dal povero giardiniere Isuf, mandollo subitamente a chiamare; e quando il misero turco si pensava, che come trasgressore degli ordini del re defonto dovesse in ricompensa de’ suoi servigi (quasi che potesse riuscire ad esso ancora infedele) farlo morire, si vide incontrato a braccia aperte, e baciato dal gran signore. Dopoché gli disse in segno di vero affetto, queste parole: «Isuf, nel tempo delle mie miserie tu solo fra gli uomini mi facesti conoscere che io vivessi ancora nel mondo de’ vivi, onde è dovere, che nel tempo delle mie prosperità mi ricordi delle mie obligazioni: ti dichiaro per tanto mio Selectar Bassà».

Voleva qui Ariperto raccontare le allegrezze fatte nella sua esaltazione, le macchinazioni del Primo Visir per sollevar la milizia de’ gianizzeri, e farle chiedere la testa di Selectar, che scoperte ne rimase il medesimo Visire strangolato e trascinato per Costantinopoli, ricadendo tutte le sue immense ricchezze ad Isuf, le cortesie usate dal nuovo Selectar alla donna, che l’aveva mandato calzato a quella corte, e altri successi della sua vita; ma pervenuta in questo mentre la gondola a tre remi a casa di Glisomiro, interruppe cosí fatto ragionamento; perché si dasse luogo ad una nuova stravaganza d’amore. Perché nell’entrar Glisomiro nelle sue camere trovossi incontro un bellissimo cavaliere vestito da campagna senza mantello, e armato di sola spada: il quale fattosegli incontro parlando il primo con molta avvenenza disse:

«Signore, vi prego di non vi conturbare prima d’avermi ascoltata».

Glisomiro ravvisata immantenente la voce e la grazia, se non la faccia della capricciosa Laureta, per non moltiplicar negli scandali, fatta subito da Astolfo abbassar la portiera, tra sdegnoso e clemente, le disse:

«E quale spirito v’ha portata a quest’ora e in quest’abito fuori di casa a cercare qualche precipizio della vostra riputazione con mettere anche a pericolo l’onore della famiglia, e forse la propria vita? M’avete voluto autenticare con sí precipitosa risoluzione quello che m’era detto di voi, che per trarvi i vostri capricci, non guardate pure alla sicurezza de’ vostri amici. E che? Vi pensate forse d’essere venuta in questa casa per mettermi legge co’ vostri capricci? V’ingannate certamente. E però apparecchiatevi pure di tornare avanti giorno donde siete partita, e se volete che io vi serva, governatevi con piú di prudenza, altramente vi protesto, che come v’abbia ricondotta alla vostra abitazione, non vorrò saper cosa alcuna di voi, come se non vi avessi mai conosciuta».

Laureta, che s’aspettava in quel primo empito assai di peggio, lieta di non vedersi che modestamente ripresa, richiamò ne gli occhi e nella bocca tutti gli artifici, che potevano suggerirle la fallacia del sesso, la vivacità del suo ingegno, la singolarità della sua educazione, e la risoluzione che aveva presa o di vivere con Glisomiro, o di morire senza di lui; ed entrò in questa guisa placidamente a parlare.

«Ben avete ragione, signor mio, di dolervi della mia temerità; ma non vorrei già, che prima di conoscermi mi trattaste peggio che non merito; che se abbia errato per vostro amore, ho saputo anche venire a trovarvi senza carico della mia riputazione essendo uscita di casa nella mia propria barca con una mia serva e Ghiandone, che voi m’avete mandato con la vostra canzone. Sono stata per poco in casa di Lelio ad osservare i vostri andamenti, e poi me ne sono venuta in casa vostra senza parlare con persona del mondo; ma risoluta di parlar con voi per vedere se dopo un’amicizia di tanti anni abbia da vivere, o da morir per voi. Sta qui fuori la mia serva; e da basso Ghiandone; informatevi da loro se in questa mia azione di travestirmi per vostro amore, e d’andare attorno di notte abbia fatto cosa indegna di capitare alla vostra presenza. So che le mie nemiche v’han dato delle cattive informazioni della mia persona, ma poco m’importa, né meno gli dovereste voi dar orecchio. Voglio che mi conosciate alla prova. Voglio che sia vera la fama sparsa da loro, che io non sia donzella; ma ben posso giurarvi per la vostra vita, che uomo del mondo non può vantarsi d’avermi pur baciata una mano, non che violata la mia persona. Fui io una pazzarella a voler provare per dispetto di chi voleva imprigionarmi a mio dispetto qualche parte di quelle consolazioni, che gli uomini m’avevano empiamente interdette: mentre il cielo mi lascia la mia libertà dell’arbitrio per potermi eleggere il bene o’l male a mio piacere. La disperazione fa commettere a gli uomini e alle donne di peggiori delitti de’ miei trascorsi giovanili, che non sono finalmente stati che scherzi d’un capriccio femminile, non sceleraggine di un’anima maliziosa. E quando anche avessi commesso qualche mancamento con altri, che non è vero, o contro me stessa, chi s’ha da prendere questo fastidio? Quante donne fanno peggio di me e si lasciano fare? Giuro al cielo, che quelle ipocritone, che m’accusano d’empia e di lasciva sono peggiori di me a cento per uno. Se ho tenute e difese delle cattive opinioni, bisogna considerare in che stato di disperazione mi ritrovassi. Se i miei parenti m’avessero, quando il dovevano, maritata, non le averei pur sognate: ma l’ozio, la solitudine, e la disperazione mi fecero riuscir piú libera di quello, che il mio proprio genio mi permettesse. E poi, molte cose si dicono per bizzarria nelle conversazioni, che non si farebbono daddovero. Anche io diceva, che le donne savie per cangiar fortuna deono cangiar spesso amore: e che bella donna e gentile sollicitata da numeroso stuolo di degni amanti,

 

se d’un solo è contenta, e gli altri sprezza,

o non è donna, o s’è pur donna è sciocca.

 

E pure con tutte le mie ciancie nessuna potrà mai oppormi che io abbia avuto (trattone voi stesso) pure un amico di confidenza, benché abbia conservato diversi per complimento; dove potrei io rinfacciare molte delle mie sante avversarie, che ne tengono un per occhio, un per manca, e forse piú d’uno ancora nel seno. Soleva dire la vostra Laura, che sia in cielo, che per un buon amico si può far di tutto, salva la propria onestà, e io che sapeva che ella portava questa opinione in riguardo alla vostra persona, che io riguardava con occhio piú amoroso di lei, diceva che non fosse mai meglio spesa l’onestà, che per le satisfazioni d’un buon amico. Ma chi è colei, e chi è colui, che possa rimproverarmi, che uomo alcuno m’abbia pur toccato lascivamente una mano? E voi stesso, che siete quel solo che m’ha precipitata in un amor disperato; dite un poco a voi stesso se abbiate mai avuto da me altro che fiori e venti di speranze e di desideri senza mai cogliere frutto alcuno di questo mio amore? E che vorreste da me, caro signore, che m’avete scritto:

 

Ma se pur tu sei l’Aura

non temperar l’ardore,

non tranquillare i flebili tormenti,

non fugare il timore

s’altro dar non mi déi che fiori e venti.

 

Che vorreste da me? Che posso io darvi altro che fiori e venti; mentre l’avermi sempre disperata d’amore affermandomi di non volervi ammogliare, m’ha sempre tenuta ne’ termini del rispetto dovuto alla mia onestà, e nella risoluzione di non maritarmi ad altri per non privarmi della vostra conversazione? Voi pure il sapete, e ora venite a rinfacciarmi di non aver mai ricevuto, e di non voler piú, che fiori e venti? Se altro bramate dal mio amore; sapete il vostro debito, e la mia volontà: ma bisogna certamente, che le mie nemiche v’abbiano esse dato altro che fiori e venti, poiché incominciate a pretendere di piú ancora che venti e fiori da Laureta. Ma passo ad altro, perché non sono qui terminate le mie querele. M’oppongono ancora le mie avversarie diverse altre bizzarrie, che, o per ischerzo, o per vanità, o per averle imparate da altri mi sono uscite talvolta di bocca. Ma esse, che non dicono? Anzi che non fanno? Se io ho cianciato, ed esse han fatto. E che altro si poteva aspettare da una giovane donna oziosa, morbida e disperata, che mille bizzarrie d’ingegno, e mille vanità di lingua? Mi dovevano i miei parenti maritare nel fior degli anni, e non tenermi per tanto tempo imprigionata contra mia voglia, se non volevano che pensassi delle bizzarrie, e dicessi delle vanità. Che se negli anni piú freschi, che non conosceva ancora nessuno, io avessi avuto un marito di mio gusto sarei stata la piú onesta dama del mondo, perché se bene io ancora mi fossi compiacciuta, come fanno tutte le femmine, di vedermi amata, e vagheggiata per la mia bellezza, tuttavolta per non avvilirmi nel concetto degli amanti non averei mai mancato a mio marito. E se questa non sia virtú d’animo incontaminato, basta che io sarei stata fedele della mia vita; che tanto dee bastare a un savio marito a cui non tocca d’entrare ne’ penetrali dell’animo: sapendo bene che questo è difetto di tutte le donne per oneste e sante che sieno, di compiacersi d’essere amate e vagheggiate per la loro bellezza dagli uomini; benché non pensino punto di mancare a se stesse, né all’onore del proprio marito».

Non si poteva tener di non ridere Glisomiro anche nella serietà de’ suoi pensieri, intorno al trascorso della bella dama, sentendola favellare con efficacia, confidenza, grazia, e sicurezza grandissima de’ propri interessi. Onde veduto, che si fosse a questo punto fermata per prendere un poco di spirito, lusingatole piacevolmente il volto con tanta sua consolazione, che gliene baciò (principio di caduta) cento volte la mano; prese con maniera di scherzo a dirle:

«Tutto va bene, cara Laureta, e io voglio credere tutto quel che mi dite: ma il mangiar carne d’ogni tipo, il farsi beffe de’ riti della religione, nella quale siete nata e nudrita, e’l tenere insomma una vita da epicurea senza alcuna apprensione delle cose divine, e che vuole egli dire?».

Sospirò Lamela, tenendo tuttavia la mano del cavaliere, e crollando dolcemente la testa, rispose:

«Cappita. Me l’hanno bene appiccata! Ma non hanno già tutta la ragione, che si pensano. Se non fossero femmine sciocche le mie avversarie non mi tratterebbono da ateista; mentre non sono mai stata, che una semplice naturalista ne’ miei pensieri e discorsi, senza portare la mia apprensione da i coppi in su. La natura m’insegna che la donna è stata creata per l’uomo, e l’uomo per la donna. Ora se io ho desiderato un marito, che colpa è la mia a desiderare quello per cui sono stata creata? E quale è quella donna che nol desideri? I miei parenti infin che vissero mel negarono per valersi della mia dote ne’ loro capricci, o interessi; e chi poteva vietarmi, che io ancora non me ne provvedessi; o non potendo avere un marito, non mi buscassi (come fanno dell’altre) un qualche amico? Vi confesso, che quando i miei parenti mi tenevano carcerata, che se avessi incontrata o l’una o l’altra fortuna, l’averei per dispetto piú che per amore abbracciata. Ma dopo che mi sono trovata nella mia libertà, e padrona di casa mia; ho cangiato pensieri, e non potendo aver voi per marito non ho voluto né voi, né altri per amico. Che se l’avessi fatto, non avereste avuto occasione di rimproverarmi di non aver mai da me ricevuto che fiori e venti: e non avereste forse avuto da qualchedun’altra di meglio, che speranze e desiri: non perché non sappia, che voi altri uomini siate incontentabili d’una sola donna; ma perché e conoscendo il vostro genio assai modesto e affettuoso, e me stessa non indegna d’amore, mi sarei confidata nella vostra gentilezza, che quando m’aveste posseduta, non m’avereste mai abbandonata per altra donna; mentre m’avereste ancora conosciuta non quale m’accusano le mie nemiche femmina disoluta; ma quale io sono, onesta dama contenta d’un solo amore. E se non di quella semplicità, che forse potreste pretendere in una donzella mia pari; incolpatene non il mio genio, ma la maniera della vita, nella quale sono stata allevata. Ma dicono d’avvantaggio le mie nemiche, che io mangio carne tutto l’anno. Pazze! Ma se la dilicatezza del mio gusto tutta si contamina in solamente vedere il pesce, non che in mangiarlo, né’l posso ritenere pure un momento nello stomaco senza gravissimi affanni; ho dunque da uccidermi con un cibo, che non conferisce alla mia complessione? E le mie sciocche avversarie attribuiscono a difetto di pietà nella mia persona, quello che forse praticano esse per fini indegni, né io l’apprendo che per una inevitabil necessità di conservare quella vita, in cui riguardo si dispensano tutte le leggi del mondo? Ma vanno piú avanti, e mi toccano d’empietà e d’ateismo, perché ho sempre voluto vivere a mio modo, e non conformarsi all’usanza di quelle, che sanno ingannare il mondo con le ipocrisie. O quanto averei qui da dire! Ma non voglio saper favellare in questa materia. Basta, che quelle che sanno tacere sono stimate sante, e io, che porto il cuor su la lingua sono stimata un diavolo. Cosí va bene la faccenda a diritto. Quelle, che m’accusano d’empietà con Dio e di disolutezza con gli uomini, benché maritate, oneste e sante v’han dato tutto quello, che v’è piaciuto; e da Laureta, benché libera, ateista e disoluta, non avete avuto in dieci anni d’amicizia, che fiori e venti; e questa è la prima volta dopo tanti anni di confidenza e d’amore, che m’avete lusingato il volto, e ch’io v’ho baciata una mano. Ah Glisomiro! So pur, che siete savio per altri, e nol sarete ancora per Laureta? Non conoscete la falsità delle mie querele, la verità della mia innocenza? E perché dunque m’abbandonate per altre donne? Forse perché v’abbia offesa con la mia imperiosità di volervi obligare a maritare ad altri Drusilla? Ma ella è già maritata, e voi m’avete sempre detto, che non si ricevono offese in amore. Forse perché io sia quale mi dipingono le mie avversarie? Ma se voi stesso mi conoscete tutta diversa: perché vi servite d’un falso pretesto per commettere una vera ingiustizia? Forse, perché non v’ho mai dato che fiori e venti, e dell’altre vi danno de’ frutti d’amore? Ma di chi è la colpa, o di chi m’ha disperata sempre o di me, che ho sempre desiderato, che i nostri frutti sieno legittimi, e santi?».

Sarebbe andata piú avanti nel suo amoroso trascorso Laureta risoluta di vedere in quella notte il fine delle sue pretensioni col cavaliere, perché conosciuto e per se stessa, e per le parole di Cillia, che fosse già caduto nelle reti amorose di qualche dama; e (che era piú certo) tenesse già a sua disposizione Agnesina; tutta morta d’amore, e di gelosia, stava quasi per acconsentire, quando non avesse voluto sposarla, di fare una sola casa con esso in qualunque maniera gli fosse piaciuto per chiudere in questa guisa l’adito della sua amicizia ad ogni altra donna; e licenziare dal suo servigio Agnesina, alla quale destinava già nel suo concetto essa la dote Ma interruppe i suoi dolci disegni Cillia entrata a dire al cavaliere, che essendo già apparecchiato fosse aspettato dagli ospiti a cena. La creanza sforzò Glisomiro ad invitarvi ancora Laureta, che accettato di buona voglia l’invito, con cignersi solamente sotto la falda della robiglia una vesta e una traversa di Cillia si rimise in portamento di femmina. Cenossi adunque domesticamente; e Laureta, che non perdeva di vista l’amato cavaliere, veduto che se bene non lasciasse di compiacersi della sua bellezza, gittava però d’ora in ora gli occhi sovra Beatrice, non potè ritenersi, sí che non gli dasse qualche motto della sua instabilità. Onde egli voluto scherzare seco a tavola, e farla dire, le rispose con un concetto tolto da un poeta greco, e portato da esso nel nostro idioma in quella maniera:

 

Famelico angelletto il volo errante

ferma colà dove bell’esca il tira,

e mentre un gran ne coglie, a un altro aspira.

Io famelico amante

di ninfe in lieto coro

lodo ben di Leucippe il crino d’oro,

l’occhio ridente, e’l bel labbro vermiglio;

ma di Cloride ancora il vago ciglio

la bella bocca, e’l biondo crin m’alletta,

cosí nel vagheggiar la schiera eletta,

onde Amor tende l’esca al mio desiro

amo Leucippe, e Cloride sospiro.

 

«Graziosamente, disse Laureta: ma gli uccelletti nel tener d’occhio all’esca mentre l’ingoiano vengono sovente colti alla rete di qualche disgrazia: e però guardate voi ancora, signor mio, che per troppo volere non perdiate ogni cosa ad un tratto».

Sorrise Glisomiro, e disse:

«Tanto di male a un vostro servo? Ella è troppa crudeltà. Non sapete quel che diceva Laura, che le offese, che fanno gli uomini alle donne in questa parte non toccano loro la pelle; ma quelle, che fanno le donne a gli uomini passano loro il cuore?».

«Il so, disse Laureta, ma pure ella è troppo dura cosa il vedere che altri si colga il frutto delle proprie fatiche».

Qui Glisomiro cangiato suono e voluto quietar l’umoretto della bella dama, che amando daddovero si lasciava agevolmente persuadere quello che desiderava, d’esser amata, picevolmente disse:

 

Perché a varie bellezze

il guardo intento io giro,

stimi, che beltà varie il mio cor ami,

e però, Clori mia, vario mi chiami.

Ma non è vario il mio desio d’amore,

che se pur vario ho il guardo, ho fermo il core;

e nel piacer di mille rai disciolto

solo aspiro al piacer del tuo bel volto.

Cosí con varie tempre, e vario giro

girare il mondo suole;

ma non fallir giammai sua sfera il sole.

 

Sospirò Laureta, e disse:

«Le opere non corrispondono alle parole».

«Mai sí, disse Glisomiro; che se bene l’esca è diversa, è però un solo desiderio d’amore».

Non intese Laureta l’acutezza di questo motto; e appagatasi d’una volante apprensione fissò gli occhi sfavillanti di giocondissimi raggi amorosi nel volto del cavaliere. Ma quello che dopo cena avvenisse tra Glisomiro e Laureta, io nol saprei agevolmente indovinare con la mia fantasia; perché avendo il cavaliere servita la dama sino alla propria casa, e avendo già rimandato l’ortolano a Torcello, né servendo piú Ghiandone di remigante, anche la gondola a tre remi era tornata nel suo primo essere, avendola il cavaliere licenziata dal suo servigio, per servirsi di quella di Laureta infino a che ne avesse fatto fabbricare un’altra piú bella. Con la quale se ci verrà notizia che gli sieno succeduti nuovi accidenti d’amore e di fortuna, non mancheremo di tesserne in un altro Carnevale per nostro passatempo qualche racconto.

 

IL FINE

 

 




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