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Maria Antonietta Torriani Torelli-Viollier alias Marchesa Colombi Senz'amore IntraText CT - Lettura del testo |
III.
Da quel giorno il nuovo Vincenzo Dogliani, quel personaggio di cui non si poteva parlare ad alta voce, e che aveva una storia, divenne, nella immaginazione de' suoi cugini, una specie di eroe da romanzo. Lo chiamavano Vicenzino per distinguerlo dal primo Vincenzo, ed appena questi tornava dalla scuola, le sorelline, curiose di qualsiasi informazioni sul cuginetto, domandavano:
- E Vicenzino?
Vincenzo dal canto suo era sempre pronto a darne notizie.
- Il suo compito è stato il più bello della scuola, Ha avuto nove in geografia. Quest'altro mese avrà la medaglia...
Ma le ragazze preferivano altri particolari meno scolastici. Volevano sapere se era bello, e quanto era alto, e dove abitava, e se il suo babbo non lo accompagnava alla scuola; e, soprattutto, una domanda ripetevano ansiosamente ogni giorno:
- Non gli hai parlato?
Sgraziatamente ci volle del tempo avanti che Vincenzo potesse rispondere di sì. Vicenzino si teneva in disparte, ed evitava studiatamente il cugino. Egli conosceva i rapporti di parentela che univano le due famiglie, e le cause che le avevano disunite.
Aveva poco più di dodici anni, ma era un fanciullo riflessivo, e la sua intelligenza si era sviluppata presto, grazie alla vita avventurosa che gli era toccata. Aveva veduto da piccino il babbo e la mamma godersela in continui spassi, poi piangere e smaniare perchè avevano speso troppo. Poi, a cinque anni, era stato trasportato a Genova, e di là sopra un bastimento; e, durante il lungo tragitto, aveva udito suo padre parlare con esaltazione del dono generoso del fratello, e dei disegni di speculazioni che faceva lui per far fruttare quel danaro, il quale doveva essere la sua salvezza e la sua fortuna.
Poi, laggiù in America, erano tornati i mali giorni, i debiti, i guai, e si erano scritte lettere al fratello di Santhià sperando da lui altri soccorsi. E per quanto, vedendo che le sue lettere rimanevano senza risposta ed i soccorsi non giungevano, il signor Teodoro, dimentico del beneficio ricevuto, accusasse il fratello di avarizia e di non aver cuore, Vicenzino si ricordava quanto aveva udito prima, ed il sacrificio che lo zio aveva fatto per loro, e capiva dov'era la ragione e dove il torto. In America avevano cominciato dallo stringere molte relazioni nella colonia europea; dal dar pranzi e serate, dal fare i gran signori. Il signor Teodoro diceva che questo acquistava credito; e così le ventimila lire erano sfumate, e dietro quelle erano sfumati anche i nuovi amici. E quando Vicenzino aveva veduto la sua casa nella miseria, e più tardi la mamma, che non era più elegante nè bella, deperire ogni giorno senza nessuno che l'assistesse, aveva pensato spesso a quei parenti di Santhià che non aveva mai veduti, ma che dovevano esser buoni perchè avevano dato tutto il loro avere al suo babbo in un giorno di sventura. Poi aveva pensato, perchè mai non li aveva conosciuti quei parenti; perchè mai il suo babbo e la sua mamma non li frequentavano affatto quando erano nella prosperità, o, almeno, quando se la spassavano? E perchè avevano ricorso a loro quando s'erano trovati in quel gran guaio ed abbandonati da tutti? Lo sapevano dunque che quelli erano più buoni di tutti? Che erano capaci di perdonare il loro lungo abbandono, la loro noncuranza, e di fare del bene senza badare al proprio risentimento, soltanto perchè gli altri ne avevano bisogno e perchè era bene? Aveva pensato tutto questo il piccolo Vicenzino; ed il suo cuoricino di bimbo si struggeva di tenerezza per quegli zii che avevano soccorso il suo babbo.
Dacchè aveva cominciato a ragionare, il suo babbo era stato l'amore, la gioia ed il cruccio della sua giovane vita. Mentre la sua mente precoce vedeva e riconosceva i torti di quell'uomo, il suo cuore ne era affascinato. La madre non lo aveva mai vezzeggiato molto; il suo amor proprio di bella donna non era lusingato dall'aspetto malaticcio di quel bimbo, che fino ai cinque anni era stato quasi incapace di camminare; e quando il bimbo, un po' rinvigorito, aveva cominciato a crescere, a muoversi come gli altri, e ad essere ammirato per la sua bellezza gracile ed un po' effeminata, la povera donna era già tanto ammalata che non prendeva più interesse a nulla.
Il padre invece, dacchè suo figlio aveva sviluppata quella gentile ed esile persona, che gli dava l'aria d'un piccolo principe, dacchè quel volto bianco, quegli occhi turchini, quei lineamenti delicati avevano perduta l'espressione penosa della sofferenza, andava superbo della bellezza del fanciullo; lo chiamava «il suo arcangelo biondo», si gloriava di lui come si era gloriato della moglie quando questa era stata oggetto dell'ammirazione di tutti, più per vanità che per intensità d'affetto. Il signor Teodoro aveva sempre bisogno di insuperbirsi di qualche cosa, di vantare una superiorità qualsiasi. Altre volte era andato superbo del suo lusso, della vita signorile che menava, del denaro che spendeva. Ora di denaro non ne aveva più, ma gli erano rimaste le idee grandiose, alle quali credeva in buona fede: immaginava delle speculazioni impossibili, dei grandi affittamenti di terreni da pagarsi dopo il primo raccolto, che, ben inteso, doveva essere abbondantissimo, e diceva:
- Lasciate soltanto ch'io abbia concluso questo contratto, e poi vedrete come farò presto a rifarmi un patrimonio. Pago tanto, raccolgo tanto; mi resta tanto di guadagno; e l'anno venturo con questa somma in commercio posso cavarne tanto...
Era la storia della donna dal paniere d'ova.
E le sue ricchezze avvenire, dacchè nè lui nè la moglie non erano più giovani, le destinava a far brillare suo figlio.
- Ti metterò nel primo collegio d'America; ne uscirai con un'educazione da principe; e quando ti condurrò in Italia ti saranno aperte tutte le vie. Ti faranno deputato, senatore, ministro....
Si eccitava a quelle idee magnifiche e vane; rizzava orgogliosamente il capo, s'impettiva, gli brillavano gli occhi e si sentiva veramente felice, come se quei sogni fossero già avverati, ed egli fosse già il padre fortunato del primo diplomatico d'Italia.
Se per caso si trovava in possesso di una piccola somma, trascurava di pagare i debiti, di comperare le cose più necessarie, per portare un abito o un berretto nuovo a Vicenzino.
- Voglio che tu figuri bene, gli diceva contemplandolo; hai un grande avvenire, ma per raggiungerlo è necessario salvare le apparenze. Il mondo è leggiero, e ci bada molto alle apparenze. Voglio che t'ammirino fin d'ora, e che questi americani capiscano che non sei un ragazzo comune.
Vicenzino si sentiva intenerito da quelle dimostrazioni, e non osava respingere i doni del padre per timore di affliggerlo. Pensava: «Povero babbo, mi vuol tanto bene che fa delle pazzie per me». Ed adorava quel padre puerile come un gran fanciullone ingenuo, che ha bisogno di molta indulgenza. Specialmente dopo la morte di sua madre aveva riportato su quell'unico parente tutto l'affetto del suo cuore.
Avrebbe voluto poter consacrare al suo idolo una stima pari all'amore. Ma non poteva dimenticare il fatto delle ventimila lire.
Quando poi era tornato in Italia, quel pensiero aveva preso a tormentarlo come un incubo. Gli pareva che tutti conoscessero l'ingratitudine di suo padre, la sua slealtà, e che lo disprezzassero; ed egli si sentiva umiliato, e soffriva dolorosamente di quel disprezzo. Uscendo nella strada col babbo, gli parlava con atti di devozione, tratto tratto gli baciava la mano, come per dire alla gente: «Vedete come lo onoro, io che lo conosco davvicino?» Reagiva contro il giudizio del pubblico, che in fondo era anche il suo, e pretendeva di modificarlo.
Ma quelli che lo intimidivano di più, erano i suoi parenti sconosciuti. Si figurava la casa da dove erano uscite le ventimila lire indimenticabili, come il tempio di tutte le virtù, e lo zio, grande e terribile come il Padre Eterno nella sua giustizia offesa, lo faceva tremare.
Suo padre invece, nella sua inesauribile vanità, non avendo altro di cui far pompa pel momento, faceva pompa di quel fratello stimato e ricco. Gli attribuiva un patrimonio immaginario, e diceva ai vicini di casa:
- Conoscete il signor Anselmo Dogliani, quel riccone?.... Non sembra, perchè è modesto, ma se ne ha di quattrini! Io lo so perchè sono suo fratello.
Gli operai che abitavano l'umile casamento in cui s'era alloggiato lui, non la sapevano tanto lunga; per loro chiunque non lavorava a giornata era un signore, ed ammiravano compiacentemente quell'inquilino fanfarone, che aveva una parentela così ricca; tanto, in quelle ore di riposo, non avevano di meglio a fare.
E l'altro, lusingato, tirava via a raccontare come un giorno il fratello gli avesse dato ventimila lire (qualche volta diceva trenta, cinquanta) così sulle unghie; e soggiungeva, tronfio come un tacchino che fa la ruota:
- Sono passate tutte per queste mani; e ci è passato ben altro! Se ne gloriava; non provava nè riconoscenza pel fratello, nè vergogna di sè. Si sentiva superiore a quei poveri, ed era felice.
Quando Vicenzino era stato alla vigilia d'andare alla scuola, gli aveva detto in presenza dei vicini:
- Domattina alla scuola troverai tuo cugino, il figlio di mio fratello Anselmo. Si chiama Vincenzo Dogliani come te. È il nome di nostro padre...
Vicenzino si era fatto tutto rosso. Lui, piccino com'era, non traeva vanto di quella parentela; si sentiva sulle spalle tutti i torti del padre, e l'idea di trovarsi in faccia al cugino lo faceva piangere di vergogna.
Appena entrato nella scuola aveva cercato ansiosamente di indovinare qual'era il figlio di suo zio; ma non aveva osato domandarne a nessuno.
Poi lo aveva veduto vestito da prete, e questo aumentava la sua suggezione. Quel costume eccezionale formava l'orgoglio di Vincenzo e l'ammirazione de' suoi compagni. Quei riccoli provinciali di Santhià consideravano il neo chierico come un ragazzo serbato ad alti destini. Sapevano che aveva avuto un pro-zio arcivescovo, dal quale proveniva il benefizio ereditario nella sua famiglia; e ripensavano il piviale d'oro e la mitra dell'arcivescovo di Vercelli, che era stato l'anno innanzi a Santhià per amministrare la cresima. Si figuravano di vedere Vincenzo vestito a quel modo, in mezzo ad una nuvola d'incenso, sotto un baldacchino bianco ed oro, con tanti preti intorno, andare in giro pian piano per la chiesa, dando degli schiaffettini con due dita sulle guancie arrossate dei bimbi, e susurrando delle parole latine. Di certo non poteva essere un ragazzo come gli altri, uno che doveva arrivare a codesto, ed i suoi compagni avevano per lui un certo rispetto.
Vicenzino si sentì addirittura avvilito da quella futura autorità ecclesiastica. Gli parve che Vincenzo fosse prete apposta, per presentare i torti di suo padre al tribunale divino. Si rannicchiò, si rimpicciolì nel suo angolo remoto da ultimo venuto, ed evitò persino di guardare il cugino, e se ne tenne lontano come un reprobo dall'altare. Gli pareva ad ogni momento di vederselo venire innanzi a chiamarlo «figlio d'un ingrato». Nella sua mente paragonava i due fratelli Dogliani ad Abele e Caino, e tremava di vergogna e di spavento.
Invece Vincenzo, che ammirava il parente sconosciuto, per quanto c'era di meraviglioso nella sua storia di grandezza, e di miseria, e di emigrazione in paesi lontani, era anche lui in suggezione e non osava avvicinarlo. E Vicenzino, interpretando anche questo a suo modo, pensava: «Ecco, mi sfugge; suo padre gli ha proibito di parlarmi». E non ebbe neppure un momento l'idea temeraria di opporsi a quel giusto divieto. Continuò a stare in disparte, a non parlare, a non giocare con nessuno.
Studiava; lo faceva per inclinazione, e per diventare un grand'uomo, come diceva suo padre. Aveva un ideale, un ideale serio e senza azzurro, ben differente dagli ideali fantastici dei fanciulli; un ideale prosaico da uomo venale: «Guadagnare ventimila lire».