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Maria Antonietta Torriani Torelli-Viollier alias Marchesa Colombi Senz'amore IntraText CT - Lettura del testo |
VI.
Tutto questo accadeva nell'autunno del 1859. Ai primi di novembre Vincenzo, che aveva appena compiti i tredici anni, partì da Santhià per andare in seminario a Novara.
Il benefizio, legato alla famiglia Dogliani da uno zio arcivescovo di Vercelli, non era molto grasso. Era un capitale di trentamila lire investite nella casetta abitata dal signor Anselmo ed in un fondo che egli coltivava con ogni cura per cavarne il maggior frutto possibile.
Nei piccoli paesi si vive con poco, e quel fondo e un altro dell'egual misura all'incirca, che il signor Dogliani prendeva in affitto, gli fornivano un'entrata magra, ma sufficiente per vivere co' suoi quattro figliuoli.
Aveva indugiato a mettere Vincenzo in seminario finchè non avesse passate tutte le classi che poteva fare in paese, dove c'era un ginnasio di terza classe per tardare quanto più era possibile ad aggravare il bilancio di famiglia con quella pensione.
L'avversione che Vincenzo aveva sempre dimostrata pel latino aveva tenuto in pensiero il signor Anselmo tutti quegli anni. Se suo figlio fosse fallito agli esami, se fosse stato dichiarato assolutamente inabile a quello studio, avrebbe dovuto rinunciare a fargli percorrere la carriera ecclesiastica, e per conseguenza al benefizio; e la famiglia sarebbe rimasta senz'altro mezzo di sussistenza che il lavoro di lui, già avanti negli anni, che poteva mancare da un giorno all'altro e lasciare i figli nella miseria.
Per tutte queste considerazioni la buona riuscita dell'esame aveva assunta tanta importanza, ed aveva disposto l'animo del padre ad una gran deferenza per quel fanciullo, che considerava come il sostegno della casa e delle bambine.
Nella quiete del seminario Vincenzo si propose di lavorare seriamente per non deludere le aspettative di suo padre, che aveva riposta tanta fiducia in lui. L'intelligenza non gli mancava, e meno libero, meno distratto, fra condiscepoli già avvezzi alla disciplina della comunità, che giuocavano poco e studiavano seriamente, potè egli pure applicarsi con ardore a vincere le difficoltà dello studio. Non riescì mai a distinguersi fra i primi della scuola, ma superò d'anno in anno gli esami, e, compiuti gli studi liceali, ricevette gli ordini minori, e fu ammesso al primo corso di teologia.
Fin dai primi mesi della loro separazione, Vicenzino aveva cominciato a scrivergli, e quelle lettere, giungendogli nella lontananza di tutti i suoi, nel raccoglimento di una vita uniforme e quieta, gli avevano risvegliata la fantasia. Quelle proposte d'amicizia fervente ed eroica lo avevano appassionato, ed egli aveva riposto in quell'affetto tutto l'ardore che metteva prima nei giochi e nei piaceri. Si erano scambiati giuramenti di completa fiducia, e di reciproco aiuto, a costo di qualunque sacrificio.
Anche Vicenzino aveva lasciato quasi subito Santhià. Suo padre era riescito a collocarsi come fattore in un tenimento signorile presso Vercelli, dove mandava a scuola il figlio per fargli continuare gli studi liceali, dopo i quali intendeva che andasse a Torino all'Università, e prendesse una laurea. Era la sua ambizione, ed in essa aveva attinto il coraggio di cercare un impiego e di adattarvisi, il che gli costava non lieve sacrifizio, sebbene lo avesse ridotto ad una specie di sinecura. Si consolava facendola da despota e signore coi contadini suoi dipendenti. Intanto il fanciullo, intelligente ed amante dello studio, faceva progressi meravigliosi.
Così i due giovani amici erano giunti uno a diciotto, l'altro a dicianove anni, senza essersi più riveduti. Nell'inverno del 1864 Vincenzo trovò nella biblioteca del seminario, fra i libri che era permesso agli alunni di leggere: Il primato morale e civile degl'Italiani, di Gioberti. E, dopo avere scorse le prime pagine con fatica, si era venuto via via interessando a quella lettura, che gli aveva ravvivato nel cuore il sentimento patriottico fino allora latente. Provò un vivissimo desiderio di saperne di più, e, non trovando altre opere di quel genere, ne domandò ad un compagno, il quale poteva avere dei libri per mezzo di un fratello, che glieli consegnava di nascosto nelle visite domenicali. Cosi lesse Le speranze d'Italia, del Balbo. E quelle vecchie speranze, in gran parte conseguite, gli fecero palpitare il cuore. Ripensò quell'immenso passaggio di soldati francesi che aveva veduti nel 59. Suo padre, con una coccarda tricolore sul cappello, lo aveva condotto a Vercelli, dove, in piedi sopra un tavolino da caffè, aveva veduto per ore ed ore sfilare soldati e baionette, ed aveva udito gridare: «Viva l'Italia! Viva l'Italia!» Anche lui aveva gridato colla sua esile vocina da fanciullo, ed i soldati si erano messi a ridere, dicendo: «Le petit prêtre».
Allora non aveva capito gran cosa; ma ora, a diciotto anni, tutto quelle scene gli tornavano in mente, ed il solo ricordo di quelle masse esultanti, di quelle armi, di quelle grida di popolo, lo esaltavano. Dopo le Speranze d'Italia lesse una raccolta di poesie patriottiche, del Berchet, del Foscolo, del Manzoni. Imparò a mente i cori del Conte di Carmagnola, e la sera li ripeteva tra sè nel silenzio del dormitorio buio, e si addormentava mormorando con fervore quei canti di guerra. Erano le sue preghiere.
La sua testa si esaltò, il suo sangue giovane cominciò a ribollirgli nelle vene, e le mura del seminario gli parvero una prigione, e la sottana nera gli riescì grave. Passò dei giorni di ansietà crudeli, combattuto tra la smania di correre da suo padre, di gettare la veste ed il tricorno, e di dirgli: «Sono italiano, mi devo alla mia patria, non voglio essere prete», ed il dolore di portare un colpo simile al povero vecchio che aveva fede in lui, e che quella sua risoluzione avrebbe ridotto alla miseria. Non aveva più testa allo studio, evitava i compagni, smaniava, si strappava i capelli, piangeva disperatamente, non scriveva neppure più a Vicenzino, gli pareva d'impazzire. Nelle ore di ricreazione, mentre i piccoli seminaristi giocavano, ed i grandi discorrevano ad alta voce, egli profittava di quel chiasso, che impediva di distinguere i vari suoni, per cantare i vecchi inni del 1848, che si udivano ancora qualche volta nelle campagne del Piemonte. Un giorno fu sorpreso da un assistente mentre strillava con tutta la forza de' suoi polmoni - Va' fuori d'Italia, va' fuori, o stranier! - e fu rinchiuso per castigo in un camerino di penitenza. D'allora confuse l'assistente coi tiranni della patria, e quando pensava alla redenzione d'Italia, pensava di redimersi dall'Austria e da lui.
Circa quel tempo le lettere di Vicenzino cominciarono a farsi meno verbose, meno sentimentali. Aveva realmente qualche cosa da scrivere all'amico, un'angoscia da confidargli. Suo padre era ammalato. Egli cessò di fantasticare sull'amicizia, per descrivere le sofferenze dell'infermo, la tosse, l'affanno, le veglie; per riferire i giudizi del medico.
Vincenzo aveva voluto bene a quel parente senza conoscerlo, forse per una certa analogia nei loro caratteri. La sua malattia lo distolse alquanto dai pensieri turbolenti che lo agitavano. Aspettava le nuove dell'infermo con ansietà, ed aveva ripreso a scrivere all'amico, per dargli coraggio e dirgli parole di simpatia. Un giorno ricevette un biglietto brevissimo: «Mio padre è morto quasi improvvisamente, quando pareva che cominciasse a star meglio. Sono solo al mondo.»
Erano vicine le feste di Natale. Vincenzo domandò una licenza per andar a passarle in famiglia, e partì, impaziente come Damone accorrente alla salvezza di Pizia.
Prima di andare a Santhià scese a Vercelli, e corse a vedere il cugino nella fattoria dove aveva vissuto quegli ultimi anni con suo padre, e dove l'aveva perduto. I due fanciulli erano molto cambiati, ma si riconobbero subito. Tutti e due erano cresciuti. Vincenzo era forte, quasi grasso, colorito in volto, ed una folta barba nera, sebbene accuratamente rasa, gli coloriva di una tinta azzurrina le guance ed il mento. Vicenzino invece, più alto del cugino di quasi un palmo, era pallido e magro. I suoi dolci occhi turchini erano abbattuti dalle veglie e dal pianto, ed i capelli biondi, arruffati sulla fronte gli facevano una bella aureola, da arcangelo.
La loro lunga corrispondenza li aveva fatti conoscere così intimamente l'uno all'altro, che ogni soggezione era scomparsa fra loro, ed al primo vedersi si stesero le braccia, come se, prima di quella separazione, avessero già vissuto molto tempo insieme. Vicenzino pianse lungamente in silenzio, e Vincenzo non cercò di consolarlo. Se lo teneva abbracciato come per fargli sentire che, dopo quel grande amore che aveva perduto, gli restava ancora la sua amicizia; ma non glielo diceva. Vicenzino però sentiva il cambiamento avvenuto nel cugino in quei quattro anni. Lo sentiva egualmente impetuoso, ma espansivo, riflessivo, serio, e questo gli faceva bene. Era l'amico che egli aveva sognato.
Sfogato l'impeto del dolore, Vincenzo disse:
- Vieni con me. E, con quel fare sicuro ed imperioso che gli aveva guadagnata altre volte una facile superiorità sui compagni, gli buttò addosso mantello e cappello, e lo condusse alla stazione di Vercelli, dove presero il treno che doveva condurli a Santhià.
Arrivati in paese si diressero subito verso la casa Dogliani. Erano passate le quattro del pomeriggio, e nevicava; era quasi buio. Quando furono a pochi passi dalla porta videro il signor Anselmo che si avanzava dalla parte opposta.
- Babbo, gridò Vincenzo. E la sua voce echeggiò nel silenzio della via deserta. Il signor Dogliani si fermò; rizzò il capo, che teneva chino per ripararsi dal freddo col bavero del mantello, e, vedendo una figura lunga e nera da prete, esclamò stupefatto:
- Vincenzo! Sei tu?
- Sì, rispose Vincenzo. Vengo a condurti un figlio di più. E spingendo innanzi Vicenzino soggiunse mestamente:
Il signor Dogliani tremava tutto come côlto da brividi, e non rispondeva, e Vicenzino, mortificato da quel silenzio, vedendosi respinto, fece per andarsene. Ma Vincenzo gli riprese il braccio, poi accostando il volto a quello del padre e parlandogli sommessamente, gli disse:
- Siamo amici da anni, e mi ha reso dei servigi....
Ma il signor Anselmo lo interruppe colla voce tanto commossa, che spiegava il suo lungo silenzio:
- È figlio di mio fratello, e basta. Poi, accennando la porta di casa colla mano che tremava come una foglia scossa dall'aria, disse a Vicenzino:
- Entra.
Nella stanza da pranzo le ragazze aspettavano il babbo per mettersi a tavola. L'Elena aveva quattordici anni, e pareva già una signorina. Le altre due pure erano cresciute, ed avevano gli abiti troppo corti e le gambe troppo lunghe.
Al vedere entrare i due giovani egualmente inaspettati, misero un'esclamazione, e balzarono incontro al fratello. Ma il volto pallido del signor Anselmo che comparve subito dietro al figlio, aveva qualche cosa di più grave del solito, che le fece ammutolire. Egli però disse semplicemente alle fanciulle, mettendo una mano sulla spalla di Vicenzino:
- Vi conduco un nuovo cugino, lo conoscete?
- Sì, risposero le due ragazze maggiori. E quell'affermazione non meravigliò affatto il babbo, che di certo aveva indovinato che da un pezzo le sue figlie prendevano a cuore quel parente. Egli le presentò ad una ad una, dicendo:
- Elena, la mia primogenita; Laura, la nostra piccola massaia, e Maria, che ti farà sopportare i suoi capricci, perchè tra tutti l'abbiamo viziata un pochino.
Fu la sola allusione che fece all'installamento del nipote in casa sua. Poi tutti si misero a tavola, e la Laura cominciò a scodellare la minestra.